Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 20-05-2011, n. 11195 Contratto a termine

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issibilità del ricorso nei confronti degli altri controricorrenti.
Svolgimento del processo

1.- Con separati ricorsi al giudice del lavoro del Tribunale di Como, successivamente riuniti, B.G., A.N., G.M.S., D.A., T.M., P.M. e L.G. chiedevano che venisse dichiarata la nullità dell’apposizione del termine all’assunzione alle dipendenze di Poste Italiane s.p.a. disposta in loro favore per vari periodi di tempo.

2.- Rigettata la domanda e proposto appello dai predetti, la Corte d’appello di Milano con sentenza del 28.4.06 accoglieva l’impugnazione e, in riforma della sentenza appellata, dichiarava per tutti la nullità del termine e l’esistenza di un contratto di lavoro a tempo indeterminato, fissandone per ciascuno la decorrenza e condannando Poste Italiane a corrispondere, a titolo di risarcimento, le retribuzioni dalla data della costituzione in mora, detratto quanto percepito a titolo di retribuzione in altra occupazione.

3.- Con riferimento alla posizione A., che qui interessa, il contratto era stato stipulato per il periodo 1.7-30.9.02 "per esigenze tecniche, organizzative e produttive anche di carattere straordinario conseguenti a processi di riorganizzazione, ivi ricomprendendo un più funzionale riposizionamento di risorse sul territorio, anche derivanti da innovazioni tecnologiche, ovvero conseguenti all’introduzione e/o sperimentazione di nuove tecnologie, prodotti o servizi, nonchè per l’attuazione delle previsioni di cui agli accordi 17, 18 e 23 ottobre, 11 dicembre 2001 e 11 gennaio, 13 febbraio e 17 aprile 2002, congiuntamente alla necessità di espletamento del servizio in concomitanza di assenza per ferie contrattualmente dovute a tutto il personale nel periodo estivo".

Essendo nell’atto scritto richiamato il D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, art. 11 concernente la regolazione della fase transitoria della nuova disciplina del contratto a termine, il giudice di appello riteneva che il contratto fosse stipulato ai sensi della disciplina collettiva e che, pertanto, fosse onere del datore di lavoro dare prova delle ragioni per le quali, in fatto, era stato appostoli termine. Ritenendo indimostrate sia le esigenze di ristrutturazione, sia la transitoria mancanza di personale per godimento delle ferie, riteneva illegittimamente apposto il termine.

4.- Avverso questa sentenza propone ricorso per cassazione Poste Italiane s.p.a. Rispondono con controricorso tutti i dipendenti in causa. Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Motivi della decisione

5.- Agli atti sono depositati i seguenti verbali di conciliazione in sede sindacale, recanti le date di seguito indicate e relativi alle posizioni a margine di ognuno: 20.1.09 ( G.), 20.1.09 ( L.), 30.1.09 ( B.), 30.1.09 ( D.), 6.2.09 ( P.), 9.2.09 ( T.).

Dai verbali in questione risulta che i lavoratori ora indicati hanno raggiunto con la controparte un accordo transattivo concernente la controversia de qua, che le parti si danno atto dell’intervenuta amichevole e definitiva conciliazione a tutti gli effetti di legge e dichiarano che – in caso di fasi giudicali ancora aperte – le stesse saranno definite in coerenza con il presente verbale.

L’accordo comporta la cessazione della materia del contendere nel giudizio di cassazione ed il conseguente sopravvenuto difetto di interesse delle parti a proseguire il processo. Alla cessazione della materia del contendere consegue la declaratoria di inammissibilità del ricorso in quanto l’interesse ad agire, e quindi anche ad impugnare, deve sussistere non solo nel momento in cui è proposta l’azione o l’impugnazione, ma anche nel momento della decisione, in relazione alla quale va valutato l’interesse ad agire (Cass. S.u.

29.11.06 n. 25278).

In ragione del contenuto transattivo degli accordi è conforme a giustizia procedere alla compensazione delle spese del giudizio di cassazione tra le parti che sono pervenute alla conciliazione.

