Cass. civ. Sez. VI, Sent., 09-12-2011, n. 26483 Danno non patrimoniale

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Svolgimento del processo

B.C. ricorre per cassazione nei confronti del decreto in epigrafe della Corte d’appello che, liquidando Euro 1.650,00 per anni cinque e mesi otto di ritardo, ha accolto parzialmente il suo ricorso con il quale è stata proposta domanda di riconoscimento dell’equa riparazione per violazione dei termini di ragionevole durata del processo svoltosi in primo grado avanti al TAR del Lazio dal 26.4.2000 al 16.12.2008.

Resiste l’Amministrazione con controricorso.

Il Collegio ha disposto la redazione della motivazione in forma semplificata.

Motivi della decisione

L’unico motivo di ricorso con il quale si deduce violazione della L. n. 89 del 2001 e della CEDU nonchè difetto di motivazione in relazione alla quantificazione del danno non patrimoniale che il giudice del merito ha determinato in Euro 300,00 per ogni anno eccedente il periodo di tre anni ritenuto ragionevole è manifestamente fondato.

Le Sezioni Unite di questa Corte hanno chiarito come la valutazione dell’indennizzo per danno non patrimoniale resti soggetta – a fronte dello specifico rinvio contenuto nella L. n. 89 del 2001, art. 2 – all’art. 6 della Convenzione, nell’interpretazione giurisprudenziale resa dalla Corte di Strasburgo, e, dunque, debba conformarsi, per quanto possibile, alle liquidazioni effettuate in casi similari dal Giudice europeo, sia pure in senso sostanziale e non meramente formalistico, con la facoltà di apportare le deroghe che siano suggerite dalla singola vicenda, purchè in misura ragionevole (Cass., Sez. Un., 26 gennaio 2004, n. 1340); in particolare, detta Corte, con decisioni adottate a carico dell’Italia il 10 novembre 2004 (v., in particolare, le pronunce sul ricorso n. 62361/01 proposto da Riccardi Pizzati e sul ricorso n. 64897/01 Zullo), ha individuato nell’importo compreso fra Euro 1.000,00 ed Euro 1.500,00 per anno la base di partenza per la quantificazione dell’indennizzo, ferma restando la possibilità di discostarsi da tali limiti, minimo e massimo, in relazione alle particolarità della fattispecie, quali l’entità della posta in gioco e il comportamento della parte istante (cfr., ex multis, Cass., Sez. 1^, 26 gennaio 2006, n. 1630).

Da tali principi consegue che non è giuridicamente rilevante, ai fini dell’attribuzione di una somma apprezzabilmente inferiore rispetto a detto standard minimo, il solo riferimento alla modestia della posta in gioco.

Il ricorso deve dunque essere accolto, Non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto la causa può essere decisa nel merito e pertanto, in applicazione della giurisprudenza della Corte (Sez. 1^, 14 ottobre 2009, n. 21840) a mente della quale l’importo dell’indennizzo può essere ridotto ad una misura inferiore (Euro 750,00 per anno) a quella del parametro minimo indicato nella giurisprudenza della Corte europea (che è pari a Euro 1.000,00 in ragione d’anno) per i primi tre anni di durata eccedente quella ritenuta ragionevole in considerazione del limitato patema d’animo che consegue all’iniziale modesto sforamento mentre solo per l’ulteriore periodo deve essere applicato il richiamato parametro, il ministero dell’Economia e delle Finanze deve essere condannato al pagamento di Euro 4.920,00 a titolo di equo indennizzo per il periodo di anni cinque e mesi otto di irragionevole ritardo quale determinato dal giudice del merito.

