T.A.R. Lazio Roma Sez. III, Sent., 10-01-2012, n. 174 Carenza di interesse sopravvenuta

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con il presente ricorso è stato impugnato il decreto rettorale con cui il prof. A.O. è stato collocato quiescenza .

Alla camera di consiglio del 28 ottobre 2009 è stata accolta la domanda cautelare di sospensione del provvedimento impugnato in relazione al danno grave ed irreparabile.

All’udienza pubblica del 16 novembre 2011 la parte ricorrente ha dichiarato di non avere più interesse al presente ricorso.

Il ricorso deve essere dunque dichiarato improcedibile per carenza di interesse.

Infatti, non sussiste più alcun interesse concreto ed attuale della parte alla decisione del presente ricorso.

La sopravvenuta carenza dell’interesse al ricorso giurisdizionale, infatti, si verifica per effetto del mutamento della situazione di fatto e di diritto dedotta in sede di ricorso, che faccia venir meno l’effetto del provvedimento impugnato, tale da rendere certa e definitiva l’inutilità della sentenza (Consiglio di stato, sez. V, 10 settembre 2010 , n. 6549).

In considerazione della complessità delle vicende in fatto sussistono giusti motivi per la compensazione delle spese processuali

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza)

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo dichiara improcedibile per sopravvenuto difetto di interesse.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 16 novembre 2011 con l’intervento dei magistrati:

Bruno Amoroso, Presidente, Estensore

Domenico Lundini, Consigliere

Giuseppe Sapone, Consigliere

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cons. Stato Sez. V, Sent., 17-01-2011, n. 195

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

A) – L’impresa artigiana attuale appellata presentava alla provincia autonoma di Trento, ex legge prov. n. 17/1993, domanda di contributo in relazione all’acquisizione di servizi forniti dalla società di consulenza M. s.r.l..

Il dirigente del Servizio artigianato, con apposita determinazione, concedeva alla società richiedente, ai sensi dell’art. 10, citata legge n. 17/1993, il contributo in questione, somma che veniva poi liquidata con relativo mandato di pagamento.

Con successiva determinazione dirigenziale veniva, peraltro, revocata la concessione del contributo in parola, chiedendosi la restituzione della somma erogata, comprensiva d’interessi e spese.

Avverso tale provvedimento proponeva ricorso l’impresa interessata, chiedendone l’annullamento (anche solo parziale) e formulando a tale proposito una serie di osservazioni giuridiche, secondo cui il provvedimento in parola non sarebbe stato conforme alla vigente normativa provinciale.

Si costituiva in giudizio la provincia di Trento, eccependo preliminarmente l’inammissibilità del ricorso per difetto di giurisdizione e contestando, nel merito, la fondatezza dello stesso, per cui ne chiedeva il rigetto.

Con apposita ordinanza veniva respinta l’istanza cautelare.

I primi giudici disattendevano l’eccezione di difetto di giurisdizione sollevata dalla difesa provinciale e fondata sulla ritenuta sussistenza di un diritto soggettivo dell’originaria ricorrente scaturente dal potere di revoca della p.a., esercitato in funzione di un asserito inadempimento da parte del beneficiario, nel contesto della disciplina regolante il rapporto già instaurato.

Pur in presenza, nella materia, di una non sempre precisa linea di demarcazione tra situazioni di diritto soggettivo e d’interesse legittimo, in rapporto rispettivamente alla fase procedimentale concernente l’ammissione al beneficio contributivo ed a quella successiva riferita all’erogazione dello stesso, nella specie non ci si sarebbe trovati di fronte ad un’ipotesi di inadempimento, come affermato dalla provincia resistente, ma ad un intervento in autotutela (revoca), rapportabile sempre alla fase procedimentale del finanziamento, sotto i profili della verificazione dei presupposti del medesimo e della sua consistenza: situazione, anche alla luce della più recente giurisprudenza (cfr. Cass. civ., sez. un., sentenza 20 settembre 2004 n. 18844), d’interesse legittimo e dunque, di pertinenza del giudice amministrativo.

Nel merito, il Tribunale di prima istanza accoglieva parzialmente il gravame, poiché la ditta originaria ricorrente aveva contestato il provvedimento impugnato (e, quindi, in parte qua annullato) per violazione di legge, affermando di aver prodotto tutta la documentazione richiesta dalla normativa e, quanto all’effettiva sopportazione della spesa, di aver posto in essere una separata operazione commerciale, non vietata in alcun modo dalla normativa provinciale di riferimento; inoltre, lo stesso provvedimento sarebbe risultato in ogni caso illegittimo, perché l’art. 20, legge prov. n. 17/1993, prevedeva la proporzionale riduzione delle agevolazioni nel caso di spesa inferiore.

B) – A seguito di sentenza (poi, comunque, annullata) del g.u.p. del Tribunale di Trento, emessa a carico di soggetti consulenti della ditta M. s.r.l. incaricati dell’effettuazione dell’intervento, anche presso la società originaria ricorrente, era emerso come quest’ultima avesse percepito indebitamente (donde il reato d’indebita percezione di contributi a danno dello Stato, peraltro, poi escluso con la formula più ampia: v. sentenza g.u.p. Tribunale penale di Trento, emessa a seguito di rinvio, dopo l’annullamento della precedente pronuncia di cui sopra) contributi a valere sulla legge prov. n. 17/1993, in relazione a spese per la realizzazione di alcuni servizi di consulenza di fatto non sostenute, con una palese riduzione del costo della prestazione per l’imprenditore, nonché una diminuzione del costo a carico del percettore del finanziamento, di cui la provincia erogante era rimasta all’oscuro: donde il corretto esercizio del suo potere di autotutela, intervenendo a salvaguardia dell’interesse pubblico perseguito con il provvedimento di concessione dei contributi e garantito nel corso dell’erogazione di questi.

Risultava, peraltro, che l’impegno sostenuto dall’impresa ricorrente aveva, in pratica, subìto un abbattimento del 30% del costo dichiarato per il servizio in questione, per l’assenza di un effettivo esborso di denaro da parte dell’impresa in relazione al comportamento della ditta di consulenza, determinante il contenimento della spesa preventivata nella misura suindicata.

