Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 19-01-2011) 15-03-2011, n. 10435 Riparazione per ingiusta detenzione

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Ricorre per cassazione, con atto personalmente sottoscritto, S. P. avverso l’ordinanza emessa in data 3.3.2010 dalla Corte di Appello di Palermo con la quale veniva rigettata l’istanza di riparazione dell’ingiusta detenzione sofferta dal 20.11.2007 al 17.12.2008, deducendo la violazione dell’art. 314 c.p.p. Il Procuratore generale in sede, all’esito della requisitoria scritta, ha concluso per il rigetto del ricorso.

Il ricorso è inammissibile.

Infatti, come premesso, il ricorso risulta sottoscritto personalmente dalla parte richiedente.

Orbene, in tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, è inammissibile il ricorso per cassazione proposto con atto sottoscritto dalla parte senza la rappresentanza di un avvocato iscritto nell’albo speciale della Corte di cassazione a norma dell’art. 613 c.p.p., giacchè l’unica deroga a tale disposizione generale è quella prevista dall’art. 571 c.p.p., comma 1, che riconosce al solo imputato la facoltà di proporre personalmente l’impugnazione. (Sez. Un., Ord. n. 34535 del 27.6.2001, Rv. 219613) Più specificamente, è stato altresì affermato che in subiecta materia il ricorso per cassazione avverso la decisione della Corte d’appello deve essere proposto, a pena di inammissibilità, da un difensore iscritto nell’albo speciale della cassazione, e non può essere sottoscritto personalmente dall’interessato, a nulla rilevando che la sottoscrizione sia autenticata in calce da un difensore iscritto nel predetto albo (Sez. 4^, n. 13197 del 22.2.2008, Rv.

239602).

Ad ogni modo, le censure mosse risultano manifestamente infondate.

Invero, l’impugnata ordinanza, congruamente motivata, mostra di rifarsi correttamente a consolidati orientamenti giurisprudenziali di questa Suprema Corte in tema di verifica della sussistenza del dolo o della colpa grave ostativi all’accoglimento della domanda per ingiusta detenzione, che di seguito si richiamano.

In tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, la giurisprudenza consolidata di questa Corte (v., sotto diversi profili, le sentenze delle Sezioni Unite 13/12/1995, n. 43, e 26/06/2002, n. 34559), afferma che la nozione di "colpa grave" di cui all’art. 314 c.p.p., comma 1, ostativa del diritto alla riparazione dell’ingiusta detenzione, va individuata in quella condotta che, pur tesa ad altri risultati, ponga in essere, per evidente, macroscopica negligenza, imprudenza, trascuratezza, inosservanza di leggi, regolamenti o norme disciplinari, una situazione tale da costituire una non voluta, ma prevedibile ragione di intervento dell’autorità giudiziaria, che si sostanzi nell’adozione o nel mantenimento di un provvedimento restrittivo della libertà personale.

Orbene, la motivazione dell’ordinanza de qua è svolta esaurientemente sugli elementi che non consentono di concludere nel senso dell’accertamento del diritto azionato, potendosi ravvisare nella condotta tenuta dal richiedente all’epoca del fatto la colpa grave: in particolare, evidenzia come il S. sia stato assolto solo in secondo grado dal reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 in relazione ad un quantitativo di sostanza stupefacente di cui il cugino, G.C., che si trovava in auto con lui, aveva tentato di liberarsi all’arrivo dei Carabinieri.

Rileva, altresì, come il S. nel suo interrogatorio avesse dichiarato che quando erano arrivati i militari il cugino si trovava a circa 30 metri fuori dalla macchina mentre i verbalizzanti avevano accertato che questi era uscito a precipizio dall’auto per cercare di liberarsi della droga; tali dichiarazioni venivano considerate dagli inquirenti come un tentativo dell’indagato di eludere i sospetti oggettivamente ingenerati dal comportamento dell’altro e manifestazione di consapevolezza della presenza dello stupefacente.

Corretta è la valutazione della Corte di Appello di tale condotta processuale del richiedente, dal momento che la diversa versione dei fatti resa dal S. in sede di convalida assumeva una rilevanza significativa e quanto meno sinergicamente efficiente nell’emissione della misura cautelare, specie in considerazione della specificità dei suoi precedenti penali, essendo stato ripetutamente condannato proprio per detenzione o cessione illecita di droga. Tale decisione appare conforme all’orientamento di questa Corte, secondo cui "In tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, il silenzio, la reticenza e il mendacio dell’indagato in sede di interrogatorio, pur costituendo esercizio del diritto di difesa, possono rilevare sotto il profilo del dolo o della colpa grave nel caso in cui egli sia in grado di indicare specifiche circostanze, non note all’organo inquirente, idonee a prospettare una logica spiegazione al fine di escludere o caducare il valore indiziante degli elementi acquisiti in sede investigativa, che determinarono l’emissione del provvedimento cautelare" (ex ceteris: Sez. 4^, n. 4159 del 9.12.2008, Rv. 242760).

Quindi, la Corte territoriale, senza effettuare alcuna illegittima invasione della valutazione dei fatti riservata intangibilmente alla sentenza penale di assoluzione, ma rilevando solo la sussistenza di elementi che hanno dato causa all’emissione della misura cautelare e configuranti la colpa grave a norma dell’art. 314 c.p.p., comma 1, ha escluso il diritto del ricorrente alla riparazione, essendo state indubbiamente le suddette circostanze concause atte a determinare l’emissione della misura cautelare a suo carico.

