Cass. civ. Sez. II, Sent., 21-11-2011, n. 24517 Opposizione

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Svolgimento del processo

che il Pretore di Lecce, sezione distaccata di Campi Salentina, con sentenza in data 12 luglio 1996, rigettò le opposizioni proposte dalla s.r.l. Vetreria Aurelia contro i decreti ingiuntivi n. 111/94 e n. 257/95 emessi dallo stesso Pretore in favore di M.G. per crediti derivanti da un contratto di compravendita inter partes;

che il Tribunale di Lecce, con sentenza resa pubblica mediante deposito in cancelleria il 16 marzo 2009, ha rigettato l’appello della s.r.l. Vetreria Aurelia;

che per la cassazione della sentenza della Corte d’appello la s.r.l.

Vetreria Aurelia ha proposto ricorso, con atto notificato il 3 marzo 2010, sulla base di due motivi;

che l’intimato non ha svolto attività difensiva in questa sede.

Motivi della decisione

che il Collegio ha deliberato l’adozione di una motivazione semplificata;

che il primo motivo denuncia omessa ed insufficiente motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio, con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 5, nonchè violazione e falsa applicazione degli artt. 1321, 1325 e 1326 cod. civ.;

che il secondo mezzo censura omessa ed insufficiente motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio, con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 5;

che il primo motivo del ricorso – con cui si prospetta violazione e falsa applicazione di legge – è privo del quesito di diritto, prescritto, a pena di inammissibilità, dall’art. 366-bis cod. proc. civ., ratione temporis applicabile;

che questa Corte ha in più occasioni chiarito che i quesiti di diritto imposti dall’art. 366-bis cod. proc. civ. – introdotto dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 6 secondo una prospettiva volta a riaffermare la cultura del processo di legittimità – rispondono all’esigenza di soddisfare non solo l’interesse del ricorrente ad una decisione della lite diversa da quella cui è pervenuta la sentenza impugnata ma, al tempo stesso e con più ampia valenza, anche di enucleare il principio di diritto applicabile alla fattispecie, collaborando alla funzione nomofilattica della Corte di cassazione; i quesiti costituiscono, pertanto, il punto di congiunzione tra la risoluzione del caso specifico e l’enunciazione del principio giuridico generale, risultando, altrimenti, inadeguata e, quindi, non ammissibile l’investitura stessa del giudice di legittimità (tra le tante, Cass., Sez. Un., 6 febbraio 2009, n. 2863; Cass., Sez. Un., 14 febbraio 2008, n. 3519; Cass., Sez. Un., 2 9 ottobre 2007, n. 22640);

che il quesito di diritto non può essere desunto per implicito dalle argomentazioni a sostegno della censura, ma deve essere esplicitamente formulato, diversamente pervenendosi ad una sostanziale abrogazione della norma (Cass., Sez. Un., 17 aprile 2009, n. 9153);

che il primo ed il secondo motivo del ricorso, là dove si denuncia il vizio di motivazione, sono stati redatti senza l’osservanza dell’onere, imposto dall’art. 366-bis cod. proc. civ., del quesito di sintesi;

che invero, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, allorchè nel ricorso per cassazione si lamenti un vizio di motivazione della sentenza impugnata in merito ad un fatto controverso, l’onere di indicare chiaramente tale fatto e le ragioni per le quali la motivazione è omessa, insufficiente o contraddittoria, imposto dall’art. 366-bis cod. proc. civ. , deve essere adempiuto non già e non solo illustrando il relativo motivo di ricorso, ma anche formulando, all’inizio o al termine di esso, una indicazione riassuntiva e sintetica, che costituisca un quid pluris rispetto all’illustrazione del motivo, e che consenta al giudice di valutare immediatamente l’ammissibilità del ricorso (Cass., Sez. 3^, 7 aprile 2008, n. 8897; Cass., Sez. 1^, 8 gennaio 2009, n. 189;

Cass., Sez. 1^, 23 gennaio 2009, n. 1741);

che nella specie detto quesito di sintesi è del tutto assente;

che non rileva che il ricorso sia stato notificato quando la L. 18 giugno 2009, n. 69, era già stata pubblicata ed entrata in vigore;

che invero, alla stregua del principio generale di cui all’art. 11 preleggi, comma 1, secondo cui, in mancanza di un’espressa disposizione normativa contraria, la legge non dispone che per l’avvenire e non ha effetto retroattivo, nonchè del correlato specifico disposto della L. n. 69 del 2009, art. 58, comma 5 in base al quale le norme previste da detta legge si applicano ai ricorsi per cassazione proposti avverso i provvedimenti pubblicati a decorrere dalla data di entrata in vigore della medesima legge (4 luglio 2009), l’abrogazione dell’art. 366-bis cod. proc. civ. (intervenuta ai sensi della citata L. n. 69 del 2009, art. 47) è diventata efficace per i ricorsi avanzati con riferimento ai provvedimenti pubblicati successivamente alla suddetta data, con la conseguenza che per quelli proposti – come nella specie – contro provvedimenti pubblicati antecedentemente (e dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40) tale norma è da ritenere ancora applicabile (Cass. Sez. 1^, 26 ottobre 2009, n. 22578; Cass., Sez. 3^, 24 marzo 2010, n. 7119);

che pertanto, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile;

che nessuna statuizione sulle spese deve essere adottata, non avendo l’intimato svolto attività difensiva in questa sede.

P.Q.M.

La Corte dichiara il ricorso inammissibile.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Lazio Latina Sez. I, Sent., 25-07-2011, n. 628

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Svolgimento del processo

1. La vicenda all’esame si riferisce a una gara indetta dal comune di Formia per l’assegnazione in concessione di 7 aree demaniali marittime.

