Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 01-02-2011) 03-05-2011, n. 17061 Reato continuato e concorso formale

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Svolgimento del processo

P.A., indagato per il reato di cui agli artt. 81 e 356 c.p. – per avere, nella qualità di responsabile della ditta omonima, iscritto presso il Ministero della Salute quale fabbricante di dispositivi medici su misura per le tipologie calzature ortopediche e relativi accessori, tutori di arti e tronco, erogabili a richiesta in favore degli assistiti aventi diritto con spesa a carico del servizio sanitario nazionale, commetteva frode nell’esecuzione della fornitura realizzando e consegnando presidi ed ausili protesici non conformi agli standard previsti dalla normativa di settore in relazione alle caratteristiche di progettazione dei dispositivi destinati a essere utilizzati solo per un determinato paziente, e ciò a causa delle carenze nell’organizzazione, della mancanza di macchinari e di materie prime previsti e necessari per la realizzazione dei dispositivi -, proponeva istanza di riesame avverso il decreto emesso il 07.06.2010 con cui il GIP di Taranto aveva disposto il sequestro preventivo della sua azienda.

Con l’ordinanza indicata in epigrafe il Tribunale di Taranto rigettava l’istanza, con conferma del decreto impugnato, rilevando che le indagini svolte avevano accertato, da un lato, che l’azienda del L. non era in possesso dei requisiti minimi necessari a garantire la corretta esecuzione di prestazioni dei presidi e ausili protesici, e dall’altro, che la calzatura fornita a R. S. non aveva mai soddisfatto l’assistito e non era conforme alle linee guida internazionali sulla patologia specifica (piede diabetico).

Avverso l’ordinanza propone ricorso il P., deducendo violazione di legge e vizio di motivazione, per avere il Tribunale:

– omesso di considerare e rilevare l’eccezione di inutilizzabilità degli atti di inchiesta amministrativa;

– affermato che la calzatura fornita a R.S. non aveva mai soddisfatto l’assistito, senza alcuna base probatoria;

– ravvisato il fumus del reato ex art. 356 c.p., senza considerare che la presunta non conformità della calzatura fornita a R. S. alle linee guida internazionali sulla patologia specifica non poteva imputarsi al ricorrente esecutore ma semmai al medico prescrittore e che la procedura prevedeva un collaudo del presidio su cui andava effettuata una verifica, e senza spiegare in che cosa sarebbe consistito il quid pluris richiesto per la sussistenza del reato;

– contestato il reato continuato senza la ricorrenza di più episodi.
Motivi della decisione

Va premesso in diritto che contro le ordinanze emesse a norma dell’art. 324 c.p.p. in materia di sequestro preventivo il ricorso è ammesso solo per "violazione di legge" ( art. 325 c.p.p., comma 1) e che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, il difetto di motivazione integra gli estremi della violazione di legge solo quando l’apparato argomentativo che dovrebbe giustificare il provvedimento o manchi del tutto o risulti privo dei requisiti minimi di coerenza, di completezza e di ragionevolezza, in guisa da apparire assolutamente inidoneo a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dall’organo investito del procedimento (ex plurimis: SU. 13.2.2004, F.; S.U. 28.5.2003, P.).

Ciò chiarito, si osserva, quanto all’eccezione di inutilizzabilità degli atti di inchiesta amministrativa, che i verbali e le note contestati documentano semplicemente l’attività di inchiesta svolta da pubblici funzionari che, per essere svolta da organi tecnici e nel corso di attività ispettive istituzionali, si caratterizza per contenuti e modalità espositive tipiche della fonte dalla quale proviene. Trattasi, quindi, di atti amministrativi extraprocessuali, acquisibili come tali al procedimento e certamente utilizzabili, in riferimento ai dati oggettivi riferiti, come spunto per ulteriori autonomi sviluppi investigativi, puntualmente intervenuti nella specie, con la consulenza tecnica (confermativa dei dati predetti) affidata al dott. S..

