Cass. civ. Sez. V, Sent., 21-03-2012, n. 4510

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con ricorso notificato ad A.L., l’AGENZIA delle DOGANE – premesso che il medesimo aveva opposto "dinnanzi il Tribunale di Milano" (che "dichiarava prescritto il credito erariale") l’"ingiunzione doganale ex art. 81 TULD emessa per tributi e diritti doganali evasi tramite fatti di contrabbando" e che la "pronuncia di secondo grado" (di "respingimento dell’appello" di essa Agenzia) era stata annullata da questa Corte di legittimità -, in forza di cinque motivi, chiedeva di cassare la sentenza n. 1591/07 della Corte di Appello di Milano (depositata il giorno 11 giugno 2007) che, pronunciando in sede di rinvio, aveva "dichiara(to) l’illegittimità dell’ingiunzione di pagamento … notificata in data 10 giugno 1994".

L’ A. instava per il rigetto dell’avverso gravame e, "qualora … la Corte . . . dovesse accogliere" lo stesso, spiegava ricorso incidentale fondato su tre motivi; lo stesso depositava memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

p. 1. Riunione dei ricorsi.

In via preliminare, ai sensi dell’art. 335 c.p.c., va disposta ex officio la riunione del ricorso incidentale del contribuente all’anteriore dell’Agenzia, avendo le due impugnazioni ad oggetto la medesima decisione. p. 2. La sentenza impugnata.

La Corte di Appello – ritenuta tempestiva la riassunzione (in seguito al rinvio disposto da questa Corte con la sentenza 23 maggio 2003 n. 8146) perchè "la prova certa della relativa data va desunta dal timbro apposto sull’atto da notificare, recante il numero del registro cronologico e la data, con la specifica delle spese, anche se non sottoscritta dall’ufficiale giudiziario, dovendosi presumere che il timbro sia conforme all’annotazione su detto registro (che fa fede fino a querela di falso) …", esposto che il termine quinquennale (che questa corte ha ritenuto applicabile alla specie con detta decisione) non è trascorso in quanto l’ordinanza di inammissibilità del ricorso penale dell’ A., (nella data di pronuncia della quale doveva individuarsi il dies a quo) è stata emessa dalla Cassazione penale il 23 novembre 1992 e l’ingiunzione doganale opposta è stata "notificata in data 10 giugno 1994", ha "dichiarato l’illegittimità" di detta "ingiunzione" perchè:

(1) con l’entrata in vigore del D.P.R. n. 43 del 1988 non è più possibile (Cass. 10542/98) emettere ingiunzione di pagamento in materia doganale;

(2) l’ingiunzione opposta, pur essendo stata emessa nel 1994 (quindi nella vigenza del D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11), è fondata su di un accertamento compiuto in base a norme non più in vigore.

Lo stesso giudice, di poi, ha ritenuto assorbite le altre questioni poste dal contribuente. p. 3. Il ricorso dell’Agenzia.

Questa censura la decisione con cinque motivi.

A. Con il primo la ricorrente – assunto essere "ormai ius receptum … che con l’entrata in vigore del D.P.R. n. 43 del 1988, art. 130, l’ingiunzione doganale ha perduto la funzione di precetto e di titolo esecutivo" ma "ha conservato … la funzione di atto di accertamento della pretesa erariale" – denunzia "violazione e falsa applicazione D.P.R. n. 43 del 1973, art. 82 e D.P.R. n. 43 del 1988, art. 130", concluse con il "quesito" secondo cui "l’ingiunzione doganale D.P.R. n. 43 del 1988, ex art. 82, pur dopo l’entrata in vigore del D.P.R. n. 43 del 1988, art. 130, è atto che può essere emesso e notificato, quale atto di accertamento della pretesa erariale, sicchè erra, violando e falsamente applicando l’art. 82 TULD e D.P.R. n. 43 del 1988, art. 130, il giudice che ritenga illegittima l’ingiunzione doganale in quanto emessa e notificata dopo l’entrata in vigore del D.P.R. n. 43 del 1988".

B. Con la successiva doglianza l’Agenzia – affermato "risulta (re) dalle stesse deduzioni della Corte" di appello che "la controparte non ha mai dedotto la mancata osservanza del D.Lgs. n. 347 del 1990, art. 11" – denunzia "violazione e falsa applicazione art. 112 c.p.c.", riassunte nel seguente "quesito":

"viola e falsamente applica l’art. 112 c.p.c., incorrendo in ultrapetizione, il giudice che dichiari illegittima un’ingiunzione doganale per non aver osservato l’Ufficio il D.Lgs. n. 347 del 1990, art. 11, ove chi ha proposto l’opposizione … non abbia mai addotto l’inosservanza … dell’art. 11 cit.".

C. Nella terza doglianza la ricorrente – esposto che "la stessa Corte" di appello ammette essere "l’ingiunzione … stata emessa dipendendo il mancato pagamento dei tributi e diritti doganali da reato (… contrabbando)" – denunzia "violazione e falsa applicazione D.P.R. n. 43 del 1988, art. 84 e D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11" sostenendo ("quesito") che:

"… in forza del combinato disposto del D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11 e D.P.R. n. 43 del 1973, art. 84, ove si tratti di recuperare dazi e diritti doganali evasi a causa di un reato, la dogana non è tenuta ad osservare la disposizione di cui all’art. 11 cit., sicchè erra, violando e falsamente applicando le precitate norme, il giudice che dichiari illegittima una ingiunzione fiscale emessa per il recupero di diritti e dazi doganali evasi con fatti di contrabbando, per non avere osservato la Dogana le disposizioni di cui al D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11".

D. Nel quarto motivo l’Agenzia denunzia "motivazione omessa" affermando che il giudice a quo, avendo ritenuto che "con l’ingiunzione opposta si era sottoposto a revisione un precedente accertamento divenuto definitivo", doveva indicare "quale fosse siffatto accertamento" mentre "il giudice a quo … non dice neanche da dove abbia tratto l’esistenza dello stesso".

E. Con la quinta (ultima) censura la ricorrente – esposto che "nell’atto di riassunzione" aveva chiesto anche di condannare l’ A. ""al pagamento di tutte le somme (indicate nell’ingiunzione) oltre interessi … "" – denunzia "violazione e falsa applicazione art. 132 c.p.c.", concluse con questo "quesito":

"vero che ove il giudice accolga l’opposizione avverso ingiunzione doganale per asserita illegittimità della stessa per vizi di forma e respinga, senz’altra indicazione (tanto meno quelle che ne indichino l’infondatezza nel merito) la domanda riconvenzionale della dogana diretta ad ottenere la condanna dell’opponente al pagamento dei diritti doganali portali dall’ingiunzione, la sentenza, in punto di respingimento della domanda riconvenzionale è, ai sensi dell’art. 132 c.p.c., nulla per radicale inesistenza della motivazione". p. 4. Il ricorso incidentale.

Il contribuente impugna la medesima decisione per tre motivi.

