Cass. civ. Sez. I, Sent., 22-09-2011, n. 19347 Indennità di espropriazione

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Oggetto della controversia è la determinazione dell’indennità di occupazione d’urgenza di un terreno di proprietà dei signori N., S. e S.P. di mq. 2340, disposta inizialmente per un periodo di due anni dall’immissione in possesso avvenuta il 21 novembre 1979, e prorogata di tre anni con Decreto 29 luglio 1981, per l’esecuzione di opere della Ferrovia Cumana da parte della Società Esercizio Pubblici Servizi s.p.a. (S.E.P.S.A. s.p.a.).

Con decreto del Commissario di governo per le zone terremotate 13 dicembre 1985, parte del terreno, per mq. 1.110, fu occupata il 31 dicembre 1985 dall’Acquedotto di Napoli, e l’area occupata dalla S.E.P.S.A. si ridusse a mq 1.240. Con verbale 29 luglio 1988 le parti concordarono la restituzione del suolo ancora occupato, ad esclusione di mq. 290, ancora interessati dai lavori in corso, e la messa a disposizione dei proprietari di un passaggio alternativo a quello preesistente, che era impedito dalla preesistente occupazione dei residui mq. 290. 2. Con citazione 25 maggio 1986 i proprietari, perdurando l’occupazione del suolo e sul presupposto che il periodo di occupazione autorizzata fosse scaduto senza emissione del decreto di espropriazione, chiesero al Tribunale di Napoli la condanna della S.E.P.S.A. al pagamento delle somme loro dovute per tali fatti. Con altra citazione in data 11 aprile 1997 gli stessi attori, allegando l’inadempimento della S.E.P.S.A. all’obbligo contrattualmente assunto di procurare un passaggio alternativo per l’accesso alla porzione di mq. 1.000 restituita ma di fatto interclusa, chiesero il risarcimento dei danni subiti a causa dell’illegittima occupazione anche dell’area di cui al verbale di restituzione 8 luglio 1988. 3. Con sentenza 8 agosto 2003, il tribunale condannò la S.E.P.S.A. al pagamento dell’indennità dovuta per l’occupazione legittima del terreno sino alla scadenza della medesima, in data 29 agosto 1984, e dei danni da occupazione illegittima dell’intera area da quella data al 31 dicembre 1985 (data di occupazione di mq. 1.100 da parte dell’Acquedotto di Napoli), e dell’area residua fino alla data della decisione, non potendosi tener conto della parziale restituzione, a causa dell’inadempimento della società all’obbligo di procurare un accesso alternativo.

4. La Corte appello di Napoli, decidendo con sentenza 5 luglio 2005 sui contrapposti gravami delle parti, confermò la statuizione della cessazione dell’occupazione legittima in data 29 agosto 1984, non potendosi applicare le proroghe di legge emanate nel periodo pertinente perchè riferite all’occupazione in forza della L. n. 865 del 1971, art. 20, comma 2 e perciò preordinate all’espropriazione e non anche esclusivamente – come nella fattispecie all’esecuzione dei lavori; ritenne che la restituzione dell’area di mq 1.100, avesse effettivamente fatto cessare l’occupazione di essa, ma che il danno cagionato dall’inadempimento della società all’obbligo di procurare un accesso alternativo all’area medesima fosse liquidabile in misura equivalente all’occupazione dell’area.

5. Per la cassazione di questa sentenza, notìficata il 10 agosto 2005, ricorre la S.E.P.S.A. s.p.a. con atto affidato a due motivi e illustrato anche con memoria.

I proprietari resistono con controricorso notificato il 29 dicembre 2005, e con memoria.

6. Il ricorso, spedito il 14 novembre 2005 a mezzo posta a norma della L. 21 gennaio 1994, n. 53, art. 54 è tempestivo, ancorchè ricevuto dai destinatari solo il 23 novembre 2005, perchè il principio per cui la notificazione a mezzo posta si considera perfezionata per il notificante alla data della consegna dell’atto da notificare si applica anche in questo caso (Cass. 30 luglio 2009 n. 17748).