Premesso peraltro che le ritenute carenze di locali e attrezzature costituiscono solo un mero presupposto generale della contestata fattispecie delittuosa, va rilevato, in riferimento, al concreto inadempimento evidenziato, relativo alla calzatura fornita a R.S., che:

– in presenza di una unica violazione, appare priva di ogni giustificazione la contestazione della continuazione del reato;

– la predetta unica violazione è stata ritenuta sulla base di una generica valutazione del R., che non risulta come e quando sia stata estrinsecata, e in riferimento a una difformità dalle linee guida internazionali sulla patologia specifica, imputabile come tale al medico prescrittore e non all’esecutore del presidio, etanto meno nei termini fraudolenti richiesti dalla fattispecie in esame.

Le carenze illustrate concernono punti essenziali della decisione e integrano senza dubbio un vuoto motivazionale risolventesi in violazione di legge agli effetti dell’art. 325 c.p.p., giusta il criterio interpretativo sopra evidenziato.

L’ordinanza impugnata deve, pertanto, essere annullata con rinvio al giudice di merito, che procederà a nuovo esame, tenendo conto dei rilievi suesposti.
P.Q.M.

visti gli artt. 615 e 623 c.p.p., annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuova deliberazione al Tribunale di Taranto.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 20-09-2011, n. 19145 Opposizione in materia di lavoro, di previdenza e di assistenza

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Svolgimento del processo

L’avv. A.G., quale procuratore antistatario di T.D., ha posto in esecuzione la sentenza con la quale è stato riconosciuto il diritto del suo assistito all’integrazione al trattamento minimo della pensione di reversibilità, con distrazione delle spese processuali.

Il giudice dell’esecuzione ha dichiarato l’estinzione della procedura in applicazione del disposto della L. n. 608 del 1996. Tale provvedimento è stato confermato dal Tribunale di Roma, che ha respinto l’impugnazione proposta dall’ A. avverso il suddetto provvedimento osservando che la legge finanziaria del 1996 ( L. n. 662 del 1996, art. 1, comma 181 e segg.) aveva disposto l’estinzione dei giudizi pendenti alla data di entrata in vigore della legge e l’inefficacia dei provvedimenti non ancora passati in giudicato, e la L. n. 448 del 1998, art. 73, comma 4, che aveva interpretato la L. n. 608 del 1996, art. 1, comma 6, aveva stabilito che tra gli effetti dallo stesso fatti salvi rientrava anche l’inefficacia dei provvedimenti giudiziali non ancora passati in giudicato nella vigenza dei decreti legge richiamati nel predetto comma, ancorchè non notificati, che si estendeva fino all’entrata in vigore della L. n. 662 del 1996.

L’ A. ha proposto appello avverso la suddetta sentenza deducendo a sostegno dell’impugnazione che la sentenza posta in esecuzione era passata in giudicato dopo il decorso del termine annuale e che all’interno del processo esecutivo non erano applicabili le previsioni di cui al D.L. n. 166 del 1996, art. 1 e dei successivi decreti, nè quelle della L. n. 662 del 1996, trattandosi di disposizioni che si riferivano ai soli processi di cognizione ordinaria e non alle procedure esecutive.

La Corte di Appello di Roma ha confermato la sentenza impugnata, osservando che, alla data in cui il giudice dell’esecuzione aveva adottato il provvedimento di estinzione, la sentenza costituente il titolo esecutivo, sulla base del quale aveva agito l’appellante, non era ancora passata in giudicato, sicchè , nella vigenza della L. n. 662 del 1996, il provvedimento giudiziale costituente titolo dell’esecuzione era divenuto inefficace; e di tanto aveva preso atto il giudice dell’esecuzione.

Avverso tale sentenza ricorre per cassazione A.G. affidandosi a due motivi di ricorso.

Gli intimati non hanno svolto attività difensiva.