A. Con il primo l’ A. – esposto aver "eccepito l’estinzione del giudizio per tardiva riassunzione"; affermato che nella "specie … vi è una mera apposizione del timbro con la data senza alcuna sottoscrizione dell’Ufficiale giudiziario nè numero di cronologico";

ricordato l’"orientamento .. . ribadito da questa Corte … (sentenza 20 giugno 2007 n. 14294)" -, denunzia "violazione e falsa applicazione degli artt. 392, 393 c.p.c., D.P.R. 5 gennaio 1967, n. 200, artt. 30 e 75, D.P.R. art. 109 del 1959 (recte, 1229)… essendo il giudizio estinto per tardiva riassunzione", sostenendo ("quesito") che:

"… in caso di contestazione della conformità al vero della data apposta sul ricorso notificato senza sottoscrizione dell’Ufficiale giudiziario, l’interessato a far valere la tempestività della notifica è tenuto ad esibire idonea certificazione di cui al D.P.R. (recte, 1229) del 1959, art. 109 " per cui "erra, violando e falsamente applicando gli artt. 392, 393 c.p.c., D.P.R. 5 gennaio 1967, n. 200, artt. 30 e 75 e art. 109 D.P.R. (recte, 1229)/1959, il giudice del merito che in presenza di contestazioni abbia ritenuto tale tempestività senza la prescritta certificazione sulla sola scorta di una data a timbro e della specifica delle spese non sottoscritta dall’Ufficiale Giudiziario".

B. Nelle altre due doglianze il contribuente – richiamate (pagg. 6 e ss. del controricorso) le "censure" svolte "in ordine alla nullità, comunque invalidità, dell’ingiunzione opposta" – denunzia "violazione degli artt. 99, 112, 132 c.p.c. … per aver omesso la corte territoriale l’esame dei motivi";

(a) di "nullità dell’ingiunzione opposta per vizio e difetto di motivazione", avendo ritenuto tali "questioni … assorbite dalle declaratorie di illegittimità dell’ingiunzione per effetto del D.P.R. n. 43 del 1938, art. 130, comma 2, (recte: 43/1973)", e:

(b) di "invalidità delle ingiunzioni per illegittimità e infondatezza della pretesa doganale". p. 5. Le ragioni della decisione. p. 5.1. Del ricorso principale.

Il ricorso dell’Agenzia (le cui censure vanno esaminate congiuntamente per la loro intima connessione) deve essere accolto.

A. In ordine alla questione posta dell’amministrazione ricorrente con il primo "quesito" ("l’ingiunzione doganale D.P.R. n. 43 del 1988, pur dopo l’entrata in vigore del D.P.R. n. 43 del 1988, art. 130, è atto che può essere emesso e notificato, quale atto di accertamento della pretesa erariale"), invero, questa Corte ha da tempo (anche precedente alla decisione impugnata) superato l’esegesi (condivisa dal giudice territoriale) secondo la quale (Cass., 1^, 23 ottobre 1998 n. 10542) "è illegittima l’ingiunzione di pagamento – emanata ai sensi del D.P.R. n. 43 del 1973, art. 82 e notificata successivamente all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 374 del 1990 – dei diritti doganali non riscossi per indebito riconoscimento di trattamento preferenziale daziario per merci importate da paesi extracomunitari, attesa l’abrogazione, a norma del D.P.R. n. 43 del 1988, art. 130, di tutte le disposizioni che regolano, mediante rinvio al R.D. n. 639 del 1910, la riscossione coattiva dei diritti doganali, e la mancata applicazione della procedura di cui al D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, riferibile a tutte le ipotesi di revisione dell’accertamento divenuto definitivo".

Già nelle sentenze 9 maggio 2000 n. 5906 e 2 settembre 2002 n. 12761 di questa sezione, infatti, si è ribadito (rispettivamente):

(1) che "la discussa ingiunzione, in quanto atto di accertamento, deve essere ritenuta ritualmente emessa in base a norma specificamente contemplante la relativa emissione" e, soprattutto;

(2) che "il tenore letterale e logico della richiamata disposizione e l’inserimento della disposizione stessa in un contesto normativo che ha avuto la finalità di innovare l’esecuzione in materia di entrate pubbliche, sostituendo al sistema previgente – fondato sul R.D. n. 639 del 1910 – quello della riscossione a mezzo di ruoli esattoriali, rendono del tutto condivisibile l’orientamento di questa Corte (Cass. … 5350-1999; 13140-1995; 7141-1995) secondo il quale l’ingiunzione, in quanto atto di accertamento, è sopravvissuta all’entrata in vigore del D.P.R. n. 43 del 1988 cit., posto che l’art. 130, comma secondo del menzionato D.P.R. ha sancito l’abrogazione delle sole previgenti disposizioni in materia di riscossione, non anche di quelle in materia di accertamento" ("sicchè", si è osservato nella seconda, "non si vede come possa negarsi all’atto impositivo, che ne contenga gli estremi, l’efficacia di atto di accertamento della pretesa erariale e la idoneità ad introdurre un giudizio sulla debenza dell’imposta").

La successiva sentenza 6 settembre 2006 n. 19194, poi, ha offerto ulteriori convincenti "argomentazioni" a sostegno della tesi per cui costituisce effettivamente "giurisprudenza consolidata" (come definita da Cass., trib., 18 giugno 2010 n. 14812, che ricorda anche "Cass. n. 20361/-2006") quella – da confermare per carenza di qualsivo-glia convincente argomentazione contraria (peraltro nemmeno adombrata dal contribuente) – "secondo la quale l’ingiunzione fiscale – e segnatamente l’ingiunzione doganale -, anche dopo l’entrata in vigore (1.1.1990) del D.P.R. n. 43 del 1988 e l’abrogazione, ad opera dell’art. 130, stesso D.P.R., delle disposizioni regolanti, mediante rinvio al R.D. n. 639 del 1910, la riscossione coattiva dei tributi, ha conservato una precipua funzione accertativa, integrando un atto complesso rivolto a portare la pretesa fiscale a conoscenza del debitore ed a formare il titolo, autonomamente impugnabile, per la successiva ed eventuale esecuzione forzala" .

Del pari va riconfermato il corollario (tratto dalla medesima Cass. trib., n. 12761 del 2002 e condiviso anche da Cass., trita., 18 settembre 2003 n. 13815 nonchè da tutte le successive decisioni sulla questione) per il quale "lo stesso atto di accertamento notificato alla controparte e da questa impugnalo integra gli estremi della domanda sulla quale il giudice è tenuto a pronunciarsi, anche nel merito, ove non sussistano ragioni a tal fine preclusive" cfr., altresì, la cit. Cass., n. 19194 del 2006 per la qual e (1) "nell’ambito del giudizio di opposizione all’ingiunzione l’Amministrazione, che assume sul piano dell’onere della prova la posizione di attore in senso sostanziale (non diversamente da quanto avviene nel procedimento monitorio ex art. 633 c.p.c.) ove ne chieda conferma in giudizio (vuoi espressamente in via riconvenzionale vuoi implicitamente instando per il rigetto dell’opposizione) esercita una domanda che è appunto quella di veder riconosciuto in tutto od in parte il diritto di recupero così azionato (Cass. 10132/05 e 16067/05)" e (2) "la cognizione del giudice non può … limitarsi alla verifica dei presupposti formali di validità dell’atto impositivo ma deve estendersi al merito della pretesa erariale in esso espressa sulla cui fondatezza è tenuto comunque a statuire, anche a prescindere da una specifica richiesta in tal senso e sulla base degli elementi di prova addotti dall’ente creditore e contrastati dal soggetto ingiunto").