La gara, indetta con delibera G.M. n. 141 del 19 maggio 2007, si concluse con l’approvazione delle graduatorie formate dalla commissione e l’aggiudicazione definitiva dei 7 lotti (determinazione dirigenziale n. 17 del 12 febbraio 2008 e successiva determinazione dirigenziale n. 54 del 9 aprile 2008).

Tuttavia, relativamente ad alcuni dei lotti, furono proposti dei ricorsi giurisdizionali da parte di concorrenti non vincitori; tre di questi ricorsi – precisamente quelli relativi ai lotti 13C e 11C – sono stati accolti da questa sezione, rispettivamente con sentenza n. 1476 del 3 novembre 2008 e nn. 264 e 265 del 1° aprile 2009 (la sezione, in particolare, ha ritenuto che illegittimamente la commissione di gara aveva integrato i criteri di valutazione delle offerte dopo l’apertura delle buste in cui esse erano contenute, con conseguente violazione del principio di trasparenza, e che la composizione della commissione di gara non fosse conforme alla normativa del regolamento comunale per l’attività contrattuale).

Relativamente agli altri lotti, invece, non sono stati presentati ricorsi, salvo che per quanto concerne il lotto C Vindicio, il ricorso riferibile al quale è stato definito in rito con sentenza di improcedibilità (sentenza n. 1474 del 3 novembre 2008). E’ tuttora pendente il ricorso n. 647 del 2008 relativo al lotto 10C.

2. Il presente ricorso è stato proposto dal concorrente che si era aggiudicato il lotto 1/C.

E infatti il comune – a fronte degli annullamenti degli esiti della gara per i lotti 13C e 11C (e della reiezione dell’istanza di sospensione della sentenza n. 1476 del 2008 da parte della VI sezione del Consiglio di Stato; cfr. ordinanza n. 639 del 4 febbraio 2009) – si determinava ad avviare un procedimento per l’annullamento in autotutela degli esiti della gara relativamente anche ai lotti non interessati all’annullamento disposto in sede giurisdizionale.

Ciò avveniva a mezzo della determinazione dirigenziale n. 94 del 7 settembre 2009 con cui il comune addiveniva all’annullamento nel presupposto che: a) i vizi rilevati in sede giurisdizionale (in particolare quello consistente nella specificazione a buste aperte dei criteri di valutazione) fossero riferibili a tutti i lotti messi in gara; b) la possibilità di disporre l’annullamento non fosse preclusa né dall’affidamento in capo ai vincitori, dovendosi escludere quest’ultimo non essendo mai stato adottato il formale provvedimento di concessione, né dal decorso del termine ragionevole, avendo il comune atteso l’esito del contenzioso in sede giurisdizionale per operare le sue scelte.

3. Con il ricorso parte ricorrente denuncia l’illegittimità del provvedimento di annullamento deducendo: a) la violazione dei principi in materia di limiti soggettivi del giudicato e di estensione ai terzi degli effetti del giudicato amministrativo; b) la violazione dei principi in materia di procedimenti di riesame e, in particolare, degli articoli 3 e 21nonies della legge 7 agosto 1990, n. 241. Essa pertanto chiede che, previo annullamento del provvedimento impugnato, il comune di Formia sia condannato al risarcimento dei danni in forma specifica, cioè condannato al rilascio in suo favore della concessione demaniale marittima; in caso d’impossibilità di reintegrazione in forma specifica parte ricorrente chiede il risarcimento dei danni per equivalente che quantifica (si veda la memoria depositata il 24 giugno 2010) in complessivi euro 255.860,13 (di cui 121.208,83 per danno emergente e 127.100 per lucro cessante); in via subordinata parte ricorrente chiede che l’amministrazione sia condannata al risarcimento dei danni da responsabilità precontrattuale che quantifica (si veda sempre la medesima memoria) in euro 121.208,83; in via ulteriormente gradata parte ricorrente chiede che le venga riconosciuto l’indennizzo previsto dagli articoli 21quinquies e 21 nonies della legge n. 241 citata che pure quantifica nella somma di euro 121.208,83, cioè nella somma corrispondente al danno emergente che ella assume di aver subito quale conseguenza del mancato perfezionamento della concessione.

4. Il comune di Formia si è costituito in giudizio e resiste al ricorso.

Motivi della decisione

1. Il ricorso è infondato.

2. Con il primo motivo parte ricorrente denuncia la violazione dei principi generali in materia di efficacia soggettiva del giudicato amministrativo e di estensione dei suoi effetti ai soggetti rimasti estranei al giudizio; in sostanza si deduce che il comune di Formia avrebbe illegittimamente esteso gli effetti delle sentenze della sezione che hanno annullato la gara relativamente ad alcuni lotti a lotti – tra cui quello aggiudicato a parte ricorrente – che erano rimasti esclusi dalla controversia.

Il motivo è infondato.

Il problema dell’efficacia soggettiva del giudicato è estraneo alla controversia.