Di conseguenza, se appariva legittima una riduzione del finanziamento entro il limite del 30%, altrettanto non poteva dirsi per l’eccedenza (70%) costituente per l’originaria ricorrente un effettivo costo del servizio in parola, in conformità all’art. 20, legge prov. n. 17/1993, che, al secondo comma, prevedeva appunto che "le agevolazioni sono proporzionalmente ridotte nel caso in cui la spesa realizzata risulti di importo inferiore a quello ammesso", in tal modo dovendosi escludere una completa revoca del contributo per il semplice fatto dell’avvenuto ridimensionamento della spesa preventivata (come nella specie), dovendo lo stesso essere rapportato proporzionalmente all’effettivo esborso, ogni diversa interpretazione apparendo in contrasto con le finalità della predetta legge provinciale n. 17/1993.

C) – Detta sentenza veniva poi impugnata dalla provincia di Trento, parzialmente soccombente in prime cure, che deduceva il comportamento fraudolento dell’impresa interessata, con correlativa correttezza della revoca, integralmente disposta per motivi non di mera autotutela ma sanzionatori (cfr. C.S., sezione V, dec. n. 202/2006), con conseguente situazione di diritto soggettivo azionabile in sede civile, donde il difetto di giurisdizione amministrativa.

La parte appellata non si costituiva in giudizio ed all’esito della pubblica udienza di discussione la vertenza passava in decisione, dopo il deposito di una tardiva memoria riepilogativa da parte della provincia di Trento.
Motivi della decisione

L’appello è infondato e va respinto.

I) – Nella specie, il provvedimento impugnato in primo grado, determinato da uno specifico comportamento tenuto in violazione della normativa regolante la concessione degli aiuti (in quanto diretto ad ottenere un contributo maggiore di quello concedibile mediante una dichiarazione non veritiera), aveva disposto la decadenza della parte interessata dal contributo già accordato ed il recupero dello stesso: si sostiene, non condivisibilmente, che il provvedimento determinato da uno specifico comportamento antigiuridico non avrebbe natura di atto di autotutela provvedimentale ma di atto sanzionatorio e, pertanto, la controversia avente per oggetto tale atto esulerebbe dalla giurisdizione amministrativa, incidendo su una posizione di diritto soggettivo e rientrando in quella civile.

Ne deriva, invece, la correttezza dell’impugnata pronuncia e la sicura sussistenza della giurisdizione amministrativa, avendo i destinatari di contributi o di sovvenzioni pubbliche, nei confronti della p.a., una posizione d’interesse legittimo, ove la controversia riguardi una fase procedimentale precedente l’assegnazione del contributo o della sovvenzione, ovvero nel caso in cui il provvedimento attributivo del beneficio sia stato annullato o revocato per vizi di legittimità o per contrasto con l’interesse pubblico coevi alla sua emanazione, ravvisandosi, invece, una posizione di diritto soggettivo in ordine alle controversie relative alla successiva erogazione del contributo o della sovvenzione e/o in caso di ritiro di detti benefici con provvedimenti di revoca, decadenza o risoluzione per inadempimenti o fatti sopravvenuti ostativi al loro mantenimento (Cass. civ., sez. un., sent. n. 758/1999; C.S., sezione IV, dec. n. 2999/2002).

Sulla questione oggetto di controversia questo Consiglio di Stato ha un orientamento costante (cfr. sezione VI, dec. n. 5415/2008), non difforme da quello della Corte di cassazione, che – in materia di provvedimenti a contenuto revocatorio incidenti su contributi, sussidi, sovvenzioni e finanziamenti erogati da pubbliche amministrazioni – utilizza un criterio generale, in tema di riparto di giurisdizione, fondato sulla individuazione del segmento procedurale interessato dal provvedimento oggetto di vaglio giurisdizionale e sulla causale dell’iniziativa revocatoria.

II) – In particolare, occorre tenere distinto (anche in rapporto ai provvedimenti di revoca) il momento statico della concessione del contributo rispetto a quello dinamico, individuabile nell’impiego del contributo medesimo.

Al primo settore – spettante alla giurisdizione amministrativa – appartengono i provvedimenti, comunque denominati (revoca, decadenza, etc.) – di ritiro del finanziamento, anche susseguenti all’erogazione, ove costituiscano manifestazione del potere di autotutela amministrativa.

Viceversa, ogni altra fattispecie, concernente le modalità di uso del contributo e il rispetto degli impegni assunti, coinvolge posizioni di diritto soggettivo, relative alla conservazione del finanziamento, spettanti alla giurisdizione ordinaria.

Nel caso in esame la revoca s’inquadra, dunque, nelle fattispecie di decadenza per violazione degli obblighi incombenti sul beneficiario dei contributi, espressione di poteri autoritativi del contraente pubblico, ma di natura privatistica, secondo un modello piuttosto frequente nei contratti e nei rapporti negoziali della p.a..

Né potrebbe applicarsi la giurisdizione esclusiva in materia di concessione di beni, data l’espressa riserva alla giurisdizione ordinaria (art. 5, legge n. 1034/1971) d’indennità, canoni ed altri corrispettivi.

Conclusivamente, l’appello va respinto, mentre l’impugnata sentenza va, dunque, confermata integrandone come sopra la motivazione e nulla disponendosi per spese ed onorari del giudizio di seconda istanza, in cui la parte appellata non si è costituita.
P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, sezione V, respinge l’appello e nulla dispone per spese ed onorari del giudizio di secondo grado.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 30 novembre 2010, con l’intervento dei giudici:

Gianpiero Paolo Cirillo, Presidente FF

Marco Lipari, Consigliere

Aldo Scola, Consigliere, Estensore

Eugenio Mele, Consigliere

Adolfo Metro, Consigliere
Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 24-08-2012, n. 14637