6.- Passando alla trattazione della posizione residua, relativa ad A., i motivi dedotti da Poste Italiane possono essere così sintetizzati.

6.1.- Quinto motivo nella scansione del ricorso: violazione della L. n. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23 del D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, art. 1 e degli artt. 115-116 c.p.c., con articolazione della censura sotto due profili alternativi: a) da un lato si contesta la erronea applicazione dell’art. 25 del ccnl Poste 11.1.01, per il quale, in forza della delega in bianco conferita alla parti stipulanti dall’art. 23 sopra indicato, le esigenze straordinarie per le quali era stata disposta l’assunzione non avrebbero richiesto prova, essendo frutto della verifica negozialmente compiuta dalle parti stipulanti; b) in alternativa, ove si ritenesse applicabile il D.Lgs. n. 368 del 2001, sarebbe superflua la prova a livello di singolo ufficio dell’esistenza delle esigenze che hanno procurato la stipula del contratto a termine, atteso che l’assunzione avrebbe dovuto essere considerata alla luce delle complessive esigenze aziendali di carattere organizzativo.

6.2.- Sesto motivo nella scansione del ricorso (ivi limitato alla posizione G., ma da ritenere riferito alla posizione A., v. la precisazione data nella memoria di Poste Italiane):

violazione dell’art. 115 c.p.c., contestandosi – quanto alla seconda motivazione "espletamento del servizio in concomitanza di assenza per ferie" – l’affermazione che dovesse essere provata l’assenza di personale di ruolo nel periodo estivo.

6.3.- Ottavo motivo nella scansione del ricorso: violazione degli artt. 1206, 1207, 1217, 1219, 2094 e 2099 c.c. a proposito di messa in mora e corrispettività delle prestazioni, sottolineandosi che l’attore a titolo risarcitorio avrebbe avuto diritto solo alle retribuzioni maturate dal momento dell’effettiva ripresa del servizio.

7.- Deve preliminarmente rilevarsi che il giudice di merito ha escluso che al contratto de quo fosse applicabile la disciplina del D.Lgs. n. 368 del 2001, ritenendo che il richiamo contenuto nell’atto scritto a tale fonte normativa fosse limitato all’art. 11, ovvero alla regolazione degli effetti transitori della nuova disciplina, ed ha ritenuto che in forza di tale norma dovesse farsi ancora applicazione della disciplina contrattuale prevista dal ccnl 11.1.01, rimasto in vigore fino alla sua scadenza.

Parte ricorrente non censura la pronunzia in punto di erronea applicazione dell’art. 11 in questione e, soprattutto, non contesta che il ccnl 11.1.01 avesse una scadenza diversa da quella ritenuta dal giudice (che lo ha ritenuto applicabile ad un contratto avente durata 1.7-30.9.02). Non essendo consentito al giudice conoscere ex officio norme di fonte non legislativa non ritualmente introdotte in giudizio, non può in questa sede porsi questione concernente l’applicazione dell’art. 11 in relazione alla scadenza del contratto collettivo.

8.- Per tali considerazioni, dunque, deve esaminarsi il primo profilo di ricorso dedotto con il quinto motivo (indicato sub 6.1, lett. a), con il quale si deduce la violazione dell’art. 25 del contratto collettivo.

Tanto premesso, in relazione alla motivazione espressa dal giudice di merito, deve rilevarsi che con riferimento all’art. 25 del ccnl 11.1.01 – al pari di quanto previsto per l’art. 8 del ccnl 26.11.94 – la giurisprudenza di questa Corte ha legittimato l’interpretazione che il legislatore ha conferito una delega in bianco ai soggetti collettivi, non imponendo al potere di autonomia i limiti ricavabili dal sistema della L. n. 230 del 1962, ma consentendo alle parti stipulanti di esprimersi secondo le specificità del settore produttivo e autorizzando Poste Italiane s.p.a. a ricorrere (nei limiti della percentuale fissata) allo strumento del contratto a termine, senza altre limitazioni. L’assenza di ogni pregiudiziale collegamento con la disciplina generale del contratto a termine giustifica l’interpretazione che il raccordo sindacale autorizza la stipulazione dei contratti di lavoro a termine pur in mancanza di collegamento tra l’assunzione del singolo lavoratore e le esigenze di carattere straordinario richiamate per giustificare l’autorizzazione, con riferimento alla specificità di uffici e di mansioni (Cass. 26.9.07 n. 20157 e 20162, 1.10.07 n. 20608).