Consegue l’inammissibilità del ricorso e, con essa, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento alla Cassa delle ammende di una somma che, alla luce dei principi affermati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 186 del 2000, sussistendo profili di colpa, si ritiene equo determinare in euro 1.000,00 in favore della cassa delle ammende.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. Unite, Sent., 22-06-2011, n. 13666 Tassazione separata

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Svolgimento del processo

La controversia concerne l’impugnazione da parte de contribuente del silenzio rifiuto opposto dall’amministrazione ad una sua istanza di rimborso delle ritenute operate dal FONDENEL (in precedenza denominato PIA) nel momento in cui, al momento della cessazione del rapporto di lavoro come dirigente ENEL, il fondo previdenziale predetto gli aveva corrisposto una somma di denaro, in luogo del trattamento di pensione integrativa.

La somma corrisposta era frutto della trasformazione, avvenuta nel 1986, di un trattamento assicurativo in base a polizza attivata dall’azienda per i propri dirigenti in un rapporto previdenziale, che al momento della cessazione del rapporto di lavoro prevedeva la corresponsione di una rendita previdenziale o, in caso di opzione del dipendente per questa alternativa (come era avvenuto nel caso di specie), di un capitale.

Ad avviso del contribuente la somma percepita avrebbe dovuto essere tassata operando una ritenuta del 12,50%, come i redditi di capitale, la cui base imponibile è determinabile secondo le disposizioni di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 42, comma 4, ( TUIR) (nel testo vigente precedentemente alla riforma del 2004, ora art. 44). La Commissione adita accoglieva la richiesta formulata dal contribuente ed affermava la tassabilità della somma dallo stesso percepita mediante la ritenuta de 12,50%. L’appello dell’Ufficio era rigettato, con la sentenza in epigrafe, la quale riteneva che le somme versate dai fondi complementari, cui il dipendente si era iscritto prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. 21 aprile 1993, n. 124, andavano tassate ai sensi del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 42, comma 4, ( TUIR) con la ritenuta d’acconto del 12,50% sulla differenza fra il capitale corrisposto ed i premi riscossi.

Avverso tale sentenza, l’Agenzia delle Entrate propone ricorso per cassazione con tre motivi. Resiste il contribuente con controricorso.

La causa a seguito dell’ordinanza n. 21684/10 depositata il 22 ottobre 2010 e pronunciata in causa analoga, è stata rimessa su istanza di parte controricorrente al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite in considerazione della particolare importanza della questione proposta con il ricorso e della riscontrata possibilità della formazione di un contrasto all’interno della sezione. Per tal ragioni la causa è oggi chiamata innanzi a queste Sezioni Unite. Entrambi le parti hanno depositata memoria.

MOTIVAZIONE
Motivi della decisione

1. Con i tre motivi di ricorso, che possono essere esaminati congiuntamente per ragioni di connessione logica, l’amministrazione contesta la aderenza alla realtà normativa della tesi adottata nella sentenza impugnata, sia sotto il profilo della violazione di legge (lamentano violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., in ordine alla qualificazione dell’accordo integrativo aziendale ENEL- FNDAI, nonchè del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, artt. 16 e 17 e art. 42, comma 4, L. 26 settembre 1985, n. 482, art. 6, sul regime tributario applicabile), sia sotto il profilo del vizio di motivazione.

1.1. Ad avviso dell’amministrazione, anteriormente alla riforma di cui al D.Lgs. n. 124 del 1993, la ritenuta d’imposta del 12,50% andava applicata "alle sole prestazioni in forma di capitale corrisposte in dipendenza di contratti di assicurazione vita o fondi assicurativi": non certo alle prestazioni relative ad un trattamento pensionistico integrativo, che devono intendersi soggette a tassazione separata ai sensi del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, artt. 16 e 17 ( TUIR). Ove mai si ritenesse che la prestazione sia stata corrisposta in dipendenza di un contratto di assicurazione sulla vita o di capitalizzazione, l’aliquota del 12,50% potrebbe trovare esclusiva applicazione alla sola parte della prestazione stessa costituita dal rendimento.

2. Si tratta della questione sulla quale queste Sezioni Unite sono chiamate a pronunciarsi, sia per l’importanza che deriva dalla estesa platea dei contribuenti interessati, sia per il profilarsi di un possibile contrasto di posizioni nella giurisprudenza della Sezione tributaria della Corte.

3. In particolare le posizioni che si sono andate delineando circa la interpretazione della normativa applicabile fanno riferimento a due alternative esegesi: una prima, che individua un duplice criterio di tassazione; una seconda, che individua un unico criterio di tassazione.