B. Pure l’ulteriore affermazione del giudice di appello secondo cui, essendo stata "l’ingiunzione di pagamento … notificata nel 1994" (quindi nel "vigore" del "D.Lgs. … 1990 n. 374", "il cui art. 11 ha disciplinato ex novo la revisione dell’accertamento da parte degli uffici doganali", "l’accertamento compiuto secondo la precedente normativa va considerato illegittimo" si rivela giuridicamente erronea perchè non considera che (come scrive esso stesso) nella specie il "mancato pagamento dei diritti" pretesi dall’Agenzia ha "causa da un reato", precisamente da "fatti di contrabbando".

Secondo la "giurisprudenza di questa Corte … in tema di azione di recupero dei diritti doganali", infatti (Cass., trib., 20 settembre 2006 n. 20361, che richiama "ex multis Cass. 4527/83 – 236/84 – 1380/92 – 4892/94 – 11406/96", da cui gli excerpta che seguono, nonchè Cass., trib., 31 marzo 2010 n. 7836, per la quale "la fase di revisione non va attivata allorchè vi è in corso un procedimento penale, il quale rappresenta, in relazione al rispetto del principio del contraddittorio, una garanzia ben maggiore del procedimento amministrativo di cui alla L. n. 374 del 1990, art. 11 (cfr. Cass. 11827/97 …"), "al procedimento di revisione occorre far ricorso solo nell’ipotesi in cui la nuova liquidazione dei diritti di dogana sia stata determinata da una differente qualificazione delle merci importate in relazione alla loro intrinseca natura e non invece nei casi in cui – impregiudicata l’identificazione soggettiva ed aggettiva degli elementi fiscalmente rilevanti – la nuova liquidazione origini da una diversa classificazione tariffaria o da una errata individuazione del regime daziario applicabile" : quel "procedimento", proprio perchè suppone necessariamente "errori od omissioni sulla qualificazione e quantificazione delle merci importate", logicamente "non può essere utilizzato allorchè la determinazione dei diritti evasi consegua a fatti di contrabbando" (nei quali "fatti" mancano, ovviamente, "merci" che possano considerarsi "importate") "contestati dalla polizia tributaria e soggetti al vaglio del giudice penale, dove non si tratta di rimediare, con una verifica in contraddittorio ex D.P.R. n. 43 del 1973, art. 74 (poi trasfuso D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11) alla inesatta individuazione delle merci importate, ma di quantificare l’entità del dovuto, come conseguenza di un giudizio sulla sussistenza dell’illecito (Cass. 11827/97)". p. 5.2. Del ricorso incidentale.

Il primo motivo del ricorso incidentale va respinto; le ulteriori doglianze incidentali (concernenti questioni non esaminate dal giudice del merito) restano assorbite dall’accoglimento del ricorso principale.

A. La censura nella quale l’ A. afferma che "nella … fattispecie … vi era una mera apposizione del timbro con la data senza alcuna sottoscrizione dell’ufficiale giudiziario nè numero cronologico … effettivamente tale" ("essendo irrilevante la distinta spese, apposta su altro foglio e comunque successiva") e che "l’amministrazione doganale, a fronte della contestazione di esso convenuto …, non ha proceduto ad esibire alcuna certificazione, pur essendone onerata" è inammissibile perchè:

(1) si conclude con la formulazione (necessaria) di un "quesito di diritto" ex art. 366 bis c.p.c., che non risulta in nulla congruente con la ratio decidendi che sorregge il punto della decisione impugnata investito dalla doglianza, e, comunque;

(2) si basa sull’assunta proposizione di una indeterminata (perchè non altrimenti precisata) "contestazione", della quale, però, non vi è traccia nella sentenza gravata e di cui lo stesso A., in violazione dell’art. 366 c.p.c., non riporta i termini testuali, almeno quanto all’oggetto.

La corte di appello, invero, ha affermato di desumere "la prova certa della … data" di consegna del ricorso in riassunzione all’ufficiale giudiziario "dal timbro apposto sull’atto da notificare, recante il numero cronologico e la data, con la specifica delle spese, anche se non sottoscritta" (al femminile, con univoco riferimento della mancanza di sottoscrizione alla "specifica delle spese") "dall’ufficiale giudiziario", "dovendosi presumere che il timbro sia conforme all’annotazione su detto registro (che fa fede fino a querela di falso) e che la data attestata dall’ufficiale giudiziario, se diversa, si riferisca all’avvio delle formalità del procedimento notificatorio": il giudice a quo, quindi, ha posto a fondamento della sua decisione la presunzione di conformità del "timbro" ("recante il numero cronologico e la data") con le "annotazioni" del registro "cronologico" e tale ragionamento, avente intuitivamente una sua autonoma logica giuridica, non risulta affatto investito dal motivo di impugnazione che, come si evince univocamente dalla sola lettura del "quesito", denunzia "violazione e falsa applicazione" (sostanzialmente) del solo D.P.R. n. 1229 del 1959, art. 209, (recte)" (essendo il preteso vizio "degli artt. 392, 393 c.p.c., D.P.R. 5 gennaio 1967, n. 200, artt. 30 e 15" meramente conseguente a quello), sostenendo ("quesito") che "erra, violando e falsamente applicando gli artt. 392, 393 c.p.c., D.P.R. 5 gennaio 1967, n. 200, artt. 30 e 75 e D.P.R. art. 109 del 1959 (recte, 1229) il giudice del merito che in presenza di contestazioni abbia ritenuto tale tempestività senza la prescritta certificazione sulla sola scorta di una data a timbro e della specifica delle spese non sottoscritta dall’Ufficiale Giudiziario", con ciò supponendo, in modo sbagliato, che, al fine del riscontro del rispetto di termini perentori fissati per la notifica di un determinato atto processuale, il giudice non possa (come operato nel caso) trarre anche aliunde la prova della data di consegna all’ufficiale dell’atto da notificare ma debba sempre pretendere la esibizione della "certificazione" detta.

Nella sentenza 20 giugno 2007 n. 14294 invocata dall’ A. cui principi sono stati ribaditi da Cass.: 1^, 20 marzo 2008 n. 7470 e lav., 1 settembre 2008 n. 22003), invero, è stato univocamente:

(a) statuito che "ove non venga esibita la ricevuta di cui al D.P.R. 15 dicembre 1959, n. 1229, art. 109, la prova della tempestiva consegna all’ufficiale giudiziario dell’atto da notificare può essere ricavata dal timbro apposto su tale atto recante il numero cronologico e la data" e:

(b) "naturalmente" ("non potendo attribuirsi a tale timbro valore di prova legale in ordine alla data di consegna dell’atto da notificare all’ufficiale giudiziario"), precisato che "la idoneità probatoria in questione viene meno in caso di contestazione (per qualsiasi motivo) della conformità al vero di quanto da esso indirettamente risulta", puntualizzandosi, altresì, che "l’interessato dovrà farsi carico di esibire idonea certificazione dell’ufficiale giudiziario" solo "in tal caso", ovverosia unicamente "in caso di contestazione (per qualsiasi motivo) della conformità al vero" di quanto, sia pure "indirettamente", risulta dal "timbro" detto.