Tenuto conto dell’accoglimento solo parziale della domanda, le spese del giudizio di merito possono essere compensate per un mezzo e poste a carico per la differenza dell’Amministrazione resistente che deve essere condannata altresì al rimborso di quelle del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

la Corte accoglie il ricorso, cassa il decreto impugnato e, decidendo nel merito, condanna il Ministero della Economia e delle Finanze al pagamento in favore del ricorrente della somma di Euro 4.920,00, oltre interessi nella misura legale dalla data della domanda, nonchè alla rifusione della metà delle spese del giudizio di merito che, per l’intero, liquida in complessivi Euro 873,00, di cui Euro 378,00 per diritti, Euro 445,00 per onorari, oltre spese generali e accessori di legge, compensato il residuo, nonchè di quelle del giudizio di legittimità che liquida in complessivi Euro 700,00, di cui Euro 600,00 per onorari, oltre spese generali e accessori di legge; spese della fase di merito distratte in favore del difensore antistatario.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Lombardia Milano Sez. IV, Sent., 06-09-2011, n. 2158 Professori universitari

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

I ricorrenti, entrambi professori ordinari presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, impugnavano gli atti indicati in epigrafe con i quali era stato disposto che sarebbero andati in pensione alla fine dell’anno accademico nel quale avevano compiuto i settanta anni.

I provvedimenti in esami erano stati assunti in ossequio al disposto dell’art. 25 L. 240\2010, con cui era stata approvata la riforma universitaria, che in particolare dispone come ai professori e ai ricercatori universitari non si applichi il disposto dell’art. 16 D.lgs. 503\92 che prevede la possibilità del trattenimento per ulteriori due anni oltre il limite di età.

Il primo dei due motivi di ricorso lamenta la violazione dell’art. 25 L. 240\2010 in relazione agli artt. 3 e 33 Cost., degli artt. 1 e 46 dello Statuto dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e l’eccesso di potere per errore sui presupposti, travisamento dei fatti, difetto di istruttoria e motivazione.

La censura si fonda sulla considerazione che la norma in esame sia stata voluta dal legislatore per contenere gli oneri del mantenimento in servizio a carico della finanza pubblica che però non entrano in gioco quando si tratti della retribuzione di professori che appartengono ad un Università libera che non grava sulle finanze statali.

Non è stato tenuto conto sufficientemente dell’autonomia che l’art. 33 Cost. riconosce alle università e del fatto che vi è violazione dell’art. 3 per l’applicazione uniforme di una norma a situazioni differenti quali quelle del professore di un’università statale rispetto ad un collega di un’università libera.

Peraltro per molti aspetti la riforma di cui alla L. 240\2010 non si applica alle Univer4sità libere tanto è vero che queste ultime sono sottratte alla ridefinizione degli organi e dell’articolazione interna, essendo per esse possibile l’adozione di proprie modalità di organizzazione senza maggiori oneri per la finanza pubblica.

Inoltre l’art. 46 dello Statuto fa salvi gli eventuali trattamenti di miglior favore disposti dal Consiglio di Amministrazione a riprova del fatto che non vi siano preclusioni al trattenimento in servizio dei professori per un ulteriore biennio.

Il secondo motivo, presentato in subordine rispetto al precedente, chiede di sollevare la questione di costituzionalità dell’art. 25 L. 240\2010 per contrasto con gli artt. 3 e 33 Cost. per il fatto di essere applicabile anche ai professori delle Università non statali, estendendo un vincolo che ha ragioni di finanza pubblica anche a situazioni dove le esigenze di non aggravamento degli oneri finanziari dello Stato non si pongono.

Il Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca si costituiva in giudizio, eccependo preliminarmente il proprio difetto di legittimazione passiva, e concludendo conseguentemente per l’inammissibilità del ricorso nei suoi confronti e comunque per il rigetto della questione di costituzionalità.

L’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano si costituiva in giudizio chiedendo il rigetto del ricorso.

L’Istituto Giuseppe Toniolo di Studi Superiori ed il Fondo Pensioni per il Personale Docente e Ricercatori Università Cattolica si costituivano in giudizio al solo fine di evidenziare il loro difetto di legittimazione passiva.

Le eccezioni preliminari di difetto di legittimazione passiva dei tre soggetti che l’hanno sollevata è fondata.

Il Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca non ha emanato gli atti impugnati che appartengono alla sfera giuridica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore nell’ambito dell’autonomia che la legge le riconosce quale Università libera non statale ed è evidente pertanto che non abbia alcun titolo per essere evocato in giudizio, rispetto ad un rapporto giuridico cui è estraneo.