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo
che la Corte d’appello di Perugia, con decreto in data 17 dicembre 2010, ha rigettato la domanda di equa riparazione proposta, ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 39, da P.T., D. B., B.R. e B.S., nella qualità di eredi di B.O., per ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale derivante dall’irragionevole durata di una procedura fallimentare, svoltasi dinanzi al Tribunale di Roma, nella quale il de cuius, dipendente della società xxx dichiarata fallita, aveva proposto istanza di ammissione al passivo per i suoi crediti di lavoro;
che la Corte d’appello ha rilevato che il fallimento era stato dichiarato il 6 ottobre 1994 e che, sebbene questo fosse stato chiuso con decreto del 4 dicembre 2009, B.O. aveva ottenuto il pagamento di tutte le sue spettanze dal fondo di garanzia dell’INPS nel 1996;
che secondo la Corte d’appello alla data della morte del B., avvenuta il (OMISSIS), dopo circa undici anni dalla presentazione dell’istanza di ammissione al passivo, il termine di durata ragionevole era stato superato da circa otto anni: e tuttavia l’istante aveva perduto ogni interesse alla definizione della procedura fallimentare, appunto perchè era stato integralmente soddisfatto dei crediti ammessi al passivo, con gli interessi, ben prima che fosse superato il termine di ragionevole durata;
che per la cassazione del decreto della Corte d’appello P. T. e gli altri consorti indicati in epigrafe hanno proposto ricorso, con atto notificato il 5 gennaio 2012, sulla base di due motivi;
che l’intimato Ministero ha resistito con controricorso;
che i ricorrenti hanno depositato memoria illustrativa in prossimità dell’udienza.
Motivi della decisione
che il Collegio ha deliberato l’adozione di una motivazione semplificata;
che – come eccepito dal Ministero controricorrente – il ricorso è inammissibile per tardività, essendo stato notificato, per impugnare il decreto depositato il 17 dicembre 2010, soltanto il 5 gennaio 2012, e quindi oltre il termine semestrale previsto per l’impugnazione dal novellato art. 327 cod. proc. civ., applicabile ratione temporis in quanto il ricorso ex L. n. 89 del 2001 è stato depositato presso la Corte d’appello di Perugia il 6 novembre 2009, quando era già entrata in vigore la L. 18 giugno 2009, n. 69, che ha modificato il citato art. 327;
che le spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna, i ricorrenti, in solido tra loro, al rimborso delle spese processuali sostenute dal Ministero controricorrente, liquidate in complessivi Euro 600,00 per onorari, oltre alle spese prenotate a debito.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda Sezione Civile della Corte suprema di Cassazione, il 19 luglio 2012.
Depositato in Cancelleria il 24 agosto 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Corte cost. 17-07-2007 (03-07-2007), n. 291 Parlamento – Immunità parlamentari – Procedimento penale a carico di un parlamentare per il reato di diffamazione aggravata

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

SENTENZA
Nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della deliberazione della Camera dei deputati del 17 marzo 2004 (Doc. IV-ter, n. 4-A) relativa alla insindacabilità, ai sensi dell’art. 68, primo comma, della Costituzione, delle opinioni espresse dall’onorevole Vittorio Sgarbi nei confronti del dottor Piercamillo Davigo, promosso con ricorso del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Brescia, notificato il 23 marzo 2003, depositato in cancelleria il 2 aprile 2005 ed iscritto al n. 18 del registro conflitti 2005.
Visto l’atto di costituzione della Camera dei deputati;
udito nell’udienza pubblica del 3 luglio 2007 il Giudice relatore Alfonso Quaranta;
udito l’avvocato Roberto Nania per la Camera dei deputati.

