Cass. civ. Sez. VI, Sent., 09-12-2011, n. 26500 Diritti politici e civili

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1.- I ricorrenti indicati in epigrafe impugnano per cassazione il decreto della Corte d’appello di Trieste del 26.11.2009 che, con condanna degli attori alle spese della procedura, ha rigettato la domanda di equa riparazione dai medesimi proposta, diretta ad ottenere la condanna del Ministero dell’Economia e delle Finanze a pagare Euro 8.250,00 a titolo di equo indennizzo ai sensi della L. n. 89 del 2001 e dell’art. 6 della Convenzione dei diritti dell’uomo.

Gli istanti hanno chiesto i danni non patrimoniali subiti per effetto dell’ansia a loro provocata dalla durata irragionevole del processo da essi iniziato con ricorso del 19 dicembre 1995 al Tar del Lazio per il pagamento di straordinari per servizi prestati, ritenuto palesemente infondato e respinto con sentenza n. 1946/2003, processo ancora pendente dinanzi al Consiglio di Stato.

Respinta l’eccezione di incompetenza territoriale, la Corte adita ha ritenuto che l’affermazione dal Tribunale amministrativo del Lazio sulla manifesta infondatezza della pretesa del ricorrente, anche in base ai numerosi precedenti giurisprudenziali, fosse incompatibile con qualsiasi incertezza e/o ansia da attesa dell’esito del giudizio, con esclusione conseguente del danno non patrimoniale e infondatezza della domanda, dovendosi negare ogni valutazione della posta in gioco del processo presupposto perchè non poteva che presumersi la sicura consapevolezza, da parte del ricorrente, dell’inconsistenza delle proprie ragioni.

L’Amministrazione intimata resiste con controricorso di cui, tra l’altro, eccepisce l’inammissibilità per nullità delle procure d esso spillate.

I ricorrenti hanno depositato memoria.

1.1.- La presente sentenza è redatta con motivazione semplificata così come disposto dal Collegio in esito alla deliberazione in Camera di consiglio.

2.- L’eccezione di inammissibilità del ricorso è infondata alla luce del consolidato orientamento per il quale la procura al difensore apposta a margine del ricorso deve considerarsi conferita, salvo diversa volontà, per il giudizio per cassazione e soddisfa perciò il requisito di specialità previsto dall’art. 365 cod. proc. civ.. La mancanza di data non produce nullità della procura, atteso che la posteriorità del rilascio della procura rispetto alla sentenza gravata si ricava dall’intima connessione con il ricorso al quale accede, nel quale la sentenza è menzionata, nonchè dalla nomina di un domiciliatario e/o di un difensore del foro di Roma con l’elezione di domicilio presso il medesimo (per tutte v. Sez. 3, Sentenza n. 13414 del 29/10/2001).

2.1.- Con il ricorso in cassazione si censura il decreto impugnato per due motivi: a) violazione degli artt. 6, e 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, oltre che dell’art. 101 Cost., dovendo presumersi sempre il danno da ansia per l’attesa dell’esito del processo, salvo il caso di azione temeraria o abuso del processo; b) insufficiente e contraddittoria motivazione.

Il ricorso è fondato alla luce della giurisprudenza di questa Corte (v., per identica fattispecie, Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 12493 del 2011), essendo apodittica la esclusione dell’ansia da esito del giudizio per la mera infondatezza della domanda a base del processo presupposto, come più volte affermato da questa Corte. Perchè il danno non patrimoniale possa negarsi deve invece rilevarsi e provarsi il carattere temerario e arbitrario delle domande proposte nella causa durata oltre i termini di ragionevolezza, con la dimostrazione cioè di un dolo che evidenzi la natura strumentale dell’azione per conseguire lo stesso equo indennizzo per detta ingiusta durata (così da ultimo Cass. n. 9938/2010) ovvero il carattere emulativo della domanda volta solo a danneggiare controparte nella piena consapevolezza per chi agisce dell’infondatezza delle proprie istanze (Cass. ord. n. 8513 del 2010), potendo incidere la soccombenza nel processo presupposto solo nella liquidazione della misura dell’indennizzo (Cass. n. 24107/2009) e non per la sua esclusione.