3.1. Nel primo filone si colloca la sentenza 30 dicembre 2009, n. 27928, che ha affermato il seguente principio: "In tema di fondi previdenziali integrativi, la disciplina impositiva di cui al D.Lgs. n. 124 del 1993, art. 13, comma 9 – che rinvia al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 16, comma 1, lett. a), e art. 17 ( T.U.I.R.), ed al relativo regime di tassazione separata – si riferisce, secondo l’interpretazione fornita dal D.L. n. 669 del 1996, art. 1, comma 5, (convertito nella L. n. 30 del 1997), esclusivamente ai lavoratori iscritti alle forme pensionistiche complementari successivamente all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 124 cit. e non è, quindi, applicabile a quelli già iscritti a forme pensionistiche complementari. Pertanto, se a tali lavoratori, al momento della risoluzione del rapporto di lavoro, siano corrisposte somme costituite in parte da capitale riveniente dai contributi versati e per il residuo dai rendimenti netti realizzati attraverso la gestione della sorte capitale, il predetto regime di tassazione separata si applica alla sola attribuzione patrimoniale conseguente alla cessazione del rapporto di lavoro, in quanto disciplina riguardante tutti i redditi comunque dipendenti da quel rapporto, mentre alle somme provenienti dalla liquidazione del cd. rendimento – costituenti mero reddito di capitale non legato al rapporto di lavoro – si applica la ritenuta del 12,50% prevista dalla L. n. 482 del 1985, art. 6". 3.2. La sentenza, pronunciata in una controversia avente ad oggetto una istanza di rimborso di un dirigente ENEL (come nel caso in esame), risulta seguita in termini dalla successiva sentenza 12 novembre 2010, n. 22974, anch’essa pronunciata in una controversia avente ad oggetto una istanza di rimborso di un dirigente ENEL, che ha affermato il seguente analogo principio: "In tema di fondi previdenziali integrativi, la disciplina impositiva di cui al D.Lgs. 21 aprile 1993, n. 124, art. 13, comma 9 – che rinvia al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 16, comma 1, lett. a), e art. 17 ( T.U.I.R.), ed al relativo regime di tassazione separata – si riferisce, secondo t’interpretazione fornita dal D.L. n. 669 del 1996, art. 1, comma 5, (convertito nella L. n. 30 del 1997), esclusivamente ai lavoratori iscritti alle forme pensionistiche complementari successivamente all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 124 citato e non è, quindi, applicabile a quelli già iscritti a forme pensionistiche complementari, nè si riferisce all’erogazione di capitali, sotto forma di pensione integrativa e per effetto di contratti assicurativi sulla vita; si tratta di un regime derogatorio che, abrogato dal D.Lgs. 18 febbraio 2000, n. 47, art. 3, si applica ai capitali percepiti sino al 1 gennaio 2001. Ne consegue che, in caso di lavoratore già iscritto alla previdenza integrativa prima del D.Lgs. n. 124 del 1993, sulle somme percepite entro la menzionata data del 1 gennaio 2001, la tassazione separata trova applicazione solo per le attribuzioni relative a redditi derivanti da rapporto di lavoro, in cui la contrattazione previdenziale integrativa rinviene la propria causa, mentre alle somme provenienti dalla liquidazione del rendimento, cioè i proventi da gestione di capitale, si applica la ritenuta del 12,50%, già prevista dal L. n. 482 del 1985, art. 6". 3.3. Nel secondo filone si colloca la sentenza 7 maggio 2010, n. 11156, che ha affermato il seguente principio: "In tema di IRPEF, la prestazione di capitale che un fondo di previdenza complementare per il personale di un istituto bancario (nella specie, il Fondo di Previdenza complementare per il Personale del Banco di Napoli) effettui, forfetaria mente a saldo e stralcio, in favore di un ex dipendente, in forza di un accordo transattivo risolutivo di ogni rapporto inerente al trattamento pensionistico integrativo in godimento (cosiddetto "zainetto"), costituisce, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 6, comma 2, reddito della stessa categoria della "pensione integrativa" cui il dipendente ha rinunciato e va, quindi, assoggettato al medesimo regime fiscale cui sarebbe stata sottoposta la predetta forma di pensione. La base imponibile su cui calcolare l’imposta è costituita dall’intera somma versata dal fondo, senza che sia possibile defalcare da essa i contributi versati, in quanto, ai sensi della lett. a) del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 48 (nel testo vigente fino al 31 dicembre 2003), gli unici contributi previdenziali e/o assistenziali che non concorrono a formare il reddito sono quelli versati in ottemperanza a disposizioni di legge". 3.4. La sentenza è pronunciata con riferimento ad un diverso fondo previdenziale (quello del Banco Napoli), ma è seguita da altra sentenza, la 4 agosto 2010, n. 18056, pronunciata, invece, con riferimento al FONDENEL, che ha affermato il seguente principio: "Per gli iscritti alla forma pensionistica complementare in epoca anteriore al 1993, cui non si applicano le disposizioni di cui al D.Lgs. 21 aprile 1993, art. 13, comma 9, e D.P.R. n. 917 del 1986, art. 42, comma 4 ultimo periodo (introdotte dalla L. n. 335 del 1995, art. 11, comma 3), la somma ricevuta al momento della risoluzione del rapporto di lavoro rimane assoggettata alla disciplina dettata per tutti i redditi comunque da tale rapporto dipendenti, e in particolare all’imposizione corrispondente a quella del trattamento di fine rapporto. Ne consegue che nell’ipotesi in cui la prestazione erogata a tale titolo sia stata corrisposta tra il 1 gennaio 2001 ed il 31 dicembre 2003, durante cioè la vigenza del D.Lgs. n. 47 dei 2000 è qualificabile come reddito da lavoro dipendente, ed è soggetta a tassazione separata in applicazione dell’art. 16, comma 1, lett. a), (come integrato dal D.L. n. 41 del 1995, art. 32, conv. in L. n. 85 del 1995, e modificato dal D.Lgs. n. 47 del 2000, art. 10) e D.P.R. n. 917 del 1986, art. 17 (come modificato dal D.Lgs. n. 47 del 2000, art. 11, comma 1 lett. a), ancorchè l’erogazione avvenga in unica soluzione, anzichè in rate mensili, anche se venga effettuata da soggetto terzo, anzichè dal datore di lavoro, non rimanendo, solo in virtù della peculiare modalità di erogazione, eliso il relativo nesso con il rapporto di lavoro che ha originato il trattamento previdenziale, essendo tale erogazione volta ad immediatamente estinguere, a costi ridotti, il credito dell’avente diritto.

