Cons. Stato Sez. V, Sent., 17-01-2011, n. 189

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Svolgimento del processo

A) – L’impresa artigiana attuale appellata presentava alla provincia autonoma di Trento, ex legge prov. n. 17/1993, domanda di contributo in relazione all’acquisizione di servizi forniti dalla società di consulenza M. s.r.l..

Il dirigente del Servizio artigianato, con apposita determinazione, concedeva alla società richiedente, ai sensi dell’art. 10, citata legge n. 17/1993, il contributo in questione, somma che veniva poi liquidata con relativo mandato di pagamento.

Con successiva determinazione dirigenziale veniva, peraltro, revocata la concessione del contributo in parola, chiedendosi la restituzione della somma erogata, comprensiva d’interessi e spese.

Avverso tale provvedimento proponeva ricorso l’impresa interessata, chiedendone l’annullamento (anche solo parziale) e formulando a tale proposito una serie di osservazioni giuridiche, secondo cui il provvedimento in parola non sarebbe stato conforme alla vigente normativa provinciale.

Si costituiva in giudizio la provincia di Trento, eccependo preliminarmente l’inammissibilità del ricorso per difetto di giurisdizione e contestando, nel merito, la fondatezza dello stesso, per cui ne chiedeva il rigetto.

Con apposita ordinanza veniva respinta l’istanza cautelare.

I primi giudici disattendevano l’eccezione di difetto di giurisdizione sollevata dalla difesa provinciale e fondata sulla ritenuta sussistenza di un diritto soggettivo dell’originaria ricorrente scaturente dal potere di revoca della p.a., esercitato in funzione di un asserito inadempimento da parte del beneficiario, nel contesto della disciplina regolante il rapporto già instaurato.

Pur in presenza, nella materia, di una non sempre precisa linea di demarcazione tra situazioni di diritto soggettivo e d’interesse legittimo, in rapporto rispettivamente alla fase procedimentale concernente l’ammissione al beneficio contributivo ed a quella successiva riferita all’erogazione dello stesso, nella specie non ci si sarebbe trovati di fronte ad un’ipotesi di inadempimento, come affermato dalla provincia resistente, ma ad un intervento in autotutela (revoca), rapportabile sempre alla fase procedimentale del finanziamento, sotto i profili della verificazione dei presupposti del medesimo e della sua consistenza: situazione, anche alla luce della più recente giurisprudenza (cfr. Cass. civ., sez. un., sentenza 20 settembre 2004 n. 18844), d’interesse legittimo e dunque, di pertinenza del giudice amministrativo.

Nel merito, il Tribunale di prima istanza accoglieva parzialmente il gravame, poiché la ditta originaria ricorrente aveva contestato il provvedimento impugnato (e, quindi, in parte qua annullato) per violazione di legge, affermando di aver prodotto tutta la documentazione richiesta dalla normativa e, quanto all’effettiva sopportazione della spesa, di aver posto in essere una separata operazione commerciale, non vietata in alcun modo dalla normativa provinciale di riferimento; inoltre, lo stesso provvedimento sarebbe risultato in ogni caso illegittimo, perché l’art. 20, legge prov. n. 17/1993, prevedeva la proporzionale riduzione delle agevolazioni nel caso di spesa inferiore.

B) – A seguito della sentenza (poi, comunque, annullata) del g.u.p. del Tribunale di Trento n. 626/03 dell’11.12.2003, a carico di soggetti consulenti della ditta M. s.r.l. incaricati dell’effettuazione dell’intervento, anche presso la società originaria ricorrente, era emerso come quest’ultima avesse percepito indebitamente (donde il reato d’indebita percezione di contributi a danno dello Stato, peraltro, poi escluso con la formula più ampia: v. sentenza g.u.p. Tribunale penale di Trento n. 78/2006, emessa a seguito di rinvio, dopo l’annullamento della precedente pronuncia di cui sopra) contributi a valere sulla legge prov. n. 17/1993, in relazione a spese per la realizzazione di alcuni servizi di consulenza di fatto non sostenute, con una palese riduzione del costo della prestazione per l’imprenditore, nonché una diminuzione del costo a carico del percettore del finanziamento, di cui la provincia erogante era rimasta all’oscuro: donde il corretto esercizio del suo potere di autotutela, intervenendo a salvaguardia dell’interesse pubblico perseguito con il provvedimento di concessione dei contributi e garantito nel corso dell’erogazione di questi.

Risultava, peraltro, che l’impegno sostenuto dall’impresa ricorrente aveva, in pratica, subìto un abbattimento del 30% del costo dichiarato per il servizio in questione, per l’assenza di un effettivo esborso di denaro da parte dell’impresa in relazione al comportamento della ditta di consulenza, determinante il contenimento della spesa preventivata nella misura suindicata.

