Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 22-03-2012, n. 4582 Malattia, assicurazione e assistenza

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Il Tribunale di Fermo accertava il diritto di C.M. all’indennità di malattia, negata dall’INPS per asserita prescrizione.

L’Istituto proponeva appello, formulando, preliminarmente, eccezione di decadenza dall’azione giudiziaria.

Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte d’appello di Ancona ha confermato la decisione di primo grado, in particolare dichiarando inammissibile per genericità e, comunque, priva di fondamento l’eccezione di decadenza, in base al rilievo che: l’assicurato aveva presentato la domanda amministrativa della prestazione in data 10 marzo 2004; l’INPS ne aveva comunicato il rigetto il 15 ottobre 2004;

il C., in data 11 gennaio 2005 aveva presentato il ricorso amministrativo che era stato rigettato con provvedimento notificato il 24 marzo 2005; il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado era stato depositato il 17 marzo 2006 e, dunque, quando ancora – rispetto alla data di reiezione del ricorso amministrativo – non era decorso il termine decadenziale di un anno, previsto dalla legge per le prestazioni temporanee, come quella oggetto di causa.

L’INPS chiede la cassazione di questa sentenza con ricorso fondato su un unico motivo. La parte privata non ha svolto difese.

Motivi della decisione

1. Nell’unico motivo, deducendo violazione del D.P.R. n. 639 del 1970, art. 47 nel testo sostituito dal D.L. n. 384 del 1992, art. 4, comma 1, (convertito nella L. n. 438 del 1992), l’INPS censura la sentenza impugnata sia per non aver considerato che la decadenza prevista dalle disposizioni di legge citate è rilevabile di ufficio, sia per aver dato rilievo, ai fini della verifica della tempestività della proposta azione giudiziaria, alla decisione di rigetto del ricorso amministrativo, viceversa del tutto irrilevante, essendo stata adottata dopo oltre 300 giorni dalla data di presentazione della domanda amministrativa della indennità. 2. Il ricorso è fondato.

3. La decadenza (di natura sostanziale) dall’azione, per il decorso di determinati termini previsti dalla legge, riguarda non un vizio dell’attività processuale, bensì la stessa ammissibilità della tutela giurisdizionale; per queste ipotesi, come le Sezioni unite di questa Corte hanno di recente precisato, la prospettiva del giusto processo non appare affatto incompatibile con la sua rilevabilità d’ufficio in ogni stato e grado in deroga ai principi generali della disponibilità della tutela giurisdizionale e dell’onere di impugnazione (cfr. Cass., sez, un., n. 26019 del 2008); ne deriva che non operano, al riguardo, nè l’onere di contestazione ai sensi dell’art. 416 c.p.c., comma 3, che riguarda solo i fatti materiali costitutivi della pretesa, nè l’onere di riproposizione di cui all’art. 346 c.p.c., che riguarda soltanto le domande e le eccezioni in senso stretto (vedi anche Cass. n. 12748 del 2010).

4. Quella prevista dal D.P.R. n. 639 del 1970, art. 47 come interpretato autenticamente, integrato e modificato dal D.L. n. 103 del 1991, art. 6 (convertito nella L. n. 166 del 1991) e dal D.L. n. 384 del 1992, art. 4, comma 1, (convertito nella L. n. 438 del 1992), è, appunto, una decadenza "sostanziale" e "o di ordine pubblico", in quanto annoverabile fra quelle dettate a protezione dell’interesse alla definitività e certezza delle determinazioni concernenti erogazioni di spese gravanti su bilanci pubblici; pertanto tale decadenza è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento, con il solo limite del giudicato (cfr., tra tante, Cass. n. 12473 del 2003c, da ultimo, Sez. un. n. 12718 del 2009).

5. Ne consegue, per quanto riguarda la presente controversia, la censurabilità della sentenza impugnata nella parte in cui la Corte di merito, ritenendo inammissibile, per genericità, l’eccezione formulata dall’INPS. ha affermato, in sostanza, che il dovere del giudice di procedere alla verifica della tempestività dell’azione giudiziaria rispetto ai termini inderogabilmente fissati per il suo esercizio, sussiste solo se sollecitato da una specifica eccezione di parte.