1. Con il primo motivo di ricorso si censura la disapplicazione delle norme di legge che avevano prorogato i termini di occupazione legittima in corso.

7.1. La doglianza sarebbe astrattamente fondata, perchè la L. n. 865 del 1971, art. 20, comma 2, la cui durata è stata ripetutamente prorogata, si applica anche "alle occupazioni preordinate alla realizzazione delle opere e degli interventi previsti dal D.L. 2 maggio 1974, n. 115, art. 4, convertito, con modificazioni, nella L. 27 giugno 1974, n. 247", secondo quanto dispone l’ultimo comma, aggiunto dalla L. 28 gennaio 1977 n. 14, art. 14. La conseguente applicabilità, per la liquidazione dell’indennità virtuale di espropriazione, della L. n. 359 del 1993, art. 5 bis, comma 1, tuttavia, è ora impedita dalla sentenza della corte costituzionale 24 ottobre 2007 n. 348, che ha dichiarato illegittima quella disposizione. L’equiparazione dei criteri di determinazione dell’indennità di occupazione e di risarcimento del danno conseguente alla mancata disponibilità materiale dell’area rende problematico l’interesse della ricorrente, che doveva essere illustrato, e in difetto di tale illustrazione rende inammissibile il motivo.

8. Con il secondo motivo d’impugnazione, posto sotto la rubrica mista dell’art. 2697 c.c., del vizio di motivazione e della violazione delle norme sull’interpretazione del contratto "ex artt. 1362 ss. c.c." nonchè della violazione dell’art. 112 c.p.c., si censura la statuizione concernente l’accertamento della responsabilità da inadempimento del contratto e la condanna alla liquidazione del danno conseguente. Dalla lettura dell’atto – del cui testo in motivazione non si sarebbe tenuto conto – si ricaverebbe che l’accesso era stato effettivamente procurato e consentito dalla SEPSA, sicchè dovevano essere i proprietari a dimostrare la limitazione al passaggio opposta dalla SEPSA. La condanna al danno per mancato completamento della consegna non era stata richiesta, e sarebbe stato violato l’art. 1363 c.c. per la mancata considerazione complessiva dell’accordo, della riconsegna effettuata e dell’accesso all’area garantito dalla SEPSA. 8.1. Il motivo, di contenuto plurimo ed eterogeneo, contenente il richiamo a mezzi d’impugnazione diversi e contraddittori non consente di identificare la censura sottoposta alla corte, ed è pertanto inammissibile.

9. All’inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente alle spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.

La Corte dichiara il ricorso inammissibile. Condanna i ricorrenti al pagamento delle spese liquidate in complessivi Euro 2.700,00, di cui Euro 2.500,00 per onorari, oltre alle spese generali e agli accessori come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 03-10-2011, n. 20194 Sanzioni disciplinari

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Svolgimento del processo

La Corte di Appello di Palermo, confermando la sentenza impugnata, ha ritenuto la illegittimità della sanzione disciplinare irrogata dalla società Poste Italiane spa a F.M. per essersi rifiutato di svolgere la prestazione lavorativa secondo il sistema cosiddetto "ad areola", in base al quale il singolo operatore è tenuto alla consegna non solo della corrispondenza della zona di sua competenza, ma anche, pro quota, di quella di altra zona ricompresa nella medesima area di recapito (ed areola), in caso di assenza del dipendente assegnato a quest’ultima zona. A tale conclusione la Corte territoriale è pervenuta osservando che, con il sistema della ed areola, ed in conseguenza della eliminazione della "scorta", originariamente prevista per il caso di assenza del titolare di una delle zone della c.d. areola, la prestazione richiesta al lavoratore non avrebbe potuto essere esaurita nell’ambito dell’orario di lavoro normale, come invece preteso dalla società, sicchè il rifiuto opposto dal lavoratore radicava una mera presa d’atto di tale impossibilità di fornire la prestazione.

Avverso tale sentenza ricorre per cassazione la società Poste Italiane spa affidandosi a due articolati motivi di ricorso.