(Principio applicativo in relazione a fondo pensione complementare gestito da FONDENEL per importo erogato a dipendente al momento della risoluzione del rapporto)". 4. Prima che la evidenza di soluzioni possibilmente contrastanti, quel che emerge dalla lettura delle riportate soluzioni giurisprudenziali è l’esistenza di una concatenazione temporale di discipline diverse in qualche misura intersecantesi, che richiede un approfondimento per comprendere meglio quale debba essere il regime di tassazione delle somme erogate in forma di capitale ai dipendenti al momento della cessazione del rapporto di lavoro da fondi che assicurino prestazioni pensionistiche complementari.

4.1. In primo luogo è ravvisabile tra le differenti pronunce citate una posizione comune sull’esistenza di un fondamentale discrimine temporale, che distingue la situazione dei soggetti che siano iscritti a forme pensionistiche complementari prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 124 del 1993 e quella dei soggetti che siano iscritti a forme analoghe in epoca successiva all’entrata in vigore del predetto provvedimento legislativo.

4.2. Solo ai secondi, sarebbe applicabile il trattamento tributario stabilito al D.Lgs. n. 124 del 1993, art. 13, comma 9, il quale assoggetta le prestazioni in forma di capitale a tassazione separata ai sensi del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 16, comma 1, lett. a), (testo unico delle imposte sui redditi), e successive modificazioni ed integrazioni. Ciò alla luce della norma interpretativa di cui al D.L. 31 dicembre 1996, n. 669, art. 1, comma 5 (convertito con modificazioni con L. 28 febbraio 1997, n. 30), il quale prevede che "La disposizione contenuta nel D.Lgs. 21 aprile 1993, n. 124, art. 13, comma 9, e quella contenuta nel D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 42, comma 4, ultimo periodo (testo unico delle imposte sui redditi), introdotta dalla L. 8 agosto 1995, n. 335, art. 11, comma 3 (a norma del quale la disposizione prevista dall’art. 42, comma 4 "non si applica in ogni caso alle prestazioni erogate in forma di capitale ai sensi del D.Lgs. 21 aprile 1993, n. 124, e successive modificazioni ed integrazioni"), devono intendersi riferite esclusivamente ai destinatari iscritti alle forme pensionistiche complementari successivamente alla data di entrata in vigore del citato D.Lgs. n. 124 del 1993". 4.3. A questa situazione "binaria", che distingue tra "vecchi iscritti" e "nuovi iscritti" a forme pensionistiche complementari, pone fine il D.Lgs. 18 febbraio 2000, n. 47, art. 12, comma 1, (come modificato dal D.Lgs. 12 aprile 2001, n. 168, art. 9, comma 1, lett. a)), a norma del quale "per i soggetti che risultano iscritti a forme pensionistiche complementari alla data da cui ha effetto il presente decreto, le disposizioni introdotte dall’art. 10 (relativamente al "trattamento tributario delle prestazioni pensionistiche erogate ai sensi del D.Lgs. 21 aprile 1993, n. 124") si applicano alle prestazioni riferibili agli importi maturati a decorrere dal 1 gennaio 2001. Per i medesimi soggetti, relativamente alle prestazioni maturate fino a tale data, continuano ad applicarsi le disposizioni vigenti anteriormente". Il D.Lgs. n. 47 del 2000, all’art. 3 abroga, tra l’altro, il D.Lgs. n. 124 del 1993, art. 13, comma 9 (quest’ultima norma sarà del tutto abrogata, come l’intero decreto legislativo, dal D.Lgs. 5 dicembre 2005, n. 252, art. 23, a decorrere dal 1 gennaio 2007).

5. La situazione rende conto del difficile approccio del legislatore italiano con la previdenza complementare, che ha delineato un percorso incerto della disciplina di queste forme integrative trasformate nel tempo da "tutela assicurativa", rispondente al principio del risparmio finanziario (che trova la propria garanzia costituzionale nell’art. 47 della Carta fondamentale), a "tutela previdenziale", rispondente al principio del risparmio previdenziale (che trova la propria garanzia costituzionale nell’art. 38 della Carta fondamentale): la differenza principale tra le due forme di risparmio sta nel fatto che, nel primo caso l’investimento concerne una somma che è già patrimonio del soggetto, mentre nel secondo caso, l’investimento concerne una somma che origina da redditi di lavoro (e questa correlazione tra investimento e redditi di lavoro non è senza conseguenze sul regime tributario delle prestazione erogate dai Fondi pensione, regime che non può essere diverso da quello cui sono soggetti i redditi da cui l’investimento trova alimento).