6. Ma parimenti non conforme a diritto è la statuizione di infondatezza della proposta eccezione.

7. L’affermazione secondo cui il termine annuale di decadenza non era, nella specie, ancora decorso, dovendo prendersi a riferimento, quale giorno di inizio, la data di notifica della decisione di rigetto del ricorso amministrativo (24 marzo 2005), è frutto di una interpretazione del dato normativo che è stata disattesa dalle Sezioni unite di questa Corte (sent. n. 12718 del 2009 cit.) con l’affermazione del principio secondo cui il D.P.R. n. 639 del 1970, art. 47 (nel testo modificato dal D.L. n. 384 del 1992, art. 4 convertito nella L. n. 438 del 1992) individua nella scadenza dei termini prescritti per l’esaurimento del procedimento amministrativo, aperto dalla domanda della prestazione previdenziale, la soglia di trecento giorni (risultante dalla somma del termine presuntivo di 120 giorni previsto, come spatium deliberandi, dalla L. 11 agosto 1973, n. 533, art. 7 e del termine di centottanta giorni, complessivamente previsto dalla L. 9 marzo 1989, n. 88, art. 46 per la presentazione e la decisione del ricorso amministrativo) oltre la quale sia la presentazione di un ricorso tardivo, come pure l’adozione di una decisione di rigetto (o di inammissibilità) anch’essa tardiva, non consentono lo spostamento in avanti del dies a quo per l’inizio del computo del termine decadenziale, non potendo il privato, così come l’Istituto previdenziale, incidere (con atti irrituali ovvero posti in essere al di fuori dei limiti legislativamente previsti) sulla rigida e predeterminata scansione delle varie fasi in cui si articola il procedimento amministrativo in una materia nella quale la decadenza – per la natura pubblicistica che (come sopra detto) le è propria – deve trovare applicazione quale che sia il comportamento delle parti.

8. Alla stregua dell’indicato e condiviso principio, non può non rilevarsi che, nel caso controverso, la domanda amministrativa della indennità di malattia era stata presentata dal C. il 10 marzo 2004 mentre la decisione di rigetto del gravame amministrativo da lui proposto è intervenuta solamente il 24 marzo 2005, in una data, cioè, ampiamente successiva all’avvenuto decorso del periodo di trecento giorni più sopra indicato; conseguendone che, alla data di proposizione del ricorso giurisdizionale (depositato il 17 marzo 2006), non sussisteva più il diritto che doveva essere accertato, ed eventualmente affermato, in sede giudiziaria.

9. Per tutte le considerazioni su esposte il ricorso dell’INPS va accolto e cassata la sentenza impugnata, la causa, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, è decisa da questa Corte ( art. 384 c.p.c., comma 2) nel senso del rigetto della domanda dell’indennità di malattia proposta dall’odierno intimato.

10. Ravvisa la Corte nella problematicità delle questioni controverse – oggetto di un persistente contrasto di giurisprudenza che le Sezioni unite hanno risolto nei sensi sopra precisati in data appena precedente quella della sentenza impugnata – la sussistenza di giusti motivi ( art. 92 c.p.c.) per compensare fra le parti le spese dell’intero processo.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta la domanda proposta dall’odierno intimato. Compensa fra le parti le spese dell’intero processo.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Lazio Roma Sez. II ter, Sent., 01-12-2011, n. 9470

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con il ricorso, notificato il 17 giugno 2011 e depositato il successivo 28 giugno, il Ministero dell’Economia e delle Finanze, in persona del Ministro p.t., ha impugnato la delibera n. 2/11 del Consiglio Comunale di Orte – con cui sono state adottate alcune modifiche in materia di addizionale comunale IRPEF- lamentando l’aggravio di lavoro che tale provvedimento avrebbe comportato in materia di recupero dell’imposta non dovuta.

Al riguardo, il medesimo ha prospettato come motivi di impugnazione la violazione di legge e l’eccesso di potere sotto svariati aspetti sintomatici.

Non si è costituito in giudizio il Comune di Orte.

Alla Camera di Consiglio del 27 luglio 2011 con ordinanza n. 2866/2011 questo Tribunale ha accolto la domanda di sospensione degli effetti del provvedimento impugnato.

Alla Camera di Consiglio del 16 novembre 2011 è stata depositata copia della delibera del Consiglio Comunale di Orte n. 21 del 30 giugno 2011 con cui è stata disposta la revoca della deliberazione consiliare n. 2 del 30.3.2011.

Tale circostanza impone al Collegio di rilevare un evidente motivo di improcedibilità del giudizio per sopravvenuta carenza di interesse alla decisione.

Non essendosi costituita in giudizio la parte intimata, non si dispone alcunché sulle spese.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda Ter)

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo dichiara improcedibile.