In base a questa impostazione è richiesto, dunque, che sia provato non che le singole assunzioni e la destinazione alle specifiche mansioni cui il dipendente fu destinato furono adottate in concreto per far fronte alle esigenze descritte nella fattispecie astratta, ma solo che le assunzioni in questione erano ricollegabili alle esigenze aziendali considerate nella norma collettiva.

Al riguardo deve ulteriormente richiamarsi la giurisprudenza che ha riconosciuto l’incidenza dell’accordo del 18.1.01 (peraltro non considerato dalla sentenza impugnata). Tale accordo costituisce attuazione della procedura di confronto sindacale prevista dallo stesso art. 25 del contratto collettivo, a norma del quale prima di dare corso alle conseguenti assunzioni, la materia formerà oggetto di confronto: a) a livello nazionale, qualora risultino interessate più regioni … Sulla base del testo del suddetto accordo – ove si legge che le OO.SS. … convengono ancora che i citati processi, tuttora in corso, saranno fronteggiati in futuro anche con il ricorso a contratti a tempo determinato, stipulati nel rispetto della nuova disciplina pattizia delineata dal c.c.n.l. 11.1.2001 – è stato osservato, il significato letterale delle espressioni usate è così evidente e univoco che non necessita di un più diffuso ragionamento al fine della ricostruzione della volontà delle parti, (v. al riguardo la già richiamata sentenza n. 20608 del 2007).

9.- Non essendosi il giudice di merito attenuto a questo principio, il quinto motivo (come sopra delimitato) deve essere accolto, con assorbimento dei motivi sesto ed ottavo.

Consegue, quanto alla posizione A., la cassazione della sentenza impugnata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, il rigetto della domanda proposta dal dipendente.

10. Quanto alle spese, a carico del soccombente A. vanno poste le spese del giudizio di legittimità, come liquidate in dispositivo, con compensazione delle spese dei giudizi di primo e secondo grado.

Per le residue posizioni, deve provvedersi solo per le spese del giudizio di legittimità, le quali, per quanto già detto (v. n. 5), debbono essere compensate.
P.Q.M.

LA CORTE così provvede:

a) quanto alla posizione di A.N., accoglie il quinto motivo di ricorso, dichiara assorbiti il sesto e l’ottavo motivo, cassa l’impugnata sentenza e, decidendo nel merito, rigetta la domanda;

b) compensa tra Poste Italiane s.p.a. ed A.N. le spese del giudizio di merito e condanna detto controricorrente alle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 30,00 (trenta/00) per esborsi ed in Euro 2.500,00 (duemilacinquecento/00) per onorari, oltre spese generali, Iva e Cpa;

c) dichiara inammissibile il ricorso proposto nei confronti di B.G., G.M.S., D.A., T.M., P.M. e L.G., con compensazione delle spese del giudizio di legittimità tra i medesimi e Poste Italiane s.p.a.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 10-02-2011) 29-03-2011, n. 13061 Frode nell’esercizio del commercio

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1 – Il Procuratore Generale della Corte di Firenze propone ricorso immediato contro sentenza del Tribunale, che ha assolto M. N. dal reato di cui all’art. 474 c.p., per aver detenuto per porli in vendita 38 orologi recanti i marchi contraffatti (Rolex ed altri), perchè il fatto non sussiste. Il Tribunale ha ritenuto nella specie integrata l’ipotesi di cui all’art. 49 c.p., per le modalità di messa in vendita ed i prezzi dell’offerta.