Il provvedimento impugnato infatti non è volto a dare attuazione alle sentenze della sezione (attuazione di cui in realtà non vi sarebbe stata alcuna necessità in quanto, trattandosi di sentenze di annullamento di un’aggiudicazione definitiva, esse sono autoesecutive); il comune di Formia ha invece compiuto un’operazione diversa; esso, cioè, nella consapevolezza che i vizi riscontrati dalle sentenze della sezione (soprattutto quello consistente nella violazione del principio di imparzialità e trasparenza riconosciuto sussistente, sia pure solo in sede cautelare, anche dal Consiglio di Stato) fossero riferibili non solo ai lotti cui si riferivano i ricorsi accolti ma a tutti i lotti in gara, ha deciso, pur nella consapevolezza della inoppugnabilità delle "altre" aggiudicazioni, di procedere a "riesame" verificando la sussistenza della condizioni per un loro annullamento d’ufficio; si tratta di un’operazione che non si pone in alcun modo in contrasto coi generali principi in materia di efficacia del giudicato amministrativo, dato che costituisce giurisprudenza amministrativa consolidata che il potere di riesame dell’amministrazione non è precluso dalla inoppugnabilità degli atti che ne costituiscono oggetto; del resto la disciplina dell’articolo 21- nonies invocata dal ricorrente – nel richiedere che l’annullamento intervenga in un "termine ragionevole" – chiaramente ammette che il riesame possa avere a oggetto atti ormai inoppugnabili. Anzi di regola, stante la brevità del termine per l’impugnazione dei provvedimenti amministrativi, è del tutto normale – salvo il caso di riesame di provvedimenti per i quali penda ricorso amministrativo o giurisdizionale – che il riesame e l’annullamento abbiano a oggetto atti ormai divenuti inoppugnabili.

3. Il problema è quindi quello di stabilire se sussistessero o meno i presupposti per l’annullamento. A questo problema si riferisce il secondo motivo.

Al riguardo parte ricorrente denuncia la violazione degli articoli 3 e 21nonies della legge n. 241 e l’eccesso per difetto di presupposti.

Essa sostiene che: a) l’annullamento d’ufficio presuppone un interesse pubblico concreto e attuale alla rimozione dell’atto e la comparazione, al fine di dimostrarne la prevalenza, di tale interesse con quello del privato al mantenimento degli effetti dell’atto; b) in più, a garanzia dell’affidamento del destinatario dell’atto, la potestà di annullamento presuppone che non sia decorso un termine ragionevole.

Nella fattispecie ad avviso di parte ricorrente non sussiste alcuno di questi presupposti.

Anzitutto è evidenziato che, a differenza di quanto sostenuto nel provvedimento al fine di escludere in radice l’esistenza di un affidamento dei concorrenti vincitori, l’aggiudicazione definitiva non può essere considerata un atto endoprocedimentale, costituendo essa l’atto terminale del procedimento di scelta del contraente con cui si realizza l’incontro tra la volontà del privato e quella dell’amministrazione di concludere il contratto; insomma per effetto dell’aggiudicazione definitiva, i vincitori avevano ormai il legittimo affidamento al rilascio della concessione demaniale.

In secondo luogo viene negato che la motivazione del provvedimento dia puntualmente conto dell’interesse pubblico alla rimozione dell’atto e delle ragioni della sua prevalenza sull’interesse dei privati; in realtà l’annullamento è giustificato in base a una mera esigenza di ripristino della legalità violata, che non è ragione sufficiente a giustificarlo (tanto più che l’atto era ormai inoppugnabile e non esisteva pertanto alcun controinteressato da tutelare), e comunque di tale interesse è in realtà omessa la comparazione con il contrapposto interesse dei vincitori delle gare, il cui affidamento viene per giunta negato (sulla base di una qualificazione dell’aggiudicazione definitiva che è parimenti, come già visto, contestata).

A ciò si aggiunge infine la violazione della disposizione che ammette l’annullamento entro un "termine ragionevole", dato che l’annullamento è intervenuto a distanza di circa un anno e mezzo dalla data dell’aggiudicazione definitiva.

4. Le argomentazioni di parte ricorrente non sono fondate.

Il provvedimento impugnato, benché assistito da una motivazione i cui enunciati formali sono decisamente sintetici e in parte espressi in modo scarsamente perspicuo, è in realtà immune da vizi.

Al riguardo può osservarsi quanto segue.

Anzitutto non è contestato che il provvedimento oggetto di annullamento fosse inficiato da illegittimità e che, in particolare, una di esse, vale a dire l’avvenuta integrazione dei criteri di valutazione delle offerte in un momento successivo all’apertura delle buste, si sia tradotta in una violazione dei principi di parità di trattamento, di trasparenza e d’imparzialità. Si tratta di violazione che si riferisce a principi generali, di rilevanza anche costituzionale, e che può senz’altro ritenersi estremamente grave e in grado di produrre grave nocumento all’immagine dell’amministrazione sia per la rilevanza della fattispecie sia perché è nozione di comune esperienza che in una procedura di tipo concorsuale o paraconcorsuale, una volta aperte le buste contenenti gli oggetti da valutare, la modifica o l’integrazione o la specificazione dei criteri di valutazione viola le regole basilari del regolare confronto concorrenziale e fatalmente apre la via quantomeno a sospetti in ordine alla correttezza della procedura.

Non può pertanto dirsi che l’annullamento sia stato basato sulla mera esigenza di ripristino della legalità, dato che il sintetico riferimento da parte dell’atto al "ripristino della legalità e al corretto esercizio dei poteri pubblici proprio in riferimento alla gestione di un bene quale il demanio marittimo, che è un bene collettivo…" sottintende chiaramente il riferimento alla esigenza di garantire che l’assegnazione dei beni pubblici avvenga in un contesto che non lasci residuare alcun dubbio in ordine alla correttezza dell’amministrazione e la preoccupazione, a fronte della necessità di rinnovare la gara per i lotti cui si riferiva l’annullamento giurisdizionale, di evitare, anche in relazione alla rilevanza delle attività economiche connesse al turismo, che residuasse il sospetto di parzialità nell’assegnazione dei lotti per i quali o non fossero stati presentati ricorsi ovvero i ricorsi proposti non fossero stati definiti in senso favorevole ai ricorrenti (cosa che è pure avvenuta, come si è visto); in questo quadro l’inoppugnabilità del provvedimento e la mancanza di soggetti privati interessati all’annullamento – su cui molto insiste parte ricorrente – non solo non costituiva un limite all’azione dell’amministrazione ma, anzi e paradossalmente, poteva rafforzare l’interesse pubblico all’annullamento a garanzia della parità di trattamento e dell’esigenza di evitare che, a fronte di illegittimità che avevano inficiato l’intera procedura, vi potesse essere chi – per ragioni contingenti (si pensi al lotto per il quale il ricorso è stato dichiarato improcedibile per l’omessa integrazione del contraddittorio nei termini) – continuasse a beneficiarne.

