T.A.R. Lazio Roma Sez. I quater, Sent., 14-11-2011, n. 8760

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con il ricorso in epigrafe la parte ricorrente espone quanto segue:

1) che egli lavora alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria;

2) che con sentenza n. 12009 del 2008 il TAR Lazio accoglieva il ricorso proposto dai signori M. ed altri (tra cui il ricorrente) per vedersi riconoscere il diritto ad ottenere il computo delle due ore settimanali di servizio obbligatorio a fini di tredicesima mensilità, nonché ai fini della riliquidazione del trattamento pensionistico e di quello di buonuscita, con relativa condanna dell’Amministrazione al pagamento di quanto dovuto; in particolare il TAR accoglieva in parte la pretesa dei ricorrenti riconoscendo il loro diritto ad ottenere il computo delle due ore di servizio straordinario obbligatorio a decorrere dal 31 dicembre 1995 nella base pensionabile e sulla base di calcolo della buonuscita.

Espone altresì di avere notificato nel secondo semestre del 2010, come risultante in atti, apposita diffida affinché l’Amministrazione eseguisse la sentenza in epigrafe, posto che questa è passata in giudicato, atteso il decorso dei termini di impugnazione previsti per legge senza che la parte soccombente proponesse appello.

Conclude chiedendo pertanto che sia dichiarato l’obbligo dell’Amministrazione della Giustizia di portare ad esecuzione la prefata sentenza, oppure che sia nominato un commissario ad acta come per legge.

L’esponente aziona la pretesa ad ottenere l’esecuzione della sentenza in epigrafe, in base alla quale è stato riconosciuto il diritto nei confronti dei destinatari e dei quali fa parte, ad ottenere la determinazione della base pensionabile e della base di calcolo dell’indennità di buonuscita ricomprendendovi anche le due ore di lavoro obbligatorie e settimanali già previste dall’art. 12, commi 1, 2 e 3 del d.P.R. 31 luglio 1995, n. 395 a decorrere dal 31 dicembre 1995.

Al riguardo è dunque da rilevare che, ancorché la sentenza possa ritenersi quanto meno esecutiva non avendo parte ricorrente prodotto certificato di non interposto appello, mentre l’art. 114, comma 2 del Codice di rito prescrive che l’attore debba produrre in giudizio anche l’eventuale prova del passaggio in giudicato, la situazione di cui sopra rende la domanda di esecuzione del tutto indeterminata, laddove a fronte del riconoscimento del diritto ad ottenere il beneficio di che trattasi recato dalla sentenza in epigrafe, la relativa condanna dell’Amministrazione alla corretta determinazione delle sopra cennate basi di calcolo ai fini della pensione e della indennità di buonuscita potrà avere attuazione quando gli interessati, tra cui l’esponente, lo matureranno e cioè al momento del collocamento in quiescenza.

Sotto questo profilo potrebbe obiettarsi che l’ottemperanza sostanzia un giudizio di merito, nel quale, unico, il giudice può sostituirsi all’Amministrazione nell’adottare il provvedimento, ma tale obiezione non vale a scalfire la circostanza che era nella disponibilità della parte fornire la prova dell’intervenuta cessazione al momento della proposizione del ricorso per l’esecuzione, laddove il giudice non può di certo, neppure in sede di merito, sostituirsi all’Amministrazione quando la pretesa azionata, ancorché derivante da una sentenza asseritamente passata in giudicato, sia indeterminata o futura.

In conclusione, il ricorso va dichiarato inammissibile.

Sussistono tuttavia giusti motivi per la compensazione delle spese di giudizio ed onorari tra le parti.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima Quater)

definitivamente pronunciando:

Dichiara inammissibile il ricorso, come in epigrafe proposto.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 12-10-2011) 28-10-2011, n. 39159

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Svolgimento del processo

Con sentenza in data 9.5.2008, il Tribunale di Napoli dichiarò C.R. responsabile del reato di cui agli artt. 633 e 639 bis c.p., e lo condannò alla pena di mesi 4 di reclusione.

Avverso tale pronunzia l’imputato propose gravame ma la Corte d’appello di Napoli, con sentenza in data 20.4.2010, confermò la decisione di primo grado.