Il ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione

1.- Con il primo motivo si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 324, 325, 326, 327 c.p.c. con riferimento alla L. n. 662 del 1996, art. 1, commi 181 e segg. alla L. n. 608 del 1996, art. 1, comma 6, e alla L. n. 448 del 1998, art. 73, comma 4, chiedendo a questa Corte di stabilire, in primo luogo, se "rientra nei poteri del giudice dell’esecuzione dichiarare officiosamente estinte le procedure esecutive e ritenere inefficaci le sentenze che sono passate in giudicato, per omessa impugnazione, successivamente all’entrata in vigore della L. n. 662 del 1996, art. 1, comma 183" e, in secondo luogo, se "la L. n. 662 del 1996, art. 1, comma 181 e segg., è idoneo o meno ad incidere sulla comune disciplina processuale prevista per l’impugnazione dagli artt. 325, 326 e 327 c.p.c.". 2.- Con il secondo motivo si lamenta l’esistenza di un vizio di motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui il giudice d’appello avrebbe attribuito rilievo al mancato passaggio in giudicato della sentenza nel termine breve e non avrebbe dato alcuna motivazione sulla eccepita inammissibilità del provvedimento di estinzione della procedura esecutiva pronunciata, secondo l’assunto, da un organo incompetente, al quale era demandato il più limitato compito di verificare l’efficacia del titolo esecutivo solo nel caso in cui fosse stato ritualmente instaurato un procedimento di opposizione all’esecuzione.

3.- Tali motivi, che possono essere esaminati congiuntamente in quanto connessi tra loro, sono infondati.

Deve osservarsi anzitutto che l’impugnata sentenza fonda il suo decisum (di rigetto dell’appello) sul rilievo della correttezza della statuizione con la quale il giudice dell’esecuzione ha ritenuto la sopravvenuta inefficacia del titolo esecutivo, sulla base del quale aveva agito il creditore appellante, a seguito del mutamento del quadro normativo concernente i procedimenti aventi ad oggetto le questioni sorte a seguito delle sentenze della Corte costituzionale n. 495/93 e n. 240/94. Ha osservato al riguardo la Corte territoriale che la decisione risultava pienamente conforme al disposto del D.L. n. 510 del 1996, art. 1, comma 6, conv. con modificazioni in L. n. 608 del 1996, come interpretato autenticamente dalla L. n. 448 del 1998, art. 73, comma 4, secondo cui "la L. 23 novembre 1996, n. 608, art. 1, comma 6, va interpretato nel senso che tra gli effetti dallo stesso fatti salvi rientra anche l’inefficacia dei provvedimenti giudiziali non ancora passati in giudicato nella vigenza dei decreti legge richiamati nel predetto comma, ancorchè non notificati, che si estende fino all’entrata in vigore della L. 23 dicembre 1996, n. 662", rilevando altresì che quest’ultima legge, all’art. 1, comma 183, aveva a sua volta previsto l’estinzione d’ufficio dei giudizi pendenti relativi a somme dovute in forza delle citate sentenza della Corte costituzionale e l’inefficacia dei provvedimenti giudiziali non ancora passati in giudicato, con la conseguenza che la sentenza sulla quale si fondava la pretesa dell’attore, depositata in data 29.1.1996 e non ancora passata in giudicato nella vigenza dei citati decreti legge (e della successiva norma di sanatoria di cui alla L. n. 608 del 1996, art. 1, comma 6), doveva ritenersi divenuta inefficace e dunque inidonea a costituire valido titolo esecutivo.