L’intimato non ha svolto attività difensiva.
Motivi della decisione

1. – Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2086, 2094 e 2104 c.c., in relazione all’art. 41 Cost., nonchè vizio di motivazione, chiedendo a questa Corte di stabilire "se costituisca rifiuto disciplinarmente rilevante l’omessa presa in carico della corrispondenza affidata comprensiva di quella relativa alla zona d’abbinamento, sull’assunto che il recapito di tale corrispondenza determinerebbe il superamento delle 6 ore giornaliere". 2.- Con il secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 c.c., in relazione agli artt. 28, 30 ccnl dell’11.1.2001, nonchè degli stessi articoli di legge in relazione agli artt. 51 e 54 del ccnl, formulando un quesito di diritto identico a quello di cui al primo motivo.

3.- Il primo motivo deve ritenersi inammissibile in quanto del tutto inconferente rispetto alla motivazione della sentenza impugnata.

La Corte territoriale, nel ritenere giustificato il rifiuto opposto dal lavoratore alla richiesta della società, ha infatti osservato che la contestazione disciplinare si fondava sul presupposto che l’ulteriore attività richiesta ai lavoratori avesse natura meramente aggiuntiva e potesse essere svolta nell’orario di lavoro ordinario.

Venuto meno questo presupposto, sarebbe venuta meno anche la legittimità della sanzione irrogata ai lavoratori.

Poste tali premesse, i giudici d’appello hanno rilevato che, in realtà, "l’impossibilità dell’esecuzione della prestazione aggiuntiva nell’ambito dell’orario d’obbligo si ricava dalla stessa strutturazione del sistema delle areole, in relazione al quale le parti sociali (Poste ed organizzazioni sindacali), nella valutazione del rapporto energie lavorative/quantità della prestazione, avevano ritenuto che, nell’ambito delle 6 ore giornaliere, l’addetto allo smistamento della posta poteva garantire il recapito di una sola zona … in ragione di detto rapporto, le parti sociali hanno previsto la necessità di una scorta, per il caso di assenza del titolare di una delle quattro zone, con la conseguenza che, nel sistema originario, l’abbinamento assumeva un carattere eventuale e residuale, verificandosi solo nel caso di contemporanea assenza di un titolare e della scorta"; laddove, invece, "con il sistema unilateralmente adottato a seguito della scadenza dell’accordo del 2 luglio 1998 … ed, in particolare, in conseguenza della eliminazione della scorta … il carico aggiuntivo, conseguente all’abbinamento, è diventato più frequente e quindi più oneroso per il titolare della singola zona, di tal che non era più sufficiente il suo impegno lavorativo corrispondente alle 6 ore giornaliere", derivandone che il rifiuto opposto dal lavoratore doveva ritenersi giustificato dal momento che la prestazione aggiuntiva avrebbe comunque comportato il superamento del limite settimanale dell’orario di lavoro ordinario.

4.- Se questa è la ratto deciderteli sulla quale il giudice d’appello ha fondato la propria decisione, la società ricorrente avrebbe dovuto contestare anzitutto i presupposti sui quali la stessa era fondata, ovvero l’affermazione che, secondo la società, l’ulteriore attività avesse natura meramente aggiuntiva e potesse essere svolta nell’orario di lavoro ordinario, e quella, collegata alla prima, secondo cui, all’opposto, in conseguenza della eliminazione della "scorta" e del maggior carico di lavoro aggiuntivo, era diventato impossibile soddisfare la richiesta del datore di lavoro nell’ambito dell’orario di lavoro ordinario. La ricorrente, dopo avere premesso una articolata esposizione relativa alla normativa applicabile alle c.d. prestazioni d’areola, si è limitata, invece, ad affermare che "non portare con sè, preordinatamente, tutta la posta in affidamento, senza neppure verificare nei fatti la impossibilità di recapitarla nell’orario d’obbligo, con eventuale restituzione di quella non potuta recapitare nelle 6 ore, costituisce inequivocabilmente rifiuto per comportamento concludente" e che "il lavoratore, rifiutandosi di adempiere all’ordine impartito non ha indicato alcun impedimento legittimo, nè l’impossibilità di eseguire la prestazione, rifiutandosi arbitrariamente di eseguire l’ordine di lavoro per questioni di mero principio", riassumendo il contenuto di tali censure nel quesito con il quale si chiede a questa Corte di stabilire "se costituisca rifiuto disciplinarmente rilevante l’omessa presa in carico della corrispondenza affidata comprensiva di quella relativa alla zona d’abbinamento, sull’assunto che il recapito di tale corrispondenza determinerebbe il superamento delle 6 ore giornaliere".