Ricorre per cassazione il difensore dell’imputato deducendo:

1. violazione di legge in relazione alla mancata dichiarazione di prescrizione del reato che sarebbe maturata nel 2003;

2. violazione di legge in relazione all’affermazione di responsabilità su elementi labili quali il possesso dell’immobile accertato solo con un controllo nel 1997, l’elezione di domicilio effettuata dal carcere e la mancata esibizione di un titolo abilitativo;

3. violazione di legge in relazione al diniego delle attenuanti generiche ed alla misura della pena.

Motivi della decisione

Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato.

Il reato di cui all’art. 633 c.p. è reato permanente (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 29362 del 21.6.2001 dep. 19.7.2001 rv 219480).

La permanenza è interrotta dalla sentenza di condanna, anche se non irrevocabile, onde dal giorno della pronuncia è configurabile un nuovo reato. (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 35419 del 11.6.2010 dep. 1.10.2010 rv 248301).

Pertanto la prescrizione ad oggi non è ancora maturata.

Il secondo motivo di ricorso è inammissibile per violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, perchè propone censure attinenti al merito della decisione impugnata, congruamente giustificata.

La Corte d’appello ha ritenuto la responsabilità dell’imputato avendo egli avuto possesso dell’immobile destinato a proprio domicilio, tanto da indicarlo nell’elezione di domicilio effettuata dal carcere.

In tale motivazione non si ravvisa alcuna manifesta illogicità che la renda sindacabile in questa sede.

Infatti, nel momento del controllo di legittimità, la Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti nè deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con "I limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento", secondo una formula giurisprudenziale ricorrente. (Cass. Sez. 5A sent. n. 1004 del 30.11.1999 dep. 31.1.2000 rv 215745, Cass., Sez. 2A sent. n. 2436 del 21.12.1993 dep. 25.2.1994, rv 196955).

Del resto va ricordato che il vizio di motivazione implica o la carenza di motivazione o la sua manifesta illogicità.

Sotto questo secondo profilo la correttezza o meno dei ragionamenti dipende anzitutto dalla loro struttura logica e questa è indipendente dalla verità degli enunciati che la compongono.

Il terzo motivo di ricorso è manifestamente infondato.

Va ricordato che ai fini della concessione o del diniego delle circostanze attenuanti genetiche è sufficiente che il giudice di merito prenda in esame quello, tra gli elementi indicati dall’art. 133 c.p., che ritiene prevalente ed atto a determinare o meno la concessione del beneficio; ed anche un solo elemento che attiene alla personalità del colpevole o all’entità del reato ed alle modalità di esecuzione di esso può essere sufficiente per negare o concedere le attenuanti medesime. (Cass. Sez. 2A sent. n. 4790 del 16.1.1996 dep. 10.5.1996 rv 204768).

Nel caso di specie tale elemento è stato comunque indicato nei precedenti penali e, secondo l’orientamento di questa Corte condiviso dal Collegio, in tema di diniego della concessione delle attenuanti generiche, la "ratio" della disposizione di cui all’art. 62 bis c.p. non impone al giudice di merito di scendere alla valutazione di ogni singola deduzione difensiva, dovendosi, invece, ritenere sufficiente che questi indichi, nell’ambito del potere discrezionale riconosciutogli dalla legge, gli elementi di preponderante rilevanza ritenuti ostativi alla concessione delle attenuanti. Ne consegue che le attenuanti generiche possono essere negate anche soltanto in base ai precedenti penali dell’imputato, perchè in tal modo viene formulato comunque, sia pure implicitamente, un giudizio di disvalore sulla sua personalità. (Cass. Sez. 4A sent. n. 08052 del 6.4.1990 dep. 1.6.1990 rv 184544).

La determinazione in concreto della pena costituisce il risultato di una valutazione complessiva e non di un giudizio analitico sui vari elementi offerti dalla legge, sicchè l’obbligo della motivazione da parte del giudice dell’impugnazione deve ritenersi compiutamente osservato, anche in relazione alle obiezioni mosse con i motivi d’appello, quando egli, accertata l’irrogazione della pena tra il minimo e il massimo edittale, affermi di ritenerla adeguata o non eccessiva. Ciò dimostra, infatti, che egli ha considerato sia pure intuitivamente e globalmente, tutti gli aspetti indicati nell’art. 133 c.p. ed anche quelli specificamente segnalati con i motivi d’appello. (Cass. Sez. 6, sent. n. 10273 del 20.5.1989 dep. 12.7.1989 rv 181825. Conf. mass. N. 155508; n. 148766; n. 117242).