Nulla spese.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cons. Stato Sez. IV, Sent., 22-12-2011, n. 6794 Carriera inquadramento Mansioni e funzioni Pensioni, stipendi e salari

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con ricorso al TAR Molise, la sig. M. D. T., già dipendente dell’allora Ministero del Tesoro, assegnata alla Direzione provinciale del Tesoro di Isernia, dal 1°.1.1999 è stata inquadrata nei ruoli dell’INPDAP, chiedeva il riconoscimento, ai fini retributivi e previdenziali, delle mansioni superiori asseritamente svolte dall’istante, nonché la condanna dell’Amministrazione a versare le somme calcolate a tale titolo, maggiorate degli accessori. La ricorrente esponeva che inizialmente, quando rivestiva la 6^ q.f., con ordine di servizio 1°.12.1986, n. 110, le sono state attribuite, con effetto immediato, le funzioni di capo ufficio dell’Ufficio IV e V, funzione poi attribuita al dott. Cesare Benedetto. Divenuto quest’ultimo Direttore della D.P.T. di Isernia, con ordine di servizio 29.1.1988, n. 11, alla Sig.ra D. T. sono state affidate le funzioni di capo dell’Ufficio VI e V.

Alla stessa è stata poi riconosciuta la 7^ q.f. ed, in possesso della stessa, in qualità di capo ufficio, con ordine di servizio 18.11.1989, n. 21, è stata delegata a firmare per il direttore determinati atti ivi individuati.

Con la riorganizzazione in Uffici dei Servizi delle D.P.T., la stessa dipendente è stata inquadrata come capo dell’ufficio IV, giusta ordine di servizio 15.6.1993, n. 55, funzione confermata con ordine di servizio 24.8.1995, n. 69.

Con istanza del 31.12.1998 la Sig.ra D. T. ha chiesto il riconoscimento dell’inquadramento nella qualifica superiore, a far data dal 1°.12.1986, o, quanto meno, la corresponsione delle differenze retributive tra le due tipologie di mansioni (quella posseduta e quella cui atterrebbe l’attività lavorativa svolta). L’istanza non aveva esito positivo e di qui il ricorso al TAR, a sostegno del quale l’interessata deduceva: violazione ed errata applicazione di legge: L. 11.7.1980, n. 312, in particolare l’art. 4, art. 36 Cost., art. 2126 c.c., D.Lgs. 3.2.1993, n. 29 e successive modifiche, in particolare gli artt. 56 e 57 – eccesso di potere in tutti i profili.

Con la sentenza epigrafata il Tribunale amministrativo, riconosciuta la propria giurisdizione limitatamente al periodo 1.12.198630.6.1998, respingeva il ricorso proposto; di qui l’appello avanzato dall’interessata innanzi a questo Consesso, suffragato da motivi ed argomentazioni riassunti nella sede della loro trattazione in diritto da parte della presente decisione.

Alla pubblica udienza dell’11 ottobre 2011 il ricorso è stato trattenuto in decisione.

Motivi della decisione

La controversia che viene in decisione nel presente grado d’appello, riguarda il riconoscimento di mansioni superiori richiesto da dipendente del Ministero del Tesoro ed operante presso la Direzione provinciale di Isernia, per i periodi di servizio in fatto specificati.

1.- All’impugnata sentenza di primo grado, l’appellante imputa in primo luogo un "errore di metodo", avendo rigettato la pretesa azionata, omettendo di comparare le mansioni previste per l’ottava qualifica funzionale con quelle in concreto svolte dalla dipendente. La censura è infondata.

Il riconoscimento della retribuzione correlata all’esercizio di mansioni di qualifica superiori, possibile nel previgente ordinamento solo alle condizioni di cui appresso, è oggettivamente precluso ove le mansioni esercitate (in assenza di alcun ordine di servizio, o in presenza di questo) risultino corrispondenti a quelle proprie della qualifica formale posseduta ed al mansionario; tale corrispondenza ha accertato il TAR, sicchè non sussisteva alcuna necessità di inserire nella comparazione, ai fini della pretesa azionata, le mansioni proprie di qualifica superiore, non potendo le stesse costituire presupposto per il riconoscimento economico richiesto.