Ritenuto in fatto
1.- Il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Brescia ha promosso, con ricorso depositato pressa la Cancelleria della Corte il 26 ottobre 2004, conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti della Camera dei deputati, per l’annullamento della deliberazione da quest’ultima adottata «nella seduta del 17 marzo 2004» (Doc. IV-ter, n. 4-A).
1.1.- Premette il ricorrente di essere chiamato a giudicare della responsabilità penale dell’onorevole Vittorio Sgarbi, «imputato del delitto di diffamazione aggravata in danno del magistrato dott. Piercamillo Davigo», in ragione delle «frasi pronunciate» e delle «condotte tenute» nel corso della puntata del 26 giugno 1998 della trasmissione televisiva "Sgarbi quotidiani", diffusa dall’emittente "Canale 5".
Il parlamentare, difatti, «conduttore del programma televisivo suddetto», avrebbe esposto «durante la sigla iniziale della trasmissione un disegno raffigurante due maiali vestiti da magistrati con tocco, toga, un coltello e un grembiule sporco di sangue», rivolgendosi inoltre al disegnatore Martinez con le seguenti parole: «È tua la copertina? Ti volevi riferire ai magistrati di Venezia? Di qualunque altra città d’Italia? …. non c’è nessun collegamento tra la copertina di Martinez e la musica che fa siam tre piccoli porcellini e quello che dirò io … i porci miei sono porci miei, i porci tuoi sono porci tuoi …».
Il deputato Sgarbi, poi, avrebbe dichiarato nel corso della trasmissione «in relazione alla recensione di un libro pubblicato dal dott. Davigo "io vi suggerisco, se avete intenzione di scrivere libri, di fare prima i magistrati: se voi volete avere una recensione sul Corriere in terza pagina, voi dovete non fare il libro e basta, ma fare il magistrato, magari del pool di Milano, perché se lo fai a Forlì o Ravenna o anche a Venezia, non ti danno neanche la quindicesima; allora dovete fare i magistrati a Milano per pubblicare un libro di cui spero godrete i diritti di autore e allora soltanto avrete una recensione in terza pagina"».
Il parlamentare, inoltre, «mostrando la terza pagina del quotidiano "Corriere della Sera", suggeriva agli ascoltatori: "Come la chiamereste voi questa pagina? Io la chiamerei leccata di c. … (bip). Trattasi del c. … (bip) del dott. Davigo"», aggiungendo «frasi sarcastiche sulla circostanza che la recensione occupasse lo spazio di sette colonne».
Infine l’on. Sgarbi, conclude sul punto il ricorrente, durante un dialogo con l’ospite della trasmissione avv. Carlo Taormina, «accreditava la tesi che il dott. Davigo avesse "mandato" il Maresciallo della Guardia di Finanza Scaletta Salvatore (…) ad interrogare il finanziere Francesco Pacini Battaglia al precipuo scopo di "fargli dire" che Taormina era legato a clan camorristici e dunque al fine di "incastrarlo" e provocare un’indagine per reati di mafia a carico di quest’ultimo».
1.2.- Tanto premesso sul contenuto dell’addebito elevato a carico del parlamentare, il ricorrente informa la Corte che all’udienza preliminare, celebrata il 16 dicembre 2003, il difensore dell’imputato «chiedeva al giudice di pronunciare sentenza di proscioglimento ex art. 129 del codice di procedura penale per la insindacabilità delle opinioni espresse dal proprio assistito, ritenute scriminate ai sensi dell’art. 68 della Costituzione».
Il predetto Giudice dell’udienza preliminare, tuttavia, con ordinanza del 23 dicembre 2003, «investiva della questione la Camera dei deputati», provvedendo così ai sensi dell’articolo 3, comma 4, della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’articolo 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), in base all’assunto che le condotte poste in essere dal deputato Sgarbi (e sopra meglio descritte) non sarebbero «ricomprese tra quelle oggetto del disposto dell’art. 68 Cost., siccome non espresse nell’esercizio di funzioni parlamentari, né a queste funzionalmente connesse».
Essendo, tuttavia, pervenuta all’odierno ricorrente – in data 22 marzo 2004 – la nota con la quale il Presidente della Camera dei deputati comunicava che, con delibera adottata il 17 marzo 2004, l’assemblea aveva dichiarato l’insindacabilità delle opinioni espresse dal parlamentare, respingendo la proposta della Giunta per le autorizzazioni (di segno contrario), il ricorrente ha promosso il presente conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato.
1.3.- A sostegno dell’iniziativa assunta, sono dedotti, innanzitutto, «i principî delineati dalla sentenza 29 dicembre 1988 n. 1150 della Corte costituzionale».
In base ad essi – espone il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Brescia – «le prerogative parlamentari non possono non implicare un corrispettivo potere valutativo dell’organo a tutela del quale sono disposte», potere che «può dirsi legittimamente esercitato solo entro i limiti della fattispecie contemplata dall’art. 68, primo comma, Cost.». Esso, difatti, «lungi dall’essere arbitrario o vincolato a sole regole interne di self-restraint, è soggetto al controllo di legittimità affidato all’organo giurisdizionale di garanzia costituzionale, mediante lo strumento del conflitto di attribuzione». Quest’ultimo, a propria volta, «non si configura nei termini di una vindicatio potestatis (il potere di valutazione del Parlamento non è in astratto contestabile), bensì come contestazione dell’altrui potere in concreto, per vizi del procedimento oppure per omessa o erronea valutazione dei presupposti di volta in volta richiesti per il valido esercizio di esso».
Alla stregua, dunque, di tale indirizzo (che il ricorrente pone in luce essere stato confermato dalle sentenze n. 129 del 1996 e n. 443 del 1993), sarebbe evidente che il giudizio devoluto alla Corte in sede di conflitto di attribuzione «non si limita alla verifica della validità e congruità della motivazione con la quale la Camera di appartenenza del parlamentare abbia dichiarato insindacabile l’opinione espressa». Sebbene esso, difatti, non si atteggi «a giudizio sindacatorio (…) su di una determinazione discrezionale dell’assemblea politica», è pur vero che la Corte, «chiamata a svolgere, in posizione di terzietà, una funzione di garanzia, da un lato dell’autonomia della Camera di appartenenza del parlamentare, dall’altro della sfera di attribuzione dell’autorità giurisdizionale, non può verificare la correttezza, sul piano costituzionale, di una pronuncia di insindacabilità senza verificare se, nella specie, l’insindacabilità sussista, cioè se l’opinione di cui si discute sia stata espressa nell’esercizio delle funzioni parlamentari, alla luce della nozione di tale esercizio che si desume dalla Costituzione» (è richiamata testualmente la sentenza n. 10 del 2000).