La decisione impugnata è conforme alla giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale nell’esecuzione forzata l’obbligo del debitore di adempiere l’obbligo risultante dal titolo esecutivo presuppone non solo che detto titolo esista al momento in cui l’azione esecutiva è sperimentata, ma anche che la validità e l’efficacia del titolo permangano durante tutto il corso della fase esecutiva, dal momento dell’intimazione del precetto a quella del compimento e dell’esaurimento della procedura esecutiva, così che la sopravvenuta caducazione del titolo esecutivo comporta l’illegittimità dell’esecuzione dal momento in cui la circostanza si è verificata (Cass. n. 210/2002, Cass. n. 3728/2000, Cass. n. 5374/98, Cass. n. 7285/95). E’ stato altresì precisato che la sopravvenuta caducazione del titolo esecutivo è rilevabile in ogni stato e grado del giudizio ed anche per la prima volta nel giudizio per cassazione, trattandosi di presupposto dell’azione esecutiva (cfr. oltre alla giurisprudenza già citata, Cass. n. 12944/2003, nonchè, più recentemente, Cass. n. 11021/2011). Sotto altro profilo, del resto, questa Corte aveva già affermato che nell’ambito del pignoramento presso terzi, preliminarmente all’emissione dell’ordinanza di assegnazione del credito, il giudice dell’esecuzione ha il potere-dovere di verificare l’idoneità del titolo e la correttezza della quantificazione del credito operata dal creditore nel precetto, sia pure con un accertamento che non fa stato ma esaurisce la sua efficacia nell’ambito del processo esecutivo (Cass. n. 5510/2003), e, per altro verso, che il giudice dell’opposizione all’esecuzione è tenuto a compiere d’ufficio, ed anche per la prima volta nel giudizio di cassazione, la verifica sulla esistenza del titolo esecutivo posto a base dell’azione esecutiva, potendo rilevare sia l’inesistenza originaria del titolo esecutivo sia la sua sopravvenuta caducazione, che – entrambe – determinano l’illegittimità dell’esecuzione forzata con effetto ex tunc, in quanto l’esistenza di un valido titolo esecutivo costituisce presupposto dell’azione esecutiva stessa (Cass. n. 22430/2004, Cass. 9293/2001).

La sentenza impugnata si è attenuta ai suddetti principi, atteso che l’affermazione della estinzione della procedura esecutiva è conseguita all’accertamento che la sentenza, in base alla quale aveva agito il creditore appellante, non era ancora passata in giudicato alla data in cui il giudice dell’esecuzione aveva adottato il provvedimento di estinzione (20.1.1997), sicchè il titolo esecutivo, in forza delle disposizioni di cui al D.L. n. 510 del 1996, art. 1, comma 6, conv. con modificazioni in L. n. 608 del 1996, art. 1, comma 6, come interpretato autenticamente dalla L. n. 448 del 1998, art. 73, comma 4, e della L. n. 662 del 1996, art. 1, comma 183, era rimasto privo di efficacia, e così non più idoneo a costituire titolo per l’esecuzione.

Va rilevato poi che le considerazioni da ultimo espresse valgono anche ad escludere l’esistenza di qualsiasi possibile contrasto tra la soluzione qui accolta ed il principio più volte affermato da questa Corte – e richiamato dal ricorrente – secondo cui le disposizioni in esame non avrebbero inciso sulla comune disciplina processuale dei termini di impugnazione, posto che, per quanto si è detto, nel caso in esame la sentenza che costituiva il titolo esecutivo non era ancora passata in giudicato nella vigenza dei decreti legge richiamati dalla L. n. 608 del 1996, art. 1, comma 6, (come interpretato dalla L. n. 448 del 1998, art. 73, comma 4, cit.) e che anche il provvedimento con il quale si è dato atto della inefficacia del titolo esecutivo è intervenuto sempre quando la stessa sentenza non era ancora passata in cosa giudicata (diversamente da quanto invece verificatosi nei casi presi in esame dalle sentenze con le quali è stato affermato il suddetto principio:

cfr. ex plurimis Cass. n. 4069/2004, Cass. n. 1184/2000, Cass. n. 12792/98).