5.1. Tuttavia, una scelta netta per una tassazione tout court analoga a quella applicata sui redditi di lavoro è operata solo con il D.Lgs. n. 124 del 1993, in particolare con l’art. 13, comma 9, introdotto dalla L. 8 agosto 1995, n. 335, art. 11, (la c.d. riforma Dini), riservandone però l’applicazione alle sole prestazioni erogate in forma capitale a favore di soggetti iscritti ad enti di previdenza complementare in epoca successiva all’entrata in vigore de decreto. Per gli iscritti in epoca precedente, il trattamento tributario delle prestazioni erogate non è, e non può essere, indipendente dalla composizione strutturale delle prestazioni stesse, che, nel caso concreto, trattandosi di un Fondo di previdenza complementare aziendale a capitalizzazione di versamenti e a causa previdenziale prevalente, sono composte da una "sorte capitale", costituita dagli accantonamenti imputabili ai contributi versati dal datore di lavoro (e in notevole minor misura dal lavoratore), e da un "rendimento netto", imputabile alla gestione sul mercato da parte del Fondo del capitale accantonato. Sicchè possono essere tassate in modo analogo al TFR esclusivamente le somme liquidate a titolo di capitale, mentre alle somme corrispondenti al rendimento di polizza (nella fattispecie PIA), si applica la tassazione nella misura del 12,50% ai sensi della L. 26 settembre 1985, n. 482, art. 6, (i commi 1 e 2, del richiamato art. 6, sono stati poi abrogati dal D.Lgs. n. 47 del 2000, art. 14, per i contratti stipulati in data successiva a quella di entrata in vigore del decreto, stabilendo l’applicazione dell’imposta sostitutiva delle imposte sui redditi nella misura prevista dal D.Lgs. 21 novembre 1997, n. 461, art. 7, ai redditi compresi nei capitali corrisposti in dipendenza di contratti di assicurazione sulla vita e di capitalizzazione e ai redditi derivanti dai rendimenti delle prestazioni pensionistiche di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 47, comma 1, lett. h-bis) ( T.U.I.R.) erogate in forma periodica e delle rendite vitalizie aventi funzione previdenziale).

5.2. Ogni distinzione di trattamento cessa alla data del 1 gennaio 2001 a decorrere dalla quale, a norma del D.Lgs. n. 47 del 2000, non è più consentito distinguere tra capitale e rendimento e le polizze vanno assoggettate nella loro interezza al regime della tassazione separata di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 16, comma 1, lett. a). Con questa nuova normativa il sistema recupera una sua maggiore coerenza e razionalità, in quanto, come non ha mancato di sottolineare parte della dottrina, poteva apparire artificiosa la scissione del legame genetico del "rendimento" con i rapporto di lavoro e la causa previdenziale della polizza: ma si tratta di specifiche ed espresse scelte legislative, determinate dalle peculiarità del processo di sviluppo della previdenza complementare nel paese.

6. Sicchè deve essere affermato i seguente principio di diritto: "In tema di fondi previdenziali integrativi, le prestazioni erogate in forma capitale ad un soggetto che risulti iscritto, in epoca antecedente all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 124 del 1993, ad un Fondo di previdenza complementare aziendale a capitalizzazione di versamenti e a causa previdenziale prevalente, sono soggette al seguente trattamento tributario: a) per gli importi maturati fino al 31 dicembre 2000, la prestazione è assoggettata al regime di tassazione separata di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 16, comma 1, lett. a), e art. 17 ( T.U.I.R.), solo per quanto riguarda la "sorte capitale" corrispondente all’attribuzione patrimoniale conseguente alla cessazione de rapporto di lavoro, mentre alle somme provenienti dalla liquidazione del cd. rendimento si applica la ritenuta del 12,50%, prevista dalla L. n. 482 del 1985, art. 6; b) per gli importi maturati a decorrere dal 1 gennaio 2001 si applica interamente il regime di tassazione separata di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 16, comma 1, lett. a), e art. 17 ( T.U.I.R.)". 7. Pertanto deve essere accolto parzialmente il ricorso, nei sensi di cui all’esposta motivazione, stabilendo, per gli importi maturati entro il 31 dicembre 2000, l’applicazione della ritenuta del 12,50% sulle sole somme relative alla liquidazione del rendimento. La sentenza impugnata deve essere cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, con l’accoglimento parziale del ricorso originario del contribuente, dichiarando il diritto di quest’ultimo al rimborso per gli importi maturati fino al 31 dicembre 2000 della differenza tra quanto versato all’erario dal sostituto d’imposta e quanto dovuto a seguito dell’applicazione dell’aliquota del 12,50% ai sensi della L. n. 482 del 1985, art. 6 alle sole somme liquidate per il rendimento.