Il Fondo Pensioni si limita ad erogare il trattamento di quiescenza che viene determinato dagli uffici amministrativi dell’Università senza determinarne i presupposti giuridici; infatti, come affermato anche dalla sentenza 3033\2002 delle Sezioni unite della Cassazione, le prestazioni pensionistiche corrispondono a situazioni che trovano il loro fondamento giuridico nel cessato rapporto di impiego.

E’ evidente che il Fondo si limiterà a liquidare il trattamento pensionistico quando sarà stato definito il contenzioso in atto circa la decorrenza del collocamento in congedo, ma fino a quel momento è estraneo ad ogni atto che riguardi la sua determinazione.

L’Istituto Toniolo ha nel suo statuto una serie di finalità che non hanno niente a che vedere con il trattamento giuridico del rapporto di impiego tra i professori universitari e l’Università Cattolica, ma che costituiscono compito di supporto per gli scopi perseguiti dall’Università.

Alla luce di tali considerazioni non si vede quale sia la ragione per cui detti enti dovrebbero considerarsi controinteressati rispetto ai provvedimenti impugnati per cui unitamente al Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca debbono essere estromessi dal presente giudizio.

Nel merito il ricorso non è fondato.

Sotto un primo profilo non può dirsi che le Università libere siano estranee alla finanza pubblica allargata, dal momento che percepiscono contributi dallo Stato, in virtù dei quali sono sottoposte al controllo della Corte dei Conti quali enti pubblici non economici ed inoltre non è affatto scontato che la ratio legis dell’art. 25 sia la limitazione di oneri finanziari.

La norma appare ispirata piuttosto dall’esigenza di garantire un ricambio generazionale in una categoria per la quale è prevista un’età anagrafica per il collocamento a riposo più alta rispetto ad altre categorie di dipendenti pubblici.

Ma la ragione decisiva che impone al Collegio il rigetto del ricorso risiede nell’art. 4 L. 243\1991 il cui primo comma così recita: "A decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge, ai professori ed ai ricercatori universitari in servizio presso le università non statali si applica, ai fini del trattamento di quiescenza, la disciplina prevista per i dipendenti civili dello Stato dal testo unico delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato approvato con il decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1092, e successive modificazioni ed integrazioni, quando ciò sia previsto da apposita norma statutaria. I provvedimenti di attribuzione del trattamento di quiescenza sono adottati con la stessa procedura prevista per il personale delle università statali."

Tale norma è oltretutto richiamata dall’art. 46 dello Statuto dell’Università Cattolica cioè da quella norma che secondo i ricorrenti giustificherebbe la mancata applicazione nei loro confronti dell’art. 25 L. 240\2010.

Il fatto che in virtù di varie sentenze della Corte Costituzionale sia stato riconosciuto alle Università libere la possibilità di avere natura confessionale con la conseguenza che la libertà di insegnamento per i docenti va contemperata con l’indirizzo ideologico della università, per nulla rileva rispetto alla questione che è in discussione con il presente ricorso.

E’ la natura di ente pubblico non economico, attribuito alle università libere per il fatto che svolgono un’attività di interesse pubblico, che determina l’equiparazione di status giuridico tra i professori delle università statali e quelli delle università non statali.

Peraltro se così non fosse non si giustificherebbe neanche la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo più volte ribadita da pronunce delle Sezioni Unite della Cassazione, poiché si tratterebbe di un rapporto di impiego privato che dovrebbe essere posto all’attenzione del giudice del lavoro.

Essendovi una piena equiparazione tra lo status giuridicoeconomico dei professori di tutte le università, appare manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell’art. 25 in relazione all’art. 3 Cost. perché tratterebbe in modo uguale situazioni diverse, in quanto, in base alla legislazione vigente, le situazioni sono invece assolutamente omologhe.

Parimenti infondata è la medesima questione se si assume come parametro l’art. 33 poiché l’autonomia delle università non statali è prevista nell’ambito del rispetto dei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato ( art. 33,comma 6, Cost.).

Peraltro, come ha osservato la difesa dell’Università Cattolica nella sua memoria, non è incostituzionale una modifica peggiorativa del regime relativo al trattamento di quiescenza, come è dimostrato dalla vicenda per certi aspetti analoga dell’abolizione del collocamento fuori ruolo per i professori universitari che la sentenza 236\2009 della Consulta ha ritenuto rientrare nella discrezionalità del legislatore che non viola il limite della ragionevolezza.