Di conseguenza, se appariva legittima una riduzione del finanziamento entro il limite del 30%, altrettanto non poteva dirsi per l’eccedenza (70%) costituente per l’originaria ricorrente un effettivo costo del servizio in parola, in conformità all’art. 20, legge prov. n. 17/1993, che, al secondo comma, prevedeva appunto che "le agevolazioni sono proporzionalmente ridotte nel caso in cui la spesa realizzata risulti di importo inferiore a quello ammesso", in tal modo dovendosi escludere una completa revoca del contributo per il semplice fatto dell’avvenuto ridimensionamento della spesa preventivata (come nella specie), dovendo lo stesso essere rapportato proporzionalmente all’effettivo esborso, ogni diversa interpretazione apparendo in contrasto con le finalità della predetta legge provinciale n. 17/1993.

C) – Detta sentenza veniva poi impugnata dalla provincia di Trento, parzialmente soccombente in prime cure, che deduceva il comportamento fraudolento dell’impresa interessata, con correlativa correttezza della revoca, integralmente disposta per motivi non di mera autotutela ma sanzionatori (cfr. C.S., sezione V, dec. n. 202/2006), con conseguente situazione di diritto soggettivo azionabile in sede civile, donde il difetto di giurisdizione amministrativa.

La parte appellata si costituiva in giudizio ed eccepiva la correttezza dell’impugnata pronuncia e la sicura sussistenza della giurisdizione amministrativa, avendo i destinatari di contributi o di sovvenzioni pubbliche, nei confronti della p.a., una posizione d’interesse legittimo, ove la controversia riguardasse una fase procedimentale precedente l’assegnazione del contributo o della sovvenzione, ovvero nel caso in cui il provvedimento attributivo del beneficio fosse stato annullato o revocato per vizi di legittimità o per contrasto con l’interesse pubblico coevi alla sua emanazione, ravvisandosi, invece, una posizione di diritto soggettivo in ordine alle controversie relative alla successiva erogazione del contributo o della sovvenzione e/o in caso di ritiro di detti benefici con provvedimenti di revoca, decadenza o risoluzione per inadempimenti o fatti sopravvenuti ostativi al loro mantenimento (Cass. civ., sez. un., sent. n. 758/1999; C.S., sezione IV, dec. n. 2999/2002).

All’esito della pubblica udienza di discussione la vertenza passava in decisione, dopo il deposito di una tardiva memoria riepilogativa da parte della provincia di Trento.
Motivi della decisione

L’appello è infondato e va respinto.

I) – Nella specie, il provvedimento impugnato in primo grado, determinato da uno specifico comportamento tenuto in violazione della normativa regolante la concessione degli aiuti (in quanto diretto ad ottenere un contributo maggiore di quello concedibile mediante una dichiarazione non veritiera), aveva disposto la decadenza della parte interessata dal contributo già accordato ed il recupero dello stesso: si sostiene, non condivisibilmente, che il provvedimento determinato da uno specifico comportamento antigiuridico non avrebbe natura di atto di autotutela provvedimentale ma di atto sanzionatorio e, pertanto, la controversia avente per oggetto tale atto esulerebbe dalla giurisdizione amministrativa, incidendo su una posizione di diritto soggettivo e rientrando in quella civile.

Sulla questione oggetto di controversia questo Consiglio di Stato ha un orientamento costante (cfr. sezione VI, dec. n. 5415/2008), non difforme da quello della Corte di cassazione, che – in materia di provvedimenti a contenuto revocatorio incidenti su contributi, sussidi, sovvenzioni e finanziamenti erogati da pubbliche amministrazioni – utilizza un criterio generale, in tema di riparto di giurisdizione, fondato sulla individuazione del segmento procedurale interessato dal provvedimento oggetto di vaglio giurisdizionale e sulla causale dell’iniziativa revocatoria.

II) – In particolare, occorre tenere distinto (anche in rapporto ai provvedimenti di revoca) il momento statico della concessione del contributo rispetto a quello dinamico, individuabile nell’impiego del contributo medesimo.

Al primo settore – spettante alla giurisdizione amministrativa – appartengono i provvedimenti, comunque denominati (revoca, decadenza, etc.) – di ritiro del finanziamento, anche susseguenti all’erogazione, ove costituiscano manifestazione del potere di autotutela amministrativa.

Viceversa, ogni altra fattispecie, concernente le modalità di uso del contributo e il rispetto degli impegni assunti, coinvolge posizioni di diritto soggettivo, relative alla conservazione del finanziamento, spettanti alla giurisdizione ordinaria.

Nel caso in esame la revoca s’inquadra, dunque, nelle fattispecie di decadenza per violazione degli obblighi incombenti sul beneficiario dei contributi, espressione di poteri autoritativi del contraente pubblico, ma di natura privatistica, secondo un modello piuttosto frequente nei contratti e nei rapporti negoziali della p.a..

Né potrebbe applicarsi la giurisdizione esclusiva in materia di concessione di beni, data l’espressa riserva alla giurisdizione ordinaria (art. 5, legge n. 1034/1971) d’indennità, canoni ed altri corrispettivi.