Quanto al profilo della mancata comparazione con gli interessi dei destinatari, benché la qualificazione dell’aggiudicazione definitiva come atto endoprocedimentale non appaia corretta (si tratta infatti di atto che definisce il procedimento di selezione del contraente anche se, effettivamente, a esso residua ancora il rilascio del titolo concessorio), deve tuttavia ritenersi che la valutazione compiuta dall’amministrazione sia sostanzialmente immune da vizi.

La comparazione tra l’interesse pubblico e quello privato è operazione che va fatta caso per caso tenendo presenti le peculiarità del caso concreto, anche e soprattutto in relazione al grado di consolidamento degli effetti dell’atto; nella fattispecie l’aggiudicazione definitiva della procedura non ha prodotto in realtà alcun effetto in quanto il comune, a seguito della proposizione dei ricorsi, non ha fatto seguito al rilascio dei titoli concessori e delle ragioni di siffatto comportamento tutti i vincitori erano ben consapevoli dato che – questa circostanza costituisce fatto notorio – la proposizione dei ricorsi ha avuto ampia risonanza locale; di conseguenza effettivamente nessuno dei vincitori, alla luce di quanto era avvenuto, poteva ritenere che l’aggiudicazione, ancorchè definitiva, gli attribuisse la ragionevole certezza dell’esito favorevole della procedura e l’avviso del procedimento di riesame certo non è stato per loro un fatto imprevedibile.

In questa prospettiva, dunque, non può né ritenersi che l’annullamento sia stato fondato su una mera esigenza di ripristino della legalità né che non sia stato operato un raffronto tra interesse pubblico e interesse privato.

Residua a questo punto il profilo relativo al termine ragionevole. Anche sotto questo profilo il Collegio ritiene infondate le argomentazioni di parte ricorrente.

La ragionevolezza del termine, infatti, non può esser valutata in astratto ma deve necessariamente essere verificata tenendo presenti le peculiarità del caso concreto; nella fattispecie è evidente che il comune di Formia ha atteso gli esiti del contenzioso e, una volta acclarato che esso verosimilmente l’avrebbe visto soccombente (a seguito non semplicemente delle sentenze della sezione ma anche del pronunciamento in sede di istanza di sospensione della sentenza n. 1474 del 2008 del Consiglio di Stato), si è determinato al riesame; e infatti il procedimento è stato avviato nel gennaio 2009 (quindi dopo la sentenza della sezione e qualche giorno prima dell’ordinanza del Consiglio di Stato); nei mesi di gennaio e marzo sono stati acquisiti gli apporti partecipativi di alcuni dei soggetti interessati; nel mese di aprile il comune si è orientato verso la soluzione dell’annullamento e, infine, il 7 settembre 2009 è stato adottato il provvedimento di annullamento da parte del Dirigente; se quindi ritardo vi è stato esso è riferibile all’intervallo di tempo intercorrente tra il mese di aprile e quello di settembre ma esso non appare irragionevole in relazione alla mancanza di consolidamento degli effetti dell’atto annullato.

5. L’impugnazione del provvedimento di annullamento è quindi infondata. Di conseguenza deve essere respinta, stante l’assenza dell’elemento della "ingiustizia", la domanda di risarcimento dei danni conseguenti all’annullamento d’ufficio.

6. Deve ora esaminarsi la domanda di risarcimento del danno derivante da responsabilità "precontrattuale".

Questa domanda deve essere respinta.

Deve anzitutto premettersi che il Collegio è consapevole che la giurisprudenza amministrativa ormai consolidata ammette senz’altro che l’amministrazione possa incorrere in una responsabilità precontrattuale allorchè, nel corso delle trattative con il privato, non abbia rispettato i principi della buona fede e della correttezza, ex articoli 1337 e 1338 c.c..

Tale responsabilità postula un’attività rivolta alla preparazione della positiva conclusione del contratto, la dimostrazione del requisito psicologico, ossia del dolo o della colpa dell’Amministrazione, quale apparato burocratico cui incombeva la responsabilità delle trattative e della loro necessaria conclusione e la positiva verifica da parte del giudice che il comportamento dell’Amministrazione abbia ingenerato nei privati un ragionevole affidamento in ordine alla conclusione del contratto ovvero in ordine alla sua efficacia. Il danno risarcibile è rappresentato dal cd. interesse negativo, cioè dalle spese inutilmente sostenute (danno emergente) e dalle favorevoli occasioni di lucro perse a causa del coinvolgimento nella contrattazione rivelatasi inutile (lucro cessante).