2 – Il ricorso, che denuncia violazione di legge penale, è fondato.

Il falso previsto e punito dall’art. 474 c.p. concerne il marchio o i segni distintivi del prodotto industriale, nella specie detenuto a fine di vendita. Pertanto se l’imitazione di tali elementi distintivi del prodotto risulta tale da trarre in inganno, il falso non può essere ritenuto inoffensivo per le modalità con le quali lo stesso prodotto è stato posto in commercio.

Questo principio, ormai diritto vivente (cfr. tra le altre, da ultimo Cass. Sez. 5, n. 40835/04 – CED rv. 230913; 31451/06 – 235214 e 11240/08 – 239478), risulta travisato nella sentenza impugnata. Ad esso si atterrà il Giudice di appello nel caso di specie.
P.Q.M.

annulla l’impugnata sentenza con rinvio, alla Corte di appello di Firenze per il giudizio.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Lombardia Brescia Sez. I, Sent., 13-04-2011, n. 552 Concessione per nuove costruzioni

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rbale;
Svolgimento del processo

M.L.B., la quale gestisce in Castel Rozzone, al numero 18 di piazza Castello, un pubblico esercizio all’insegna "M.C.", ha realizzato nell’immobile che tale esercizio ospita, costituito dalla corte di una vecchia cascina, alcune opere edilizie abusive, a suo dire ultimate nel 1985 e costituite da un prefabbricato in legno adibito a magazzino, sempre a suo dire edificato in sostituzione di un preesistente e più ampio manufatto in muratura, da una tettoia di copertura e dall’ampliamento di un ripostiglio, così adibito a cucina (l’ubicazione e la natura dell’esercizio sono pacifici in causa; per la descrizione delle opere abusive, si veda copia della relazione tecnica con fotografie all’interno del doc. 3 Comune).

Scoperto l’abuso nel corso di un sopralluogo dell’autorità comunale avvenuto il 19 settembre 2008 ed emanata da parte dell’autorità stessa ordinanza di demolizione, gravata in altro giudizio (tali fatti sono pure pacifici in causa), M.L.B. ha presentato per tali opere istanza di sanatoria, alla quale ha ricevuto diniego con l’atto meglio indicato in epigrafe, che nella motivazione recita: "il magazzino, essendo diverso per sagoma, sedime e prospetti del (rectius, dal) fabbricato esistente si configura come opera nuova; l’ampliamento del locale accessorio, indipendentemente dalla destinazione indicata "cucina’, contrasta con la normativa in quanto viene a costituire incremento di densità fondiaria ed è inoltre in contrasto con l’art. 3.4.2. del regolamento locale di igiene; la tettoia esterna è in contrasto con le vigenti norme che escludono la possibilità di realizzare tettoie in ambito residenziale"; lo stesso provvedimento precisa che l’art. 3.4.2. citato impone per i locali accessori, come la cucina di che trattasi, una altezza netta media interna di mt. 2.40, nella specie pacificamente non rispettata (doc. 3 Comune, cit., copia domanda di sanatoria; doc. 1 ricorrente, copia diniego, da cui le citazioni).

Avverso tale diniego, M.L.B. propone nella presente sede impugnazione, con ricorso articolato in due censure, riconducibili secondo logica ad un unico motivo di violazione dell’art. 36 del T.U. 6 giugno 2001 n°380. In proposito, la ricorrente premette in fatto (ricorso, p. 4 quartultimo rigo) di avere chiesto la sanatoria solo per il magazzino e la cucina, non già per la tettoia; aggiunge poi che per ciascuno di detti due manufatti il requisito della doppia conformità doveva ritenersi sussistere. In ordine al magazzino, afferma che nella zona di pertinenza, classificata zona A – centro storico, l’art. 20 delle NTA di piano consentiva all’epoca della costruzione le "trasformazioni anche sostitutive" dell’esistente, e che analoga norma è prevista dall’art. 22 delle NTA vigenti, che consente le ristrutturazioni edilizie. In tale concetto si dovrebbe classificare la costruzione del magazzino, che avrebbe sostituito con un decremento di volumetria il fabbricato già esistente. In ordine alla cucina, afferma infine che essa si dovrebbe ritenere conforme alla disciplina edilizia, in quanto rappresenterebbe un adeguamento igienico sanitario dell’esistente, con volume inferiore al 20% di quello dell’immobile principale.