Il ricorso in conclusione non può che essere respinto.

In considerazione della novità della questione appare equo compensare le spese di giudizio.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia Sezione IV, definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, dichiara il difetto di legittimazione passiva del Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca, dell’Istituto Toniolo e del Fondo Pensioni per il Personale Docente e Ricercatori Università Cattolica e respinge il ricorso.

Spese compensate tra tutte le parti del giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 11-01-2012, n. 156 Ricongiunzione di posizioni assicurative

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Svolgimento del processo

La Corte d’appello di Roma, in riforma della sentenza di primo grado, rigettava la domanda proposta da G.C., B.M. e P.A. nei confronti dell’INPDAI, a cui nel corso del giudizio era succeduto per legge l’INPS, diretta ad un diverso computo della pensione liquidata in loro favore con il cumulo dei contributi versati, prima dell’iscrizione all’Inpdai, al Fondo di previdenza per gli autoferrotranvieri, istituito con L. n. 889 del 1971. Essi avevano chiesto che all’anzianità contributiva maturata presso questo ultimo fondo fosse applicato il coefficiente di rendimento vigente presso il medesimo, pari al 2,50% annuo, più vantaggioso di quello vigente presso l’Inpdai, senza l’illegittima applicazione, al momento della liquidazione della pensione, del limite "soggettivo", rappresentato dalla misura massima della pensione dovuta ad un soggetto titolare di sola contribuzione Inpdai.

Il giudice d’appello faceva riferimento all’orientamento giurisprudenziale secondo cui, in occasione della liquidazione della pensione da parte dell’Inpdai sulla base anche di contributi originariamente versati presso una diversa gestione pensionistica e trasferiti – in base ad opzione dell’assicurato – presso il medesimo istituto, nel farsi applicazione del limite di cui al D.P.R. n. 58 del 1976, art. 1, comma 2, (costituito dalla misura massima della pensione erogabile dall’Inpdai), deve tenersi conto non solo del criterio di liquidazione della pensione indicato dal comma 1, stesso art., ma anche delle norme successive che avevano introdotto un tetto alla retribuzione pensionabile e coefficienti di rendimento decrescenti della retribuzione eccedente il massimale.

Avverso detta sentenza gli originari ricorrenti – in sostituzione di P.A., gli eredi Ga.Ad.Ma. e M. ed P.E. – hanno proposto ricorso con due motivi.

L’Inps resiste con controricorso.

Successivamente G.C. e gli eredi di P.A. hanno depositato dichiarazione di rinuncia al ricorso per cassazione.

Per B. è stata depositata memoria con cui si fa presente che al medesimo è stata liquidata la pensione sulla base di una contribuzione per 12.728 giorni, inferiore a quella massima di 14.400 giorni (360 x 40) e, limitando le originarie conclusioni, si chiede la condanna dell’Inps a riliquidare la pensione, con la decorrenza originaria, secondo i criteri di cui all’orientamento in materia affermatosi nella giurisprudenza della Cassazione (limite rappresentato dalla pensione liquidabile nel caso in cui l’assicurato fosse stato in possesso della massima contribuzione computabile, sempre versata presso l’Inpdai).

Motivi della decisione

1. Con riferimento alle suindicate partì ricorrenti che hanno rinunciato al ricorso, tenuto presente che la difesa dell’Inps ha preso atto di tali rinunce, deve dichiararsi l’estinzione del processo. Le spese del giudizio possono essere compensate tenuto presente che i ricorrenti hanno preso atto dell’orientamento giurisprudenziale consolidatosi solo dopo la proposizione del loro ricorso, a loro in concreto non favorevole in considerazione della loro situazione contributiva.