Nella fattispecie, tuttavia, non è possibile riconoscere una responsabilità da recesso ingiustificato dalle trattative (o meglio da violazione dei doveri di correttezza e buona fede che abbia impedito il rilascio della concessione), in quanto la decisione dell’amministrazione di annullare l’aggiudicazione definitiva è, come si è visto, legittima; né tantomeno può parlarsi di una responsabilità dell’amministrazione per avere parte ricorrente fatto affidamento senza colpa nella validità o efficacia del contratto, dato che, da un lato, in realtà all’aggiudicazione definitiva non ha mai fatto seguito il rilascio della concessione demaniale (cui sarebbero conseguiti gli effetti per così dire "finali" della procedura) e dall’altro pare al Collegio che difetti in radice la possibilità di riconoscere un affidamento meritevole di tutela, in quanto l’affidamento nella conclusione del contratto (o, come avviene in questo caso, nel rilascio del titolo concessorio) per essere meritevole di tutela non può essere fondato su un’attività oggettivamente illegittima e agevolmente riconoscibile come tale stante la evidente, per non dire macroscopica, illegittimità dell’aggiudicazione, di cui, comunque, tutti i partecipanti al procedimento erano divenuti consapevoli in tempi rapidissimi a seguito della proposizione dei vari ricorsi avverso l’aggiudicazione definitiva.

7. In ulteriore subordine parte ricorrente chiede la condanna del comune di Formia al pagamento dell’indennizzo previsto in caso di revoca dall’articolo 21quinquies della legge n. 241 citata.

Questa domanda è parimenti infondata in quanto la fattispecie all’esame non è riconducibile all’articolo sopra citato, facendo quello riferimento alla revoca per sopravvenuti motivi di pubblico interesse ovvero per mutamento della situazione di fatto o di nuova valutazione dell’interesse pubblico originario, mentre nella fattispecie viene in rilievo un caso di annullamento d’ufficio di un provvedimento illegittimo.

8. Conclusivamente il ricorso deve essere respinto. La complessità e peculiarità della vicenda giustifica l’integrale compensazione tra le parti delle spese di giudizio.

P.Q.M.

Il Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sezione staccata di Latina, definitivamente pronunciandosi sul ricorso in epigrafe, lo respinge.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 11-07-2011) 01-08-2011, n. 30468Associazione per delinquere Detenzione, spaccio, cessione, acquisto

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Svolgimento del processo

1. Il 16 luglio 2008 il Tribunale di Palermo dichiarava C. A., C.G.V., D.M., P. F., G.A., P.P., colpevoli dei delitti previsti dagli D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 74 e 73, loro rispettivamente ascritti e, riconosciuta nei confronti degli imputati A., C., G., P. l’ipotesi di cui all’art. 74, comma 6, in relazione al contestato delitto associativo e quella di cui all’art. 73, comma 5, con riferimento alle contestazioni D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 73 ravvisato nei confronti di tutti gli imputati il vincolo della continuazione e dichiarata l’ipotesi di cui all’art. 74. comma 6, prevalente sulla recidiva contestata a G. e P., condannava A.. C., G., P. alla pena di quattro anni di reclusione e quattromila Euro di multa, D. e F. a quella di dodici anni di reclusione (tenuto conto per F. della recidiva contestata).

2. Il 31 maggio 2010 la Corte d’appello di Palermo, in parziale riforma della decisione del Tribunale, appellata dagli imputati, assolveva, per non avere commesso il fatto, D., F., G. dal delitto di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 (capo b) e, per l’effetto, rideterminava in undici anni di reclusione la pena inflitta a D. e F. e in tre anni e sei mesi di reclusione quella irrogata a G.. Confermava nel resto la decisione di primo grado.

3. I fatti oggetto del presente processo riguardano l’operatività di un’associazione per delinquere dedita a traffici di sostanze stupefacenti (cocaina), all’interno della quale D.e.F. si occupavano, anche con l’ausilio di M.M. (separatamente giudicato), degli approvvigionamenti di droga che importavano dall’estero e immettevano sul mercato con la collaborazione, fra gli altri, di C., G., M., G. e P. P.. I due fratelli P., a loro volta, si occupavano di rivendere la droga anche con la collaborazione di A., addetto per loro conto alle consegne dello stupefacente.

La responsabilità degli imputati in ordine ai delitti loro rispettivamente contestati veniva ravvisata dai giudici di merito sulla base del contenuto delle intercettazioni ritualmente disposte, suffragate dai servizi di osservazione e pedinamento svolti, delle deposizioni degli ufficiali di polizia giudiziaria C. e C., delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia A. che indicava D. come uno dei più importanti trafficanti di cocaina sulla piazza di Palermo, già in società con F., delle sentenze irrevocabili di condanna pronunziate nei confronti di M. e Ma. in ordine al delitto di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, commesso il (OMISSIS), acquisite ai sensi dell’art. 238 bis c.p., dei sequestri di droga operati. A quest’ultimo proposito venivano in particolare richiamati:

1) l’arresto di M., avvenuto il 2 luglio 2004 nella flagrante detenzione di gr. 32 di cocaina all’esito di contatti telefonici con G. e D.; 2) l’arresto di M., il 7 luglio 2004, nella flagrante detenzione di kg. 3,3 di cocaina pura all’80%, trasportati in nave a Palermo da Napoli, città ove il giorno precedente si era recato D., prelevato all’aeroporto, al suo ritorno, da F..

4. Avverso la predetta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione, tramite i rispettivi difensore di fiducia, gli imputati, i quali formulano le seguenti censure.

A., C., D., F. (f. 12 ricorso). P. P. deducono inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, carenza, contraddittorietà, manifesta illogicità della motivazione con riferimento alla ritenuta sussistenza degli elementi costitutivi dei delitti contestati, nonchè violazione dei canoni di valutazione probatoria con riferimento agli elementi posti a base dell’affermazione di penale responsabilità, tenuto conto del linguaggio criptico usato nei colloqui e della loro non chiara decifrabilità, dell’assenza di dati obiettivi da cui inferire l’esistenza di un’organizzazione dedita a traffici di sostanze stupefacenti, non essendo al riguardo sufficiente la mera consumazione dei singoli reati fine, della mancanza di prova dell’affectio societatis e di un contributo consapevole e volontario, causalmente rilevante, fornito dagli imputati alla vita del sodalizio.