Il ricorso deve pertanto essere dichiarato inammissibile.

Ai sensi dell’art. 616 c.p.p., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, l’imputato che lo ha proposto deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento, nonchè – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento a favore della Cassa delle ammende della somma di Euro mille, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille alla Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 29-09-2011) 17-11-2011, n. 42401 Imputabilità

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Svolgimento del processo

Con sentenza del Tribunale di Patti, Sezione distaccata di Sant’Agata di Militello, emessa in data 8 Novembre 2007 la Sig.ra A. è stata condannata alla pena di otto mesi di reclusione, condizionalmente sospesa, e al risarcimento dei danni in favore delle parti civili costituite in quanto ritenuta responsabile del reato previsto dall’art. 408 c.p. commesso il 18 Marzo 2004 in danno delle sepolture delle Sigg. C. e Fa.Ca..

Con la sentenza impugnata la Corte di Appello ha respinto l’impugnazione proposta dal l’imputata. Ritenuta condivisibile la condanna e non censurabile la valutazione che il Tribunale ha fatto delle prove in atti, la Corte territoriale ha ritenuto equa la pena inflitta in primo grado; al rigetto dell’appello la Corte ha fatto seguire la conferma delle statuizioni civili e la condanna dell’imputata alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalle parti civili.

Avverso tale decisione la Sig.ra A. propone ricorso tramite il Difensore, in sintesi lamentando:

1. errata applicazione degli artt. 70 e 71 c.p. per essere stata emessa sentenza di condanna sebbene fosse documentata in atti la incapacità dell’imputata di stare in giudizio come documentato dalla consulenza depositata il 7 Novembre 2009 in altro procedimento e dal ricovero in struttura psichiatrica nei mesi di aprile e maggio 2010;

2. errata applicazione dell’art. 125 c.p.p., comma 3 e art. 546 c.p.p., comma 3, per carenza totale di motivazione in ordine all’entità della pena inflitta e per carenza del dispositivo;

3. vizio di motivazione per avere i giudici di merito omesso di vagliare con la necessaria attenzione critica le deposizioni delle persone offese e omesso di valutare le dichiarazioni favorevoli all’imputata rese dal teste M..

Motivi della decisione

I motivi di ricorso sono manifestamente infondati.

1. Il primo motivo di ricorso propone per la prima volta in questa sede questioni concernenti la capacità di stare in giudizio e, sembra di capire, la stessa capacità di intendere e volere della Sig.ra A. al momento dei fatti. Tali questioni vengono fondate su elementi di fatto in parte datati ad oltre cinque anni dalla commissione del reato e in parte successivi alla stessa sentenza di primo grado, per i quali non risultano proposte specifiche questioni in sede di giudizio di appello; si tratta, inoltre, di fatti che troverebbero solo parzialmente riscontro in documentazione che viene per la prima volta portata all’attenzione dell’autorità giudiziaria in sede di ricorso di legittimità.

Si è in presenza di censure che concernono apprezzamenti di fatto e che avrebbero dovuto essere sottoposte ai giudici di merito;

risultano, dunque, tardivamente esposte e non ammissibili in sede di legittimità. 2. Anche il terzo motivo di ricorso contiene censure che attengono alla ricostruzione del fatto e pongono questioni che coinvolgono la valutazione del materiale probatorio. Tali censure si pongono in contrasto con i principi che questa Corte ritiene di accogliere con riferimento ai limiti del giudizio di legittimità ex art. 606 c.p.p., lett.): il giudizio sulla completezza e correttezza della motivazione della sentenza impugnata non può confondersi "con una rinnovata valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporsi a quella fornita dal giudice di merito", con la conseguenza che una motivazione esauriente nell’affrontare i temi essenziali e coerente nella valutazione degli elementi probatori si sottrae al sindacato di legittimità. Conservano, dunque, piena validità anche dopo la novella del 2006 i principi essenziali fissati dalla sentenza delle Sezioni Unite Penali, n. 2120, del 23 novembre 1995-23 febbraio 1996, Fachini (rv 203767).

3. Deve, infine, essere dichiarato manifestamente infondato il secondo motivo di ricorso, non ricorrendo il vizio di carenza d motivazione prospettato dalla Sig.ra. A.. La Corte ha espresso in modo certamente sintetico ma chiaro la convinzione che, considerati i limiti di pena edittale, la sanzione inflitta dai primi giudici debba trovare conferma alla luce della gravità del fatto e della personalità dell’appellante quali emergono dalla ricostruzione dei fatti.