Conclusivamente, l’appello va respinto, mentre l’impugnata sentenza va, dunque, confermata integrandone come sopra la motivazione, a spese ed onorari del giudizio di seconda istanza integralmente compensati tra le parti ivi costituite, tenuto anche conto della natura della vertenza.
P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, sezione V, respinge l’appello e compensa interamente spese ed onorari del giudizio di secondo grado tra le parti.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 30 novembre 2010, con l’intervento dei giudici:

Gianpiero Paolo Cirillo, Presidente FF

Marco Lipari, Consigliere

Aldo Scola, Consigliere, Estensore

Eugenio Mele, Consigliere

Adolfo Metro, Consigliere

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 27-05-2013) 22-07-2013, n. 31493

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Svolgimento del processo

1. Con ordinanza in data 21.01.2013 il Tribunale di Bari, costituito ex art. 309 c.p.p., rigettava la richiesta di riesame proposta da B.G. avverso il provvedimento 20.12.2012 del Gip della stessa sede che aveva applicato nei suoi confronti la misura cautelare della custodia in carcere per i reati di ricettazione, detenzione e porto illegali di una pistola Beretta cal. 7,65 avente matricola parzialmente abrasa.

Riteneva invero il Collegio del riesame che sussistessero gravi indizi di colpevolezza: gli agenti operanti avevano direttamente percepito che il predetto indagato aveva gettato un oggetto dall’auto, guidata dal fratello A., nella quale egli viaggiava quale passeggero; l’oggetto, prontamente recuperato, era risultato essere la pistola, clandestina, fornita di caricatore inserito.

L’auto, alla vista della pattuglia della Polizia, aveva eseguito un’improvvisa manovra di inversione di marcia. Non era dunque ritenuta attendibile la versione difensiva, pur declinata da entrambi i fratelli B., secondo cui la pistola non era in loro possesso, ma a terra fin da prima, e l’inversione di marcia era dovuta alla mancanza di assicurazione del veicolo.

Sussistevano poi – riteneva il Tribunale – anche esigenze cautelari tali da imporre la restrizione carceraria quale unica misura adeguata, posto che la provenienza illecita dell’arma e l’abrasione della matricola rendevano evidente la vicinanza dell’indagato ai circuiti criminali di elevata pericolosità, il che induceva, nonostante l’incensuratezza del B., concreto pericolo di recidiva specifica.- 2. Avverso tale ordinanza proponeva ricorso per cassazione l’anzidetto indagato che motivava l’impugnazione deducendo violazione di legge e vizio di motivazione, argomentando – in sintesi – nei seguenti termini: a) il rigetto della versione difensiva, credibile anche perchè riferita in modo conforme dai due fratelli, era basata su congetture indotte dalle supposizioni degli agenti operanti, prive di riscontri; b) anche in ordine alle esigenze cautelari il giudizio del Tribunale era basato su asserzioni apodittiche e su meri sospetti; la misura carceraria era eccessiva; non era stato tenuto conto che si trattava di un incensurato, con vita lavorativa e familiare del tutto regolare.

Motivi della decisione

1. Il ricorso, manifestamente infondato, deve essere dichiarato inammissibile con ogni dovuta conseguenza di legge.

2. Quanto al primo profilo del ricorso, inerente la gravità indiziaria (v. sopra, sub ritenuto, al p. 2.a), esso, peraltro versato in fatto, si esaurisce nella ribadita affermazione di estraneità, già motivatamente disattesa dai giudici del merito cautelare. Ed invero gli agenti hanno direttamente percepito il gesto dell’indagato di gettare fuori dell’auto la pistola clandestina poi sequestrata, il che costituisce – allo stato ed a questi fini – elemento di specifica accusa più che adeguato. Del tutto correttamente, poi, il Tribunale del riesame ha rilevato come da un lato fosse assai poco plausibile che una pistola di tal genere fosse stata abbandonata in terra, nel bel mezzo di una strada trafficata, dall’altro fosse altrettanto poco attendibile la versione giustificativa della pronta fuga alla vista degli agenti. Il complesso di tali elementi, logici e coerenti, induce la piena infondatezza delle tesi del ricorrente, in definitiva meramente negatorie di tali indiscutibili evidenze.

3. Del pari inammissibile si rivela il ricorso in punto esigenze cautelari (v. sopra, sub ritenuto, al p. 2.b), avendo il Tribunale preso in esame i profili dedotti dal ricorrente, ora riproposti sub specie vizi di legittimità, ma avendolo ritenuti subvalenti rispetto alla gravità criminologica del fatto nel suo complesso. Si tratta di motivazione logica e coerente, in materia riservata dalla legge al giudice del merito, come tale non censurabile in questa sede.

4. In definitiva il ricorso, manifestamente infondato in ogni sua deduzione, deve essere dichiarato inammissibile ex art. 591 c.p.p. e art. 606 c.p.p., comma 3. Alla declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione consegue ex lege, in forza del disposto dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ed al versamento della somma, tale ritenuta congrua, di Euro 1.000,00 (mille) in favore della Cassa delle Ammende, non esulando profili di colpa nel ricorso palesemente infondato (v.

sentenza Corte Cost. n. 186/2000).