2. Il ricorso deve essere trattato nel merito con riferimento a B.M..

Con il primo motivo si denuncia violazione del D.Lgs. n. 181 del 1997, art. 3, commi 1 e 3; del D.P.R. n. 58 del 1976, art. 1, commi 1 e 2, in relazione alla L. n. 44 del 1973, art. 5, commi 1 e 4, al D.M. 7 luglio 1973, art. 2; D.Lgs. n. 181 del 1997, art. 3, commi 1 e 3, nonchè della L. n. 449 del 1997, art. 59, comma 1, (art. 360 c.p.c., n. 3).

In sintesi il ricorrente sostiene che erroneamente la sentenza impugnata ha applicato alla retribuzione i coefficienti di rendimento decrescenti previsti dal D.M. n. 422 del 1988 per le retribuzioni dei dirigenti, a seguito dello sfondamento del tetto pensionistico, ed ha accolto una nozione di pensione massima erogabile dall’INPDAI – come pensione pari a quella che sarebbe spettata al dirigente ove, a parità di retribuzione percepita e ad anzianità assicurativa, fosse stato sempre iscritto al suddetto Istituto previdenziale – che è priva di fondamento normativo, non trovando la tesi giustificazione nel D.P.R. n. 58 del 1976, art. 1. Rileva inoltre che anche il legislatore del 1997 fa riferimento alla retribuzione pensionabile, senza alcun riguardo alle aliquote di rendimento decrescenti, e ciò in quanto i coefficienti di rendimento non attengono alla determinazione della retribuzione pensionabile ma alla determinazione della pensione. Per retribuzione pensionabile deve intendersi soltanto quella stabilita dalle disposizioni in vigore nel regime generale gestito dall’Inps, e cioè il D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 503, art. 3 e la L. 8 agosto 1995, n. 335, art. 1, comma 17.

Con il secondo motivo si lamenta la omessa valutazione di un punto decisivo della controversia e conseguente falsa applicazione del D.M. n. 422 del 1988 a periodi contributivi maturati anteriormente alla data della sua entrata in vigore; violazione del criterio del pro- rata di cui al D.Lgs. n. 503 del 1992, art. 12, commi 1 e 2, e alla L. n. 449 del 1997, art. 59, comma 1, e dei principi elaborati dalla giurisprudenza costituzionale in tema di successione delle leggi nel tempo, con riferimento ai rapporti di durata.

3. I due motivi, che per la loro connessione vanno trattati congiuntamente, meritano accoglimento solo quanto al profilo di seguito precisato.

4. Le questioni poste sono già state più volte affrontate da questa Corte, che ha puntualizzato i principi di diritto ritenuti applicabili in particolare con le sentenze n. 724/2009, 14467/2009, 27801/2009.

Può in sintesi ora ricordarsi che, con riferimento all’avvenuto esercizio della facoltà di ricongiunzione prevista dalla L. 15 marzo 1973, n. 44, art. 5, e dal D.M. 7 luglio 1973, art. 2 di detto decreto dettava regole sul trattamento da riservare alla contribuzione trasferita al fine della liquidazione della pensione che l’Inpdai avrebbe dovuto erogare, precisandone due parametri: a) coefficienti di rendimento; b) retribuzione pensionabile. Per quanto riguarda il primo elemento era precisato che le anzianità contributive acquisite in forza di detti trasferimenti "sono valutate secondo le scale di accrescimento e le aliquote di commisurazione vigenti per la determinazione della pensione presso le gestioni di provenienza", mentre per quanto riguarda il secondo elemento, la retribuzione annua pensionabile veniva individuata in quella maturata presso l’Inpdai. ("Ai fini della determinazione della pensione, per le anzianità contributive acquisite in forza dei trasferimenti di cui ai commi precedenti si applica la stessa retribuzione annua pensionabile stabilita per le anzianità contributive maturate presso l’Inpdai"). Il contrasto tra le parti si appuntava sul valore dell’ulteriore disposizione, che parimenti opera nel calcolo della pensione da liquidare tenendo conto dei contributi trasferiti da gestione diversa, e cioè del D.P.R. 8 gennaio 1976, n. 58, art. 1, comma 2, il quale recita "L’ammontare della pensione comprensivo della quota parte derivante dall’esercizio della facoltà di cui alla L. 15 marzo 1973, n. 44, art. 5, non può essere in ogni caso superiore a quello della pensione massima erogabile dall’Inpdai ai sensi del comma precedente".