In questo modo, la ricorrente ha completamente omesso di prendere in considerazione le argomentazioni svolte nella sentenza impugnata in ordine alla impossibilità, per il portalettere, di espletare in concreto l’attività aggiuntiva entro l’orario normale di lavoro (anche considerando il limite di 36 ore settimanali: cfr. pagg. 7 e 8 della sentenza impugnata), e così di proporre specifiche censure attinenti alle ragioni poste dal giudice d’appello a fondamento della decisione impugnata.

5.- Va rimarcato, al riguardo, che la proposizione, mediante il ricorso per cassazione, di censure prive di specifica attinenza al decisum della sentenza impugnata comporta l’inammissibilità del ricorso per mancanza di motivi che possono rientrare nel paradigma normativo di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4. Il ricorso per cassazione, infatti, deve contenere, a pena di inammissibilità, i motivi per i quali si richiede la cassazione, avente carattere di specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata, il che comporta l’esatta individuazione del capo di pronunzia impugnata e l’esposizione di ragioni che illustrino in modo intellegibile ed esauriente le dedotte violazioni di norme o principi di diritto, ovvero le carenze della motivazione, restando estranea al giudizio di cassazione qualsiasi doglianza che riguardi pronunzia diverse da quella impugnata (cfr. explurimis Cass. n. 17125/2007, Cass. n. 3612/2004, Cass. n. 16763/2002). Di qui l’inammissibilità del primo motivo.

6.- Il secondo motivo, con il quale si contesta l’affermazione della sentenza impugnata, secondo cui sarebbe stato impossibile completare la consegna dei plichi postali entro l’orario settimanale di lavoro, riproponendo il medesimo quesito di diritto di cui al primo motivo, deve essere ritenuto improcedibile, ai sensi dell’art. 369 c.p.c., comma 2, poichè il contratto collettivo posto a fondamento delle censure espresse con lo stesso motivo, e oggetto dell’esame del giudice d’appello, non risulta essere stato ritualmente allegato al ricorso per cassazione.

1.- Questa Corte ha ripetutamente affermato che in tema di ricorso per cassazione per violazione o falsa applicazione dei contratti collettivi, è improcedibile quel ricorso al quale non è stato allegato in veste integrale l’accordo collettivo di cui si controverte, atteso che l’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, pone a carico del ricorrente un vero e proprio onere di produzione, che ha per oggetto il contratto collettivo nel suo testo integrale e non già solo nella parte su cui si è svolto il contraddittorio o che viene invocata nell’impugnazione di legittimità, ciò perchè la Cassazione, nell’esercizio della funzione nomofilattica, ben può cercare all’interno del contratto collettivo ciascuna clausola, anche non oggetto dell’esame delle parti o del giudice di merito, che comunque ritenga utile all’interpretazione (sull’onere di produzione del testo integrale dei contratti collettivi sui quali il ricorso si fonda, cfr. ex multis Cass. sez. unite n. 20075/2010, Cass. n. 4373/2010, Cass. n. 219/2010, Cass. n. 27876/2009, Cass. n. 16619/2009, Cass. n. 15495/2009, Cass. n. 2855/2009, Cass. n. 21080/2008, Cass. n. 6432/2008, cui adde Cass. n. 21366/2010 e Cass. n. 21358/2010). Si è precisato inoltre che l’onere di depositare i contratti e gli accordi collettivi, imposto a pena d’improcedibilità del ricorso per cassazione dall’art. 369, comma 2, n. 4, è soddisfatto solo con il deposito da parte del ricorrente dei contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda, senza che possa essere considerata sufficiente la mera allegazione dell’intero fascicolo di parte del giudizio di merito in cui sia stato già effettuato il deposito di detti atti (Cass. n. 4373/2010 cit.) e che l’onere di depositare il testo integrale dei contratti collettivi di diritto privato previsto dalla citata norma non è limitato al procedimento di accertamento pregiudiziale sull’efficacia, validità ed interpretazione dei contratti e accordi collettivi nazionali di cui all’art. 429 bis c.p.c., ma si estende al ricorso ordinario ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, avuto riguardo alla necessità che la S.C. sia messa in condizione di valutare la portata delle singole clausole contrattuali alla luce della complessiva pattuizione, e dovendosi ritenere pregiudicata la funzione nomofilattica della S.C. ove l’interpretazione delle norme collettive dovesse essere limitata alle sole clausole contrattuali esaminate nei gradi di merito (Cass. sez. unite n. 20075/2010 cit., nonchè Cass. n. 27876/2009 cit.).