Resiste il Comune, con atto 5 marzo e memoria 30 giugno 2010, e chiede che il ricorso sia respinto, evidenziando che il magazzino per cui è causa non può considerarsi ristrutturazione, ma solo nuova costruzione, dato che la preesistenza di altro manufatto non è provata, e che la cucina è comunque non conforme al regolamento di igiene nei termini citati.

La Sezione all’udienza del giorno 23 marzo 2011 tratteneva il ricorso in decisione.
Motivi della decisione

Il ricorso è infondato e va respinto, per le ragioni di seguito precisate.

1. Come si è detto in narrativa, la ricorrente, nell’unico motivo proposto, afferma in sintesi che il permesso di costruire in sanatoria le si sarebbe dovuto rilasciare in anzitutto in quanto l’intervento da lei realizzato relativo al magazzino rientrerebbe nel concetto di ristrutturazione edilizia, nel caso di specie consentita. Tale ordine di idee non è peraltro condivisibile, come risulta ricostruendo secondo logica, i passaggi nei quali esso si articola.

2. Come è noto, ai sensi dell’art. 36 del T.U. 380/2001, non derogato in alcuna parte dalla l.r. Lombardia 11 marzo 2005 n°12, il permesso di costruire in sanatoria, in via generale, è rilasciato "se l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda": è il requisito della cd. doppia conformità.

3. Nella specie, secondo quanto affermato dalla ricorrente nella relativa domanda (doc. 3 Comune, copia di essa), l’intervento da sanare era poi rappresentato da una ristrutturazione edilizia, ovvero, ai sensi dell’art. 27 comma 1 lettera d) della citata l.r. 12/2005, da uno degli "interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell’edificio, l’eliminazione, la modifica e l’inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione parziale o totale nel rispetto della volumetria preesistente fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica".

4. Come è noto, il legislatore lombardo ha ritenuto, attraverso l’art. 22 comma 1 della recente l.r. 5 febbraio 2010 n°7, ha ritenuto di intervenire sulla norma citata e di adottare in tal modo nel caso di "demolizione e ricostruzione" un concetto di ristrutturazione più ampio di quello accolto nella normativa nazionale, eliminando in buona sostanza la sagoma quale vincolo da rispettare.

5. A prescindere da ogni questione relativa alla legittimità costituzionale di tale nuova norma, va allora detto che la ristrutturazione nel caso in esame rimane pur sempre assoggettata ad un requisito essenziale che è logico, prima che giuridico: demolizione del preesistente e sua successiva ricostruzione debbono essere contemplati dal titolo come due momenti di un singolo intervento, mentre non sarebbe possibile "ristrutturare" un edificio che già più non esiste per cause del tutto diverse dalla ristrutturazione in programma: su tale concetto generale, in termini di principio si vedano anche C.d.S. sez. IV, 16 aprile 2010 n°2175 e sez. V 23 marzo 2000 n°1610.

6. Sempre nel caso di specie, la ricorrente ritiene di dimostrare il requisito della doppia conformità nei termini di cui appresso. In primo luogo, l’edificio preesistente oggetto di demolizione sarebbe stato un manufatto di muratura, il cui esatto aspetto rimane ignoto, ma che sarebbe esistito sin dal 1967, come proverebbe la piantina annessa alla scheda catastale n°064649 allegata alla domanda di sanatoria (doc. 3 Comune, cit., ove copia della stessa). In secondo luogo, nel 1980, o comunque nel relativo decennio (v. ricorso p. 1 quintultimo rigo), tale edificio sarebbe stato demolito e ricostruito nelle forme dell’attuale deposito in legno. Da ultimo, l’intervento, appunto perché costituente ristrutturazione mediante demolizione e ricostruzione, sarebbe stato legittimo nella zona A6 nella quale l’immobile si trova sia nel 1980, a mente dell’art. 20 delle NTA allora vigenti, sia oggi, a mente dell’art. 22 dello strumento urbanistico attuale (doc. ti Comune 5 e 4, copie estratto delle norme pertinenti).