L’Inps nel liquidare tale tipo di pensioni ha proceduto quindi a due distinti calcoli: in primo luogo ha determinato sia la quota parte di pensione afferente alla contribuzione trasferita, con i relativi coefficienti di rendimento, sia la quota di pensione afferente alla contribuzione Inpdai, e ha quindi proceduto alla sommatoria delle due quote; con il secondo calcolo ha determinato il limite, ossia ha calcolato la pensione "massima" che sarebbe spettata ove il medesimo lavoratore fosse stato sempre assicurato all’Inpdai, e quindi applicando esclusivamente la normativa che regolava detta gestione.

Le interpretazioni delle parti divergevano perchè i dirigenti ritenevano che la formula usata dal citato D.P.R. n. 58 del 1976, contenga un rinvio recettizio: la pensione massima erogabile Inpdai sarebbe sempre quella pari a tanti trentesimi dell’80% della retribuzione annua media quanti sono gli anni di contribuzione.

L’Inps riteneva invece che la formula usata dalla legge contenga un rinvio formale e quindi mobile: la pensione massima erogabile dall’Inpdai "non sarebbe più costituita da tanti trentesimi dell’80% della retribuzione annua media", come la disposizione originaria prevedeva, ma dalla pensione Inpdai erogabile al momento del pensionamento, con rinvio necessariamente formale, comprensivo dello jus superveniens, in base al quale si dovrebbe tenere conto della introduzione, nel sistema Inpdai, del tetto pensionabile e dei coefficienti di rendimento decrescenti della retribuzione eccedente il massimale.

5. Questa Corte ha già risposto al quesito con le sentenze n. 2223 e 2224 del primo febbraio 2007 e, successivamente, con le sue più recenti pronunce – in particolare, Cass. nn. 724 e 14467 del 2009 -, ha confermato la soluzione ivi adottata seppure con la precisazione secondo cui il limite posto dal D.P.R. n. 58 del 1976 non ha una natura totalmente soggettiva, contrariamente a quanto sostenuto dall’Inps.

A tale indirizzo il Collegio intende dare continuità, pienamente condividendo le considerazioni che danno fondamento alle decisioni da ultimo citate.

Può richiamarsi quindi il principio secondo cui "In tema di trasferimento presso l’Inpdai di contribuzione versata presso il Fondo elettrici, previsto dalla L. 15 marzo 1973, n. 44, art. 5, il D.P.R. n. 58 del 1976, art. 1, comma 2, nello stabilire che l’ammontare della pensione, ivi compresa la quota parte conseguente all’esercizio della facoltà L. n. 44 del 1973, ex art. 5, "non può essere superiore a quello della pensione massima erogabile dall’Inpdai ai sensi del comma precedente" ossia secondo il regime generale dell’Inpdai, contiene un rinvio non recettizio, con la conseguenza che la pensione massima erogabile Inpdai non si determina, in conformità alla previsione originaria, in base a tanti trentesimi dell’80% della retribuzione annua media quanti sono gli anni di contribuzione, ma, attesa la natura formale del rinvio, avendo riguardo alla pensione massima Inpdai erogabile al momento del pensionamento e, quindi, applicando lo jus superveniens, in base al quale si deve tenere conto dell’introduzione, nel sistema Inpdai, dei coefficienti di rendimento decrescenti della retribuzione eccedente il massimale" (Cass. 27801/2009).

Con particolare riguardo al limite della "pensione massima erogabile dall’Inpdai" (di cui al D.P.R. n. 58 del 1976, art. 1, comma 2) è stato chiarito che tale tetto alla pensione liquidabile ai lavoratori che hanno trasferito presso detto istituto i contributi precedentemente versati ad altra gestione è costituito dalla pensione che sarebbe stata liquidabile allo specifico lavoratore pensionando sulla base dell’applicazione integrale della normativa Inpdai (con i relativi coefficienti di rendimento, ai fini di questo calcolo applicati anche ai contributi trasferiti), nonchè della sua specifica posizione retributiva, con il massimo di anzianità contributiva (per legge diventato di quaranta anni). Di conseguenza è stato rilevato che, nonostante l’evoluzione normativa, il maggior rendimento dei contributi trasferiti presso l’Inpdai può continuare ad arrecare un vantaggio per i lavoratori che si pensionano con un’anzianità contributiva inferiore a quella massima (Cass. n. 14467/2009).