3.- Ritenuti fondati i motivi di ricorso, il decreto impugnato deve essere cassato e, non essendo necessari altri accertamenti di fatto, le cause possono essere decise ai sensi dell’art. 384 c.p.c.;

adeguandosi ai parametri della Corte europea dei diritti dell’uomo costituenti il diritto vivente, l’equo indennizzo deve computarsi, in rapporto alla durata del giudizio ancora pendente al momento della proposizione della domanda dì equa riparazione, mentre era in corso il secondo grado della causa presupposta instaurata il 19 dicembre 1995.

Il decreto impugnato deve essere cassato e, decidendo nel merito ex art. 384 c.p.c., la Corte deve procedere alla liquidazione dell’indennizzo in favore di ciascun ricorrente nella misura di Euro 9.200,00. Ciò tenuto conto della durata del giudizio presupposto, pari a circa 18 anni e 5 mesi, in applicazione della più recente giurisprudenza di questa Sezione e dei criteri desumibili dalle decisioni della Corte di Strasburgo del 2010 sui ricorsi MARTINETTI ET CAVAZZUTI c. ITALIE e GHIROTTI ET BENASSI c. ITALIE per i giudizi contabili e amministrativi e, in particolare, del principio enunciato da Sez. 1, Sentenza n. 13019 del 2010, secondo cui "deve ritenersi congrua, anche in base a quanto afferma la Corte d’appello in ordine alla esiguità della posta in gioco per l’esiguità del trattamento pensionistico chiesto e denegato dalla Corte dei Conti, la riparazione per la somma indicata di meno di Euro 500,00 annui, anche maggiore di quella recentemente determinata dalla C.E.D.U. per il danno non patrimoniale di un processo amministrativo italiano" (Sez. 2^, 16 marzo 2010, Volta et autres c. Italie, Ric. 43674/02).

Le spese – liquidate in dispositivo – seguono la soccombenza e in ragione dell’accoglimento della domanda originaria e del valore della causa.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso nei sensi di cui in motivazione e cassa il decreto impugnato in relazione alla impugnazione accolta;

decidendo la causa nel merito ai sensi dell’art. 384 c.p.c., condanna il Ministero dell’economia e delle finanze a pagare a ciascun ricorrente, quale equa riparazione per il danno non patrimoniale, Euro 9.200,00, oltre agli interessi dalla domanda nonchè alle spese dell’intero giudizio, che liquida, per il processo di merito, in Euro 50,00 per esborsi, Euro 490,00 per onorari ed Euro 891,00 per diritti e, per quello di legittimità, in Euro 965,00, di cui Euro 100,00 per esborsi, oltre alle spese generali e agli accessori come per legge per entrambi i gradi.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cons. Stato Sez. III, Sent., 06-09-2011, n. 5017 Ricorso per revocazione

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Svolgimento del processo

Con la decisione 17 gennaio 2011, n. 227 il Consiglio di Stato, Sezione Sesta, in riforma della sentenza del TAR Campania, Napoli, Sez. I, n. 13720/2010, respingeva il ricorso introduttivo proposto avverso lo scioglimento del Consiglio comunale di San G. Vesuviano dai componenti della disciolta Amministrazione.

Avverso l’anzidetta decisione questi ultimi hanno avanzato ricorso in revocazione, adducendo la sussistenza dei presupposti cui all’art. 395, nn. 3, 4, 5 C.P.C.sotto i seguenti profili:

1) il Consiglio di Stato ha fondato la sua decisione sulla supposizione della esistenza di un fatto, quale l’incontro tra il dott. A. (candidato Sindaco alle elezioni comunali) e C. A. (esponente di un clan camorristico), finalizzato a concordare un sostegno elettorale in cambio della attribuzione di incarichi nella nuova Amministrazione comunale, nonostante che l’esistenza di tale incontro fosse stata incontrovertibilmente esclusa dal giudice penale con sentenza del Tribunale di Nola del 30.9.2009;

2) solo dopo la pubblicazione della decisione del Consiglio di Stato i ricorrenti hanno potuto acquisire copia della ordinanza di custodia cautelare emessa dal GIP del Tribunale di Napoli il 30.12.2006 nei confronti di C. A., e copia degli interrogatori resi da quest’ultimo alla Direzione distrettuale antimafia nel 2007, da cui emerge che quanto affermato nella relazione della Commissione d’accesso, e cioè che tali atti di indagine attesterebbero l’esistenza di contatti tra il C. e in candidato Sindaco, non corrisponde al vero;

3) nella decisione oggetto dell’istanza di revocazione l’attività compiuta dalla Amministrazione comunale con riferimento agli affidamenti del servizio smaltimento rifiuti è stata ritenuta sintomatica di un condizionamento camorristico degli amministratori, nonostante l’esistenza di altra decisione del Consiglio di Stato che sulla stessa questione aveva ritenuto legittimo il comportamento dell’Amministrazione.