8. La complessità delle questioni affrontate e l’incertezza delle soluzioni giurisprudenziali giustificano la compensazione delle spese dell’intero giudizio.
P.Q.M.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Accoglie parzialmente il ricorso, nei sensi di cui in motivazione;

cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, accoglie parzialmente il ricorso originario del contribuente, dichiarando il diritto di quest’ultimo al rimborso per gli importi maturati fino al 31 dicembre 2000 della differenza tra quanto versato all’erario dal sostituto d’imposta e quanto dovuto a seguito dell’applicazione dell’aliquota del 12,50% alle sole somme liquidate per il rendimento.

Compensa le spese dell’intero giudizio.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 12-07-2011, n. 15292 patto di prelazione

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Svolgimento del processo

Con citazione del 29.9.2000 P.P. vantava diritti nei confronti di Po.Al. e Ma., in forza di una scrittura privata intercorsa con i convenuti il 13.12.1993 cd. in particolare un diritto di prelazione sull’acquisto di un compendio immobiliare venduto, invece, dai Po. ad un terzo, con la messa a disposizione del prezzo pagato ed invito davanti al notaio per la stipula, richiesta di danni ed in subordine di qualificare il negozio come preliminare.

I convenuti resistevano chiedendo riconvenzionalmente i danni per la trascrizione della citazione.

Il Tribunale di Sondrio, con sentenza 26.8.2002, respingeva le domande deducendo che l’asserito inadempimento della scrittura, avendo questa efficacia meramente obbligatoria, poteva essere fonte di risarcimento del danno, rimasto, tuttavia, privo di qualsiasi specificazione e non quantificabile da una ctu od equitativamente, e che mancava l’indicazione degli elementi fondamentali del contratto futuro di compravendita.

Proponeva appello P., resistevano i Po., chiedendo la conferma della sentenza e la Corte di appello di Milano, con decisione 2657/04, respingeva il gravame con condanna alle spese, osservando che il Tribunale correttamente aveva fatto intendere al P. che non sarebbe stato più possibile il conseguimento della proprietà del compendio, domanda peraltro non chiesta in primo grado ed inammissibilmente formulata nelle conclusioni in appello, nemmeno attraverso l’impossibile qualificazione come preliminare della scrittura, statuizione non censurata nella citazione in appello.

Erano da respingere le critiche alla mancata ammissione della ctu, che non è mezzo di acquisizione di prove ma di valutazione di prove già acquisite.

Ricorre P. con unico motivo, illustrato da memoria, non svolgono difese le controparti.
Motivi della decisione

Si denunzia in DIRITTO che le due sentenze sono quanto mai ingiuste per A) violazione di norme in diritto ed omessa motivazione.

"I fratelli Po..no.ha.ma.la.lo.vo.a.

v.e.a.p.l.p.d.i.a.f.

d.n.d.e.i.c.c.l.

p.d.v.

S.a.c.c.l.g.i.d.

.Polatti c.h.c.l.b.f.d.Paganoni ,.

c.s.q.l.C.d.a.n.h.s.o.a.

e.n.c.l.r.n.a.m.

c.u.s.c. S.r.c.d.c.i.p.g.e.i.s.d.

p.I.m.a.".c.d.p.c.p. e.d.e.o.m.c.t.L. c.c.p.n.m.a.

A.p.d.c.g.d.d.v.d.

n.d.d.e.d.o.m.i.c.c.l.

n.s.d.m.e.d.o.c.l.

i.n.p.i.f.(.p.d.i.I. s.s. P. concedono al sig. P. il diritto di prelazione di gg. 30 da comunicare con lettera RR sul prezzo che verrà richiesto al momento della trattativa per il terreno con fabbricato distinto ai mappali F. 41 n. 191 parte, n. 105 parte e n. 106 parte rimanente. Qualora il sig. P. non riterrà di acquistare il sopraccitato terreno al prezzo richiesto restituirà la seguente scrittura al sig. Po.. Sondrio 13.12.1993. Fto Po.Ma. Po.Lu. Po.Al. P. P.") aveva una mera natura obbligatoria e non poteva dar luogo ad una sentenza costituiva, come correttamente statuito.

La Corte di appello deduce, poi, la mancata censura delle statuizioni di primo grado e la inammissibile proposizione di domande nelle conclusioni in appello, motivazione alla quale si contrappone il generico richiamo di conclusioni in primo grado, senza riportare i motivi di appello.

Quanto alla ribadita doglianza di danni che potevano essere liquidati equitativamente o mediante ctu si omette di considerare che, anche nelle ipotesi in cui il danno sia in re ipsa, e non si dimostra che ciò sussista nella fattispecie, occorre sempre una indicazione specifica o quanto meno orientativa.

Il concreto esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c. espressione del più generale potere di cui all’art. 115 del codice del rito, da luogo non ad un giudizio d’equità ma ad un giudizio di diritto caratterizzato dalla cosiddetta equità giudiziale correttiva od integrativa, ond’è che non solo è subordinato alla condizione che risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile per la parte interessata provare il danno nel suo preciso ammontare, come desumibile dalle citate norme sostanziali, ma non ricomprende anche l’accertamento del pregiudizio della cui liquidazione si tratta, anzi, al contrario, presuppone già assolto dalla parte stessa, nei cui confronti le citate disposizioni non prevedono alcuna relevatio ab onere probandi al riguardo, l’onere su di essa incombente ex art. 2697 c.c. di dimostrare sia la sussistenza sia l’entità materiale del danno, così come non la esonera dal fornire gli elementi probatori e i dati di fatto dei quali possa ragionevolmente disporre, nonostante la riconosciuta difficoltà, al fine di consentire che l’apprezzamento equitativo sia per quanto possibile limitato e ricondotto alla sua peculiare funzione di colmare soltanto le lacune riscontrate insuperabili nell’iter della precisa determinazione dell’equivalente pecuniario del danno stesso.