6. In conclusione, con riguardo alla posizione di B.M., deve rilevarsi che la sentenza impugnata, da un lato, appare avere ritenuto il limite posto dal D.P.R. n. 58 del 1976, art. 1, comma 2, di natura totalmente soggettiva (per tale ragione considerando corretta la liquidazione operata dall’INPS con l’attribuzione al dirigente interessato di una pensione pari a quella che gli sarebbe spettata ove, a parità di retribuzione percepita e di anzianità assicurativa, fosse stato sempre iscritto all’INPDAI), e dall’altro non ha accertato in base a quale anzianità contributiva tale liquidazione sia stata effettuata, con la conseguenza che non risulta neanche che l’applicazione di tale modalità di liquidazione di fatto non sia lesiva in ragione del possesso da parte dell’assicurato di una anzianità contributiva pari o superiore a quella da utilizzare per determinare la "pensione massima erogabile". Deve peraltro anche ricordarsi che il ricorrente ha precisato di avere interesse all’adozione del corretto criterio di calcolo, essendo in possesso di un’anzianità contributiva inferiore a quella massima computabile.

Il ricorso deve quindi essere accolto per il riferimento da parte della Corte d’appello, nei termini indicati, ad un’erronea nozione di pensione massima erogabile e, nei limiti di tale accoglimento, la sentenza d’appello va cassata.

Il giudice di rinvio, con riferimento alla "storia" assicurativa, contributiva e retributiva del dirigente, accerterà la misura della pensione al medesimo spettante tenendo conto della nozione di massimale sopra individuata, facendo applicazione del seguente principio di diritto: "In tema di trasferimento presso l’INPDAI di contribuzione versata presso un altro fondo pensione, previsto dalla L. 15 marzo 1973, n. 44, art. 5, il limite della "pensione massima erogabile dall’Inpdai" di cui al D.P.R. 8 gennaio 1976, n. 58, art. 1, comma 2, è costituito dalla pensione che sarebbe stata liquidabile allo specifico lavoratore pensionando sulla base dell’applicazione integrale della normativa Inpdai (con i relativi coefficienti di rendimento applicati anche ai contributi trasferiti), nonchè della sua specifica posizione retributiva, con il massimo di anzianità contributiva rilevante ai fini della misura della pensione".

Al giudice di rinvio si demanda anche la regolazione delle spese di questo giudizio, relativamente alla posizione di B.M..

P.Q.M.

La Corte dichiara estinto il processo nei confronti di G.C. e degli eredi di P.A., con compensazione delle spese.

Accoglie il ricorso nei limiti di cui alla motivazione nei confronti di B.M., cassa conseguentemente la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese, alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. V, Sent., 20-02-2012, n. 2459 Rimborso

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Svolgimento del processo

Il contribuente ha impugnato in sede giurisdizionale il silenzio rifiuto opposto dall’Agenzia Entrate alla domanda presentata al fine di ottenere il rimborso delle ritenute operate nell’anno 2000, sulle somme erogategli dall’ENEL a titolo di previdenza integrativa in forma di capitale, in forza di accordo collettivo.

In via principale, sul presupposto che gli importi percepiti avessero natura risarcitoria, chiedeva il rimborso integrale della somma ritenuta; in via subordinata, chiedeva il rimborso parziale, deducendo che, trattandosi di reddito di capitale, andavano applicati del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 42, comma 4 e della L. n. 482 del 1985, art. 65, con ritenuta a titolo di imposta del 12,501.

L’adita Commissione respingeva la domanda principale ed accoglieva quella subordinata.

In esito all’appello dell’Agenzia ed al relativo parziale accoglimento, la CTR con la decisione in questa sede impugnata, precisò che nella predetta misura del 12,50%, doveva essere tassato solo il c.d. "rendimento", mentre le somme liquidate a titolo di capitale andavano assoggettate a tassazione separata. L’Agenzia ha gravato tale ultima decisione con ricorso per Cassazione; il contribuente resiste con controricorso.