4.- Per concludere, la sentenza impugnata, per essere adeguatamente motivata, coerente sul piano logico e rispettosa dei principi giuridici in precedenza enunciati, non è assoggettabile alle censure che le sono state mosse in questa sede di legittimità.

Il ricorso va dunque rigettato con la conferma della sentenza impugnata, dovendosi ritenere assorbite, in quanto sinora detto, tutte le censure non espressamente esaminate.

5.- Considerato che le parti intimate non hanno svolto attività difensiva, non deve provvedersi in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; nulla sulle spese.

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T.A.R. Sicilia Palermo Sez. III, Sent., 01-06-2011, n. 1042 Ricorso per revocazione

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erbale;
Svolgimento del processo

Con atto notificato a mezzo posta in data 5/5/2009 e depositato in data 13/5/2009 la ricorrente aveva proposto ricorso ai sensi dell’art. 25 l. n. 241/1990 al fine di ottenere "copia dei verbali di gara e di tutta la documentazione amministrativa e tecnica presentata dalla ditta aggiudicataria" con riferimento al primo lotto della gara bandita dall’Azienda Ospedaliera V.E. di Gela per la "fornitura ed installazione chiavi in mano di apparecchiature per radioterapia", gara alla quale la ricorrente aveva partecipato, classificandosi al secondo posto in graduatoria (nell’ambito di un r.t.i.).

Lamentava in particolare la ricorrente che la stazione appaltante aveva illegittimamente accolto la richiesta di accesso limitatamente alla sola visione degli atti in asserita applicazione degli artt. 37 e 38 del disciplinare di gara, articoli dei quali veniva quindi chiesto l’annullamento e/o la disapplicazione.

Con sentenza 11 agosto 2009, n. 1441, il T.a.r. Palermo, sez. I, rigettava il ricorso richiamando l’art. 13, c. 2, d.lgs. n. 163/2006 a norma del quale il diritto di accesso agli atti di gara è differito sino al momento dell’aggiudicazione definitiva ed assumendo che alla data di proposizione del ricorso e a quella di decisione dello stesso (camera di consiglio del 3/7/2009) non fosse ancora intervenuta l’aggiudicazione definitiva.

Con successivo ricorso – notificato a mezzo posta in data 20/8/2009 e depositato in data 8/9/2009 – la soc. ricorrente ha chiesto al T.a.r. di revocare, ai sensi dell’art. 395, n. 4, c.p.c. la sentenza n. 1441/2009, e, per l’effetto di accogliere il ricorso in tema di accesso, consentendo l’estrazione di copia dei documenti richiesti.

Espone in particolare la ricorrente che il giudice di primo grado sarebbe incorso in un palese errore di fatto in quanto risultava dalla memoria difensiva prodotta in atti da parte resistente che l’aggiudicazione definitiva era avvenuta con nota 21/5/2009, prot. n. 373 e quindi prima della decisione del ricorso.

Conclude quindi per l’accoglimento del ricorso per revocazione proposto.

In data 24/1/2011 si è costituita in giudizio l’Azienda intimata chiedendo il rigetto del ricorso per revocazione assumendone l’infondatezza.

All’udienza pubblica del 4/5/2011 il ricorso, uditi i difensori delle parti come da verbale, è stato trattenuto in decisione.
Motivi della decisione

Rileva in via preliminare il Collegio che il ricorso è stato assegnato ad altra sezione del T.a.r. rispetto a quella che ha deciso la sentenza impugnata con il rimedio della revocazione (sez. I), in applicazione dei principi di cui alla decisione dell’Adunanza Plenaria del Cons. di Stato 25 marzo 2009, n. 2.

Ritiene il Collegio che il ricorso per revocazione proposto sia inammissibile.

Recita l’art. 28, cc. 12, l. n. 1034/1971 applicabile ratione temporis alla presente controversia:

"1. Contro le sentenze dei tribunali amministrativi è ammesso ricorso per revocazione, nei casi, nei modi e nei termini previsti dagli articoli n. 395 e 396 del codice di procedura civile. 2. Contro le sentenze medesime è ammesso, altresì, ricorso al Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, da proporre nel termine di giorni sessanta dalla ricevuta notificazione, osservato il disposto dell’articolo 330 del codice di procedura civile".