Inoltre, poichè il diritto al risarcimento del danno conseguente alla lesione d’un diritto soggettivo non è riconosciuto dall’ordinamento con caratteristiche e finalità punitive ma in relazione all’effettivo pregiudizio subito dal titolare del diritto leso ed, al contempo, lo stesso ordinamento non consente l’arricchimento ove non sussista una causa giustificatrice dello spostamento patrimoniale da un soggetto ad un altro (nemo locupletari patest cum aliena iactura), anche nelle ipotesi per le quali il danno sia ritenuto in re ipsa e trovi la sua causa diretta ed immediata nella situazione illegittima posta in essere dalla controparte, la presunzione attiene alla sola possibilità della sussistenza del danno ma non alla sua effettiva sussistenza e tanto meno, alla sua entità materiale; l’affermazione del danno in re ipsa si riferisce, dunque, esclusivamente all’an debeatur, che presuppone soltanto l’accertamento d’un fatto potenzialmente dannoso in base ad una valutazione anche di probabilità o di verosimiglianza secondo l’id quod plerumque accidit, onde permane la necessità della prova d’un concreto pregiudizio economico ai diversi fini della determinazione quantitativa e della liquidazione di esso per equivalente pecuniario, e non è precluso al giudice il negare la risarcibilità stessa del danno ove la sua effettiva sussistenza o la sua materiale entità non risultino provate.

La ctu, peraltro, non è in se stessa un mezzo di prova ma può divenire strumento di valutazione di prove solo in presenza di specifiche e puntuali circostanze espressamente dedotte.

In definitiva il ricorso va rigettato mentre la mancata costituzione delle controparti esime dalla pronuncia sulle spese.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 18-08-2011, n. 17378 Rivalsa

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

p.1. L’Azienda Trasporti Milanesi (A.T.M.) s.p.a. ha proposto ricorso per cassazione contro la s.p.a. AXA Assicurazioni avverso la sentenza del 12 marzo 2009, con la quale la Corte d’Appello di Milano – investita dell’appello avverso la sentenza resa in primo grado dal Tribunale di Milano – in riforma di quest’ultima ed in accoglimento dell’appello della AXA ha riconosciuto fondata l’azione di rivalsa dalla stessa esercitata ai sensi dell’art. 1916 c.c. ed ha condannato essa ricorrente al pagamento della somma corrisposta dalla AXA a M.L., a titolo di indennizzo per il furto della sua autovettura, assicurata presso la stessa AXA, mentre trovavasi parcheggiata nel giugno del 1996 nel parcheggio di (OMISSIS), gestito per conto del Comune di Milano dall’A.T.M.. p.2. Al ricorso ha resistito la AXA con controricorso. p.3. Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Motivi della decisione

p.1. Con il primo motivo di ricorso si deduce "violazione degli artt. 324 e 327 c.p.c.; violazione e falsa applicazione dell’art. 359 c.p.c., in relazione all’art. 163 c.p.c., n. 7 e all’art. 164 c.p.c., comma 2 ( art. 350 c.p.c., n. 3).

Vi si censura la sentenza impugnata per avere ritenuto ammissibile l’appello nonostante che fosse stato proposto con citazione carente della indicazione della data di udienza. Ciò, a seguito di esecuzione di un ordine di rinnovazione dato in applicazione degli artt. 350 e 164 c.p.c..

L’errore della Corte meneghina starebbe nell’avere ritenuto applicabile al giudizio di appello la disciplina dell’art. 164 c.p.c., comma 2, quanto alle nullità relative alla c.d. vocatio in jus, mentre invece essa sarebbe inapplicabile a quel giudizio. Al riguardo vengono citate Cass. sez. un. n. 16 del 2000 e, con specifico riguardo all’ipotesi della mancata indicazione dell’udienza di comparizione, Cass. n. 3809 del 2004. p.1.1. Il motivo è infondato.

In primo luogo l’evocazione di Cass. sez. un. n. 16 del 2000 è fuori luogo, perchè essa si riferì all’art. 164 c.p.c., comma 2, nel testo originario, cioè anteriore alla riforma di cui alla L. n. 353, e successive modifiche, cioè in un testo che non è quello applicabile al giudizio, soggetto appunto alla disciplina dell’attuale art. 164 c.p.c..

In secondo luogo, con riferimento al regime introdotto dalla legge citata Cass. n. 3809 del 2004 risulta ampiamente superata e contraddetta dalla giurisprudenza successiva della Corte.