7. Tale ragionamento è però fallace, perché manca di un necessario presupposto di fatto, senza del quale, come si è detto, di ristrutturazione non si può comunque parlare. Così come dimostrato dalla difesa del Comune, infatti, all’epoca in cui venne realizzato il magazzino oggi esistente nessun preesistente fabbricato da demolire e ristrutturare esisteva più.

8. L’edificio in muratura raffigurato nella scheda catastale, infatti, dato e non concesso che la scheda stessa valga a provarne l’effettiva realizzazione, già non esisteva più nel 1972, ovvero allorquando il Comune rilasciò a favore di certo L.B., verisimilmente padre della ricorrente, una "licenza di costruzione", 24 giugno 1972 n°11, relativa all’immobile cui il magazzino accede: nelle relative tavole progettuali, il cortile preteso sedime dell’immobile in parola è rappresentato come libero da costruzioni (doc. 10 Comune, copia fascicolo relativo).

9. Ad escludere che si possa parlare di ristrutturazione operata nei successivi anni "80 ciò basterebbe; si può poi aggiungere che tale conclusione non muta anche tenendo conto di un altro fabbricato che sembrerebbe sia esistito sempre nel cortile di che trattasi. Si allude al box in lamiera che compariva, come puntualizzato dalla difesa del Comune nelle tavole allegate ad altra concessione edilizia rilasciata all’odierna ricorrente, 19 gennaio 1991 n°17 (doc. 8 Comune, copia di essa), ma era già scomparso nel 1994, come risulta da altre tavole, allegate alla diversa concessione 11 giugno 1994 n°592 (doc. 7 Comune, copia di essa). In proposito, va detto che tale box risulta realizzato senza titolo alcuno, e quindi non poteva legittimamente essere "ristrutturato", non è in alcun modo menzionato nella domanda di sanatoria (doc. 3 Comune, citato), e appare esser stato ancora esistente nel 1991, ovvero dopo che lo si sarebbe, in ipotesi, dovuto demolire per dar luogo al magazzino per cui è causa: è evidente come esso nessuna attinenza abbia con la materia del contendere.

10. E" quindi del tutto corretta la motivazione dell’atto impugnato che sinteticamente qualifica il magazzino in questione come "opera nuova", nei termini sin qui illustrati: si ricorda il pacifico principio giurisprudenziale per cui non costituisce motivazione postuma una difesa della p.a. la quale si limiti a rendere esplicite ragioni del provvedimento già comprensibili esaminando il provvedimento stesso, così come affermato per tutte da C.d.S. sez. V 9 ottobre 2007 n°5271.

11. E" poi solo per completezza che si ricorda come non vi sia luogo a sollevare l’eccezione di incostituzionalità della sopra menzionata norma dell’art. 22 comma 1 della l.r. 5 febbraio 2010 n°7, sollevata dal Comune nelle conclusioni della memoria 30 giugno 2010, dato che la norma stessa, come si è visto, nel caso in esame non rileva.

12. Analoghe conclusioni valgono per il ripostiglio adattato a cucina, ovvero per il secondo ed ultimo manufatto per cui la richiesta di sanatoria è stata presentata. Le ragioni della reiezione sono, come si è detto in premesse, duplici, rappresentate da un lato dall’aumento della densità fondiaria cagionato dalla nuova costruzione, dall’altro dal mancato rispetto della normativa del regolamento di igiene. Vale allora il noto principio, ribadito da costante insegnamento giurisprudenziale (da ultimo C.d.S. parere su ricorso straordinario sez. I 30 novembre 2009 n°3426), secondo il quale "per la conservazione del provvedimento amministrativo sorretto da più ragioni giustificatrici tra loro autonome e non contraddittorie è sufficiente che sia fondata anche una sola di esse".

