Cass. civ. Sez. II, Sent., 12-12-2011, n. 26694 Ordinanza ingiunzione di pagamento: opposizione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con la sentenza indicata in epigrafe il Tribunale della Spezia ha respinto l’opposizione che Do.Ma. e D. M., entrambi soci con poteri di rappresentanza esterna della s.n.c. Trasporti Dolciami di Dolciami Arturo e Giuseppe & C., avevano proposto avverso l’ordinanza ingiunzione con cui la Provincia della Spezia aveva irrogato a uno di loro (indicando l’altro come coobbligato solidale) la sanzione pecuniaria di L. 3.000.000, per aver effettuato attività di trasporto di rifiuti accompagnando gli stessi con il prescritto formulario di identificazione del rifiuto trasportato in cui era indicato in modo inesatto il destinatario nonchè il luogo di destinazione del rifiuto".

Do.Ma. e D.M. hanno proposto ricorso per cassazione, in base a cinque motivi, poi illustrati anche con memoria. La Provincia della Spezia si è costituita con controricorso.

Motivi della decisione

Con il primo motivo di ricorso Do.Ma. e D. M. deducono che il Tribunale ha mancato di provvedere sulla ragione di opposizione con la quale avevano eccepito la nullità dell’ordinanza ingiunzione oggetto della loro impugnazione: lamentano di essere stati ritenuti responsabili della violazione in questione in quanto soci della s.n.c. Trasporti Dolciami di Dolciami Arturo e Giuseppe & C., mentre autore del presunto illecito era stato semmai l’autista che aveva effettuato il trasporto con il formulario del quale è stata ritenuta l’irregolarità.

La censura va accolta.

Effettivamente il giudice a quo non ha affrontato la questione relativa al titolo in base al quale era stata irrogata la sanzione di cui si tratta; questione che avrebbe dovuto essere risolta applicando il principio – più volte enunciato da questa Corte, con riguardo alle infrazioni attribuite ad amministratori di società di persone:

v., per tutte Cass. 10 dicembre 1998 n. 12459 – secondo cui a norma della L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 3 è responsabile di una violazione amministrativa solo la persona fisica a cui è riferibile l’azione materiale o l’omissione che integra la violazione, poichè vale anche con riferimento alle società di persone (nella specie, società in accomandita semplice) il principio che la responsabilità per le sanzioni amministrative è personale e che quindi della singola violazione risponde la persona fisica autore dell’illecito, salva la responsabilità solidale della società.

Ne discende che Do.Ma. e D.M., contrariamente a quanto sostiene la controricorrente, non potevano automaticamente essere chiamati a rispondere della violazione, ognuno quale coautore perchè socio di una società di persone. Occorreva invece che l’uno o l’altro o entrambi avessero tenuto una condotta, positiva od omissiva, che avesse dato luogo alla commissione dell’infrazione, sia pure in ipotesi sotto il profilo del concorso soltanto morale.

Accolto quindi il primo motivo di ricorso, restano assorbiti gli altri, che attengono a punti che in sede di rinvio soltanto eventualmente dovranno essere esaminati, secondo la soluzione che verrà data alla questione di cui prima si è detto.

La sentenza impugnata va pertanto cassata con rinvio al Tribunale della Spezia in persona di diverso magistrato, cui viene anche rimessa la pronuncia sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo di ricorso; dichiara assorbiti gli altri; cassa la sentenza impugnata; rinvia la causa al Tribunale della Spezia in persona di diverso magistrato, cui rimette anche la pronuncia sulle spese del giudizio di legittimità.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Campania Salerno Sez. I, Sent., 07-09-2011, n. 1485 Contratto di appalto

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Considerato preliminarmente che, ai sensi dell’art. 120, comma 10, d.lgs n. 104/2010 (codice del processo amministrativo), nelle materie cui inerisce la presente controversia "la sentenza è redatta, ordinariamente, nelle forme di cui all’art. 74" (concernente le "sentenze in forma semplificata");

Ritenuta l’infondatezza della censura con la quale la parte ricorrente, classificatasi in seconda posizione nella graduatoria scaturita dal procedimento di gara avente ad oggetto l’affidamento dei lavori di "posa in opera, pavimentazione e rivestimenti, fornitura e posa in opera di impianti e finiture per piazza della Libertà", deduce che la società aggiudicataria è stata illegittimamente ammessa alla selezione, avendo omesso di indicare, in violazione della lex specialis (disciplinare di gara), il nominativo del sig. Enrico Esposito, componente del Consiglio di Amministrazione con delega alle attività di marketing e promozione, tra "gli amministratori muniti di poteri di rappresentanza e/o altri soggetti con poteri gestionali e decisionali quali procuratori, institori ecc." ed avendo altresì il suddetto omesso di fornire la prescritta dichiarazione ex art. 38 del codice dei contratti pubblici;