Nel caso, sulla questione (1) l’ A. si è limitato a scrivere (pag. 5 del controricorso) ""… si costituiva con comparsa … chiedendo … dichiarare estinto il giudizio ex art. 393 c.p.c. in quanto tardivamente … riassunto essendo stato il ricorso notificato dopo la scadenza del termine" " e (2) il giudice a quo che lo stesso aveva eccepito "eccependo") , "preliminarmente", "l’estinzione del giudizio ex art. 393 c.p.c.": dagli atti il cui esame è consentito a questo giudice di legittimità, quindi, non risulta mai sollevata alcuna "contestazione" in ordine alla "conformità al vero" dei dati risultanti dal "timbro" ("recante il numero cronologico e la data") apposto dall’ufficiale giudiziario sul ricorso in riassunzione notificato. p. 6. La prosecuzione del giudizio.

La sentenza impugnata, siccome affetta dai vizi innanzi riscontrati, deve essere cassata e la causa, in quanto bisognevole dei conferenti accertamenti fattuali, va rinviata a sezione diversa della stessa Corte di Appello di Milano affinchè esamini l’appello dell’Agenzia facendo corretta applicazione dei principi enunciati al precedente par. 5.1. e regoli, altresì, tra le parti anche le spese di quest’ulteriore giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi; accoglie il ricorso principale; rigetta il primo motivo del ricorso incidentale e dichiara assorbiti gli altri; cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese del giudizio di legittimità, ad altra sezione della Corte di Appello di Milano.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 2 febbraio 2012.

Depositato in Cancelleria il 21 marzo 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Lombardia Milano Sez. II, Sent., 30-11-2011, n. 3002

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Il ricorrente ha impugnato il rigetto della domanda di emersione dal lavoro irregolare, disposta a seguito degli accertamenti effettuati, da cui è emersa una condanna, a carico del ricorrente, per il reato di cui all’ art. 14, comma 5ter, del D. Lgs. n. 286 del 1998.

Viene sostenuto nel ricorso che il reato per il quale la domanda è stata respinta, non dovrebbe essere considerato ostativo ad una conclusione favorevole della procedura di emersione, visto che non sarebbe riconducibile né alla previsione dell’art. 380 c.p.p. – che riguarda i reati con una pena edittale superiore a quella prevista per il reato commesso dal ricorrente sopra richiamato, pur prevedendo l’arresto obbligatorio in flagranza – né alla previsione di cui all’art. 381 c.p.p. – che riguarda i reati con una pena edittale assimilabile a quella del reato di immigrazione clandestina, con la differenza rispetto a quest’ultimo della previsione dell’arresto facoltativo in flagranza.

Si è costituito in giudizio il Ministero dell’Interno, che ha chiesto il rigetto del ricorso.

Con ordinanza n. 686/2011 la domanda cautelare veniva accolta.

Il ricorso è fondato e merita accoglimento.

Come già affermato da questo Tribunale (ex multis sentenza n. 771/2011 sez. IV), anche la condanna per il delitto di cui all’art 14 comma 5 ter DPR 286/1998 non è ostativo alla emersione dei lavoratori stranieri di cui all’art 1 ter della L. 102/09, visto che il suddetto reato appare incompatibile con la disciplina comunitaria delle procedure di rimpatrio (di cui alla Direttiva 2008/115/CE). Per tali ragioni è illegittimo il provvedimento con cui si nega l’emersione in caso di condanna per il reato di cui all’art 14 comma 5 ter DPR 286/1998 (in tal senso si è espressa anche l’Adunanza Plenaria con due sentenze nn. 7 e 8 del 10.5.2011).

In tal senso decisiva appare anche la decisione della Corte di giustizia dell’Unione Europea del 28..4.2011, che dopo aver richiamato il principio di proporzionalità ed efficacia nell’uso delle misure coercitive, ha affermato che "gli Stati membri non possono introdurre, al fine di ovviare all’insuccesso delle misure coercitive adottate per procedere all’allontanamento coattivo conformemente all’art. 8, n. 4, di detta direttiva, una pena detentiva, come quella prevista all’art. 14, comma 5 ter, del decreto legislativo n. 286/1998, solo perché un cittadino di un paese terzo, dopo che gli è stato notificato un ordine di lasciare il territorio di uno Stato membro e che il termine impartito con tale ordine è scaduto, permane in maniera irregolare nel territorio nazionale. Essi devono, invece, continuare ad adoperarsi per dare esecuzione alla decisione di rimpatrio, che continua a produrre i suoi effetti".

Per tali ragioni è illegittimo il provvedimento con cui si nega l’emersione in caso di condanna per il reato di cui all’art 14 comma 5 ter DPR 286/1998.

In conclusione il ricorso deve essere accolto, e, per l’effetto, deve essere annullato l’atto impugnato.

In considerazione della complessità della questione, sulla quale è intervenuta anche l’Adunanza Plenaria, le spese di giudizio possono essere compensate tra le parti, fermo restando il diritto in capo agli esponenti al rimborso del contributo unificato, secondo le norme di legge (DPR 115/2002, art. 13).

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Seconda) definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l’effetto annulla il provvedimento impugnato.

Spese compensate, salvo il rimborso del contributo unificato ai sensi dell’art. 13 del DPR 115/2002.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Lazio Roma Sez. II quater, Sent., 21-12-2011, n. 9995

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con il ricorso in epigrafe, il ricorrente chiede a questo Tribunale l’accertamento dell’obbligo dell’amministrazione dell’interno di concludere il procedimento avviato con la richiesta ai sensi dell’art. 9 lett. F) della l. 91/1992, di ottenimento della cittadinanza italiana, con provvedimento espresso.

A tal fine rileva che il termine di cui all’art. 3 DPR n. 362/1994 è ampiamente trascorso.

L’amministrazione si è costituta con mero atto di stile.

Con nota del 22.11.2011, l’amministrazione dell’interno ha reso noto di aver trasmesso all’U.T.G. il decreto di conferimento della cittadinanza italiana emanato in data 20.9.2011, per l notifica all’interessato, chiedendo la declaratoria di cessazione della materia del contendere.

All’odierna udienza, la causa è stata trattenuta in decisione.

Deve essere dichiarata la cessazione della materia del contendere in quanto l’amministrazione si è pronunciata, concludendo il procedimento con un provvedimento espresso di contenuto favorevole al ricorrente, così soddisfacendo pienamente la sua pretesa.

Le spese possono essere compensate, sussistendo giusti motivi.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda Quater)

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, dichiara la cessazione della materia del contendere.

Compensa le spese.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. VI – 3, Sent., 28-06-2012, n. 10989 Somministrazione di energia elettrica

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. – Con sentenza depositata in data 24.5.2010 il Tribunale di Torre Annunziata – sezione distaccata di Castellammare di Stabia – rigettò l’appello proposto da Enel Distribuzione S.p.A. avverso la sentenza del Giudice di Pace che l’aveva condannata a risarcire ad F. A. il danno da inadempimento del contratto di somministrazione di energia elettrica.