Sulla base delle considerazioni fin qui svolte il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con conseguente condanna della ricorrente, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese del presente grado di giudizio.

Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza "versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", si dispone che la ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, nonchè al versamento della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Lazio Roma Sez. II, Sent., 10-01-2012, n. 183

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. – Premetteva il ricorrente di essere proprietario di un appartamento sito nel fabbricato di Via Gradoli n. 65 int. 10 in Roma e di essere stato raggiunto dall’ordinanza sindacale n. 129 del 29 novembre 2007, notificata a numerosi proprietari di appartamenti nel ridetto fabbricato, con la quale si ingiungeva lo sgombero dei locali siti in Via Gradoli n. 65-69, reso necessario da "inconvenienti igienico-ambientali" (così, testualmente, nella parte in premessa dell’ordinanza impugnata, che analiticamente li ha descritti con riferimento a ciascuna unità abitativa) e di pericolo per la salute pubblica evidenziati nel corso di un sopralluogo svolto da personale della ASL RM/E, dichiarandosi quindi lo stato di inabitabilità dei predetti locali.

Con il gravame qui in esame il ricorrente, uno dei proprietari degli appartamenti interessati dal provvedimento notificato a ciascuno di loro, costituiti da monolocali siti al piano terra, al primo piano seminterrato ed al secondo piano seminterrato del fabbricato in questione, sostiene l’illegittimità dell’ordinanza qui gravata in quanto:

a) per l’immobile di proprietà del ricorrente era stata da tempo presentata domande di concessione in sanatoria, poi ottenuta dal dante causa;

b) il mancato rilascio della certificazione di agibilità può al più provocare l’irrogazione di una sanzione pecuniaria e non, addirittura, l’adozione di un provvedimento di sgombero, come è invece nella specie avvenuto.

2. – Si è costituita in giudizio l’Amministrazione comunale intimata contestando la fondatezza del gravame e chiedendone la reiezione.

Con alcune ordinanze istruttorie questo Tribunale ha disposto verificazioni, affidandole all’Ufficio del Genio civile della Regione Lazio, alla ASL RM/C, ai Vigili del fuoco, ciascuno per quanto di competenza, aventi ad oggetto l’indagine in ordine alle condizioni igienico-statiche degli appartamenti del ricordato immobile di Via Gradoli, tra i quali quello di proprietà del ricorrente e coinvolto nella ordinanza sindacale impugnata.

Successivamente tutte le parti controvertenti hanno depositato memorie conclusive e di replica confermando le già rassegnate conclusioni.

Mantenuta riservata la decisione alla udienza pubblica dell’8 giugno, alla Camera di consiglio del 13 luglio 2011 il ricorso è stato trattenuto per la decisione.

3. – Il Collegio rileva che, nel merito, le censure dedotte non colgono nel segno, anche alla luce degli esiti delle disposte verificazioni, di talché il ricorso deve essere respinto.

4. – Va sottolineato preliminarmente che il provvedimento qui impugnato si sostanzia in un ordine di sgombero di taluni appartamenti del fabbricato sito in Roma, Via Gradoli n. 65 e tutti collocati ai piani scantinati S1 e S2 del palazzo, perché, all’esito di numerosi sopralluoghi, se ne è manifestata la inabitabilità sia per carenza del requisito relativo alle superfici minime che di quelli igienico-sanitari, concretandosi quindi un pericolo per la salute pubblica il permanente loro utilizzo a fini abitativi.

5. – Al di là dei profili in fatto che caratterizzano la presente controversia, sotto il profilo giuridico va evidenziato che:

A) l’art. 4 del D.P.R. 22 aprile 1994, n. 425 ebbe a prevedere che per utilizzare un edificio fosse necessario ottenere il certificato di agibilità il cui rilascio da parte del sindaco era condizionato alla presentazione di una serie di documenti idonei ad attestare la sussistenza di determinati standards minimi di salubrità. Nel contempo l’art. 5 di detto testo normativo abrogava l’art. 221, primo comma, del regio decreto 27 luglio 1934 n. 1265 relativamente alla disciplina del procedimento per il rilascio del certificato. L’intervento normativo in esame ha modificato in termini sostanziali l’istituto dell’agibilità, mutando la denominazione dell’atto da "autorizzazione" amministrativa a "certificato", semplificando il procedimento di rilascio, e, soprattutto, estendendo l’ambito di valutazione ad interessi diversi e ulteriori rispetto a quelli connaturati alla tutela di carattere meramente sanitario; in altri termini, al concetto di agibilità si è andato sostituendo quello di "vivibilità" della costruzione, che inerisce ad una condizione dell’abitare complessivamente rispettosa della dignità dell’individuo;