Recitano poi gli artt. 395 e 396 c.p.c.:

"395. Casi di revocazione. Le sentenze pronunciate in grado d’appello o in unico grado possono essere impugnate per revocazione: 1. se sono l’effetto del dolo di una delle parti in danno dell’altra 2. se si è giudicato in base a prove riconosciute o comunque dichiarate false dopo la sentenza oppure che la parte soccombente ignorava essere state riconosciute o dichiarate tali prima della sentenza; 3. se dopo la sentenza sono stati trovati uno o più documenti decisivi che la parte non aveva potuto produrre in giudizio per causa di forza maggiore o per fatto dell’avversario; 4. se la sentenza è l’effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa. Vi è questo errore quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, e tanto nell’uno quanto nell’altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare; 5. se la sentenza è contraria ad altra precedente avente fra le parti autorità di cosa giudicata, purché non abbia pronunciato sulla relativa eccezione; 6. se la sentenza è effetto del dolo del giudice, accertato con sentenza passata in giudicato";

396. Revocazione delle sentenze per le quali è scaduto il termine per l’appello. Le sentenze per le quali è scaduto il termine per l’appello possono essere impugnate per revocazione nei casi dei nn. 1, 2, 3 e 6 dell’articolo precedente, purché la scoperta del dolo o della falsità o il ricupero dei documenti o la pronuncia della sentenza di cui al n. 6 siano avvenuti dopo la scadenza del termine suddetto. Se i fatti menzionati nel comma precedente avvengono durante il corso del termine per l’appello, il termine stesso è prorogato dal giorno dell’avvenimento in modo da raggiungere i trenta giorni da esso".

Si distingue in dottrina e in giurisprudenza tra revocazione c.d. "ordinaria" (v. art. 395 nn. 4 e 5 c.p.c.) quando i motivi sono conoscibili dalle parti sin dalla pubblicazione della sentenza, e revocazione c.d. "straordinaria" (v. art. 395, nn. 1, 2, 3 e 6 c.p.c.), quando i motivi sono conoscibili dalle parti solo dopo la scoperta di fatti in precedenza non noti.

I provvedimenti impugnabili mediante revocazione, in base al c.p.c., sono le sentenze pronunciate in grado di appello o in unico grado (cioè le sentenze non appellabili – ad es. la sentenza pronunciata secondo equità su accordo delle parti, v. art. 114 c.p.c.), per tutti i motivi di cui all’art. 395 c.p.c., le sentenze pronunciate in primo grado per le quali non sia più esperibile l’appello essendo scaduto il termine per la proposizione, ma solo per i motivi di revocazione straordinaria (v. art. 396 c.p.c.), e le sentenze della Corte di Cassazione, ma solo se viziate da errore di fatto (v. art. 391 bis c.p.c.).

In ambito processualcivilistico la questione dei rapporti tra la revocazione e l’appello è risolta dalla legge in base al principio della sussidiarietà: la revocazione delle sentenze appellabili deve ritenersi esclusa in quanto non prevista né dall’art. 396 c.p.c. (che si riferisce solo alle "sentenze per le quali è scaduto il termine per l’appello"), né da alcuna altra norma del c.p.c., compreso l’art. 395 c.p.c. (che si riferisce alle "sentenze pronunciate in grado d’appello o in unico grado", e tale non è la sentenza di primo grado per la quale penda il termine per l’appello).

Al contrario, nel processo amministrativo, la questione dei rapporti tra la revocazione e l’appello non è risolta dalla legge, ma deve essere risolta dall’interprete.