2. – L’inadempienza venne ravvisata nel mancato rispetto del provvedimento dell’Autorità Garante per l’Energia Elettrica e il Gas che aveva previsto l’obbligo per il fornitore di predisporre una modalità gratuita di pagamento dell’energia, in tal senso integrando – ex art. 1339 c.c. – il contratto di somministrazione.

3 – Avverso la suddetta sentenza Enel Servizio Elettrico s.p.a., nella qualità di procuratore speciale di Enel Distribuzione S.p.A. nonchè Enel Servizio Elettrico s.p.a., quale beneficiaria di ramo di azienda di Enel Distribuzione spa, hanno proposto ricorso per cassazione affidato a sette motivi.

L’utente intimato non ha espletato attività difensiva.

Motivi della decisione

1. – Il primo motivo di ricorso denuncia "violazione e falsa applicazione della L. 14 novembre 1995, n. 481, art. 2", assumendosi che la Delib. n. 200 del 1999 e particolarmente l’art. 6, comma 4, di essa non aveva avuto l’effetto di integrare il contratto di utenza, perchè la L. n. 481 del 1995 e in specie l’art. 2, comma 12, lett. h) di essa attribuirebbe questo effetto solo alle delibere in tema di produzione ed erogazione di servizi, mentre il citato comma 4, dell’art. 6 avrebbe riguardato materia estranea a tali concetti.

Il terzo motivo denuncia la "violazione e falsa applicazione della L. n. 481 del 1995, art. 2, comma 12 lettera h) in relazione all’art. 1196 c.c. – insufficiente e contraddittoria motivazione".

Il quarto motivo denuncia "violazione e falsa applicazione dell’art. 1339 c.c.", sotto il profilo che erroneamente il Tribunale avrebbe attribuito, comunque, efficacia integrativa del contratto all’art. 6, comma 4, citato, invocando l’art. 1339 c.c.: tale norma non poteva, invece, trovare applicazione, perchè rende possibile l’inserzione automatica di clausole nel contratto solo in sostituzione di quelle difformi previste e non invece, l’inserimento in assenza di una specifica pattuizione contrattuale. D’altro canto, l’inserimento non era stato possibile anche perchè l’inosservanza della delibera da parte dell’Enel era espressamente sanzionabile dall’Autorità ai sensi della citata L. n. 481 del 1995, art. 2, comma 20, lett. c).

Il quinto motivo lamenta "insufficiente motivazione su fatti decisivi e controversi".

Il Sesto motivo denuncia "contraddittoria motivazione in ordine a fatti decisivi e controversi".

2.- I primi cinque motivi, afferendo alla questione della idoneità dell’art. 6, comma 4, della nota deliberazione a svolgere efficacia integrativa del contratto, possono essere considerati unitariamente, con l’avvertenza che le considerazioni che si verranno svolgendo ed approderanno alla conclusione della sua inidoneità si giustificano sia a livello interno alla L. n. 481 del 1995, sia considerandola in riferimento al meccanismo civilistico di cui all’art. 1339 c.c., espressamente evocato dall’Enel, sia considerandola in riferimento alla norma sull’integrazione del contratto ai sensi dell’art. 1374 c.c., evocata fugacemente dalla decisione impugnata, ma non nei motivi della ricorrente.

3.- Il Collegio ritiene che l’art. 6, comma 4, della deliberazione non abbia determinato in alcun modo nè l’inserimento della relativa previsione nel contratto di utenza, nè l’integrazione di esso.

Queste le ragioni.

3.1 – Deve innanzitutto ritenersi che non è condivisibile la prospettazione dell’Enel secondo cui l’art. 2, comma 12, lett. h) sarebbe da interpretare nel senso che le deliberazioni adottate dall’A.E.G.G. ai sensi di essa (fra le quali rientra quella di cui all’art. 6, comma 4) possano svolgere efficacia integrativa dei contratti di utenza individuali, attraverso la mediazione dell’integrazione del regolamento di servizio predisposto dal concessionario, soltanto per quanto attiene alla produzione ed alla erogazione del servizio, intese come relative all’esecuzione della prestazione del concessionario del servizio e non invece quanto alle modalità di esecuzione della prestazione dell’utente, come nella specie la modalità dell’adempimento.

Questa lettura della norma non appare conforme alla sua corretta esegesi sia sul piano letterale sia su quello teleologico.

3.2 – Le ragioni sono le seguenti. Va premesso che la L. n. 481 del 1995, art. 1, comma 1, (recante: "Norme per la concorrenza e la regolazione dei servizi di pubblica utilità. Istituzione delle Autorità di regolazione dei servizi di pubblica utilità"), prevede, sotto la rubrica "Finalità" che "Le disposizioni della presente legge hanno la finalità di garantire la promozione della concorrenza e dell’efficienza nel settore dei servizi di pubblica utilità, di seguito denominati "servizi" nonchè adeguati livelli di qualità nei servizi medesimi in condizioni di economicità e di redditività, assicurandone la fruibilità e la diffusione in modo omogeneo sull’intero territorio nazionale, definendo un sistema tariffario certo, trasparente e basato su criteri predefiniti, promuovendo la tutela degli interessi di utenti e consumatori, tenuto conto della normativa comunitaria in materia e degli indirizzi di politica generale formulati dal Governo. Il sistema tariffario deve altresì armonizzare gli obiettivi economico-finanziari dei soggetti esercenti il servizio con gli obiettivi generali di carattere sociale, di tutela ambientale e di uso efficiente delle risorse".

Il lettore della norma percepisce fra le finalità della legge v’è anche quella di promuovere "la tutela degli interessi di utenti e consumatori".

Il successivo art. 2, comma 12, dopo avere previsto che "Ciascuna Autorità nel perseguire le finalità di cui all’art. 1 svolge le seguenti funzioni", che poi provvede ad elencare in una serie di lettere, nella lett. h) dispone che l’A.E.G.G. "emana le direttive concernenti la produzione e l’erogazione dei servizi da parte dei soggetti esercenti i servizi medesimi, definendo in particolare i livelli generali di qualità riferiti al complesso delle prestazioni e i livelli specifici di qualità riferiti alla singola prestazione da garantire all’utente, sentiti i soggetti esercenti il servizio e i rappresentanti degli utenti e dei consumatori, eventualmente differenziandoli per settore e tipo di prestazione; tali determinazioni producono gli effetti di cui al comma 37".

Ora, la struttura di questa norma consente di affermare che dall’esercizio da parte dell’A.EG.G. del potere da essa previsto possa senz’altro derivare una integrazione del contratto di utenza ai sensi dell’art. 1339 c.c. (possibile anche senza una sostituzione di clausola prevista, sostituzione che può, comunque, essere anche solo parziale e, quindi, modificativa).

Il punto da chiarire concerne, per un verso la definizione dell’ambito oggettivo di tale possibile integrazione e, per altro verso l’individuazione delle condizioni in presenza delle quali l’esercizio del potere può avere l’effetto integrativo.