Si è costituita in giudizio l’Avvocatura dello Stato per la Presidenza del Consiglio, il Ministero dell’Interno e la Prefettura di Napoli, contestando la fondatezza dei motivi di revocazione dedotti nel ricorso del quale ha chiesto la reiezione.

Hanno poi proposto intervento ad adiuvandum i signori M. N., C. C., B. G., C. S., già interventori ad opponendum nel giudizio d’appello, che hanno concluso per l’accoglimento del ricorso in revocazione.

Con successive memorie le parti hanno ribadito e ulteriormente illustrato le proprie tesi difensive.

Alla pubblica udienza del 15 luglio 2011 la causa è stata trattenuta in decisione.

Motivi della decisione

1. Tutti i motivi di revocazione prospettati con il ricorso in esame sono destituiti di fondamento.

2. Secondo quanto esposto in narrativa, l’errore di fatto ex art. 395, n. 4 C.P.C. in cui sarebbe incorsa la decisione del Consiglio di Stato consisterebbe nell’aver ritenuto come esistenti fatti che sono stati esclusi dalla sentenza del Tribunale Penale di Nola del 30 settembre 2009, e segnatamente l’incontro avvenuto nella imminenza delle elezioni comunali tra C. A. e il candidato Sindaco dott. A. (incontro che, secondo la relazione della Commissione di accesso, avrebbe avuto lo scopo di assicurare l’appoggio elettorale del C., esponente di un clan camorristico, in vista del conferimento dell’incarico di responsabile dell’area tecnica comunale ad un suo cugino).

Senonché ad una attenta lettura della decisione anzidetta deve escludersi che tale incontro sia stato dato per avvenuto.

Al riguardo il Collegio, dopo aver osservato che la dichiarazione resa dal C. alla Autorità Giudiziaria in ordine al predetto incontro non era stata "oggetto di riscontro" nella sentenza di primo grado, nel senso che alla stessa non era stato attribuito un rilievo specifico, ha però ritenuto "giustificato che nella relazione della Commissione d’accesso tale elemento sia stato considerato comunque rilevante", poiché effettivamente all’indomani delle elezioni si è avverato il conferimento al cugino del C. della responsabilità dell’intera area tecnica comunale, incluso il servizio di gestione e raccolta rifiuti. Nella decisione di cui è chiesta la revocazione non si è sostenuto dunque che l’incontro sia realmente avvenuto, ma più semplicemente si è espresso un giudizio di verosimiglianza relativamente all’ipotesi di un accordo preelettorale prospettato nella relazione della Commissione d’accesso.

Ricostruita nei termini ora esposti la vicenda per la quale si è denunciato l’errore di fatto, è palese l’infondatezza del motivo revocatorio.

Come è infatti noto, l’errore di fatto che legittima il ricorso per revocazione consiste in una falsa percezione, da parte del giudice, della realtà risultante dagli atti di causa, e più precisamente in una svista materiale che abbia indotto il giudice a supporre l’esistenza di un fatto che obiettivamente non esiste, oppure a considerare inesistente un fatto che viceversa risulta positivamente accertato. Non è invece errore di fatto, ma semmai errore di diritto, quello che attiene alla attività valutativa del giudice, e segnatamente alla interpretazione che questi abbia dato dei fatti posti alla base del giudizio.

Nel caso in esame non può dirsi pertanto che il Collegio sia incorso in qualche svista laddove si è limitato a ritenere attendibile la conclusione cui era pervenuta la Commissione d’accesso.

3. Con il secondo motivo i ricorrenti invocano la revocazione ai sensi dell’art. 395, n. 3 C.P.C. assumendo che soltanto dopo la pubblicazione della decisione del Consiglio di Stato hanno potuto acquisire documenti dai quali risulterebbe la non veridicità delle affermazioni contenute nella relazione della Commissione d’accesso relativamente ai contatti intercorsi tra il C. e il dott. A..