Osserva il Collegio, innanzitutto che il rinvio che l’art. 28 l. T.a.r. opera verso l’art. 396 c.p.c., non pone problemi applicativi, di talché, per effetto di tale rinvio, le sentenze di primo grado, per le quali sia scaduto il termine per la proposizione dell’appello (sentenze quindi passate in giudicato), sono impugnabili con il rimedio della revocazione straordinaria e quindi non è nemmeno configurabile il concorso dei due rimedi (revocazione straordinaria ed appello).

Osserva invece il Collegio che il rinvio che l’art. 28, c. 1, l. T.a.r. fa all’art. 395 c.p.c., tout court, e unitamente all’utilizzo, nel c. 2, dell’espressione "altresì" riferita al rimedio dell’appello, pone il problema interpretativo relativo a quale sia l’impugnazione esperibile quando pende il termine per l’appello e la sentenza sia viziata da un errore di fatto (art. 395, n. 4) o sia contraria ad altra avente fra le parti autorità di cosa giudicata (art. 395, n. 5).

Secondo un primo orientamento contro le sentenze del T.a.r., ancorché non passate in giudicato e suscettibili d’appello, sarebbe comunque ammissibile il ricorso per revocazione ordinaria prevista dall’art. 395, nn. 45 c.p.c. (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 30 ottobre 2002, n. 5973, che fa leva sul dato testuale della norma che individua l’appello come rimedio aggiuntivo).

Secondo altro orientamento, a dire il vero più risalente, ma che ha ripreso vigore di recente, invece, allorché le sentenze di primo grado, come quelle rese dal T.a.r., sono ancora impugnabili in secondo grado, per non avvenuta scadenza del termine per la proposizione dell’appello, ogni doglianza o profilo di illegittimità da rilevarsi a carico della sentenza del primo giudice va fatta proprio con il rimedio dell’appello, dal che ne discende l’inammissibilità della revocazione ordinaria proposta avverso sentenze appellabili (cfr.: Cons. Stato, sez. VI, 2 marzo 1999, n. 244; Cons. Stato Sez. IV, 31 marzo 2010, n. 1843; T.ar. Campania – Napoli, sez. I, 12 gennaio 2011, n. 72).

Tale opzione ermeneutica più rigorosa appare – come di seguito si dirà, fatta propria dall’art. 106 c.p.a. – quella preferibile perché in linea con i principi propri del processo civile sopra delineati ed immanenti nel processo amministrativo ove con lo stesso compatibili, dai quali il Collegio non ravvisa ragione plausibile per discostarsi.

Segue da ciò l’inammissibilità del ricorso per revocazione ordinaria proposto nel caso di specie quando ancora era pendente il termine per la proposizione dell’appello (sentenza di primo grado depositata in data 11/8/2009, ricorso proposto ai sensi dell’art. 395, n. 4, c.p.c., notificato in data 20/9/2009).

Ad abundantiam si osserva:

1) il rinvio operato dall’art. 28, c. 1, l. T.a.r. all’art. 395 c.p.c. è probabilmente il frutto di una mera svista del legislatore in quanto le sentenze del T.a.r., giudice di primo grado, non sono né sentenze "pronunciate in grado d’appello" né sentenze pronunciate "in unico grado" (di talché sarebbe stato eventualmente più opportuno espungere detto rinvio dal c. 1 ed effettuare un richiamo all’art. 395, nn. 4 e 5, c.p.c., nel c. 2 dell’art. 28 l. T.a.r. con riferimento ai motivi dell’appello, con una formulazione del tipo: "Contro le sentenze medesime è ammesso, altresì, ricorso al Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, anche per i motivi di cui all’art. 395, nn. 4 e 5, c.p.c.";

2) l’art. 106, c. 3, c.p.a. (norma entrata in vigore dopo la proposizione del ricorso deciso con la presente sentenza, ma che avvalora comunque l’opzione ermeneutica prescelta) risolve espressamente la questione dei rapporti tra revocazione ed appello in linea con i principi propri del processo civile, e recita: "Contro le sentenze dei tribunali amministrativi regionali la revocazione è ammessa se i motivi non possono essere dedotti con l’appello".