Deve seguire altresì la comunicazione prevista dall’art. 94 disp. att. c.p.p..

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma di Euro 1.000,00 (mille) in favore della Cassa delle Ammende. Dispone trasmettersi, a cura della Cancelleria, copia del presente provvedimento al Direttore dell’Istituto penitenziario ai sensi dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 27 maggio 2013.

Depositato in Cancelleria il 22 luglio 2013

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Corte cost. 21-06-2007 (04-06-2007), n. 232 (ord.) Radiotelevisione e servizi radioelettrici – Istallazione o modifica di impianti di telecomunicazione di potenza inferiore a 20 Watt

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ORDINANZA
Nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 87, comma 4, del decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259 (Codice delle comunicazioni elettroniche), promosso con ordinanza del 20 luglio 2006 dal Tribunale amministrativo regionale per il Piemonte sul ricorso proposto dalla Telecom Italia s.p.a. contro il Comune di Griffa ed altra, iscritta al n. 550 del registro ordinanze 2006 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 49, prima serie speciale, dell’anno 2006.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 4 giugno 2007 il Giudice relatore Maria Rita Saulle.
Ritenuto che il Tribunale amministrativo regionale del Piemonte, con ordinanza del 20 luglio 2006, nel corso di un procedimento promosso dalla Telecom Italia s.p.a. contro il Comune di Griffa e nei confronti di T. C. L., ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 87, comma 4, del decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259 (Codice delle comunicazioni elettroniche), per violazione degli artt. 3 e 97 della Costituzione;
che il rimettente, in punto di fatto, riferisce di essere investito dell’impugnazione del provvedimento emesso dal Comune di Griffa, con il quale è stato annullato il silenzio assenso formatosi – ex art. 87, comma 9, del d.lgs. n. 259 del 2003 – sulla denuncia di inizio attività presentata dalla società ricorrente per l’installazione di una stazione radio base per la telefonia mobile;
che il giudice a quo osserva di non poter condividere le motivazioni poste a fondamento dell’atto impugnato, secondo cui il procedimento autorizzatorio era viziato dalla circostanza che la denuncia di inizio attività non era stata pubblicizzata secondo quanto previsto dall’art. 7, comma 1, lettera d), della legge regionale 3 agosto 2004, n. 19 (Nuova disciplina regionale sulla protezione dalle esposizioni a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici), e dall’art. 87, comma 4, del d.lgs. n. 259 del 2003;
che, a parere del rimettente, le norme sopra cennate, diversamente da quanto ritenuto dagli organi comunali, non prescrivono alcun onere di pubblicità per il procedimento di autorizzazione all’installazione di impianti radioelettrici di potenza inferiore a 20 Watt, come quello richiesto, per i quali è sufficiente la denuncia di inizio attività;
che, in ragione di ciò, secondo il rimettente, l’art. 87, comma 4, del d.lgs. n. 259 del 2003, nel prevedere la pubblicazione della sola istanza relativa all’installazione e modifica di impianti radioelettrici di potenza superiore a 20 Watt e non anche della denuncia di inizio attività per l’installazione e modifica di impianti di potenza uguale o inferiore a quella indicata, violerebbe i parametri costituzionali evocati;
che, in particolare, secondo il giudice a quo, non sarebbe idonea a giustificare tale regime differenziato la diversa potenza dell’impianto, dovendosi sempre garantire, tramite apposita pubblicità, la partecipazione al procedimento autorizzativo di tutti quei soggetti portatori di un interesse qualificato, in quanto esposti al futuro campo magnetico e interessati alla costruzione dell’impianto sotto il profilo urbanistico ed edilizio;
che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o, comunque, manifestamente infondata;
che, in via preliminare, la difesa erariale rileva che la censura formulata in riferimento all’art. 3 della Costituzione non risulta adeguatamente motivata, non essendo a tal fine sufficiente l’affermazione contenuta nell’ordinanza di rimessione, secondo cui la diversa potenza degli impianti non giustificherebbe la differente disciplina prevista dalla norma censurata;
che la questione, a parere dell’Avvocatura, sarebbe comunque infondata, ponendosi l’art. 87, comma 4, del d.lgs. n. 259 del 2003 nell’ambito di una più vasta disciplina che, nel rispetto della normativa comunitaria, tende ad incoraggiare l’utilizzazione di apparecchiature elettroniche e la semplificazione delle procedure necessarie alla realizzazione dei relativi impianti;
che la previsione di due diverse modalità di rilascio dell’autorizzazione all’installazione di nuovi impianti tiene conto, da un lato, degli indirizzi della normativa comunitaria sopra indicati e, dall’altro, del maggior impatto ambientale e del maggior campo magnetico prodotto dagli impianti di potenza superiore ai 20 Watt;
che, pertanto, non vi sarebbe alcuna violazione dell’art. 3 della Costituzione, poiché la diversità dei procedimenti autorizzatori trova la sua giustificazione nella diversa potenza degli impianti, risultando inconferente il richiamo all’art 97 della Costituzione, in quanto la norma censurata risulterebbe estranea alla sfera dell’organizzazione dei pubblici uffici.
Considerato che il Tribunale amministrativo regionale del Piemonte dubita, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 87, comma 4, del decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259 (Codice delle comunicazioni elettroniche), nella parte in cui «non prevede che anche le denunce di inizio attività per l’installazione o la modifica di impianti di telecomunicazione di potenza inferiore ai 20 Watt siano soggette alle stesse forme di pubblicità previste per le autorizzazioni all’installazione o la modifica di impianti di telecomunicazione di potenza superiore a tale valore»;
che l’art. 87 del d.lgs. n. 259 del 2003, nel disciplinare il procedimento di autorizzazione alla installazione e modifica di impianti radioelettrici prevede, al comma 4, la pubblicazione della sola istanza di autorizzazione relativa ad impianti di potenza superiore a 20 Watt, e non anche della denuncia di inizio attività, richiesta per gli impianti di potenza uguale o inferiore a quella indicata;
che il rimettente evoca congiuntamente, quali parametri asseritamente lesi dalla norma censurata, gli artt. 3 e 97 della Costituzione, dovendosi in tal modo intendere la censura riferita alla presunta irragionevolezza della norma nella parte in cui prevede due diversi procedimenti per il rilascio all’autorizzazione all’installazione o modifica degli impianti radioelettrici;
che, in particolare, secondo il giudice a quo, la disposizione censurata contrasterebbe con i parametri costituzionali evocati, in quanto la mancata previsione di adeguata pubblicità per i procedimenti autorizzativi relativi ad impianti con potenza uguale o inferiore a 20 Watt, precluderebbe ai soggetti interessati alla costruzione dell’opera e sottoposti al futuro campo magnetico di partecipare ai suddetti procedimenti;
che la questione è manifestamente infondata;
che, come ripetutamente affermato da questa Corte (sent. n. 265 del 2006, n. 129 del 2006), l’art 87 del d.lgs. n. 259 del 2003, nel dare attuazione alla delega legislativa contenuta nell’art. 41, comma 2, lettera a), della legge 1° agosto 2002, n. 166 (Disposizioni in materia di infrastrutture e trasporti), stabilisce moduli di definizione del procedimento informati alle regole della semplificazione amministrativa e della celerità, espressivi, in quanto tali, di un principio fondamentale di diretta derivazione comunitaria (direttiva 2002/21/CE);
che la scelta compiuta dal legislatore, in relazione ad un diverso onere di pubblicità, a seconda della potenza, del tipo e della portata dell’impianto da realizzare, non risulta irragionevole poiché, oltre a costituire un criterio oggettivo ai fini della individuazione della disciplina applicabile, tiene conto della tutela degli eventuali interessi coinvolti, la cui soddisfazione è appunto più efficacemente garantita attraverso la diversificazione delle forme di pubblicità in ragione dei parametri sopraindicati.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 87, comma 4, del decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259 (Codice delle comunicazioni elettroniche), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale del Piemonte, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