Orbene, prosegue il ricorrente, poiché la deliberazione della Camera dei deputati del 17 marzo 2004 (oggetto del presente conflitto) risulterebbe adottata in difetto dei presupposti per l’applicazione della garanzia di cui all’art 68, primo comma, della Carta Costituzionale, la stessa si paleserebbe lesiva della «sfera di attribuzione dell’ordine giudiziario».
1.4.- Né in senso contrario potrebbe addursi – evidenzia il summenzionato Giudice dell’udienza preliminare – la recente previsione normativa introdotta dall’articolo 3, comma 1, della già citata legge n. 140 del 2003, secondo cui è pure insindacabile «ogni altra attività di ispezione, di divulgazione, di critica e di denuncia politica connessa alla funzione di parlamentare, espletata anche al di fuori del Parlamento».
La stessa Corte, difatti, ha chiarito (sentenza n. 120 del 2004) come, attraverso tale previsione normativa, «il legislatore non innovi affatto alla predetta disposizione costituzionale», essendosi limitato a renderne «esplicito il contenuto (…) specificando gli atti di funzione tipici, nonché quelli che, pur non tipici, debbono comunque essere connessi alla funzione parlamentare, a prescindere da ogni criterio di localizzazione», e ciò – oltretutto – «in concordanza con le indicazioni ricavabili al riguardo dalla giurisprudenza costituzionale in materia».
Ciò che, dunque, continua a rilevare, sottolinea ancora il ricorrente, è «il collegamento necessario con le funzioni del Parlamento, cioè l’ambito funzionale in cui l’atto si iscrive, a prescindere dal suo contenuto comunicativo che può essere il più vario, ma che in ogni caso deve rappresentare esercizio in concreto delle funzioni proprie dei membri delle Camere», di talché, in sé considerate, «le attività di ispezione, divulgazione, critica e denuncia politica» (alle quali si riferisce il già menzionato art. 3, comma, 1 della legge n. 140 del 2003) non rappresentano «un indebito allargamento dell’insindacabilità, se risultano in connessione con l’esercizio di funzioni parlamentari» (si richiamano le sentenze n. 219 del 2003, n. 509 del 2002, n. 320, n. 56, n. 11 e n. 10 del 2000). Diversamente, invece, «l’attività di propaganda e critica politica svolta in assenza di un nesso funzionale con l’attività parlamentare propria è soggetta ai medesimi limiti di espressione di ogni altro cittadino che voglia partecipare alla vita politica nazionale».
1.5.- È, pertanto, sulla scorta di tali princípi, che secondo il ricorrente – il quale, peraltro, non manca di porre in luce come soltanto la loro rigorosa applicazione consenta «di non incorrere nelle sanzioni della Corte Europea dei diritti dell’uomo» (avendo essa affermato che «condizione per la compatibilità del meccanismo di tutela dell’art. 68 Cost. con l’ordinamento comunitario e con i diritti individuali alla tutela dell’onore dei privati cittadini è la proporzione tra l’ambito delle condotte ritenute insindacabili ed il fine per il quale l’insindacabilità è prevista») – occorre «valutare se le condotte oggetto del presente procedimento siano o meno tra quelle garantite dall’art. 68» Cost.
Atteso, dunque, che «le condotte delle quali si contesta la legittimità sono state tenute "fuori del Parlamento", e fuori delle attività parlamentari tipiche» (l’interessato ebbe a pronunciare le frasi oggetto di giudizio nel corso di una trasmissione televisiva), appare evidente – ad avviso del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Brescia – che «l’aspetto da verificare è proprio quello della riconducibilità delle condotte denunciate alle attività "atipiche"», e ciò «sotto il profilo della connessione di tali condotte con la funzione, ovvero attività parlamentare».
In tale prospettiva, però, il ricorrente evidenzia come il deputato non abbia «mai azionato alcuna iniziativa parlamentare, tipica o atipica, relativamente alla questione (…) del Maresciallo Scaletta», non parendo, inoltre, «che le interrogazioni autonomamente presentate (…) da due diversi deputati su alcuni aspetti della vicenda» possano giustificare l’applicazione della prerogativa ex art. 68, primo comma, della Costituzione.
Si sottolinea, inoltre, nel presente ricorso come oggetto del procedimento penale (e quindi della delibera contestata) siano, «non solo le affermazioni relative alla supposta distorsione dell’attività investigativa diretta dal dott. Davigo a fini personali, in danno dell’avv. Taormina, ma tutte le condotte e le frasi riportate nell’imputazione, a partire dalla presentazione della puntata», sia mediante l’esibizione di un disegno che riproduceva «due maiali vestiti con toga e tocco, con grembiule sporco di sangue ed un coltello in mano», sia attraverso «l’accompagnamento di una colonna sonora che cantava "siam tre piccoli porcellin …" ed il riferimento formalmente ad escludendum ai pubblici ministeri di Milano».
Ne consegue, sottolinea il ricorrente, che tali condotte – come del resto «le frasi sulla recensione del volume di Davigo» – per i loro «modi ed argomenti» appaiono «difficilmente ricollegabili alla funzione pubblica parlamentare». Non casualmente, del resto, la Giunta per le autorizzazioni della Camera dei deputati – è la conclusione del Giudice dell’udienza preliminare summenzionato – aveva «proposto di deliberare nel senso della estraneità delle condotte e delle opinioni espresse alla funzione parlamentare», ritenendo insufficiente, ai fini del riconoscimento della garanzia della insindacabilità, «la mera coloritura politica delle affermazioni contestate», ovvero «la sola comunanza d’argomento con tematiche trattate in Parlamento».
Avendo, per contro, l’Assemblea parlamentare deliberato in data 17 marzo 2004 (Doc. IV-ter, n. 4-A) in senso difforme, il ricorrente – visti gli artt. 68 e 134 Cost. e 37 legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 87 – chiede alla Corte di dichiarare che non spettava alla Camera dei deputati deliberare che le opinioni espresse dall’onorevole Vittorio Sgarbi in data 26 giugno 1998 nel corso della trasmissione televisiva "Sgarbi quotidiani", in relazione ai quali è pendente procedimento penale per il delitto di diffamazione aggravata in danno del sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano dott. Piercamillo Davigo, concernono opinioni espresse dall’on. Sgarbi nell’esercizio delle sue funzioni, disponendo l’annullamento della delibera relativa, adottata il 17 marzo 2004 dalla Camera dei deputati, per violazione dell’art. 68 della Costituzione.
2.- Il presente conflitto è stato dichiarato ammissibile con ordinanza n. 105 del 2005.
3.- Si è costituita in giudizio la Camera dei deputati, per chiedere che il presente conflitto sia dichiarato inammissibile e, comunque, non fondato.
3.1.- In via preliminare, difatti, essa eccepisce che «il ricorso è da ritenersi inammissibile e comunque improcedibile, in quanto non risultano riportate in modo congruo ed adeguato le frasi che dovrebbero costituire oggetto del conflitto», ciò che renderebbe carente, secondo costante giurisprudenza costituzionale, la «prospettazione del thema decidendum» (sono citate, oltre alle sentenze n. 79 del 2005, n. 87 del 2002 e n. 274 del 2001, anche le ordinanze n. 129 del 2005, n. 264 del 2000, n. 318 del 1999).