B) successivamente gli articoli da 24 a 26 del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 hanno fissato la disciplina attualmente vigente. Anzitutto – per come è ricordato nella relazione illustrativa che ha accompagnato il predetto decreto presidenziale – il legislatore ha provveduto a ricondurre ad unità i termini di agibilità e abitabilità spesso utilizzati indifferentemente nella normativa precedente. Inizialmente nel linguaggio normativo il termine "licenza di abitabilità" era stato utilizzato in relazione agli immobili ad uso abitativo, mentre il termine "licenza di agibilità" relativamente a quelli non residenziali, quali opifici, uffici, esercizi pubblici e commerciali. In un secondo tempo, il legislatore aveva operato una diversa classificazione, riconducendo all’agibilità la disciplina generale della stabilità e della sicurezza dell’immobile e all’abitabilità la disciplina speciale dei requisiti dell’immobile rispetto a specifiche destinazioni d’uso. In effetti, alcune disposizioni normative e, soprattutto, una certa prassi giurisprudenziale, avevano indotto a pensare che all’interno del nostro ordinamento esistessero due diversi tipi di certificazioni. In realtà, le due espressioni, se pur diversamente utilizzate, erano di fatto omogenee e non richiedevano procedimenti amministrativi diversi. Dimostrativo ne è il fatto che il corredo documentale dell’istanza, come pure le indagini tecniche preliminari al rilascio del certificato, non cambiavano a seconda del tipo di unità immobiliare da certificare, fatta salva, ovviamente, l’esigenza di valutare la presenza di requisiti igienico-sanitari diversi in ragione dell’uso previsto. Eliminato il duplice riferimento terminologico, il legislatore del 2001 ha optato per l’onnicomprensivo termine di "certificato di agibilità" attestante l’idoneità abitativa di qualsiasi edificio. Secondo la nuova formulazione, l’ambito di operatività del certificato di agibilità risulta più esteso rispetto al passato, essendo richiesto non solo per i nuovi organismi edilizi, ma anche per gli interventi eseguiti sugli stessi che possiedano l’attitudine a modificare le condizioni igieniche e sanitarie preesistenti. Ai fini dell’accertamento dell’agibilità di un edificio ciò che rileva non è tanto la qualificazione giuridica dell’intervento (ristrutturazione, restauro o risanamento conservativo, oppure manutenzione straordinaria o realizzazione di sole opere interne), quanto piuttosto la qualità e l’entità dell’intervento, nonché i suoi riflessi sulla condizione di salubrità della costruzione o di sue parti. Il certificato di agibilità è dunque necessario per tutti gli organismi edilizi destinati a un utilizzo che comporti la permanenza dell’uomo che può risolversi sia nel soggiorno prolungato, com’è per le abitazioni, sia nella semplice frequentazione, com’è per l’immobile destinato a un’attività produttiva, che deve comunque essere di durata tale da richiedere la presenza di condizioni minime di igiene e salubrità;

C) in base a quanto previsto dagli artt. 24 e 25 del D.P.R. n. 380 del 2001, il certificato di abitabilità delle costruzioni costituisce un’attestazione da parte dei competenti uffici tecnici comunali in ordine alla sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità e risparmio energetico degli edifici e degli impianti tecnologici in essi installati, alla stregua della normativa vigente. Ne deriva la legittimità, in via generale, dello svolgimento da parte degli organi comunali competenti di ogni indagine utile al fine di effettuare una consapevole valutazione sulla sussistenza delle surriferite condizioni, soprattutto quando in un edificio (per come è avvenuto nel caso in esame) siano state realizzate modifiche strutturali (cfr., in argomento, T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. II, 16 marzo 2011 n. 740), che implicano anche un cambiamento dell’uso degli spazi (si veda sul punto la relazione prodotta in data 26 ottobre 2010 con allegazione di documenti dall’amministrazione del Condominio dello stabile in questione);