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Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 20-01-2011, n. 1249 Aiuti e benefici

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Svolgimento del processo e motivi della decisione

1. Con sentenza del 21 febbraio 2006 il Tribunale di Nicosia respingeva l’opposizione avverso l’ordinanza-ingiunzione con la quale il Ministero per le politiche agricole – Ispettorato Centrale Repressione Frodi aveva ingiunto, a P.T.S., il pagamento della somma di L. 35.785.080 a titolo di sanzione amministrativa per indebita riscossione di aiuti comunitari relativi al mantenimento di vacche nutrici, in assenza della qualifica di imprenditore agricolo a titolo principale, chiedendone l’annullamento.

2. Il Tribunale così motivava, in sintesi, il rigetto dell’opposizione:

sulla legittimazione e competenza del Ministero per le politiche agricole, la potestà sanzionatoria agli uffici periferici dell’Ispettorato Centrale Repressione Frodi era stata delegata con D.M. n. 53318 del 1997 del Ministero per le Politiche agricole, adottato in attuazione della L. n. 898 del 1986, art. 4, comma 1, e ribadita con D.M. 14 febbraio 2000;

sulla prescrizione del diritto alla riscossione della sanzione, accertato l’illecito amministrativo alla data del 22.9.1993 (allorchè il Procuratore della Repubblica contestava il reato), la contestazione dell’illecito amministrativo, con verbale della Guardia di Finanza in data 8.2.1994 sottoscritto dall’opponente, era avvenuta entro il termine (180 giorni dall’accertamento) prescritto dalla L. n. 898 del 1986, art. 4, in deroga alla L. n. 689 del 1981, art. 14;

la notifica della contestazione (in data 8.2.1994) aveva interrotto il termine di prescrizione, sicchè la notificazione dell’ordinanza (in data 16.10.1998) doveva ritenersi tempestiva; e che in caso di aiuti con pagamenti plurimi la prescrizione decorreva dalla data dell’ultimo, versandosi in tema di illecito amministrativo a consumazione prolungata;