3.1.1.- In particolare, la difesa della Camera dei deputati evidenzia che alcune delle dichiarazioni oggetto del procedimento penale pendente innanzi alla ricorrente autorità giudiziaria, e segnatamente quelle riguardanti la condotta che il dott. Davigo avrebbe tenuto in danno dell’on. Taormina, non formerebbero oggetto di puntuale indicazione nell’atto che ha dato origine al presente conflitto, giacché le stesse sarebbero state «sostituite dalla libera e soggettiva rielaborazione da parte del giudice ricorrente», tanto che non sarebbe «dato neppure comprendere se siano state rese dall’on. Sgarbi oppure dall’ospite della trasmissione» (e cioè il predetto on. Taormina).
«Tale personale e soggettiva rielaborazione» – prosegue la Camera dei deputati – non risulterebbe idonea «a prospettare correttamente i termini della controversia», con conseguente violazione dell’art. 26 delle norme integrative per i giudizi davanti la Corte costituzionale. Difatti, diversamente opinando, la Corte si ritroverebbe a dover valutare la sussistenza di un nesso funzionale, «non già tra le dichiarazioni extra moenia e quelle intra moenia del parlamentare, ma tra queste ultime e quelle immaginate dal Giudice ricorrente», con conseguente lesione, oltretutto, del principio del contraddittorio, «tanto più rilevante quando, come nel presente giudizio, si controverta in materia di attribuzioni spettanti ai poteri dello Stato».
La Camera dei deputati, inoltre, sottolinea come l’esito della declaratoria di inammissibilità del ricorso sembrerebbe imporsi anche alla luce di una «recente decisione di inammissibilità» adottata dalla Corte costituzionale. Difatti, con la sentenza n. 79 del 2005 è stata censurata la scelta operata della ricorrente autorità giudiziaria – in un giudizio per conflitto – di sostituire, alla puntuale indicazione delle dichiarazioni rese extra moenia proprio dall’odierno dichiarante, una loro «libera rielaborazione», e ciò sul presupposto che in tal modo si determina «un’impropria sovrapposizione tra l’oggettiva rilevanza delle opinioni espresse dal deputato Sgarbi e l’interpretazione soggettiva che ne è stata data, che interferisce con l’accertamento del nesso funzionale tra le frasi pronunciate nel corso della trasmissione televisiva e gli eventuali atti parlamentari tipici di cui le frasi stesse potrebbero essere la divulgazione esterna».
Né, d’altra parte, in senso contrario alla eccepita inammissibilità del ricorso, potrebbe addursi la circostanza che «la denunziata insufficienza non si riverbererebbe comunque sugli altri punti relativi alla descrizione del fatto», giacché, in ragione della «sostanziale unitarietà del contesto argomentativo» di tutte le dichiarazioni per le quali è giudizio (confermata anche dal fatto che le stesse hanno formato oggetto di una medesima delibera di insindacabilità), «la parziale riproduzione delle frasi incriminate non può non comportare, al pari della loro completa rielaborazione o totale omissione, l’inammissibilità dell’intero ricorso» (sono citate, a sostegno di tale conclusione, le sentenze della Corte costituzionale n. 206 del 2002 e n. 363 del 2001, nonché l’ordinanza n. 264 del 2000).
3.1.2.- Sempre in punto ammissibilità, la difesa della Camera dei deputati eccepisce anche che dal ricorso non risulterebbe affatto chiaro «quale sia – e, prima ancora, se vi sia – la rilevanza della "copertina" del programma televisivo condotto dal parlamentare», visto che in relazione ad essa, non solo il ricorrente parrebbe avere omesso di formulare censure, ma sembrerebbe persino ipotizzare che la stessa non sia «neppure riconducibile al parlamentare, quanto piuttosto all’altro autore della trasmissione, coimputato nel giudizio a quo».
3.2.- Nel merito la Camera dei deputati reputa il ricorso non fondato.
3.2.1.- Sottolinea, difatti, che le dichiarazioni oggetto di giudizio si presentano divulgative di attività parlamentari dell’on. Sgarbi, giacché «una parte preponderante di siffatta attività» risulta essersi incentrata «proprio sul tema della corretta amministrazione della giustizia e delle sue (ritenute) disfunzioni ed anomalie», nonché, segnatamente, sull’operato dei magistrati degli uffici giudiziari milanesi, ed in particolare «dei sostituti procuratori (tra cui il menzionato dott. Davigo)».
Deporrebbero in tal senso numerosi atti ispettivi, dei quali il predetto deputato risulta firmatario o cofirmatario (ed esattamente: le interrogazioni a risposta orale n. 3/01254 del 20 luglio 1993, n. 3/00190 del 1° agosto 1994, n. 3/00853 del 9 gennaio 1996 e n. 3/02476 dell’8 giugno 1998), nonché la proposta di legge n. 2296, presentata alla Camera dei Deputati in data 24 settembre 1996 (XIII legislatura), ed infine gli interventi alla sedute della Camera dei deputati del 18 e 25 giugno 1998.
Rileverebbe, in particolare, l’interrogazione n. 3/00190, con la quale il suddetto parlamentare – osserva la difesa della Camera dei deputati – «censurava l’utilizzo, a suo giudizio arbitrario, di membri della Guardia di Finanza nella conduzione delle inchieste, da parte dei componenti del "pool Mani pulite"». Del pari, particolarmente rilevante sarebbe anche l’interrogazione 3/02476, nella quale – proprio riferendosi ai «dottori Antonio Di Pietro, Pier Camillo Davigo, Gherardo Colombo e Francesco Greco» – il suddetto deputato si doleva del fatto che nessun procedimento disciplinare fosse stato avviato nei loro confronti, «nonostante la gravità dei reati commessi ai danni del Governo e del Parlamento». Analogamente, in occasione della presentazione della proposta di legge n. 2296, il medesimo parlamentare sottolineava – nella relazione introduttiva – la intollerabilità del fatto che «sotto la toga si nascondano interessi di parte, discriminazioni colpevoli o faziosità», stigmatizzando, inoltre, «l’enorme impatto che ha avuto e ha nell’opinione pubblica il persistente e diuturno intervento attraverso i mass-media di magistrati famosi per la pubblicità data alle loro inchieste giudiziarie».
Alla luce, pertanto, di tali elementi, la Camera dei deputati reputa che, «ragionando in una prospettiva di carattere più generale», dagli atti di funzione suddetti potrebbero evincersi delle ripetute critiche mosse – dall’on. Sgarbi – ai magistrati milanesi per il ruolo «anomalo» dagli stessi rivestito, proprio «in ragione della notorietà e visibilità assunta», critiche alle quali, quindi, ben potrebbero essere «correlate le opinioni esterne in tema di attenzione offerta dai mezzi di stampa alle iniziative editoriali dei medesimi magistrati».