Ma in disparte ogni altra considerazione relativamente alla asserita impossibilità di non aver potuto produrre la documentazione in corso di giudizio, va rilevato che in ogni caso non si tratta di documenti "decisivi". La circostanza che dalla ordinanza di custodia cautelare emessa nei confronti del C., e dagli interrogatori resi da questi alla Direzione distrettuale antimafia, non risultasse comprovata l’esistenza di contatti tra il C. e il dott. A., nulla aggiunge e nulla innova rispetto agli elementi considerati rilevanti nella decisione oggetto della istanza di revocazione. La quale infatti non fonda il "decisum" sulla comprovata esistenza di un incontro o di un contatto intercorso tra i due soggetti, bensì sulla convinzione che l’incarico attribuito al cugino del C. costituisca la spia di un accordo preelettorale.

4. Infondato è, infine, il motivo dì revocazione ex art. 395, n. 5 C.P.C., con il quale si ipotizza un contrasto tra la decisione in esame, nella quale si è sostenuto che lo scioglimento del Consiglio comunale (che era stato l’oggetto del ricorso introduttivo proposto dagli odierni ricorrenti) fosse giustificato anche alla luce dell’affidamento del servizio di smaltimento rifiuti alla società S., che sarebbe stato sintomatico di un condizionamento da parte della criminalità organizzata; e altra decisione dello stesso Consiglio di Stato (la n. 6902 del 2007) che, definendo il giudizio avviato dalla stessa società S., confermava la legittimità dell’atto di revoca dell’aggiudicazione disposto dal Comune (a seguito di informativa prefettizia) nei confronti della anzidetta società, risultando in tal modo dimostrata la correttezza dell’operato della Amministrazione comunale in materia di affidamento del servizio rifiuti.

Ma il motivo revocatorio così prospettato è privo di pregio, dal momento che la revocazione ai sensi dell’art. 395, n. 5 C.P.C. presuppone, secondo il concorde indirizzo della giurisprudenza, che tra i due giudizi ritenuti in conflitto tra loro sussista identità di soggetti e identità di oggetto, che non ricorre nella fattispecie.

4. Per quanto precede il ricorso in revocazione proposto dagli odierni istanti deve ritenersi inammissibile.

5. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo dichiara inammissibile.

Condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali in favore delle Amministrazioni statali resistenti liquidandole nella misura complessiva di euro 4.000,00 (quattromila/00).

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 23-06-2011) 12-09-2011, n. 33782 Interesse ad impugnare

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. C.D., con l’assistenza del difensore di fiducia, ricorre per cassazione chiedendo l’annullamento dell’ordinanza con la quale, il 18.1.2011, il Tribunale di sorveglianza di Messina ha revocato la misura dell’affidamento in prova, concessagli il 5.10.2010, perchè sopravvenuto a suo carico nuovo titolo di condanna a mesi sette di reclusione per evasione, reato ostativo alla concessione della misura revocata.

A sostegno dell’impugnazione la difesa ricorrente rileva che la condotta di evasione è stata consumata anteriormente all’inizio della misura revocata, e che per questo essa era già stata valutata al momento della sua concessione.

2. Con motivata requisitoria scritta il P.G. in sede concludeva per l’annullamento dell’ordinanza impugnata.

3. Nelle more del presente giudizio di legittimità, e precisamente il 6 giugno 2011, è maturato in favore del ricorrente il termine ultimo di detenzione, di guisa che il ricorso in esame, con la riconquistata libertà del detenuto, ha perso ogni interesse concreto.

P.Q.M.

la Corte dichiara inammissibile il ricorso per sopravvenuta carenza di interesse.

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Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 17-02-2012, n. 2316 Licenziamento

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Svolgimento del processo

Con ricorso al Giudice del lavoro del Tribunale di Firenze P. S.E.L. impugnava il licenziamento intimatole dalla Fondazione Museo Stibbert in data 28-5-2007, chiedendo che, in linea di stretta subordinazione, fosse dichiarato: nullo perchè ritorsivo;

nullo perchè in violazione della L. n. 300 del 1970, art. 7;

illegittimo per mancanza del giustificato motivo soggettivo.