Che in astratto l’integrazione possa avvenire si desume dal fatto che il potere di cui alla norma in esame è potere esercitabile attraverso atti di natura certamente amministrativa, qualificabili, allorquando abbiano carattere normativo, cioè idoneità a prescrivere comportamenti ai soggetti esercenti, come regolamenti propri del settore cui appartiene il singolo servizio e cui soprintende la specifica autorità, oppure, se si da rilievo alla limitatezza della platea di detti soggetti ed al loro carattere predefinito in un dato momento, e da tanto si inferisca la mancanza del carattere dell’astratta indeterminatezza dei soggetti destinatari, come atti amministrativi precettivi collettivi, cioè diretti verso soggetti determinati. Poichè tali atti sono emanati sulla base di una previsione di legge, allorchè il loro profilo funzionale ed il loro contenuto possa essere considerato come determinativo di una clausola rispetto al contratto di utenza, l’applicabilità dell’art. 1339 c.c. appare in linea generale giustificata, perchè, quando detta norma allude alle "clausole" imposte dalla legge non si riferisce soltanto al caso nel quale la legge individui essa stessa direttamente la clausola da inserirsi nel contratto (come sarebbe stato se il Codice avesse richiesto che la clausola sia prevista "direttamente" o "espressamente" dalla legge), ma allude anche all’ipotesi in cui la legge preveda che l’individuazione della clausola sia fatta da una fonte normativa da essa autorizzata.

Il che accade nella specie, poichè la previsione di legge dell’art. 2, comma 12, lett. h), nell’attribuire all’autorità e fra queste all’A.E.G.G., il potere di direttiva – se si ritiene che tale potere possa concretarsi nell’individuare clausole dei contratti di utenza – avrebbe appunto l’indicata funzione autorizzatoria, nel senso che la direttiva determinerebbe l’integrazione del contratto in quanto abilitatavi da una previsione di legge.

E’ vero che nella norma non v’è alcun riferimento ai contratti di utenza. Tuttavia, la mancanza di tale riferimento non è affatto decisiva, perchè l’ultimo inciso della norma, prevedendo che le determinazioni dell’autorità producano gli effetti del successivo comma 37, consente che l’integrazione dei contratti di utenza possa avvenire mediatamente.

Il comma 37, dell’art. 2, infatti, stabilisce che "Il soggetto esercente il servizio predispone un regolamento di servizio nel rispetto dei principi di cui alla presente legge e di quanto stabilito negli atti di cui al comma 36. Le determinazioni delle Autorità di cui al comma 12, lett. h), costituiscono modifica o integrazione del regolamento di servizio": è allora chiaro che una integrazione del regolamento di servizio, qualora si concreti nella previsione che il contratto di utenza debba contenere una certa clausola, rappresentando il regolamento di servizio sostanzialmente le condizioni generali di contratto alle quali debbono adeguarsi i contratti di utenza, si risolve in via mediata in una integrazione autoritativa dello stesso contratto.

3.3 – Ciò chiarito, riprendendo l’interrogativo su indicato a proposito della necessità di definire il possibile ambito oggettivo della integrabilità dei contratti di utenza per il tramite del potere di cui all’art. 2, comma 12, lett. h), si deve rilevare che l’oggetto di tale potere, là dove (oltre che alla produzione) si riferisce alla "erogazione dei servizi", ove venga messo in relazione con la proclamazione della L. n. 481 del 1995, art. 1, comma 1, in ordine alla tutela degli interessi di utenti e consumatori, si presta ad essere riferito all’intero ambito del rapporto di utenza individuale, perchè l’erogazione del servizio, essendo diretta verso gli utenti ed avvenendo sulla base dei rapporti individuali di utenza, è formulazione talmente generale da apparire di per sè idonea a comprendere anche il profilo del contenuto di detti rapporti. L’interesse degli utenti e dei consumatori, infatti, non può non essere tutelato anche con riferimento a quell’aspetto delle modalità di erogazione del servizio che si estrinseca nei rapporti individuali. Nè in senso contrario assume un qualche valore l’espressione con la quale la lett. h) specifica "in particolare" che le direttive debbono definire "i livelli generali di qualità riferibili al complesso delle prestazioni e i livelli specifici di qualità riferibili alla singola prestazione da garantire all’utente". In tal modo si assegna un contenuto minimo necessario alle direttive, ma non si sminuisce il valore onnicomprensivo del riferimento all’erogazione del servizio per come giustificato dall’art. 1, comma 1.

Inoltre, contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale non appare fondata neppure una giustificazione delle lettura restrittiva della lett. h) nel senso – come scrive il Tribunale stesso – ch’esso riguarderebbe comunque solo la prestazione del concedente, mentre gli obblighi dell’utente sarebbero considerati dalle lett. l) ed n) dello stesso art. 2, comma 12. In disparte il rilievo che non è chiaro perchè prescrizioni contenutistiche circa i contratti di utenza, dirette a disciplinare gli obblighi del concedente, non afferiscono almeno indirettamente comunque, cioè anche quando siano dirette a regolare i comportamenti da tenersi da parte dell’utente, alla prestazione del concessionario, posto che ad essa essi si correlano nel sinallagma contrattuale, si osserva che il contenuto delle lett. l) ed n) semmai conferma la lettura estensiva della lett. h).

La lett. l) dispone che l’autorità "pubblicizza e diffonde la conoscenza delle condizioni di svolgimento dei servizi al fine di garantire la massima trasparenza, la concorrenzialità dell’offerta e la possibilità di migliori scelte da parte degli utenti intermedi o finali". E la lett. n) che l’autorità "verifica la congruità delle misure adottate dai soggetti esercenti il servizio al fine di assicurare la parità di trattamento tra gli utenti, garantire la continuità della prestazione dei servizi, verificare periodicamente la qualità e l’efficacia delle prestazioni all’uopo acquisendo anche la valutazione degli utenti, garantire ogni informazione circa le modalità di prestazione dei servizi e i relativi livelli qualitativi, consentire a utenti e consumatori il più agevole accesso agli uffici aperti al pubblico, ridurre il numero degli adempimenti richiesti agli utenti semplificando le procedure per l’erogazione del servizio, assicurare la sollecita risposta a reclami, istanze e segnalazioni nel rispetto dei livelli qualitativi e tariffari".

Invero, la previsione della lett. l) attiene a compiti di diffusione di informazione presso gli utenti e la lett. n) disciplina i poteri di verifica dell’Autorità, ma l’una e l’altra attività nulla hanno a che fare con la possibile determinazione, attraverso le direttive cui allude la lett. h), del contenuto del contratto di utenza attraverso la mediazione dell’intervento sul regolamento di servizio.

3.4 – Deve, dunque, affermarsi che l’A.E.G.G. attraverso le direttive previste dalla lett. h), dell’art. 2, comma 12, bene può dettare precetti che, in quanto integrano il contenuto del regolamento di servizio cui allude il comma 37 della norma dello stesso art. 12 possono produrre l’integrazione dei contratti di utenza pendenti attraverso la previsione dell’art. 1339 c.c..

A fini di nomofilachia, prima di definire le condizioni in presenza delle quali ciò può avvenire e, quindi, di chiarire se sia avvenuto in concreto con riguardo alla specie che si giudica, il Collegio reputa opportuno formulare una precisazione, che concerne sempre il profilo oggettivo dell’ambito entro il quale le direttive della lett. h) possono svolgere la funzione di integrazione ai sensi dell’art. 1339 c.c..