2- Con riguardo alle altre censure, va premesso che il TAR ha respinto il ricorso previa ricostruzione dei presupposti imprescindibili per la configurabilità dell’esercizio delle mansioni superiori e della rilevanza dello stesso ai fini retributivi, individuati: 1) nello svolgimento di fatto, in modo continuativo e prevalente, di funzioni qualitativamente attinenti a livello funzionale superiore rispetto a quello di cui l’impiegato è titolare; 2) nel conferimento formale delle mansioni in questione mediante uno specifico atto; 3) nella vacanza del posto relativo in organico. Ciò premesso, tutti i profili ulteriori svolti dai motivi d’appello sono infondati, per le ragioni che seguono.

2.1.- Il giudice di prima istanza ha anzitutto insussistente il presupposto di cui al punto 1, ritenendo non provato il carattere non temporaneo delle mansioni, accertando la loro cessazione col 4.3.1987; non smentisce questa tesi il punto 1 degli ulteriori motivi d’appello, il quale si limita a contrastare la tesi del TAR affermando che la cessazione si è limitata a pochi giorni, trascorsi i quali (29.1.1988) esse sono state riassunte. Sul punto la sentenza ha invece fatto riferimento alla cessazione per intervenuta riassunzione da parte del capoufficio nonché alla mancata prova della prevalenza delle stesse rispetto alle altre nel contempo svolte, situazione che travolge anche la circostanza della riassunzione delle mansioni in data 29.1988.

2.2.- Quanto all’attribuzione della qualifica di capo ufficio, il TAR ha ben motivato la tesi che tale posizione comportava l’espletamento di mansioni della settima qualifica (nel frattempo formalmente attribuita) sicchè si palesa irrilevante anche la seconda doglianza (che contesta l’addebito dell’onere della prova delle mansioni superiori non attribuite).

2.3- In merito al carattere secondario della delega (sottolineato dal TAR), l’appellante controbatte ma non dimostra che la delega riguardava in realtà tutti gli atti dell’ufficio, ma la sentenza fa riferimento ad una delega di firma che non attribuisce alcuna funzione ulteriore sul piano giuridico, ma solo l’attività materiale di apposizione della firma. In ogni caso il primo giudice ha specificato (punto 5.2 della decisione) che tale compito attiene tipicamente al profilo di collaboratore professionale (settimo livello).

2.4.- Il punto 4 non reca alcuna censura ma una errata corrispondenza della direzione di unità operativa alla attribuzione dell’ottava qualifica.

2.5- Parimenti non sono accoglibili i motivi (nn. 5 ed 8) che fanno riferimento ad atti dell’amministrazione assolutamente inidonei a supportare la pretesa azionata.

In particolare:

– la precisazione del dipartimento del Tesoro 25.02.01, integra dichiaratamente un semplice parere reso sulla portata degli ordini di servizio, ma non si colloca in alcun modo tra i summenzionati presupposti indicati dalla giurisprudenza per il riconoscimento del diritto in questione. I predetti ordini sono stati, peraltro, correttamente comparati dal TAR con il mansionario previsto dalla normativa, con risultati che l’atto d’appello non perviene a dimostrare erronei;

– del tutto irrilevante è che la Commissione paritetica (nel procedimento previsto dalla legge n.312/1980 sulle qualifiche funzionali) non abbia ritenuto di dare corso alle istanze di inquadramento in profilo professionale superiore; anzi trattasi di circostanza che, ove necessario, rafforza la tesi contraria alla spettanza del trattamento economico superiore, poiché evidenzia che la posizione della dipendente non era anzitutto giuridicamente ascrivibile alla pretesa qualifica superiore.

2.6- Anche, le censure 6 e 7, infine, sono infondate.

La rilevanza esterna delle mansioni attribuite e la duplicità non è elemento decisivo e suscettibile di prevalente rispetto alla natura delle mansioni svolte e corrispondenti alle declaratorie.

3 – Il diritto azionato viene poi sostenuto sulla base di ampi riferimenti all’art. 36 della Costituzione ed alla giurisprudenza del tempo datata che riteneva di fare applicazione al rapporto di pubblico impiego dell’art. 2126 cod.civ.. A tale riguardo, tuttavia il Logicamente, quindi, con riguardo alla posizione dell’appellante, il TAR, compiute i cennati raffronti, ha concluso "che l’assenza di anche una sola delle richiamate condizioni non consente di riconoscere alcuna differenza stipendiale in capo a chi ha svolto l’attività in questione".

In particolare, quanto all’applicazione dell’art. 2126 del codice civile, la Sezione non può obliterare che la giurisprudenza del tempo aveva più volte chiarito le ragioni dell’inapplicabilità al pubblico impiego della norma invocata, attesa la sussistenza della normativa di carattere speciale posta a regolazione del pubblico impiego (Cons. di Stato, a.p., n.1 e n.2/1992) e richiamata dallo stesso codice civile.