Segue dalle considerazioni che precedono che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

Sussistono comunque le eccezionali ragioni di cui all’art. 92, c. 2, c.p.c., tenuto conto della particolarità della controversia, per disporre la compensazione, tra le parti costituite, delle spese del giudizio.

Nulla per le spese nei confronti delle parti non costituite.
P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sul ricorso per revocazione in epigrafe indicato, lo dichiara inammissibile.

Spese del giudizio compensate tra le parti costituite.

Nulla per le spese nei confronti delle parti non costituite.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 28-04-2011) 16-06-2011, n. 24400 Detenzione, spaccio, cessione, acquisto

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. I.M. ricorre contro ordinanza del Tribunale di Bari, che ne ha confermato la custodia in carcere disposta dal GIP per partecipazione ad associazione di spaccio di stupefacenti, del tipo cocaina ed hashish in (OMISSIS) e zone limitrofe dal mese di (OMISSIS). Gli indizi gravi sono tratti da riprese filmate, sequestri ed esiti di intercettazioni.

Il ricorso (Avv. S. Altarnura) deduce: 1 – violazione di legge, il Tribunale ha ritenuto gravi indizi a carico del ricorrente per avere egli ricoperto i ruoli "di stretto collaboratore di G. (uno dei dirigenti dell’associazione capeggiata da L.E.) nella fornitura di ricetrasmittenti da consegnare ai pusher, mezzi indispensabili per la sussistenza e l’operatività del sodalizio" e di "soggetto addetto al confezionamento delle dosi di sostanza stupefacente". Ma vi è differenza rispetto all’ordinanza del GIP, viepiù che non è contestato alcuno specifico comportamento delittuoso e la presenza di leva in compagnia di G. è stata verificata solo due volte nel periodo suindicato, mentre non era presente nell’appartamento della signora C. (moglie di altro associato), quando venivano sequestrati gli apparecchi radiotrasmittenti. Inoltre in imputazione non gli si attribuisce la confezione di dosi entro l’aprile 2009. L’episodio relativo che ha condotto al suo arresto con altri difatti si colloca in data (OMISSIS) e non può intendersi elemento indiziario, assenti elementi che lo collochino nel luogo nel periodo precedente. Così pure è ininfluente la presenza filmata dell’indagato nel (OMISSIS), inteso epicentro dello spaccio; 2 – Manca poi la motivazione della sussistenza dell’elemento psicologico del reato associativo.

2. Il ricorso è infondato, in quanto fa del tutto grazia della sintesi motivazionale.

L’ordinanza spiega che l’indagato è stato ripreso mentre con G. e Q. si recava a casa della C. per prelevare le ricetrasmittenti, di seguito sequestrate, per portarle al (OMISSIS). L’insieme (è dunque gratuita l’analisi separata dei dati offerta nel ricorso) offre al Giudice di riesame l’univoco perchè dell’obiettivo comune ai rapporti di leva con G. e con il locale pubblico. E trova conferma evidente nella sottolineatura del consecutivo tenore di conversazioni, che hanno a che fare con il pericolo che può derivare dal suo fermo e da quello di G., in rapporto al sequestro di batterie per le ricetrasmittenti.

Da questi dati, l’ordinanza (v. il secondo punto di pg. 10) induce l’affectio societatls, di talchè l’ulteriore specificazione del 2 motivo di ricorso risulta accademica.

Ma prima ancora il ricorso travisa che il Tribunale ha collocato l’attività del ricorrente nella fase preparatoria dello spaccio.

Perciò, all’evidenza, ha tratto valenza concorde da fatti coevi o di poco successivi al termine indicato nell’imputazione, ma cospiranti per l’attribuzione del ruolo.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94 disp. att. c.p.p..

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