13. Nel caso di specie, come si ricava a semplice lettura del ricorso, la ricorrente sul punto specifico si è limitata a dedurre che l’intervento sarebbe assentibile in quanto "adeguamento igienico sanitario" sotto il profilo della volumetria occupata (ricorso, p. 9 penultimo paragrafo); nulla però ha detto quanto al rispetto del regolamento di igiene, come nota anche la difesa del Comune, che ribadisce il punto (memoria 30 giugno 2010 p. 10). Il ricorso va quindi respinto anche sotto questo profilo.

14. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia sezione staccata di Brescia (Sezione Prima)

definitivamente pronunciando sul ricorso come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna M.L.B. a rifondere al Comune di Castel Rozzone le spese del giudizio, spese che liquida in Euro 2.000 (duemila/00) oltre accessori di legge, se dovuti.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

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Cass. civ. Sez. I, Sent., 16-08-2011, n. 17310 Opposizione al valore di stima dei beni espropriati

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ivo con assorbimento degli altri motivi del ricorso.
Svolgimento del processo

Con sentenza n. 82 del 12.12.2003- 24.07.2004, la Corte di appello di Catania decideva le tre cause riunite iscritte nel RG degli affari contenziosi civili ai nn. 856 del 1992, 1049 del 1992 e 1112 del 2004, tutte in tema di opposizione alla stima delle indennità di espropriazione e di determinazione delle indennità di occupazione legittima per distinti terreni e pendenti tra i vari proprietari espropriati e l’espropriante Comune di Siracusa.

Per quanto ancora possa rilevare, il giudizio n 1049 del 1992 era stato introdotto dal Comune di Siracusa in relazione alla espropriazione disposta con ordinanza sindacale del 21.01.1992 ed in opposizione alla stima definitiva dell’indennità di espropriazione resa dalla competente Commissione provinciale, con decisione n. 271 del 18.05.1992, inerente anche agli ablati terreni (in CT al F 37 p.lle 62 sub 3 e 206) in proprietà di U.G. e F., i quali in tale processo rimanevano contumaci e che, però, a loro volta, con autonomo atto di citazione notificato il 14.12.1994, introducevano successivamente il giudizio RG n. 1112 del 2004, premettendo anche che, con ordinanza sindacale del 14.11.1994 era stato espropriato il loro terreno esteso mq 4.086 (in CT al F 34 p.lla 390) e chiedendo che fossero determinate le giuste indennità di occupazione temporanea e di espropriazione del loro bene, che assumevano provvisoriamente determinata in misura inadeguata in sede amministrativa.

Con la suddetta sentenza la Corte di appello di Catania, anche in base all’esito della disposta CTU collegiale, riteneva relativamente ai terreni in proprietà di G. e U.F.:

– che tutti i terreni espropriati con l’ordinanza sindacale del 21.01.1992 fossero edificabili in fatto e diritto e che, dunque le indennità di esproprio dovessero essere determinate secondo i criteri indicati dalla L. n. 359 del 1992, art. 5 bis, senza l’abbattimento del 40%, recependo il valore venale unitario di L. 100.000 al mq riferito all’epoca del decreto ablativo – che, pertanto, in favore di G. e U.F. e con riguardo ai terreni riportati in catasto al F 37 p.lle 62 sub 3 e 206 ed estesi complessivamente mq 118,50 l’indennità di esproprio dovesse essere determinata in L. 5.925.00 ( L. 100.000 x mq 118,50 = L.11.500.000 + 0):2, pari ad Euro 3.227,00 arrotondati, somma da maggiorare degli interessi compensativi al saggio legale, con decorrenza dal provvedimento ablativo e di cui andava ordinato al Comune di Siracusa il deposito presso la Cassa DDPP per la parte eccedente quanto già depositato al medesimo titolo;