Motivi della decisione

La ricorrente Agenzia censura l’impugnata decisione, sotto un primo profilo, per falsa applicazione del D.L. n. 669 del 1996, art. 1, comma 5, convertito in L. n. 30 del 1997, D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 42, comma 4 ( T.U.I.R.), della L. n. 482 del 1985, art. 6, D.P.R. n. 917 del 1986, art. 16, lett. A), del D.P.R. n. 449 del 1959, artt. 1 e 33, e segg., per altro aspetto, per insufficiente motivazione su fatto decisivo e controverso.

L’intimato, giusto controricorso, ha chiesto il rigetto dell’impugnazione, per inammissibilità ed infondatezza dei motivi.

Le parti, hanno illustrato le proprie ragioni, depositando memorie;

La Commissione Tributaria Regionale ha ritenuto e dichiarato applicabile l’aliquota del 12,50% sul rendimento.

Il Collegio è dell’avviso che il ricorso debba essere definito, sulla base dei principi di diritto, secondo cui "In tema di fondi previdenziali integrativi, le prestazioni erogate in forma di capitale ad un soggetto che risulti iscritto, in epoca anteriore all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 124 del 1993, ad un Fondo di Previdenza complementare aziendale a capitalizzazione di versamenti e a causa previdenziale prevalente, sono soggette al seguente trattamento tributario: a) per gli importi maturati fino al 31 dicembre 2000, la prestazione è assoggettata al regime di tassazione separata di cui all’art. 16, comma 1, lett. a) e art. 17 cit.

T.U.I.R., solo per quanto riguarda la sorte capitale, corrispondente all’attribuzione patrimoniale conseguente alla cessazione del rapporto di lavoro, mentre alle somme provenienti dalla liquidazione del c.d. rendimento (per tale dovendosi intendere, in base a quanto precisato nella motivazione della medesima decisione, "il rendimento netto imputabile alla gestione sul mercato da parte del Fondo del capitale accantonato"), si applica la ritenuta del 12,50%, prevista dalla L. n. 482 del 1985, art. 6; b) per gli importi maturati a decorrere dal 1 gennaio 2001 si applica interamente il regime di tassazione separata di cui all’art. 16, comma 1, lett. a) e art. 17 cit. T.U.I.R." (Cass. SS.UU. n. 13642/2011);

"ricorre il vizio di omessa motivazione della sentenza, denunziabile in sede di legittimità, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella duplice manifestazione di difetto assoluto o di motivazione apparente, quando il Giudice di merito ometta di indicare, nella sentenza, gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero indichi tali elementi senza una approfondita disamina logica e giuridica, rendendo in tal modo impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento" (Cass. n. 1756/2006, n. 890/2006).

La decisione impugnata, pur ponendosi nel solco del richiamato principio, avendo affermato che sulla parte relativa al rendimento deve applicarsi la ritenuta del 12,50%, determinata con i criteri dell’art. 42 cit. T.U.I.R., non risulta, per la genericità dell’assunto conclusivo, aderente ad esso nella parte in cui, senza, peraltro, dare adeguata contezza del percorso decisionale, omette di indicare gli elementi alla cui stregua va determinato il rendimento tassabile al 12,50%.

Il ricorso va, pertanto, disattesa ogni altra eccezione e difesa, accolto, nei precisati limiti, e, per l’effetto cassata l’impugnata decisione;

Il Giudice del rinvio, che si designa in altra sezione della CTR dell’Umbria, procederà al riesame e, quindi, adeguandosi al richiamato principio ed all’esplicito passaggio motivazionale, contenuto nella citata decisione delle Sezioni Unite n. 13642/2011, secondo cui per "rendimento" deve intendersi "il rendimento netto imputabile alla gestione sul mercato da parte del Fondo del capitale accantonato", deciderà nel merito, ed anche sulle spese del presente giudizio di cassazione, motivando adeguatamente.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso, nei sensi di cui alla parte motiva, cassa l’impugnata sentenza e rinvia ad altra sezione della CTR dell’Umbria, anche per la pronuncia sulle spese.

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