D. lamenta, inoltre, violazione di legge e carenza della motivazione in merito alle argomentazioni sviluppate nell’atto di appello, con le quali si evidenziava che M., separatamente giudicato, esaminato a dibattimento nelle forme di cui all’art. 210 c.p.p., aveva negato di avere acquistato la droga dal ricorrente. Sul punto i giudici di merito non hanno in alcun modo spiegato le ragioni per le quali non hanno ritenuto attendibile una prova decisiva, direttamente escludente il coinvolgimento dell’imputato nell’episodio contestato al capo e).

Analogamente non hanno tenuto conto dei rilievi difensivi, volti a sottolineare la liceità dei rapporti esistenti tra D. e G., il mancato passaggio di droga tra D. e M. il 29 maggio 2007, giorno in cui la polizia giudiziaria aveva in corso un servizio di osservazione svolto dalla polizia giudiziaria il 29 maggio 2007, lo iato temporale intercorso tra il momento dell’incontro fra D. e M. e il successivo arresto di quest’ultimo, avvenuto a tre ore e mezzo di distanza dal momento in cui era stato visto con D., i riflessi dell’intervenuta assoluzione dell’imputato dal capo b) sulla configurabilità degli altri reati, in particolare su quello di cui all’art. 74, considerato anche che D., secondo la prospettazione accusatoria, si sarebbe reso responsabile di due sole violazioni del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73.

D. rileva, inoltre, la mancata risposta al rilievo difensivo, anch’esso contenuto nell’atto d’appello, circa l’omessa contestazione del ruolo di promotore e l’irrogazione della pena prevista per il mero partecipe, nonchè circa l’applicabilità delle ipotesi previste, rispettivamente, dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, comma 6, e art. 73, comma 5. Osserva, in particolare, che la previsione di cui all’art. 74, comma 6, ha natura oggettiva e si comunica a tutti i ricorrenti.

F., a sua volta, denuncia mancanza e manifesta illogicità della motivazione in relazione al delitto di cui al capo e), alla luce dei rilievi formulati dalla difesa nell’atto di appello in ordine all’assenza di interesse di F. ad interloquire personalmente con M., al mancato riscontro della presenza di F. al porto di Palermo in occasione dell’arrivo di M., alla mancanza di reazioni telefoniche di F. e D. a seguito dell’arresto di M., alla natura lecita dei rapporti intercorrenti tra l’imputato e D., C. e F. lamentano, inoltre, a loro volta, violazione di legge e vizio della motivazione in relazione alla dosimetria della pena e all’omessa concessione delle circostanze attenuanti generiche, tenuto conto, per quanto riguarda, F. della facoltatività della recidiva.

Motivi della decisione

1. Il primo motivo di ricorso, prospettato da tutti i ricorrenti, con riferimento alla contestazione del reato associativo D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 74, è fondato.

1.1. Nella giurisprudenza di questa Corte è stato chiarito che l’elemento essenziale della fattispecie di reato prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, è costituito dall’accordo associativo che crea un vincolo stabile a causa della consapevolezza di ciascun associato di far parte del sodalizio e di partecipare, con contributo causale, alla realizzazione di un duraturo programma criminale. In tale prospettiva assumono rilievo secondario gli elementi organizzativi che si pongono a substrato dell’associazione, elementi la cui sussistenza è richiesta nella misura in cui dimostrano che l’accordo può dirsi seriamente contratto, nel senso cioè che l’assoluta mancanza di un supporto strumentale priva il delitto del requisito dell’offensività. Sotto un profilo ontologico ciò significa che è sufficiente un’organizzazione minima, affinchè il reato si perfezioni, e che la ricerca dei tratti organizzativi non è diretta a dimostrare l’esistenza degli elementi costitutivi del reato, ma a provare, attraverso dati sintomatici, l’esistenza di quell’accordo fra tre o più persone diretto a commettere più delitti D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 73, accordo in cui il reato associativo di per sè si concreta (Sez. 1^, 18 febbraio 2009, n. 10758; Sez. 6^, 25 settembre 1998, n. 10725). Per la configurabilità della fattispecie delittuosa in esame occorre, quindi, che sia operante un’organizzazione criminale, connotata dalla peculiare finalità del commercio di sostanze stupefacenti, alla cui base è identificabile un accordo destinato a costituire una struttura permanente in cui i singoli associati divengono – ciascuno nell’ambito dei compiti assunti o affidati – parti di un tutto finalizzato a commettere una serie indeterminata di delitti della stessa specie, preordinati alla cessione o al traffico di droga, con la particolarità che per la configurazione del reato associativo non è richiesta la presenza di una complessa ed articolata organizzazione dotata di notevoli disponibilità economiche, ma è sufficiente l’esistenza di strutture, sia pure rudimentali, deducibili dalla predisposizione di mezzi, per il perseguimento del fine comune, in modo da concretare un supporto stabile e duraturo alle singole deliberazioni criminose, col contributo dei singoli associati (Sez. 4^, 9 aprile 1996, n. 5083; Sez. 6^, 17 maggio 1995, n. 9320; Sez. 1^, 31 maggio 1995, n. 8291; Sez. 6^, 9 gennaio 1995, n. 2772).