D) l’art. 25, commi 3-5, del D.P.R. n. 380 del 2001 prevede un procedimento di rilascio del certificato di agibilità, articolato sui seguenti principi fondamentali: 1) il procedimento deve essere concluso nel termine di 30 giorni dalla ricezione della domanda di rilascio del certificato di agibilità o di 60 giorni, nel caso in cui il ricorrente si sia avvalso della possibilità di sostituire con autocertificazione il parere dell’A.S.L. previsto dall’art. 5, 3 comma lett. a) del D.P.R. n. 380 del 2001; 2) il decorso del termine per la definizione del procedimento, importa la formazione del silenzio assenso sull’istanza di rilascio del certificato di agibilità; 3) il termine del procedimento può essere interrotto una sola volta dal responsabile del procedimento, entro quindici giorni dalla domanda, esclusivamente per la richiesta di documentazione integrativa, che non sia già nella disponibilità dell’amministrazione o che non possa essere acquisita autonomamente; in tal caso, il termine per la conclusione del procedimento ricomincia a decorrere dalla data di ricezione della documentazione integrativa; 4) il rilascio del certificato di agibilità non impedisce l’esercizio del potere di dichiarazione di inagibilità di un edificio o di parte di esso ai sensi dell’articolo 222 del regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265 (art. 26 D.P.R. n. 380 del 2001).

6. – Fermo quanto sopra e tenuto conto che la disciplina suesposta presenta una ipotesi di silenzio assenso nell’ipotesi di istanza di agibilità presentata agli Uffici competenti e rispetto alla quale gli stessi non hanno adottato alcun provvedimento espresso, occorre pur tuttavia verificare se l’ordinamento ha previsto casi in cui vi siano criticità riferibili alla acquisibilità implicita – per effetto del silenzio – della dichiarazione di agibilità.

Sul punto vale la pena rammentare che:

a) in caso di istanza di condono edilizio, il rilascio del c.d. certificato di agibilità può avvenire in deroga soltanto alle norme di tipo secondario e/o regolamentare, ma non anche in deroga alle disposizioni normative di fonte primaria e/o di legge, soprattutto se attinenti alla materia dell’igiene pubblica e dell’inquinamento del suolo, in quanto diversamente, in caso di adesione ad una possibile interpretazione di tipo estensivo delle norme in materia di condono edilizio, l’art. 35, comma 14, della L. 28 febbraio 1985, n. 47 (come le altre norme analoghe ad essa succedute nel tempo in materia di condoni edilizi) sarebbe palesemente incostituzionale per contrasto con il fondamentale principio della tutela della salute ex art. 32 Cost., inteso non solo come diritto alla salute del singolo individuo, ma anche come diritto dell’intera collettività alla salubrità dell’ambiente (sul punto cfr. Cons. Stato, Sez. V, 15 aprile 2004 n. 2140 e 13 aprile 1999 n. 414 nonché TAR Sardegna 29 ottobre 2002 n. 1422);

b) il suesposto orientamento si pone perfettamente in linea con quello espresso dalla Corte Costituzionale la quale, con sentenza n. 256 del 18 giugno 1996, ha avuto modo di precisare, per un verso, che il certificato di abitabilità non deve necessariamente autorizzare in maniera uniforme tutto l’edificio o parte di esso, dovendo essere distinti gli usi abitativi o di semplice agibilità, quando alcuni locali siano utilizzabili solo come accessori o come locali non destinabili a usi abitativi stabili o come depositi o con altri usi non abitativi, quando non siano strutturalmente idonei sotto il profilo igienico-sanitario per una abitabilità piena, ancorché oggetto di concessione edilizia in sanatoria nonché, per altro verso, la circostanza che le norme sul condono edilizio prevedano, a seguito della concessione in sanatoria, il rilascio del certificato di abitabilità o agibilità anche in deroga ai requisiti fissati da norme regolamentari, purché non sussista contrasto con le disposizioni vigenti in materia di sicurezza statica e di prevenzione degli incendi e degli infortuni, "non riguarda i requisiti richiesti da disposizioni legislative e deve, pertanto, escludersi una automaticità assoluta nel rilascio del certificato di abitabilità (…) a seguito di concessione in sanatoria, dovendo invece il Comune verificare che al momento del rilascio del certificato di abitabilità siano osservate non solo le disposizioni di cui all’art. 221 T.U. delle leggi sanitarie (rectius, di cui all’art. 4 del D.P.R. n. 425 del 1994), ma, altresì quelle previste da altre disposizioni di legge in materia di abitabilità e servizi essenziali relativi e rispettiva normativa tecnica (…) Permangono, infatti, in capo ai Comuni tutti gli obblighi inerenti alla verifica delle condizioni igienico-sanitarie per l’abitabilità degli edifici, con l’unica possibile deroga ai requisiti fissati da norme regolamentari" (così, testualmente, la sentenza della Corte costituzionale n. 256 del 1996 citata);