8.- Nella specie, le censure espresse con il motivo in esame fanno riferimento ad alcune norme del contratto collettivo, in particolare quelle degli artt. 28 e 30 del ccnl dell’11.1.2001, alle quali viene dato un rilievo centrale ai fini della valutazione del comportamento del lavoratore. La società ricorrente, tuttavia, ha omesso di depositare insieme al ricorso per cassazione il testo integrale del contratto collettivo al quale le suddette censure fanno riferimento – limitandosi semplicemente a riportare in ricorso una parte del testo dei suddetti articoli – e non ha neppure specificato se il documento in questione sia stato prodotto nelle precedenti fasi merito e, in questo caso, in quale sede processuale lo stesso possa essere rinvenuto, venendo così meno all’onere imposto, a pena di improcedibilità, dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4. 9.- Il ricorso deve essere pertanto respinto.

10.- Stante il mancato svolgimento di attività difensiva da parte dell’intimato, non deve provvedersi in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; nulla sulle spese.

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T.A.R. Lazio Roma Sez. II, Sent., 21-06-2011, n. 5498 Sospensione dei lavori

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. – Il Signor S.A.G. impugna dinanzi a questo Tribunale l’ordinanza sindacale n. prot. n. 575 del 4 maggio 1990 con la quale gli è stato contestato l’abusivo mutamento della destinazione d’uso dell’appartamento di sua proprietà sito in Roma, Via Padova n. 21 da abitazione ad ufficio privato nonché di avere eliminato il vano cucina nel ridetto appartamento, di talché gli ha ingiunto la sospensione dei lavori e la rimozione delle opere abusivamente realizzate.

Il ricorrente sostiene che il provvedimento sindacale adottato nei suoi confronti sia illegittimo per genericità, per carenza di istruttoria e dei presupposti dell’atto repressivo in quanto il mutamento di destinazione d’uso dell’appartamento è avvenuto nel lontano 1981 quando l’ordinamento all’epoca non rendeva necessario alcun titolo abilitativo, tenuto conto che non furono realizzate opere di alcun tipo.

Da qui il ricorso con richiesta di annullamento dell’atto impugnato.

2. – Si è costituita in giudizio l’Amministrazione comunale contestando analiticamente le avverse prospettazioni e confermando la correttezza del comportamento posto in essere dagli Uffici competenti.

Con ordinanza n. 1195 del 1990 questo Tribunale accoglieva l’istanza cautelare avanzata dalla parte ricorrente.

Depositate ulteriori memorie da parte del Comune resistente, il ricorso è stato trattenuto per la decisione all’udienza pubblica dell’11 maggio 2011.

3. – Dalla documentazione prodotta dal Comune può ricostruirsi lo sviluppo istruttorio che ha condotto all’adozione dell’ordinanza sindacale qui impugnata.

E’ anzitutto confermato (ma ciò non viene contestato dal ricorrente) che vi sia stato mutamento di destinazione d’uso dell’appartamento di Via Padova in Roma da abitazione ad ufficio turistico (agenzia di viaggi) nonché l’intervento di eliminazione del vano cucina.