Sussistono giuste ragioni per disporre la compensazione delle spese del presente grado di giudizio tra le parti costituite.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (sezione IV), definitivamente pronunziando in merito al ricorso in epigrafe, respinge l’appello.

Dichiara interamente compensate tra le parti le spese del grado.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 28-06-2012, n. 10891 Contratto a termine

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza n. 2702 del 2004 il Giudice del lavoro del Tribunale di Latina rigettava la domanda proposta da M.C. nei confronti della s.p.a. Poste Italiane, diretta ad ottenere la declaratoria di nullità del termine apposto al contratto di lavoro concluso tra le parti per "esigenze eccezionali" ex art. 8 ccnl 1994 come integrato dall’acc. az. 25-9-97, per il periodo 1-6-1999/30-10- 1999, con la conseguente sussistenza di un rapporto di lavoro dal 1-6- 99 e con la condanna della società alla riammissione in servizio del M. e al pagamento in suo favore delle retribuzioni maturate.

Il M. proponeva appello avverso la detta sentenza, chiedendone la riforma con l’accoglimento della domanda.

La società si costituiva e resisteva al gravame.

La Corte d’Appello di Roma, con sentenza depositata l’1-2-2007, in accoglimento dell’appello dichiarava la sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato dall’1-6-1999 e condannava la società al pagamento delle retribuzioni contrattualmente dovute a decorrere dal 31-10-1999, oltre al pagamento delle spese di causa.

Per la cassazione di tale sentenza la società ha proposto ricorso con tre motivi.

Il M. ha resistito con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

Con il primo motivo la ricorrente censura la impugnata sentenza nella parte in cui ha ritenuto la nullità del termine apposto al contratto de quo, in quanto stipulato oltre il limite temporale fissato dalle parti collettive con gli accordi attuativi dell’accordo del 25-9-97, che, integrando l’art. 8 del ccnl, ha introdotto l’ipotesi delle "esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione …".

In particolare la società nega che le parti abbiano voluto porre dei limiti temporali alla possibilità della stipula di contratti a termine per tali esigenze e sostiene la natura meramente ricognitiva degli accordi attuativi citati.

Con il secondo motivo la ricorrente lamenta vizio di motivazione sul punto.

I detti motivi non meritano accoglimento.

Osserva il Collegio che la Corte di merito ha attribuito rilievo decisivo alla considerazione che il contratto in esame è stato stipulato, per "esigenze eccezionali …" in data successiva al 30 aprile 1998.

Tale considerazione – in base all’indirizzo ormai consolidato in materia dettato da questa Corte (con riferimento al sistema vigente anteriormente al ccnl del 2001 ed al D.Lgs. n. 368 del 2001) – è sufficiente a sostenere l’impugnata decisione, in relazione alla nullità del termine apposto al contratto de quo.

Al riguardo, sulla scia di Cass. S.U. 2-3-2006 n. 4588, è stato precisato che "l’attribuzione alla contrattazione collettiva, della L. n. 56 del 1987, ex art. 23 del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla L. n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo determinato" (v. Cass. 4-8-2008 n. 21063, v. anche Cass. 20-4-2006 n. 9245, Cass. 7-3-2005 n. 4862, Cass. 26-7-2004 n. 14011). "Ne risulta, quindi, una sorta di "delega in bianco" a favore dei contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatari, non essendo questi vincolati alla individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle previste dalla legge, ma dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale in materia ed inserendosi nel sistema da questa delineato." (v., fra le altre, Cass. 4-8-2008 n. 21062, Cass. 23-8-2006 n. 18378).

In tale quadro, ove però, come nel caso di specie, un limite temporale sia stato previsto dalle parti collettive (anche con accordi integrativi del contratto collettivo) la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione de termine (v.

fra le altre Cass. 23-8-2006 n. 18383, Cass. 14-4-2005 n. 7745, Cass. 14-2-2004 n. 2866).

In particolare, quindi, come questa Corte ha costantemente affermato e come va anche qui ribadito, "in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con raccordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998; ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza della L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1" (v., fra le altre, Cass. 1-10-2007 n. 20608; Cass. 28-1-2008 n. 28450; Cass. 4-8-2008 n- 21062; Cass. 27-3-2008 n. 7979, Cass. 18378/2006 cit.).

In base a tale orientamento consolidato vanno pertanto respinti i detti primi due motivi.