Si veda Cass. (ord.) n. 22024 del 2009, secondo cui: "La mancanza nella citazione di tutti i requisiti indicati dall’art. 164 cod. proc. civ., comma 1, e, quindi, di tutti gli elementi integranti la vocatio in jus, non vale a sottrarla (anche se trattasi di citazione in appello) all’operatività dei meccanismi di sanatoria ex tunc previsti dal secondo e terzo comma della medesima disposizione. Ne consegue che, quando la causa, una volta iscritta al ruolo, venga chiamata all’udienza di comparizione (che, per la mancata indicazione dell’udienza, dev’essere individuala ai sensi dell’art. 168 bis cod. proc. civ., comma 4), il giudice, anche in appello, ove il convenuto non si costituisca, deve ordinare la rinnovazione della citazione, ai sensi e con gli effetti dell’art. 164 cod. proc. civ., comma 1, mentre se si sia costituito deve applicare l’art. 164 cod. proc. civ., comma 3, salva la richiesta di concessione di termine per l’inosservanza del termine di comparizione". Acide: Cass. n. 17474 del 2007; n. 16877 del 2007; n. 17951 del 2008. Si veda, altresì, Cass. sez. un. n. 15783 del 2005. p.2. Con il secondo motivo si lamenta "violazione e falsa applicazione dell’art. 1766 cod. civ., e segg., in relazione all’art. 1571 c.c., nonchè in relazione alla L. 24 marzo 1989, n. 122, art. 16 ed al D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, art. 7, comma 1, lett. f.

Violazione e falsa applicazione dell’art. 1341 cod. civ., comma 2.

Carente illogica e contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia ( art. 360 cod. proc. civ., nn. 3 e 5)".

Con questo motivo si prospetta l’erroneità della qualificazione del rapporto in base al quale l’autovettura dell’assicurato venne parcheggiata, sostenendo, in funzione dell’esclusione del diritto alla rivalsa, che non si sarebbe trattato – come ritenuto dalla Corte territoriale – di deposito con assunzione di obbligo di custodia, tenuto conto che vi era avviso ben visibile circa l’esclusione di quest’ultimo, bensì di locazione di area a parcheggio senza quell’obbligo. p.2.1. Il motivo è fondato sulla base della recentissima sentenza n. 14319 del 28 giugno 2001, con la quale le Sezioni Unite della Corte, proprio decidendo su ricorso a posizioni invertire fra le stesse odierne parti concernente analoga controversia, hanno risolto il contrasto esistente in seno a questa Sezione sul punto della detta qualificazione.

Ciò, peraltro, riguardo allo stesso parcheggio di (OMISSIS).

Le Sezioni Unite hanno così statuito: "L’istituzione da parte dei Comuni, previa deliberazione della Giunta, di aree di sosta a pagamento ai sensi del D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, art. 7, comma 1, lett. f) (C.d.S.), non comporta l’assunzione dell’obbligo del gestore di custodire i veicoli su di esse parcheggiati se l’avviso "parcheggio incustodito" è esposto in modo adeguatamente percepibile prima della conclusione del contratto ( art. 1326 c.c., comma 1, e art. 1327 cod. civ.) perchè l’esclusione della custodia attiene all’oggetto dell’offerta al pubblico ( art. 1336 cod. civ.), e l’univoca qualificazione contrattuale del servizio, reso per finalità di pubblico interesse, normativamente disciplinate, non consente il ricorso al sussidiario criterio della buona fede, ovvero al principio della tutela dell’affidamento incolpevole sulle modalità di offerta del servizio (quali ad esempio l’adozione di recinzioni, di speciali modalità di accesso ed uscita, dispositivi o personale di controllo), per costituire l’obbligo della custodia, potendo queste costituire organizzazione della sosta. Ne consegue che il gestore concessionario del Comune di un parcheggio senza custodia non è responsabile del furto del veicolo in sosta nell’area all’uopo predisposta".

In base a tale principio di diritto la sentenza impugnata dev’essere cassata. p.3. Il terzo motivo – denunciante vizio di motivazione riguardo alla prova del furto – resta a questo punto assorbito. p.4. Poichè, non occorrono accertamenti di fatto per decidere sull’appello proposto avverso la sentenza di primo grado dall’AXA, in quanto, in ragione della decisione delle Sezioni Unite e della pacifica esistenza nel parcheggio di avvisi circa l’esclusione della custodia, appare senz’altro palese che la vicenda relativa al furto per cui è stata esercitata la rivalsa, alla stregua del principio di diritto in essa affermato, non giustifica la rivalsa in iure sotto il profilo c.d. della sussunzione della fattispecie concreta sotto quella astratta, questa Corte può decidere senz’altro nel merito sull’appello dell’AXA riguardo alla sentenza di primo grado. E ciò nel senso che esso dev’essere rigettato perchè infondato in iure, con conseguente conferma della sentenza di primo grado.

5. Dovendosi provvedere sulle spese del giudizio di appello, oltre che su quelle del giudizio di cassazione, l’oggettiva incertezza della quaestio iuris dibattuta giustifica ampiamente l’integrale compensazione delle spese di entrambi i gradi.
P.Q.M.

La Corte rigetta il primo motivo di ricorso. Accoglie il secondo e dichiara assorbito il terzo. Cassa la sentenza in relazione al motivo accolto e decidendo nel merito sull’appello dell’AXA avverso la sentenza di primo grado, lo rigetta, confermando la sentenza di primo grado. Compensa le spese del giudizio di appello e di quello di cassazione.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.