– che per i terreni fabbricabili espropriati con l’ordinanza sindacale del 14.11.1994 ed estesi complessivamente mq 4.086, l’indennità di espropriazione doveva essere determinata tenendo anche presente la regola riduttiva di cui al D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 16, norma entrata in vigore il l.01.1993 ed applicabile anche d’ufficio che gli U. avevano esposto nella dichiarazione IC1 presentata nell’anno 1993, precedente quello del decreto d’esproprio, un valore di L. 419,5 al mq, inferiore a quello di L. 13.131 al mq di cui all’indennità di esproprio determinata in via provvisoria ( per complessive L. 55.288.450) e depositata presso la Cassa DDPP;

– che, pertanto, agli U. non poteva essere riconosciuta un’indennità di esproprio superiore a L. 1.714.077 (L. 419,5 x mq 4.086 espropriati), sicchè doveva essere respinta l’opposizione alla stima dell’indennizzo espropriativo da loro proposta;

– che, invece, doveva essere accolta l’ulteriore domanda di determinazione dell’indennità di occupazione d’urgenza, disposta con decreto di occupazione d’urgenza del 31.10.1991, da liquidarsi per il periodo decorso da tale data al 14.11.1994, secondo il criterio sussidiario e presuntivo degli interessi legali per ogni anno di occupazione ed in 1/12 dell’indennità annua per ogni mese e frazione di mese, interessi da calcolare sul valore espropriativo del bene occupato, nella specie virtualmente determinabile in L. 1.714.077, pari ad Euro 885,00 arrotondati, e da maggiorare degli interessi compensativi al tasso legale, con decorrenza dalla scadenza di ogni annualità e fino al deposito presso la Cassa DDPP..

Contro questa sentenza G. e U.F. hanno proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi e notificato il 17.10.2005 al Comune di Siracusa, che ha resistito con controricorso;

i notificato il 23.11.2005. Gli U. ed il Comune di Siracusa hanno depositato memoria.
Motivi della decisione

A sostegno del ricorso gli U. denunziano:

1. "Violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione al D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 16. Omessa e/o insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia ( art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5)".

I ricorrenti censurano anche per vizi motivazionali, la decisione adottata nel giudizio riunito RG n. 1112/94 e segnatamente l’applicazione d’ufficio del criterio riduttivo contemplato dalla rubricata norma, assumendo che a tal fine è necessaria l’eccezione di parte.

2. "Violazione della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (Roma 4.11.1950) e dell’art. 17 della carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea".

Sostengono che quando l’indennizzo è troppo riduttivo non può nemmeno essere ritenuto equo e rispettoso dei rubricati accordi sovranazionali.

Il primo motivo del ricorso è fondato con riguardo alla denunciata violazione dell’art. 112 c.p.c.; al relativo accoglimento segue anche l’assorbimento delle ulteriori censure, ivi comprese quelle contenute nel secondo motivo di gravame.

Con prevalente, consolidato e condiviso orientamento, questa Corte (da Cass. 200001381 a Cass. 200500126 e da ultimo a Cass. 201100719) ha affermato che "Nel giudizio promosso dall’espropriato di area edificabilc per la determinazione dell’indennità di espropriazione, l’ammontare discendente dai criteri di legge è suscettibile di riduzione, ai sensi del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, art. 16, comma 1, solo su eccezione dell’espropriante, il quale provi che l’espropriato ha presentato denuncia ai fini dell’imposta comunale sugli immobili, mentre deve escludersi che la relativa questione possa essere rilevata d’ufficio, atteso che si verte in tema di diritti patrimoniali e rileva il principio dispositivo", principio di diritto disatteso dai giudici di merito.

L’impugnata sentenza deve conclusivamente essere cassata in parte qua, con rinvio alla Corte di appello di Catania, in diversa composizione, cui si demanda anche la pronuncia sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo del ricorso nei sensi di cui in motivazione, assorbite tutte le residue censure, cassa in parte qua la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte di appello di Catania, in diversa composizione.
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