sul principio di legalità, rilevava, ai fini della disciplina applicabile, la data di consumazione dell’illecito nel vigore, nella specie, della disciplina dettata dalla L. n. 898 del 1986;

sulla violazione della L. n. 689, art. 18, contestata l’indebita riscossione degli aiuti per mancanza della qualifica di imprenditore agricolo a titolo principale e avviata la procedura sanzionatoria, l’opponente non si era attivato al fine di esercitare le facoltà di cui alla legge depenalizzatrice;

l’ordinanza-ingiunzione risultava compiutamente motivata nel suo contesto e con riferimento, per relationem, al rapporto della Guardia di Finanza;

l’applicabilità del termine della L. n. 898, ex art. 3, comma 4, per il pagamento dell’importo ingiunto limitatamente alla restituzione di somme indebitamente percepite e non anche al pagamento della sanzione L. n. 689, ex art. 18, comma 4 (non derogato espressamente dalla normativa speciale);

il principio del ne bis in idem non trovava applicazione per fatti contestati concernenti i diversi piani dell’illecito amministrativo e penale e la condotta minima dell’indebito conseguimento dei premi mediante esposizione di dati o notizie falsi rilevava ai fini della sanzione amministrativa, afferendo all’ambito penale il diverso inquadramento entro lo schema dell’art. 640 bis c.p.; non poteva attribuirsi all’opponente la qualifica di imprenditore agricolo a titolo principale non sussistendo i due requisiti richiesti ex lege (la metà del tempo di lavoro complessivo e la metà del reddito globale da lavoro, profilo, quest’ultimo, non risultante agli atti, nè desumibile in via presuntiva).

3. Avverso questa sentenza, P.T.S. propone ricorso per cassazione,affidato a sei motivi e notificato all’Ispettorato Centrale Repressione Frodi presso il Ministero per le politiche agricole, in persona del direttore pro tempore, del funzionario delegato e del Ministro pro tempore. Resiste, con controricorso, il Ministero per le politiche agricole, in persona del legale rappresentante pro tempore.

4. Deve essere, preliminarmente, dichiarata l’inammissibilità del controricorso proposto dall’Amministrazione centrale delle politiche agricole, in persona del legale rappresentante pro tempore. In tema di legittimazione, attiva e passiva, nel giudizio di Cassazione, avverso la sentenza con cui il giudice del merito abbia pronunziato sull’opposizione proposta, ai sensi della L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 22, contro il provvedimento irrogativo di sanzione amministrativa emesso da un organo periferico di una branca dell’Amministrazione a ciò competente, la legittimazione spetta al detto organo e non al Ministro al vertice della singola branca dell’Amministrazione, in quanto la legittimazione, nel giudizio di opposizione a sanzione amministrativa, compete all’autorità che ha reso il provvedimento opposto, la quale agisce in virtù di specifica autonomia funzionale anche quando abbia la veste di organo periferico dello Stato, e tale legittimazione resta ferma pure in fase d’impugnazione, in difetto di diversa previsione nella disciplina della citata legge (ex multis, Cass. 4418/2007; 5689/2000).

5. Il ricorrente lamenta con il primo motivo, violazione del D.Lgs. n. 143 del 1997, art. 2 e D.Lgs. n. 300 del 1999, art. 33 (in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5), trattandosi di ordinanza- ingiunzione emessa da autorità, il Ministero per le politiche agricole, priva, ex lege, di potestà sanzionatoria in materia di contributi per il mantenimento di vacche nutrici.

6. La doglianza non è meritevole di accoglimento. Questa Corte ha già affermato che "la competenza all’emissione di ordinanza- ingiunzione irrogativa di sanzione amministrativa per indebito conseguimento di aiuti comunitari appartiene al Ministero delle risorse agricole (in seguito sostituito dal Ministero delle politiche agricole, con D.Lgs. 4 giugno 1997, n. 143), succeduto, ai sensi della L. n. 491 del 1993, art. 2, comma 2, in tutti i rapporti attivi e passivi non attribuiti alle Regioni, facenti capo al soppresso Ministero dell’agricoltura e delle foreste, tra i quali l’accertamento e la repressione delle frodi in detta materia. (Cass. 23 febbraio 2005, n. 3786). Infatti per la L. 4 dicembre 1993, n. 491, art. 1, comma 2, alle regioni sono state trasferite solo funzioni in materia di agricoltura e foreste, di acquacoltura e agriturismo, nonchè le funzioni relative alla conservazione e allo sviluppo del territorio rurale, funzioni tra le quali non è compreso l’accertamento e la repressione delle frodi in materia di aiuti comunitari. Per la L. n. 491 del 1993, art. 2, comma 2, invece, il Ministero delle risorse agricole (in seguito a sua volta sostituito dal Ministero delle politiche agricole con D.Lgs. 4 giugno 1997, n. 143) è succeduto in tutti i rapporti attivi e passivi, non attribuiti alle singole regioni, ivi compresi quelli finanziari, facenti capo al soppresso Ministero dell’agricoltura e delle foreste" (Cass. 19591/2010).