La Fondazione convenuta resisteva e svolgeva domanda riconvenzionale perchè fosse dichiarata la risoluzione del rapporto in virtù di altro licenziamento, successivamente intimato il 6-9-2007, per superamento del periodo di comporto.

La P., a sua volta, in reconventio reconventionis, promuoveva, subordinatamente all’accoglimento della domanda riconvenzionale, domanda di risarcimento danni per violazione dell’art. 2087 c.c..

Con sentenza n. 852 del 2008 il Giudice del lavoro del Tribunale di Firenze escludeva che nella specie si potesse parlare di licenziamento ritorsivo, mancando la prova dell’intento ad hoc. Rigettava la domanda subordinata di nullità per violazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, considerando congruo il periodo intercorso fra fatto disciplinarmente rilevato e contestazione dell’addebito (circa 40 giorni), e riteneva, invece, la carenza di giustificato motivo soggettivo, per sproporzione fra il fatto stesso (una argomentata e vibrata lettera di protesta) e la sanzione comminata.

Pertanto, in applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 8, disponeva la reintegra o, in mancanza, il risarcimento dei danni commisurato, in considerazione della risalenza nel tempo del rapporto, in sei volte l’ultima retribuzione mensile globale di fatto.

La lavoratrice proponeva appello avverso la detta sentenza, chiedendone la riforma con l’accoglimento integrale della domanda introduttiva.

La Fondazione resisteva al gravame e proponeva appello incidentale al fine di sentir accertare la legittimità del licenziamento.

Subordinatamente, poi, all’accoglimento dell’appello principale, la Fondazione, in via incidentale, riproponeva la domanda riconvenzionale (circa la legittimità del secondo licenziamento per superamento del comporto).

La Corte d’Appello di Firenze, con sentenza depositata il 27-2-2009, rigettava entrambi gli appelli.

In sintesi la Corte territoriale rilevava la mancata dimostrazione del carattere ritorsivo del licenziamento e riteneva sproporzionato lo stesso, essendosi comunque trattato di manifestazione del diritto di critica da parte del lavoratore senza contenuto oggettivamente denigratorio e/o diffamatorio.

Per la cassazione di tale sentenza la P. ha proposto ricorso con due motivi.

La Fondazione Museo Stibbert ha resistito con controricorso.

Infine la P. ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

Con il primo motivo, denunciando violazione della L. n. 604 del 1966, art. 4, della L. n. 300 del 1970, art. 15 e della L. n. 108 del 1990, art. 3, con riferimento all’art. 2697 c.c., la ricorrente, in sostanza deduce che la Corte di merito ha erroneamente posto a carico della lavoratrice l’onere della prova circa la natura ritorsiva del licenziamento, laddove "per stessa ammissione della parte datoriale, unico motivo della risoluzione del rapporto di lavoro subordinato è stato il contenuto della missiva del 13 marzo 2007".

La ricorrente, inoltre, lamenta che la Corte territoriale contraddittoriamente "ha ritenuto che la condotta tenuta nel caso di specie dalla Fondazione fosse censurabile ed illegittimo il licenziamento", non ritenendo però il licenziamento stesso ritorsivo.

La ricorrente formula quindi il seguente quesito di diritto ex art. 366 bis c.p.c., che va applicato nella fattispecie ratione temporis:

"voglia la Suprema Corte di Cassazione Sezione Lavoro chiarire e dichiarare i criteri di applicazione dell’art. 2697 c.c., in tema di onere della prova con riferimento alla disciplina in tema di licenziamento ritorsivo di cui alla L. n. 604 del 1966, art. 4, L. n. 300 del 1970, art. 15 e L. n. 108 del 1990, art. 3".

Con il secondo motivo la ricorrente, denunciando vizio di motivazione, in sostanza lamenta che la Corte di merito, contraddittoriamente, "in un primo momento al fine di escludere la natura ritorsiva del licenziamento (che avrebbe comportato la natura reale richiesta dal lavoratore), ha sostenuto che sarebbe stato onere della stessa ricorrente dare prova della veridicità delle accuse mosse al datore di lavoro, poi invece sostiene che l’onere della prova era a carico del datore di lavoro che non vi avrebbe ottemperato (e da tale considerazione è scaturita la declaratoria di illegittimità del licenziamento)".