E’ altresì specificato che per l’abuso in questione non è stata mai presentata alcuna domanda di condono edilizio.

4. – Nel settore edilizio il mutamento di destinazione di uso consiste nel variare la destinazione per la quale l’immobile è urbanisticamente destinato. Esso può essere realizzato con opere, ed in tal caso è soggetto a licenza o concessione ovvero a semplice autorizzazione, a seconda del tipo di intervento, o senza opere ed in tal caso è soggetto a semplice autorizzazione.

Ne discende che, salva una diversa caratterizzazione del territorio, ai fini del legittimo mutamento d’uso "funzionale" di un locale, inteso quale variazione di destinazione degli immobili non implicante la realizzazione di opere edilizie, non essendo richiesta concessione edilizia, è illegittimo l’ordine sindacale di demolizione, motivato con l’assenza o la difformità di idoneo titolo concessorio.

Viceversa, l’ipotesi di un mutamento di destinazione d’uso non già funzionale, bensì strutturale (e, cioè, connesso e conseguente all’esecuzione di opere) necessita di apposita concessione il cui difetto legittima la demolizione delle opere stesse; in detta evenienza rileva, infatti, il profilo risultante dalla combinazione dei due elementi individuati (il mutamento di destinazione d’uso del fabbricato interessato ai lavori e la realizzazione di opere a quello finalizzata) sicché in difformità, ovvero in difetto, di concessione, andranno considerate abusive non solo le opere di costruzione vere e proprie ma anche quei lavori interni che, per quanto modesti, appaiono necessari a rendere possibile la nuova destinazione.

Nel caso di specie – tenuto conto della forza fidefacente dei documenti redatti dagli Agenti della Polizia municipale che hanno svolto il sopralluogo (depositati dalla difesa dell’Amministrazione resistente) – è confermato che il mutamento di destinazione d’uso è avvenuto con opere, in particolare l’eliminazione del vano cucina, di talché si ricade nella ipotesi di mutamento strutturale per il quale avrebbe dovuto essere richiesto l’apposito titolo abilitativo.

Ne deriva che l’intervento realizzato dal ricorrente va classificato come abusivo e che, quindi, pur l’ordinanza sindacale appare legittima anche perché espressamente precisa in motivazione le caratteristiche dell’intervento abusivo contestato.

Del resto è confermato che il ricorrente non ha presentato mai domanda di condono dell’abuso di cui sopra.

5. – In ragione di tutto quanto si è sopra esposto il Collegio reputa infondate le censure dedotte dalla parte ricorrente, di talché il ricorso va respinto.

Le spese seguono la soccombenza e vanno imputate alla parte ricorrente in favore del Comune resistente, in applicazione dell’art. 91 c.p.c. novellato per come richiamato dall’art. 26, comma 1, c.p.a., liquidandosi nella misura complessiva di Euro 2.000,00 (euro duemila/00), come da dispositivo.
P.Q.M.

pronunciando in via definitiva sul ricorso in epigrafe, lo respinge.

Condanna il ricorrente, Signor S.A.G., a rifondere le spese di giudizio in favore del Comune di Roma, in persona del Sindaco pro tempore, che liquida in complessivi Euro 2.000,00 (euro duemila/00), oltre accessori come per legge.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

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Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 11-05-2011) 05-07-2011, n. 26185 Esecuzione

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Svolgimento del processo

Con richiesta in data 28.4.2010 la Procura generale della Repubblica di Ancona chiedeva alla Corte di appello di Ancona la revoca del condono ex D.P.R. n. 394 del 1990 – di anni 2 di reclusione ed Euro 1032,91 di multa concesso a S.A. con sentenza del 15.12.1997 della Corte di appello di Firenze – per effetto della sentenza del 9.2.2005 della Corte di appello di Ancona che aveva condannato il predetto a pena detentiva superiore ad anni due di reclusione per delitto non colposo.

La Corte di appello di Ancona, con ordinanza in data 2.7.2010, revocava il condono di anni due di reclusione ed Euro 1032,91 di multa, come da richiesta del Procuratore generale.