7. Con il secondo motivo si lamenta violazione della L. n. 689 del 1981, artt. 14 e 28 (in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5), per essere stato l’illecito contestato da autorità incompetente (la guardia di finanza), oltre il termine di 180 giorni e quando la pretesa sanzionatoria era già prescritta (in data 8.2.1994, con riferimento alle campagne di commercializzazione 1986/87 e 1987/88).

8. Il motivo è infondato. Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte "il termine di 180 giorni fissato dalla L. n. 898 del 1986, art. 4, per la notifica del processo verbale relativo alle violazioni previste dalla stessa legge, decorre dalla data nella quale l’autorità amministrativa competente completa o dovrebbe completare, anche in relazione alla complessità della fattispecie, l’attività intesa a verificare la sussistenza degli elementi oggettivi e soggettivi della violazione in modo da consentirne la cornetta contestazione" (Cass. 32124/2005, Cass. 9486/2002, Cass. 15572/2000, 2002). E’ stato, altresì, affermato da questa Corte che compete al giudice del merito "valutare la congruità del tempo utilizzato per l’accertamento in relazione alla maggiore o minore difficoltà del caso (con apprezzamento incensurabile in sede di legittimità, se correttamente motivato)" (Cass. 13862/2002). Correttamente, pertanto, nella specie, il giudice del merito ha ritenuto tempestiva la notifica di cui si tratta, avendo rilevato dall’esame degli atti che le indagini, particolarmente complesse, si erano svolte nel 1992, con informativa alla Procura della Repubblica nel marzo del 1992 e che, al momento della conclusione delle stesse, l’autorità giudiziaria aveva disposto la contestazione dell’illecito amministrativo (il 22 novembre 1993) e la notifica della contestazione era stata eseguita in data 8 febbraio 1994. Dunque, effettivamente la notifica all’attuale ricorrente era avvenuta nel termine di legge, senza che rilevi in contrario l’osservazione secondo la quale la Guardia di Finanza, organo accertatore, sarebbe stata incompetente a contestare l’illecito, spettando tale funzione all’organo competente all’emissione dell’ordinanza-ingiunzione. La sentenza di questa Corte cui si richiama il ricorrente nel formulare il rilievo (sent. n. 5548 del 1999), si riferisce, invero, ad una fattispecie in cui era stata l’autorità giudiziaria ad informare dell’avvenuta commissione dell’illecito l’amministrazione competente all’irrogazione della sanzione. L’argomentazione si fonda sull’interpretazione letterale della L. n. 689 del 1981, art. 14, comma 3, che, in tema di contestazione delle violazioni amministrative, dispone che, quando gli atti relativi alla violazione sono trasmessi all’autorità competente con provvedimento dell’autorità giudiziaria, i termini per la notifica della contestazione decorrono dalla data della ricezione. Detta argomentazione,dunque, non assume rilievo, per ovvie ragioni di concentrazione nel tempo degli atti del procedimento, allorchè l’accertamento provenga dalla polizia giudiziaria: in tal caso, infatti, non vi è ragione di scindere la competenza all’accertamento da quella alla contestazione, creando, tra l’altro, in tal modo, una differenza rispetto all’ipotesi di contestazione immediata della violazione, in relazione alla quale la competenza spetta per legge all’accertatore (v., in tal senso, Cass. 19591/2010 cit). A fronte delle esaustive considerazioni, sulla base delle quali il giudice di merito ha ritenuto fissato l’accertamento al 22.9.1993 e tempestiva la contestazione eseguita l’8.2.1994, le censure risultano palesemente inconsistenti e in parte inammissibili, perchè si deduce un errore revocatorio di individuazione della data di contestazione dell’accertamento dell’illecito che sarebbe avvenuto oltre il termine di gg. 180 rispetto alla data di accertamento.

9. Quanto alla dedotta prescrizione, si rileva che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, ogni atto del procedimento previsto dalla legge per l’accertamento della violazione e per l’irrogazione della sanzione ha la funzione di far valere il diritto dell’Amministrazione alla riscossione della pena pecuniaria, in quanto, costituendo esso esercizio della pretesa sanzionatoria, idoneo a costituire in mora il debitore ai sensi dell’art. 2343 c.c. (v., tra le altre, Cass. 9520/2001 e 1081/2007), senza che rilevi la distinzione,adombrata nel ricorso,tra atti posti in essere dall’autorità cui la legge attribuisce la funzione dell’irrogazione della sanzione e atti posti in essere dall’autorità che ha provveduto all’accertamento. Ne consegue che la notifica della contestazione, avvenuta nel febbraio del 1994, ad opera della Guardia di Finanza di Santo Stefano di Camastra, costituisce valido atto di interruzione del decorso del termine di prescrizione.

10. Con il terzo motivo si deduce la violazione della L. n. 689 del 1981, art. 18 (in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3, e 5), per essere l’ordinanza motivata per relationem ad altri provvedimenti non portati a conoscenza del ricorrente.