Né, d’altra parte, ad escludere l’applicazione dell’art. 68, primo comma, Cost. potrebbe addursi l’assenza «di puntuali corrispondenze testuali con le dichiarazioni esterne», giacché, ai fini della «legittima attivazione della garanzia della insindacabilità», sarebbe sufficiente – come nel caso di specie – l’esistenza, tra le dichiarazioni esterne e quelle interne, di «una sostanziale identità di contenuto polemico» (sono citate, a riguardo, le sentenze della Corte costituzionale n. 347 e n. 298 del 2004).
3.2.2.- Rileva, infine, la Camera dei deputati – ad ulteriore conferma dell’esistenza, nella specie, del nesso funzionale – che «la specifica vicenda di cui alle dichiarazioni incriminate era stata oggetto anche di molteplici atti ispettivi resi da altri parlamentari, alcuni dei quali di contenuto identico, finanche dal punto di vista testuale», alle dichiarazioni suddette.
Il riferimento è, in particolare, alle interrogazioni a risposta orale n. 3/00448 dell’11 novembre 1996, presentata dagli onorevoli Parenti e Bruno, n. 3/02549 del 24 giugno 1998, presentata dall’on. Saponara, n. 3/02558 del 24 giugno 1998, presentata dall’on. Maiolo, e n. 3/00814 del 17 ottobre 1996, presentata dall’on. Mantovano ed altri.
La Camera si dice consapevole del fatto che la Corte costituzionale «ha ritenuto di escludere che possano utilizzarsi, al fine di vagliare la sussistenza del nesso funzionale, gli atti che siano riconducibili ad altri parlamentari» (è citata la sentenza n. 347 del 2004), ciò nondimeno essa reputa che «laddove, come nel caso di specie, si riscontri una così puntuale coincidenza con le dichiarazioni esterne ciò dovrebbe comunque indurre a ritenere di per sé superato il test di parlamentarità di cui all’art. 68, comma primo, Cost., indipendentemente dalla provenienza soggettiva dell’atto parlamentare di riferimento».
4.- In prossimità dell’udienza pubblica di discussione la Camera dei deputati ha depositato un’ulteriore memoria, ribadendo le considerazioni e conclusioni già svolte.
Considerato in diritto
1.- Il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Brescia ha promosso, con ricorso depositato pressa la Cancelleria della Corte il 26 ottobre 2004, conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti della Camera dei deputati, per l’annullamento della deliberazione da quest’ultima adottata «nella seduta del 17 marzo 2004» (Doc. IV-ter, n. 4-A).
1.1.- Il ricorrente ha premesso di essere chiamato a giudicare della responsabilità penale dell’onorevole Vittorio Sgarbi, «imputato del delitto di diffamazione aggravata in danno del magistrato dott. Piercamillo Davigo», in ragione delle «frasi pronunciate» e delle «condotte tenute» nel corso della puntata del 26 giugno 1998 della trasmissione televisiva "Sgarbi quotidiani", diffusa dall’emittente "Canale 5".
Il parlamentare, difatti, «conduttore del programma televisivo suddetto», avrebbe esposto «durante la sigla iniziale della trasmissione un disegno raffigurante due maiali vestiti da magistrati con tocco, toga, un coltello e un grembiule sporco di sangue», rivolgendosi inoltre al disegnatore Martinez con le seguenti parole: «È tua la copertina? Ti volevi riferire ai magistrati di Venezia? Di qualunque altra città d’Italia? …. non c’è nessun collegamento tra la copertina di Martinez e la musica che fa siam tre piccoli porcellini e quello che dirò io … i porci miei sono porci miei, i porci tuoi sono porci tuoi …».
Il medesimo deputato, poi, avrebbe dichiarato, nel corso della stessa trasmissione, in relazione alla recensione di un libro pubblicato dal dott. Davigo, «io vi suggerisco, se avete intenzione di scrivere libri, di fare prima i magistrati: se voi volete avere una recensione sul Corriere in terza pagina, voi dovete non fare il libro e basta, ma fare il magistrato, magari del pool di Milano, perché se lo fai a Forlì o Ravenna o anche a Venezia, non ti danno neanche la quindicesima; allora dovete fare i magistrati a Milano per pubblicare un libro di cui spero godrete i diritti di autore e allora soltanto avrete una recensione in terza pagina». Il parlamentare, inoltre, «mostrando la terza pagina del quotidiano "Corriere della Sera", suggeriva agli ascoltatori: "come la chiamereste voi questa pagina? Io la chiamerei leccata di c. … (bip). Trattasi del c. … (bip) del dott. Davigo"», aggiungendo «frasi sarcastiche sulla circostanza che la recensione occupasse lo spazio di sette colonne».
Infine il parlamentare, conclude sul punto il ricorrente, durante un dialogo con l’ospite della trasmissione avv. Carlo Taormina, «accreditava la tesi che il dott. Davigo avesse "mandato" il maresciallo della Guardia di Finanza Scaletta Salvatore (…) ad interrogare il finanziere Francesco Pacini Battaglia al precipuo scopo di "fargli dire" che Taormina era legato a clan camorristici e dunque al fine di "incastrarlo" e provocare un’indagine per reati di mafia a carico di quest’ultimo».
1.2.- Ciò premesso, ritenendo illegittima la deliberazione adottata dalla Camera dei deputati nella seduta del 17 marzo 2004 (Doc. IV-ter, n. 4-A), con la quale i predetti comportamenti e le dichiarazioni del deputato sono stati ritenuti insindacabili, il ricorrente ne ha chiesto l’annullamento, giacché la stessa risulterebbe adottata in difetto dei presupposti per l’applicazione della garanzia di cui all’art 68, primo comma, della Carta Costituzionale, presentandosi, pertanto, lesiva della «sfera di attribuzione dell’ordine giudiziario».
2.- Il presente conflitto è stato dichiarato ammissibile da questa Corte con ordinanza n. 105 del 2005, ritualmente notificata – unitamente all’atto introduttivo del giudizio – alla Camera dei deputati e tempestivamente depositata.
3.- La Camera dei deputati si è costituita in giudizio, eccependo che «il ricorso è da ritenersi inammissibile e comunque improcedibile, in quanto non risultano riportate in modo congruo ed adeguato le frasi che dovrebbero costituire oggetto del conflitto», ciò che renderebbe carente la «prospettazione del thema decidendum».
In particolare, secondo la Camera dei deputati, «il ricorrente ha inteso sottoporre al giudizio della Corte tre gruppi di opinioni facenti parte di un unico contesto argomentativo», ed esattamente, «il primo riguardante la "copertina" della trasmissione (elaborata da tale sig. Martinez, coautore della trasmissione e imputato nel medesimo procedimento penale)»; il secondo concernente le dichiarazioni rese dal parlamentare e «rivolte a censurare il trattamento ingiustificatamente favorevole che, ad avviso del medesimo deputato, avrebbe ricevuto in sede giornalistica un saggio redatto dal dott. Davigo»; il terzo, infine, consistente nel rimprovero al magistrato «di aver tenuto una determinata condotta ai danni dell’avv. Taormina, ospite della trasmissione».