Con il terzo motivo la società, denunciando violazione degli artt. 1217 e 1233 c.c., lamenta che la Corte di merito non avrebbe svolto alcuna verifica in ordine alla effettiva messa in mora del datore di lavoro e non avrebbe tenuto "conto della possibilità che il lavoratore abbia anche espletato attività lavorativa retribuita da terzi una volta cessato il rapporto di lavoro con la società resistente", disattendendo, peraltro, le richieste della società di ordine di esibizione dei modelli 101 e 740 del lavoratore.

La ricorrente formula, quindi, il seguente quesito di diritto: "Dica la Suprema Corte se per il principio di corrispettività della prestazione, il lavoratore – a seguito dell’accertamento giudiziale dell’illegittimità del contratto a termine stipulato – ha diritto al pagamento delle retribuzioni soltanto dalla data di riammissione in servizio, salvo che abbia costituito in mora il datore di lavoro, offrendo espressamente la prestazione lavorativa nel rispetto della disciplina di cui agli artt. 1206 e segg. cod. civ.".

Tale quesito non riguarda il tema dell’aliunde perceptum e comunque, anche in ordine all’argomento della mora credendi risulta del tutto generico e non pertinente rispetto alla fattispecie, in quanto si risolve nella enunciazione in astratto delle regole vigenti nella materia, senza enucleare il momento di conflitto rispetto ad esse del concreto accertamento operato dai giudici di merito (in tal senso v.

fra le altre Cass. 4-1-2011 n. 80). Il quesito di diritto, richiesto a pena di inammissibilità del relativo motivo, in base alla giurisprudenza consolidata di questa Corte, deve infatti essere formulato in maniera specifica e deve essere chiaramente riferibile alla fattispecie dedotta in giudizio (v. ad es. Cass. S.U. 5-1-2007 n. 36), dovendosi pertanto ritenere come inesistente un quesito generico e non pertinente. Del resto è stato anche precisato che "è inammissibile il motivo di ricorso sorretto da quesito la cui formulazione si risolve sostanzialmente in una omessa proposizione del quesito medesimo, per la sua inidoneità a chiarire l’errore di diritto imputato alla sentenza impugnata in riferimento alla concreta fattispecie" (v. Cass. S.U. 30-10-2008 n. 26020), dovendo in sostanza il quesito integrare (in base alla sola sua lettura) la sintesi logico-giuridica della questione specifica sollevata con il relativo motivo (cfr. Cass. 7-4-2009 n. 8463).

Peraltro neppure può ignorarsi che nella fattispecie anche la illustrazione del motivo risulta del tutto generica e priva di autosufficienza in quanto si incentra nella doglianza circa la mancanza di una verifica effettiva della messa in mora, senza considerare lo specifico decisum sul punto e senza minimamente riportare il contenuto della raccomandata del 27-10-99, che, secondo la ricorrente, non avrebbe integrato un atto di messa in mora.

Del pari, per quanto concerne all’aliunde perceptum (in relazione al quale manca del tutto il quesito) alcunchè di specifico viene poi indicato dalla ricorrente, laddove al riguardo era pur sempre necessaria una rituale acquisizione della allegazione e della prova (pur non necessariamente proveniente dal datore di lavoro in quanto oggetto di eccezione in senso lato – cfr. Cass. 16-5-2005 n. 10155, Cass. 20-6-2006 n. 14131, Cass. 10-8-2007 n. 17606, Cass. S.U. 3-2- 1998 n. 1099).

Così risultato inammissibile il terzo motivo, riguardante le conseguenze economiche della nullità del termine, neppure potrebbe incidere in qualche modo nel presente giudizio lo ius superveniens, rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7.

Al riguardo, infatti, come questa Corte ha più volte affermato, in via di principio, costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 27-2-2004 n. 4070).

In tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso che investe, anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria (v. fra le altre Cass. 4-1-2011 n. 80 cit.).

Orbene tale condizione non sussiste nella fattispecie.

Il ricorso va pertanto respinto e la ricorrente va condannata al pagamento delle spese in favore del M., con attribuzione all’avv. Dino Lucchetti per dichiarazione di anticipo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a pagare al M. le spese liquidate in Euro 40,00 per esborsi, oltre Euro 3.000,00 per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA, con attribuzione all’avv. Dino Lucchetti per dichiarazione di anticipo.

Così deciso in Roma, il 17 maggio 2012.

Depositato in Cancelleria il 28 giugno 2012
Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.