11. Anche tale motivo risulta privo di fondamento. Secondo la giurisprudenza di questa Corte (cfr., ex plurimis, Cass. 8649/2006), l’ordinanza ingiunzione irrogativa di una sanzione amministrativa non deve avere una motivazione analitica e dettagliata come quella di un provvedimento giudiziario, essendo sufficiente che essa sia dotata di una motivazione succinta, purchè dia conto delle ragioni di fatto della decisione (che possono anche essere desunte per relationem dall’atto di contestazione) ed evidenzi l’avvenuto esame degli eventuali rilievi difensivi formulati dal ricorrente. Inoltre, con orientamento consolidato, questa Corte ritiene che il provvedimento possa essere adeguatamente motivato mediante il richiamo, in particolare, ad accertamenti di polizia giudiziaria confluiti in un procedimento penale, procedimento del quale il ricorrente sia pienamente consapevole (v. Cass. 10757/2008, 389/06, 12320/04, 16203/03, 1135/01 e 391/96).

12. Con il quarto motivo la decisione è censurata per violazione della L. n. 689 del 1981, art. 1 e della L. n. 898 del 1986, artt. 2 e 3 (in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5), per violazione dei principi di tassatività, legalità e specialità, sul presupposto dell’ applicazione della sanzione amministrativa prevista dalla cit. L. n. 898, art. 3, solo per le violazioni previste dall’art. 2 della citata legge, mai contestate al ricorrente, sottoposto, invece, a procedimento penale per truffa aggravata, ex art. 640 bis c.p., concluso con decreto di archiviazione del 29.5.1992. 13. Anche tale motivo è privo di fondamento. Come già ritenuto da questa Corte, la L. n. 898 del 1986, art. 2, comma 1, prevede come illecito penale, sussidiario rispetto al delitto previsto dall’art. 640 bis c.p., il comportamento di "chiunque, mediante l’esposizione di dati o notizie falsi, consegue indebitamente, per sè o per altri, aiuti, premi, indennità, restituzioni, contributi, o altre erogazioni a carico totale o parziale del fondo europeo agricolo di orientamento e garanzia". La L. n. 898, art. 3 prevede, poi, che "indipendentemente dalla sanzione penale e qualunque sia l’importo indebitamente percepito, per il fatto indicato nei commi primo e secondo dell’art. 2 il percettore è tenuto, oltre alla restituzione dell’indebito, al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria pari all’importo indebitamente percepito". Nella giurisprudenza di questa Corte è principio pacifico quello secondo il quale la L. n. 898 del 1986, agli artt. 2 e 3, prevede, per la medesima fattispecie, rispettivamente, un illecito penale e un illecito amministrativo e, quindi, un’ipotesi di doppia punibilità alla quale va applicato il cumulo materiale fra sanzioni di diversa specie (Cass. 1933/1998, 24/1999, 1081/2007). Nè, come da ultimo statuito da Cass. 19591/2010, ha rilievo che il fatto previsto dalla L. n. 898 del 1986, art. 2, possa eventualmente integrare, in via alternativa, il più grave delitto previsto dall’art. 640 bis c.p., perchè, ai fini dell’illecito amministrativo, rileva solo che il fatto descritto nell’art. 2 citato sia stato commesso, quale che sia la qualificazione penalistica ad esso attribuita.

14. Con il quinto motivo si lamenta la violazione della L. n. 153 del 1975, art. 14, della L.R. n. 13 del 1986, art. 3 (in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5), per erronea applicazione della normativa definitoria della figura dell’ imprenditore agricolo a titolo principale.

15. La censura, per come formulata, non può essere esaminata in questa sede di legittimità. In tema di ricorso per Cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge ed implica, necessariamente pertanto, un problema interpretativo della stessa (di qui la funzione di assicurare l’uniforme interpretazione della legge assegnata alla Corte di Cassazione dall’art. 65 ord. giud.); viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e impinge nella tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione. Lo scrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato, in modo evidente, dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. 7394/2010, 4178/07, 10127/06, 16312/05, 15499/04). Nella specie, il ricorrente deduce l’erronea applicazione della normativa definitoria della figura dell’imprenditore agricolo a titolo principale in ragione della non condivisa valutazione delle risultanze di causa, tanto è vero che assume, appunto, che "la sentenza è errata nel punto in cui ha ritenuto che dagli atti di causa non risulta che l’opponente abbia percepito alcun reddito derivante dall’attività agricola, di allevamento e connesse, nè tale circostanza può desumersi da elementi presuntivi". 16. Con il sesto motivo si denuncia la violazione della L. n. 689 del 1981, artt. 3 e 23 (in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5) e omessa motivazione per essere la pretesa sanzionatoria rimasta sfornita di prove.

17. Il motivo è inammissibile, risolvendosi in una non consentita richiesta alla Corte di legittimità di una rivisitazione del materiale probatorio e dell’apprezzamento che plausibilmente e motivatamente ne ha operato il giudice di merito.

18. Il ricorso va, quindi, rigettato. Alla soccombenza consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali del giudizio di cassazione nella misura liquidata come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese che liquida in Euro 1.500,00, di cui Euro 1.300,00 per onorari.

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