La giurisprudenza di questa Corte ha, inoltre, precisato che la prova del vincolo permanente, nascente dall’accordo associativo, può essere data anche per mezzo dell’accertamento di facta concludentia, quali i contatti continui tra gli spacciatori, i frequenti viaggi per il rifornimento della droga, le basi logistiche, le forme di copertura e i beni necessari per le operazioni delittuose, le forme organizzative, sia di tipo gerarchico che mediante divisione dei compiti tra gli associati, la commissione di reati rientranti nel programma criminoso e le loro specifiche modalità esecutive (Sez. 1^, 22 dicembre 2009, n. 4967; Sez. 6^, 13 dicembre 2000, n. 10781;

Sez. 6^, 21 gennaio 1997, n. 3277; Sez. 6^, 12 maggio 1995, n. 9320).

1.2. La sentenza impugnata, pure a fronte delle specifiche doglianze difensive in ordine all’assenza degli elementi costitutivi di un’associazione per delinquere finalizzata a traffici di droga, ha omesso di fornire una compiuta motivazione circa le emergenze processuali che consentivano di ritenere integrata, sia sotto il profilo oggettivo che sotto quello soggettivo, la fattispecie prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, soffermandosi esclusivamente su alcuni specifici episodi rilevanti D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 73, da cui, peraltro, non può essere di per sè desunta, sulla base di automatiche e immotivate inferenze probatorie, la sussistenza di un’organizzazione dedita a traffici di droga.

La lacuna motivazionale in relazione agli elementi costitutivi propri della fattispecie associativa è ancora più evidente ove posta in correlazione logica con l’intervenuta assoluzione di D., F., G. dal delitto D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 73, contestato al capo b), e delle considerazioni, intrinsecamente contraddittorie, svolte ai ff. 11, 12, 19, 21, 23 della sentenza impugnata.

Sotto tutti questi profili, pertanto, s’impone l’annullamento della sentenza impugnata e il rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d’appello di Palermo.

2. Non fondate, invece, sono le censure, variamente prospettate dai ricorrenti, in relazione ai delitti di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, per i quali è intervenuta, in appello, la conferma dell’affermazione di penale responsabilità. 2.1. Alla luce della nuova formulazione dell’art. 606 c.p.p.,, lett. e), novellato dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 8, il sindacato del giudice di legittimità sul discorso giustificativo del provvedimento impugnato deve essere volto a verificare che la motivazione della pronunzia; a) sia "effettiva" e non meramente apparente, ossia realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata; b) non sia "manifestamente illogica", in quanto risulti sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell’applicazione delle regole della logica; c) non sia internamente contraddittoria, ovvero sia esente da insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa contenute;

d) non risulti logicamente "incompatibile" con "altri atti del processo" (indicati in termini specifici ed esaustivi dal ricorrente nei motivi posti a sostegno del ricorso per cassazione) in termini tali da risultarne vanificata o radicalmente inficiata sotto il profilo logico (Cass., Sez. 6^, 15 marzo 2006, n. 10951). Non è, dunque, sufficiente che gli atti del processo invocati dal ricorrente siano semplicemente "contrastanti" con particolari accertamenti e vantazioni del giudicante o con la sua ricostruzione complessiva e finale dei fatti e delle responsabilità nè che siano astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più persuasiva di quella fatta propria dal giudicante. Ogni giudizio, infatti, implica l’analisi di un complesso di elementi di segno non univoco e l’individuazione, nel loro ambito, di quei dati che – per essere obiettivamente più significativi, coerenti tra loro e convergenti verso un’unica spiegazione – sono in grado di superare obiezioni e dati di segno contrario, di fondare il convincimento del giudice e di consentirne la rappresentazione, in termini chiari e comprensibili, ad un pubblico composto da lettori razionali del provvedimento.

E’, invece, necessario che gli atti del processo richiamati dal ricorrente per sostenere l’esistenza di un vizio della motivazione siano autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione sia in grado di disarticolare l’intero ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità, così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione (Cass., Sez. 6^, 15 marzo 2006, n. 10951).

Il giudice di legittimità è, pertanto, chiamato a svolgere un controllo sulla persistenza o meno di una motivazione effettiva, non manifestamente illogica e internamente coerente, a seguito delle deduzioni del ricorrente concernenti "atti del processo". Tale controllo, per sua natura, è destinato a tradursi – anche a fronte di una pluralità di deduzioni connesse a diversi "atti del processo" e di una correlata pluralità di motivi di ricorso – in una valutazione, di carattere necessariamente unitario e globale, sulla reale "esistenza" della motivazione e sulla permanenza della "resistenza" logica del ragionamento del giudice. Al giudice di legittimità resta, infatti, preclusa, in sede di controllo sulla motivazione, la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice di merito, perchè ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa. Queste operazioni trasformerebbero, infatti, la corte nell’ennesimo giudice del fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione assegnatale dal legislatore di organo deputato a controllare che la motivazione dei provvedimenti adottati dai giudici di merito (a cui le parti non prestino autonomamente acquiescenza) rispetti sempre uno standard di intrinseca razionalità e di capacità di rappresentare e spiegare l’iter logico seguito dal giudice per giungere alla decisione.

2.2. Esaminata in quest’ottica la motivazione della sentenza impugnata si sottrae alle censure che le sono state mosse, perchè il provvedimento impugnato, con motivazione esente da evidenti incongruenze o da interne contraddizioni, ha evidenziato, con riferimento all’addebito D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 73, ritenuto per ciascuno dei ricorrenti, gli specifici elementi probatori (contenuto delle intercettazioni ritualmente disposte, sequestri di sostanze stupefacenti, deposizioni degli ufficiali di polizia giudiziaria, esito dei servizi di osservazione e pedinamento svolti in costanza delle attività di captazione dei colloqui, dichiarazioni del collaboratore di giustizia A., contenuto delle sentenze irrevocabili di condanna pronunciate nei confronti di M. e M., arrestati nella flagrante detenzione di droga a seguito di operazioni di polizia mirate a suffragare i servizi di intercettazione) che consentono di fondare il giudizio di responsabilità oltre ogni ragionevole dubbio.