La precisazione è nel senso che, avvenendo l’integrazione con riferimento a rapporti pur sempre espressione della privata autonomia ed articolandosi attraverso manifestazioni normative secondarie regolamentari oppure integranti atti amministrativi precettivi collettivi, sia pure autorizzate dalla previsione di legge, essa può comportare interventi che incidano sui rapporti di utenza in modo derogatorio anche di norme di legge, se del caso dello stesso Codice Civile, che abbiano, però, un contenuto meramente dispositivo, cioè derogabile dalla privata autonomia, mentre deve escludersi che possa giustificare interventi in senso derogatorio di norme previste da disposizioni legislative di contenuto imperativo. Invero, mentre l’intervento sulle norme del primo tipo è pienamente giustificabile perchè incide su previsioni legislative che le stesse parti, con il loro accordo, potrebbero derogare, sì che appare giustificato a maggior ragione che sia l’Autorità preposta al settore a prevedere la deroga, seppure con il limite funzionale e di scopo di cui immediatamente si dirà, viceversa, in presenza di una norma imperativa di legge, il principio di legalità impone di intendere il fenomeno di attribuzione di poteri di disciplina, con fonti di rango secondario o addirittura non aventi nemmeno contenuto normativo, in modo restrittivo. E, dunque, in mancanza di un’espressa attribuzione del potere di deroga alle norme imperative da parte di una norma di legge (o, deve ritenersi, di rango comunitario ad effetti diretti nell’ordinamento interno), come non esercitabile in deroga ad esse.

Solo in questo senso e nei limiti ora detti si intende condividere l’affermazione di Cons. Stato, 6 Sezione, 11 novembre 2008, n. 5622 circa l’esegesi del potere di normazione di cui all’art. 2, comma 12, lett. h), che, invece, quel consesso parrebbe avere inteso come riferita ad ogni norma di legge.

3.5- Sciogliendo la riserva espressa poco sopra, il Collegio ritiene, inoltre, che la stessa possibilità di deroga a norme di legge meramente dispositive sia, però, da restringere sotto il profilo funzionale in senso unidirezionale, cioè sia limitata ad una deroga a favore dell’utente o del consumatore. Lo impone sempre il precetto espresso nel comma 1, dell’art. 1 della legge di settore in precedenza ricordato circa il necessario indirizzarsi dell’attività dell’Autorità a tutela degli interessi di utenti e consumatori.

Ciò, naturalmente, con l’eccezione che vi sia una norma di legge o di rango comunitario ad efficacia diretta che abiliti anche alla deroga a norme imperative. Sicchè il principio di diritto che può affermarsi è il seguente: "Il potere normativo secondario (o, secondo una possibile qualificazione alternativa, di emanazione di atti amministrativi precettivi collettivi) dell’Autorità per l’Energia Elettrica ed il Gas ai sensi dell’art. 2, comma 2, lett. h), si può concretare anche nella previsione di prescrizioni che, attraverso l’integrazione del regolamento di servizio, di cui al comma 37 dello stesso art. 2, possono in via riflessa integrare, ai sensi dell’art. 1339 c.c., il contenuto dei rapporti di utenza individuali pendenti anche in senso derogatorio di norme di legge, ma alla duplice condizione che queste ultime siano meramente dispositive e, dunque, derogabili dalle stesse parti, e che la deroga venga comunque fatta dall’Autorità a tutela dell’interesse dell’utente o consumatore, restando, invece, esclusa – salvo che una previsione speciale di legge o di una fonte comunitaria ad efficacia diretta – non la consenta – la deroga a norme di legge di contenuto imperativo e la deroga a norme di legge dispositive a sfavore dell’utente e consumatore".

3.6 – Può passarsi a questo punto a definire le condizioni in presenza delle quali la normazione o l’atto di esercizio di poteri amministrativi precettivi a contenuto collettivo ai sensi dell’art. 2, comma 12, lett. h), con i limiti indicati, può integrare, attraverso la mediazione dell’integrazione del regolamento di servizi, i contratti di utenza individuale.

Tale definizione deve partire dal dato che il potere di normazione o di amministrazione de quo è qualificato con un’espressione, quella di direttiva, che si presta a comprendere: a) l’imposizione di precetti al destinatario sub specie di indicazione di un risultato da raggiungere, se del caso con o senza assegnazione di un limite di tempo, salva la individuazione da parte di esso del modo con cui pervenire al risultato, ch’egli, dunque, può in sostanza poi scegliere; b) l’imposizione di un precetto specifico che non lasci al destinatario alcuna possibilità di scelta sui tempi e sui modi.

Ebbene, l’idoneità della direttiva a determinare, tramite la mediazione dell’integrazione del regolamento di servizio, l’integrazione dei contratti di utenza per la via dell’art. 1339 c.c. è configurabile soltanto nel secondo caso. Non lo è, invece, nel primo. Soltanto nel secondo caso, l’imposizione di un precetto specifico si può connotare sub specie di clausola, cioè di diretta regolamentazione prima del regolamento di servizio e, quindi, del contratto di utenza. Invero, una clausola, identificando una parte del regolamento contrattuale deve avere di norma un contenuto determinato, cioè specifico (art. 1346 c.c.). E’ vero che la clausola può avere anche un contenuto determinabile (sempre art. 1346 c.c.), ma allora – ammesso che sia sostenibile un’integrazione ai sensi dell’art. 1339 c.c. di un contratto, attraverso una norma che si limiti a prevedere che debba assicurarsi un risultato, lasciandone però i modi alla determinazione di una delle parti del contratto – l’onere di specificazione si trasferisce almeno al procedimento ed ai contenuti della determinazione.

Ora, la previsione della Delib. n. 200 del 1999, art. 6, comma 4, imponendo all’esercente "di offrire al cliente almeno una modalità gratuita di pagamento della bolletta" si connotava certamente come prescrizione del tutto inidonea ad integrare una clausola di contenuto determinato. In tanto, la previsione della modalità come concorrente con altre di effetto diverso lasciava al concessionario il potere di individuare questa modalità in concorso con altre e, quindi, lo facultava a prevedere più di una modalità. In secondo luogo, il concessionario era facultato ad individuare gli stessi termini della modalità gratuita. Nè potrebbe dirsi che la prescrizione integrasse una clausola il cui contenuto era rimesso all’individuazione dello stesso concessionario, sì da integrare una clausola di contenuto determinabile: occorre, infatti, tenere presente che la determinabilità, una volta che la modalità gratuita non veniva prevista come esclusiva, era sostanzialmente insussistente, in quanto l’esercizio del potere di determinazione da parte del concessionario doveva muoversi pur sempre lasciando intatta la previsione del codice civile, di cui alla norma dispositiva sul pagamento, prevista nell’art. 1196 c.c., secondo la quale "le spese del pagamento sono a carico del debitore". Previsione questa che implica che il costo dell’attività necessaria al debitore per pagare è di norma a suo carico e che, per essere apprezzata nel suo effettivo significato, dev’essere coordinata anche con quelle sul luogo del pagamento, espresse nell’art. 1182 c.c., e particolarmente con quella sul luogo del pagamento delle obbligazioni aventi ad oggetto somme di denaro determinate, che il primo inciso del comma 3 della norma, indica nel domicilio del creditore. L’art. 1196, in sostanza, in riferimento a dette obbligazioni, fra le quali rientrano quelle dell’utente relative al pagamento della bolletta (o fattura) (modalità di richiesta del pagamento sostanzialmente prevista come necessaria dall’art. 6, comma 1, della nota deliberazione), comportava che la spesa necessaria all’utente per recarsi a pagare al domicilio del soggetto esercente fosse a carico di lui. Onde, la previsione di una modalità gratuita di pagamento, in mancanza sia di un’espressa deroga all’art. 1196 c.c., sia di una deroga implicita, siccome rivelava la previsione come soltanto una delle modalità (e, quindi, alternativa) di quella gratuita, non poteva certo implicare che l’utente dovesse essere esentato da detta spesa, ma, semmai, poteva giustificare che l’esercente non potesse imporre in caso di pagamento al suo domicilio (o ad uno dei suoi domicili) un addebito ulteriore: la spesa per l’esecuzione del pagamento al detto domicilio e, quindi, il costo dell’attività ed il dispendio di attività per farlo ai sensi dell’art. 1196 c.c. erano a carico dell’utente, stante la mancata deroga a detta norma.