Orbene, secondo la difesa della resistente, poiché il ricorrente non ha provveduto – per ciascuno di tali gruppi di opinioni – ad una puntuale indicazione delle dichiarazioni extraparlamentari addebitate al predetto deputato, essendo state alcune di esse «sostituite dalla libera e soggettiva rielaborazione da parte del giudice ricorrente», l’atto introduttivo del presente giudizio non sarebbe idoneo «a prospettare correttamente i termini della controversia», con conseguente violazione dell’art. 26 delle norme integrative per i giudizi davanti la Corte costituzionale.
4.- Tale eccezione è fondata, nei limiti di seguito precisati.
4.1.- Secondo la costante giurisprudenza costituzionale, affinché questa Corte «possa accertare la sostanziale identità» tra le dichiarazioni rese extra moenia da un parlamentare e gli atti di funzione dallo stesso posti in essere, «il ricorrente ha l’onere di riportare nell’atto introduttivo del giudizio le espressioni ritenute offensive» (così, testualmente, la sentenza n. 52 del 2007; in senso conforme, tra le altre, le sentenze n. 236 del 2007, n. 383 e n. 336 del 2006), essendosi anche precisato – tra l’altro proprio con riferimento ad una fattispecie relativa a dichiarazioni extraparlamentari rese nel corso di una trasmissione televisiva – che non è consentita la sostituzione di quelle espressioni «con una libera rielaborazione ad opera dell’autorità giudiziaria ricorrente», in quanto, così operando, si realizza una «impropria sovrapposizione tra l’oggettiva rilevanza delle opinioni espresse dal deputato (…) e l’interpretazione soggettiva che ne è stata data, che interferisce con l’accertamento del nesso funzionale tra le frasi pronunciate (…) e gli eventuali atti parlamentari tipici di cui le frasi stesse potrebbero essere la divulgazione esterna» (così, testualmente, la sentenza n. 79 del 2005; in senso conforme, anche la sentenza n. 383 del 2006).
4.2.- Orbene, l’evenienza testé descritta ricorre per il primo e per il terzo gruppo di opinioni espresse dal deputato nel corso della trasmissione televisiva del 26 giugno 1998.
Ed invero, quanto al primo, dalla lettura del ricorso – in ragione anche della mancata riproduzione, al suo interno, del testo integrale del capo di imputazione elevato a carico del predetto deputato – non è dato esattamente comprendere se il parlamentare risponda del reato ex art. 595 del codice penale in qualità di responsabile della trasmissione (e quale concorrente con il vignettista), per aver «esposto» il disegno, oppure soltanto per le frasi con le quali lo ha commentato, ovvero per entrambe tali condotte.
Tale incertezza si traduce in un profilo di inammissibilità della censura, in ragione dell’impossibilità di distinguere le condotte integranti l’ipotesi di diffamazione addebitabili all’uno o all’altro dei due coimputati, e cioè il deputato ed il disegnatore, rendendo così impossibile, per il primo, la verifica – da parte di questa Corte – circa l’esistenza di un qualche nesso funzionale con sue attività parlamentari (si veda, in tal senso, la sentenza n. 87 del 2002).
Analogamente, deve ritenersi inammissibile la censura concernente il terzo episodio, quello relativo all’incarico che sarebbe stato dato al sottufficiale della Guardia di Finanza, dal momento che non viene riprodotta alcuna affermazione o dichiarazione direttamente riferibile al deputato, mentre il ricorrente si è limitato ad una soggettiva rielaborazione dell’episodio.
4.3.- Ciò premesso, deve tuttavia chiarirsi come i vizi sopra precisati non siano destinati a riverberarsi – come invece ipotizza la Camera dei deputati, in ragione della «sostanziale unitarietà del contesto argomentativo» che connoterebbe tutte le dichiarazioni per le quali è giudizio – «sugli altri punti relativi alla descrizione del fatto» che ha dato luogo al conflitto.
In tali condizioni, pertanto, la declaratoria di inammissibilità dell’intero ricorso si presenterebbe come soluzione eccessiva rispetto allo scopo cui mira la già ricordata previsione normativa, che impone al ricorrente nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato «l’esposizione sommaria delle ragioni di conflitto», scopo che resta, difatti, pur sempre quello di permettere alla Corte «l’accertamento del nesso funzionale tra le frasi pronunciate (…) e gli eventuali atti parlamentari tipici di cui le frasi stesse potrebbero essere la divulgazione esterna » (così la sentenza n. 79 del 2005).
Orbene, siffatto accertamento, nella specie, risulta possibile per la seconda delle tre condotte del parlamentare (la sola che risulti compiutamente e chiaramente descritta nel ricorso).
5.- Così ridefinito il thema decidendum del conflitto, il ricorso deve ritenersi fondato limitatamente a quanto sopra precisato.
Anche a voler prescindere dal rilievo che «i regolamenti parlamentari negano ingresso nei lavori delle Camere agli scritti o alle espressioni «sconvenienti», sicché è evidente, a fortiori, che «le stesse espressioni non possono essere ritenute esercizio della funzione parlamentare quando usate al di fuori delle Camere stesse» (v. sentenza n. 249 del 2006), resta il fatto che, nella specie, alcun nesso funzionale può essere ravvisato tra le dichiarazioni rese extra moenia dal deputato e gli atti parlamentari a lui direttamente riferibili.
Infatti, non si può sostenere – ponendo a confronto tali atti parlamentari, nei quali pure l’interessato ha censurato l’esposizione mediatica di taluni magistrati (e segnatamente quelli della Procura milanese), con le dichiarazioni che la Camera dei deputati definisce come «rivolte a censurare il trattamento ingiustificatamente favorevole che, ad avviso del medesimo deputato, avrebbe ricevuto in sede giornalistica un saggio redatto dal dott. Davigo» – che la sequela di espressioni indirizzate nei confronti del predetto magistrato costituisca «sostanziale riproduzione delle specifiche opinioni manifestate dal parlamentare nell’esercizio delle proprie attribuzioni» (così come esige, invece, la giurisprudenza di questa Corte; si vedano, da ultimo, le sentenze n. 166, n. 152, n. 151 e n. 97 del 2007).
6.- All’accoglimento parziale del ricorso segue, dunque, l’annullamento – negli stessi limiti dianzi precisati – della deliberazione adottata dalla Camera dei deputati nella seduta del 17 marzo 2004 (Doc. IV-ter, n. 4-A).
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara, in parziale accoglimento del ricorso, che non spettava alla Camera dei deputati – nei limiti di cui in motivazione – affermare che le dichiarazioni rese dal deputato Vittorio Sgarbi, oggetto del procedimento penale pendente davanti al Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Brescia, costituiscono opinioni espresse da un membro del Parlamento nell’esercizio delle sue funzioni, ai sensi dell’art. 68, primo comma, della Costituzione;
annulla, per l’effetto e negli stessi limiti, la delibera di insindacabilità adottata dalla Camera dei deputati nella seduta del 17 marzo 2004 (Doc. IV-ter, n. 4-A).

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.