La Fondazione, dal canto suo, con il controricorso, eccepisce la carenza di interesse della ricorrente, assumendo che in sostanza è stata "abbandonata completamente l’impugnazione del secondo licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto", non avendo la P. "riproposto in appello nessuna delle domande contenute nella sua reconventio reconventionis di primo grado" riguardanti la illegittimità del secondo licenziamento.

La eccezione è infondata in quanto non avendo il primo giudice preso in esame il secondo licenziamento, in quanto assorbito dalla decisione sul primo, ed avendo la Fondazione riproposto la domanda riconvenzionale soltanto "subordinatamente all’accoglimento dell’appello principale", in sostanza non vi è stata alcuna decisione nel merito riguardo al detto secondo licenziamento, in quanto la Corte d’Appello ha espressamente ritenuto "assorbito" il "secondo capo dell’appello incidentale" a seguito del rigetto dell’appello principale, di guisa che, in definitiva, l’interesse della P. alla affermazione della natura ritorsiva del primo licenziamento, con le relative conseguenze, non è in alcun modo venuto meno.

Così respinta preliminarmente l’eccezione avanzata dalla controricorrente, sul primo motivo osserva il Collegio che il quesito, concentrato nella mera richiesta di "chiarire e dichiarare i criteri di applicazione dell’art. 2697 c.c., in tema di onere della prova con riferimento alla disciplina in tema di licenziamento ritorsivo", risulta del tutto generico e privo di qualsiasi riferimento alla fattispecie concreta e al decisum, e come tale inidoneo ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c. (vigente ratione temporis).

Il quesito di diritto, richiesto a pena di inammissibilità del relativo motivo, in base alla giurisprudenza consolidata di questa Corte, deve infatti essere formulato in maniera specifica e deve essere chiaramente riferibile alla fattispecie dedotta in giudizio (v. ad es. Cass. S.U. 5-1-2007 n. 36), dovendosi pertanto ritenere come inesistente un quesito del tutto generico. Del resto è stato anche precisato che "è inammissibile il motivo di ricorso sorretto da quesito la cui formulazione si risolve sostanzialmente in una omessa proposizione del quesito medesimo, per la sua inidoneità a chiarire Terrore di diritto imputato alla sentenza impugnata in riferimento alla concreta fattispecie" (v. Cass. S.U. 30-10-2008 n. 26020), dovendo in sostanza il quesito integrare (in base alla sola sua lettura) la sintesi logico-giuridica della questione specifica sollevata con il relativo motivo (cfr. Cass. 7-4-2009 n. 8463).

Il secondo motivo, poi, è infondato e va respinto.

Non vi è, infatti, in sostanza, alcuna contraddizione tra la affermazione della mancanza della prova del carattere ritorsivo del licenziamento (che incombe sul lavoratore, v. Cass. 5-8-2010 n. 18283) e la affermazione della sproporzione del licenziamento stesso, ben potendo ritenersi – come nella fattispecie ha affermato la Corte di merito – "che una lettera, destinata a conoscenza interna quand’anche contenga un’elencazione di fatti non provati, possa non essere considerata talmente grave" – in riferimento al contenuto comunque "oggettivamente non denigratorio" di quei fatti – "da comportare il recesso dal rapporto, poichè le esigenze di tutela della struttura gerarchica aziendale ( art. 2086 c.c.) devono essere contemperate con il diritto costituzionale di manifestazione del pensiero ( art. 21 Cost.)" ed in particolare con il diritto di critica, nel quadro della valutazione di tutte le circostanze del caso, così escludendosi, non solo la giusta causa tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto, ma anche il notevole inadempimento degli obblighi contrattuali che integra il giustificato motivo soggettivo (in generale su tale valutazione complessiva v. Cass. 10-12-2007 n. 25743 e, in specie, in tema di diritto di critica, v. fra le altre Cass. 22-10-1998 n. 10511, Cass. 24-5-2001 n. 7091, Cass. 14-6-2004 n. 11220, Cass. 10-12-2008 n. 29008).

Il ricorso va pertanto respinto e la ricorrente, in ragione della soccombenza, va condannata al pagamento delle spese in favore della controricorrente.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso, in favore della controricorrente, delle spese liquidate in Euro 30,00 oltre Euro 2.000,00 per onorari, oltre spese generali, I.V.A. e C.P.A..

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.