Avverso la suddetta ordinanza ha proposto ricorso per cassazione il difensore di S.A., chiedendone l’annullamento e deducendo come unico motivo l’incompetenza della Corte di appello di Ancona ai fini della declaratoria di revoca del condono.

Il giudice dell’esecuzione competente a decidere sulla suddetta istanza di revoca dovrebbe individuarsi nel Tribunale di Urbino, che aveva statuito in primo grado con sentenza in data 10.4.1997, confermata dalla menzionata sentenza della Corte di appello di Ancona.

Nel caso di specie, secondo il ricorrente, non si applica il principio della unitarietà dell’esecuzione, valido nel caso in cui la sentenza di secondo grado abbia riformato quella di primo grado anche solo per taluno degli imputati, poichè la Corte di Appello di Ancona, nei confronti dei coimputati, aveva pronunciato solo assoluzioni e declaratorie di improcedibilità, non suscettibili di effettivi provvedimenti del giudice di secondo grado in sede di esecuzione.

Motivi della decisione

Il ricorrente ha dedotto la violazione dell’art. 665 c.p.p., assumendo che nel caso in esame il giudice dell’esecuzione dovrebbe essere individuato nel giudice di primo grado, in quanto – oltre ad essere stata confermata in appello la sentenza nei confronti dello S. – non vi erano state nei confronti dei coimputati pronunce suscettibili di esecuzione, essendovi state nei confronti degli stessi sentenza di assoluzione ovvero declaratorie di improcedibilità per morte dell’imputato o per prescrizione dei reati.

L’art. 665 c.p.p. stabilisce la competenza del giudice di primo grado nel caso in cui il provvedimento sia stato confermato o riformato soltanto in relazione alla pena, alle misure di sicurezza o alle disposizioni civili; in ogni altro caso stabilisce la competenza del giudice di appello.

Il ricorrente non contesta che in caso di pluralità di imputati la competenza funzionale del giudice di appello a provvedere in executivis va affermata non solo rispetto ai soggetti per i quali la sentenza di primo grado è stata riformata, ma anche rispetto a coloro nei cui confronti la sentenza di primo grado sia stata riformata, ma sostiene che il suddetto principio non troverebbe applicazione nel caso in cui non consegue alcuna esecuzione dalle disposizioni della sentenza di secondo grado, emesse in riforma delle statuizioni del primo giudice.

A giudizio di questa Corte, nel caso in cui la sentenza di primo grado sia stata riformata sostanzialmente dal giudice dell’appello anche nei confronti di uno solo dei coimputati – non importa se con una sentenza di condanna o di assoluzione – l’esecuzione spetta al giudice di secondo grado nei confronti di tutte le persone giudicate con la sentenza, in ossequio al principio dell’unitarietà dell’esecuzione.

Si deve tener conto, infatti, che anche le sentenze di assoluzione o di proscioglimento possono formare oggetto di incidenti di esecuzione, tanto più quando intervengono a riforma di una condanna di primo grado.

La giurisprudenza ha più volte affermato che anche La sentenza di appello che dichiari l’estinzione di uno dei reati contestati non può definirsi priva di effetti riformatori rispetto alla pronuncia di primo grado, in quanto introduce una modificazione strutturale nella sentenza impugnata, escludendo l’affermazione di colpevolezza per uno dei reati contestati all’imputato;

con la conseguenza che, ai sensi dell’art. 665 c.p.p., comma 2, la competenza a decidere sugli incidenti di esecuzione spetta al giudice appello (V. Sez. 3 sent. n. 18996 del 14.4.2002, Rv. 221699).

E più recentemente (V. Sez. 1 sent. n. 10415 del 16.2.2010, Rv.

246395) questa Corte ha ritenuto, in un caso di assoluzione in appello di uno dei coimputati, che per il principio dell’unitarietà dell’esecuzione, nei procedimenti con pluralità di imputati va affermata la competenza del giudice di appello non solo rispetto a quelli per cui la sentenza di primo grado è stata sostanzialmente riformata, ma anche rispetto a quelli nei cui confronti la decisione di primo grado sia stata confermata.

Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.