Nel contempo, la mancanza di deroga all’art. 1196 e, quindi, la conservazione dell’onere del debitore di sopportare eventuali costi per l’attività necessaria per adempiere al domicilio dell’esercente, implicava che lo stesso parametro della "gratuità" dovesse essere valutato comparativamente con il costo di modalità di pagamento che, pur imponendo all’utente un costo, come il pagamento con domiciliazione bancaria o su conto corrente postale, tuttavia, l’avessero esentato dalla spesa necessaria per recarsi presso il domicilio (più o meno lontano) dell’esercente, spesa che poteva essere più o meno rilevante a seconda della sua distanza. In questa situazione la prescrizione dell’art. 6, comma, 4 non aveva nemmeno un contenuto tale da poter essere mutuato come clausola a contenuto determinabile e, dunque, – anche a voler (problematicamente) concedere che un’integrazione ai sensi dell’art. 1339 c.c. sia possibile da parte di una clausola a contenuto rimesso alla determinazione di una parte – non era idonea a modificare o integrare il regolamento di servizio all’epoca vigente e, quindi, di risulta i contratti di utenza individuali.

3.7- In realtà, una prescrizione come quella in discorso, per la sua indeterminatezza assegnava all’esercente una sorta di obbligo di perseguimento di un risultato con ampi poteri di scelta, salva la valutazione dell’A.E.G.G. circa il raggiungimento del risultato attraverso i poteri di ispezione, accesso ed acquisizione di documentazione e notizie, previsti dall’art. 2, comma 12, lett. g) e quelli di valutazione di reclami, istanze e segnalazioni della successiva lett. m), con conseguente possibilità dell’Autorità all’esito di esercitare il potere previsto dall’art. 2, comma 20, lett. d), cioè di ordinare "al soggetto esercente il servizio la cessazione di comportamenti lesivi dei diritti degli utenti, imponendo, ai sensi del comma 12, lett. g), l’obbligo di corrispondere un indennizzo al soggetto esercente il servizio la cessazione di comportamenti lesivi dei diritti degli utenti, imponendo, ai sensi del comma 12, lett. g), l’obbligo di corrispondere un indennizzo".

Inoltre, l’A.E.G.G., a parte il potere di intervenire con una prescrizione nuova sufficientemente specifica da produrre l’effetto dell’art. 1339 c.c., avrebbe avuto anche il potere di segnalare all’amministrazione concedente, in sede di parere ai sensi della L. n. 481 del 1995, art. 2, comma 34, l’opportunità all’atto del rinnovo della concessione o di una sua revisione di prevedere nella convenzione o nel contratto di programma di cui al comma 36 la prescrizione.

4. – Deve, dunque, sulla base delle complessive considerazioni svolte escludersi che la prescrizione della Delib. dell’A.C.C.G. n. 200 del 1999, art. 6, comma 4, abbia comportato la modifica o integrazione del regolamento di servizio del settore esistente all’epoca della sua adozione e, di riflesso, l’integrazione dei contratti di utenza ai sensi dell’art. 1339 c.c., di modo che l’azione di responsabilità per inadempimento contrattuale esercitata dalla parte attrice risulta priva di fondamento, perchè basata su una clausola contrattuale inesistente, perchè non risultava introdotta nel contratto di utenza.

5.- Va a questo punto precisato che nella specie, avuto riguardo al riferimento della sentenza impugnata all’integrazione per effetto della deliberazione dell’A.C.C.G. anche ai sensi dell’art. 1374 c.c. le stesse considerazioni svolte a proposito della inidoneità a svolgere la funzione di cui all’art. 1339 c.c., sarebbero riproponibili anche sotto il profilo dell’art. 1374 c.c..

Mette conto di osservare, tuttavia, che la pertinenza nella specie dell’istituto di cui all’art. 1374 c.c. sembrerebbe doversi escludere, poichè la norma postula l’integrazione del contratto con riguardo ad aspetti non regolati dalle parti e, quindi, svolge tradizionalmente una funzione suppletiva e non di imposizione di una disciplina imperativa, come accade per l’istituto di cui all’art. 1339 c.c..

Nella logica del sistema di cui alla L. n. 481 del 1995, la previsione del potere di integrazione del contratto di utenza, esercitabile dall’A.E.E.G. nei sensi su indicati, è certamente espressione non di supplenza, ma di imposizione di un regolamento ritenuto autoritativamente dovuto.

6. – Conclusivamente il ricorso è accolto per quanto di ragione sulla base dello scrutinio complessivo ed unitario dei primi quattro motivi e la sentenza è cassata.

Gli ulteriori sei motivi di ricorso restano assorbiti, perchè, se l’integrazione del contratto non è avvenuta, non può esservi stato alcun inadempimento.

Il Collegio reputa a questo punto che non vi sia necessità di rinvio, potendo la causa essere decisa nel merito, in quanto non occorrono accertamenti di fatto per ritenere che la domanda proposta dall’utente debba essere rigettata. Al riguardo, la sua infondatezza emerge anche per il profilo subordinato, inerente il preteso inadempimento dell’obbligo di informazione: è evidente che, se la delibera non ha integrato il contratto per la sua indeterminatezza, l’oggetto dell’obbligo de quo non può essere insorto.

7. – Le spese delle fasi di merito, sulle quali questa Corte deve provvedere, possono essere integralmente compensate, giacchè è notorio che nella giurisprudenza di merito la questione di diritto dell’efficacia della norma della nota deliberazione è stata decisa in modi opposti, come risulta anche da ricorsi esaminati nella stessa odierna udienza, nei quali l’Enel era convenuta.

Le spese del giudizio di cassazione seguono invece la soccombenza e si liquidano in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso per quanto di ragione riguardo ai primi quattro motivi. Dichiara assorbiti i successivi. Cassa la sentenza impugnata in relazione e, decidendo la causa nel merito, accoglie l’appello e rigetta la domanda della parte intimata. Compensa le spese dei gradi di merito. Condanna la parte intimata al pagamento, in favore delle ricorrenti, delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro seicento, di cui Euro duecento per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Sesta Civile – 3 della Corte Suprema di Cassazione, il 11 giugno 2012.

Depositato in Cancelleria il 28 giugno 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.