c) se è dunque vero che, in base a quanto previsto dagli art. 24 e 25, del n. 380 del 2001, il certificato di agibilità delle costruzioni costituisce un’attestazione da parte dei competenti uffici tecnici comunali in ordine alla sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità e risparmio energetico degli edifici e degli impianti tecnologici in essi installati, alla stregua della normativa vigente, appare altrettanto legittimo che una valutazione sulla sussistenza di dette condizioni, sia richiesta a fronte di modifiche strutturali che implicano anche un cambiamento dell’uso degli spazi e che dunque il Comune non perda, neppure per l’ipotesi di rilascio implicito del certificato ovvero per effetto di condono, il potere-dovere di verificare la sussistenza effettiva di dette condizioni di salubrità e di intervenire laddove siano riscontrate carenze (cfr. sul punto T.A.R. Veneto, Sez. III, 2 gennaio 2009 n. 6 nonché T.A.R Basilicata, Sez. I, 29 novembre 2008 n. 916).

7. – Nel caso di specie il Comune, con l’ordinanza qui principalmente impugnata, ha evidenziato, all’esito di alcuni sopralluoghi, importanti deficienze igienico sanitarie negli appartamenti per i quali è qui controversia, confermate dalle verificazioni disposte da questo Tribunale e gli esiti delle consulenza di parte affidate da alcuni degli odierni ricorrenti a tecnici di fiducia non si manifestano idonei a superare le conclusioni confermative alle quali sono pervenute le indagini di verificazione disposte con profili di evidente sintonia rispetto alle valutazioni operate dagli uffici comunali nel corso dell’istruttoria che ha condotto all’adozione della qui avversata ordinanza sindacale di sgombero.

I verificatori hanno infatti significativamente affermato che tutti i locali esaminati presentano superfici finestrate inidonee ed aree calpestabili inferiori ai 28 metri quadrati, valore minimo per un monolocale. Alcuni immobili presentano evidenti inconvenienti igienico-sanitari che li rendono inidonei all’uso abitativo.

In altri termini, seppure con alcune peculiarità e caratteristiche diverse per taluni dei monolocali, l’esito delle disposte verificazioni costituisce conferma della inadeguatezza, sotto il profilo igienico sanitario, dei locali in questione ad essere abitati, rafforzando i risultati dell’istruttoria svolta in vista della adozione dell’ordinanza sindacale di sgombero.

L’indagine, va precisato, è stata svolta accuratamente dall’Azienda USL RM/C , che in contraddittorio con le parti coinvolte ha concluso i propri rilievi affermando con nettezza e senza escludere alcun immobile da siffatto esito che "si esprime parere igienico-sanitario contrario all’uso di tali locali come abitazioni" (così, testualmente, nella relazione depositata l’8 ottobre 2009).

8. – Ciò posto, in via di fatto, le censure dedotte dal ricorrente con l’atto introduttivo non si presentano idonee a scalfire la dimostrazione, acquisita nel corso del processo, del corretto percorso seguito dagli uffici comunali per giungere all’adozione dell’ordinanza di sgombero, avvalorato dagli esiti delle disposte verificazioni; ne deriva la reiezione del ricorso.

Sussistono, nondimeno e tenuto conto della tecnicità delle questioni affrontate, i presupposti per compensare integralmente le spese di giudizio tra le parti costituite ai sensi dell’art. 92 c.p.c. novellato, per come richiamato dall’art. 26, comma 1, c.p.a..

P.Q.M.

pronunciando in via definitiva sul ricorso in epigrafe, lo respinge.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nelle Camere di consiglio dell’8 giugno 2011 e del 13 luglio 2011 con l’intervento dei magistrati:

Luigi Tosti, Presidente

Carlo Modica de Mohac, Consigliere

Stefano Toschei, Consigliere, Estensore

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