In relazione a questi capi della sentenza, pertanto, i ricorsi devono essere rigettati.

3. L’accoglimento dei ricorsi limitatamente al reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, assorbe e rende superfluo l’esame delle restanti doglianze formulate dai ricorrenti in tema di trattamento sanzionatorio conseguente anche al ruolo riconosciuto a ciascuno dei ricorrenti (cfr. in particolare la posizione di D., per il quale la pena base per il più grave delitto di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 è stata fissata dai giudici d’appello in dieci anni di reclusione) e di omesso riconoscimento dell’ipotesi di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, comma 6, ipotesi che, secondo quanto risulta dalla motivazione della sentenza di primo grado (cfr. in particolare f. 68), è stata riconosciuta nei confronti di tutti gli imputati, ma che, in base al dispositivo della decisione del Tribunale di Palermo, è stata ritenuta nei confronti dei soli A., C., G. e P.P..

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 e rinvia per nuovo giudizio al riguardo ad altra sezione della Corte d’appello di Palermo. Rigetta nel resto i ricorsi.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 19-04-2011) 09-09-2011, n. 33484 Porto abusivo di armi

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1.- Con sentenza in data 17 febbraio 2008 il Tribunale di Lecce – Sezione Distaccata di Tricase dichiarava D.G.A. responsabile del reato cui alla L. 18 aprile 1975, n. 110, art. 4, perchè senza giustificato motivo portava fuori dalla propria abitazione un coltello avente una lunghezza complessiva di centimetri 18, con la lama lunga centimetri 8, lo condannava, quindi, ritenuta la ricorrenza della ipotesi lieve, alla pena di Euro 150,00 di ammenda.

Secondo la ricostruzione operata del Tribunale l’oggetto era stato rinvenuto all’interno dell’autovettura condotta dall’imputato dai Carabinieri di Tricase nel corso di un controllo e il Tribunale considerava priva di pregio probatorio la tesi difensiva dell’imputato secondo la quale egli era possesso del coltello in quanto lo utilizzava, all’occasione, per raccogliere le cicorie di campagna.

2.- Avverso la sentenza ha proposto appello, convertito in ricorso per Cassazione l’avvocato Schiavano Anna, difensore di D.G. A., lamentando che il giudice di prime cure abbia fondato la sentenza esclusivamente sul contenuto delle dichiarazioni rese dal pubblico ufficiale, ignorando le affermazioni dell’imputato il quale, in sede di esame, aveva riferito che era solito frequentare zone agresti e limitrofe ai centri abitati per procurarsi di che mangiare, particolarmente prodotti vegetali spontanei, selvatici ai margini di strade e stradine di campagna aperte al pubblico transito, per cui il coltello gli serviva per provvedere a se stesso e nulla di più, non essendo in grado di sostentarsi con la pensione erogata dall’Inps.

Il reato addebitato non può ritenersi integrato, quindi, perchè il coltello non fu portato fuori dall’abitazione senza giustificato motivo e, inoltre, la condotta dell’imputato, come riferito dal Brigadiere C., non lasciava adito a sospetti circa la sua eventuale intenzione di offendere chicchessia, nè la circostanza che egli si trovasse, in pieno giorno, in una zona periferica ma frequentata per la raccolta di cicorie e simili ortaggi selvatici, può essere ritenuta indicativa di una sua colpa per aver portato con sè, in tale contesto, il coltello.

3.- Il Procuratore Generale Dott. Giovanni Galati ha concluso per il rigetto del ricorso.

Motivi della decisione

4.1.- Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.

4.2.- Secondo la giurisprudenza di questa Corte il porto di uno strumento da punta o da taglio atto a offendere è da ritenere giustificato soltanto nel caso in cui la circostanza legittimatrice rivesta carattere di attualità rispetto al momento dell’accertamento della condotta altrimenti vietata (Cass. Sez. 1, sent. 14.1.1999, n.4696, Rv. 213023; Cass. Sez. 1, sent. 23.9.2004, n. 41098, Rv.

230630), per l’evidente ragione che, altrimenti, qualunque condotta di porto vietato di strumento atto ad offendere potrebbe essere giustificabile con il richiamo ad una causale astrattamente collegabile alle possibili utilizzazioni – lecite – dello strumento stesso, con la conseguenza che verrebbe aggirata la finalità della norma , volta a limitare, il più possibile, per motivi di ordine pubblico e di sicurezza, il porto di oggetti e strumenti potenzialmente idonei a realizzare atti di violenza.

4.3.- Nel caso di specie il tribunale, nel ritenere ingiustificato il porto del coltello, sulla scorta di quanto accertato in punto di fatto, ha correttamente applicato il richiamato principio di diritto.

Ed invero, che il coltello rinvenuto nell’autovettura dell’imputato e sequestrato fosse destinato, nell’occasione, ad essere utilizzato per raccogliere delle verdure non è circostanza rilevabile e desumibile da alcuna emergenza probatoria, diversa dalle sole dichiarazioni dell’imputato medesimo.

Quanto alla carenza di prova in relazione alla sussistenza del nesso psicologico, pure ipotizzata in ricorso in relazione all’asserita destinazione d’uso dell’oggetto, deve essere ribadito che per la configurazione dell’elemento psicologico della contravvenzione di cui alla L. 18 aprile 1975, n. 110, art. 4 è sufficiente la cosciente volontà dell’agente di portare il coltello fuori dei luoghi consentiti dalla legge senza un giustificato motivo.

Ne consegue che il ricorso deve essere rigettato ed il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.