Richiamato preliminarmente, sul punto, l’indirizzo interpretativo dominante, a mente del quale, al fine di delimitare l’area operativa dell’obbligo di rendere la dichiarazione circa l’insussistenza delle cause di esclusione di cui all’art. 38 del codice dei contratti pubblici, occorre avere riguardo alla posizione sostanzialmente rivestita dal soggetto nell’ambito dell’assetto organizzativo aziendale piuttosto che alla qualifica formale dallo stesso posseduta (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 20 ottobre 2010, n. 7578), e ritenuto che il suddetto criterio interpretativo debba valere non solo nel senso di estendere, ricorrendone le condizioni, l’applicazione dell’onere dichiarativo de quo a soggetti diversi da quelli (gli amministratori muniti di poteri di rappresentanza) cui la citata disposizione direttamente si rivolge (ad esempio, ai procuratori ad negotia), ma anche nel senso (inverso) di delimitarne l’applicazione con riferimento ai soggetti che siano formalmente titolari della qualifica contemplata dal legislatore;

Evidenziato in proposito che il sig. Enrico Esposito, in quanto delegato dal Consiglio di Amministrazione (cfr. verbale del 12.10.2009) alle "attività di marketing e promozione", riveste formalmente, pur con esclusivo riferimento all’ambito delle attribuzioni conferite con la delega, la qualifica di amministratore munito di poteri di rappresentanza necessaria (e, in linea generale ed astratta, sufficiente) per radicare in capo allo stesso il citato obbligo dichiarativo: ciò sulla scorta dell’art. 38, comma 2, dello statuto della società controinteressata, il quale prevede che "la rappresentanza spetta ai consiglieri muniti di delega del consiglio" (ex art. 36, comma 1, dello statuto medesimo);

Richiamati tuttavia gli indici interpretativi elaborati dalla giurisprudenza al fine di concretizzare il carattere "sostanziale" dei poteri (decisionali e rappresentativi) conferiti, quale presupposto per farne discendere l’obbligo dichiarativo di cui si discute, all’uopo precisandosi:

– che i suddetti poteri devono essere "consistenti" (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 9 marzo 2010, n. 1373);

– che i soggetti interessati devono essere "titolari di ampi e generali poteri di amministrazione" (cfr. T.A.R. Liguria, Sez. II, 11 luglio 2008, n. 1485);

– che i poteri di gestione e rappresentanza devono estendersi "all’intera amministrazione aziendale" (cfr. T.A.R. Umbria, Sez. I, 21 gennaio 2010, n. 26);

– che il predetto obbligo dichiarativo non riguarda i soggetti "titolari di poteri circoscritti, che incontrano un preciso limite nelle strategie aziendali compiute a monte dagli organi effettivamente dotati di poteri decisionali, e che siano privi di poteri decisionali in ordine alla partecipazione alla gara ed alla formulazione dell’offerta" (cfr. T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. I, 15 ottobre 2009, n. 4802);

Rilevato che i requisiti suindicati non sono riscontrabili con riguardo alla posizione del sig. Enrico Esposito, i cui poteri di amministrazione e rappresentanza – come si è detto – sono circoscritti ai settori del marketing e della promozione, atteso che:

– i menzionati poteri non presentano alcuna attinenza con l’attività contrattuale posta in essere (nel caso in esame e su di un piano generale) dalla società aggiudicataria con la pubblica amministrazione, presupponendo essa lo svolgimento di specifici procedimenti selettivi sui quali le attività di marketing e promozione poste in essere per conto dell’impresa non esercitano alcuna significativa influenza;

– i medesimi poteri non hanno rilievo consistente né significativo, concernendo ambiti operativi estrinseci rispetto alla vera e propria attività operativa aziendale ed alle relative scelte strategiche;

Ritenuto che alla conclusione negativa, quanto alla riferibilità al sig. Enrico Esposito del predetto obbligo dichiarativo, debba a fortiori pervenirsi ai fini applicativi della formula della lex specialis incentrata sul riferimento (accanto agli "amministratori muniti di poteri di rappresentanza") agli "altri soggetti con poteri gestionali e decisionali quali procuratori, institori ecc.";

Vista l’ulteriore censura, con la quale viene dedotta la violazione, imputabile all’impresa aggiudicataria, dell’art. 87, comma 3, del codice dei contratti pubblici, ai sensi del quale "non sono ammesse giustificazioni in relazione a trattamenti salariali minimi inderogabili stabiliti dalla legge o da fonti autorizzate dalla legge", avendo essa applicato per la manodopera, in sede di giustificazione dell’anomalia dell’offerta, nelle analisi dei prezzi relative a tutte le opere di natura civile individuate con gli NP da 001b a 034, i seguenti prezzi elementari netti:

– operaio specializzato Euro 26,81/ora

– operaio qualificato Euro 25,03/ora

– operaio comune Euro 22,68/ora

laddove le tabelle ANCE in vigore nella Provincia di Salerno dal 1°.4.2010 indicano, relativamente al costo della manodopera, i seguenti valori minimi:

– operaio specializzato Euro 27,41/ora

– operaio qualificato Euro 25,55/ora

– operaio comune Euro 23,12/ora;

Vista l’ulteriore e parallela censura, con la quale viene dedotto che la medesima società aggiudicataria, nelle analisi dei prezzi relative a tutte le opere impiantistiche indicate con gli NP da 008 a NP 025 e da L.02.10.16 a L.02.40.10, ha applicato per la manodopera i seguenti prezzi elementari netti:

– installatore di 5° categoria: Euro 14,94/ora

– installatore di 4° categoria: Euro 14,04/ora

– installatore di 3° categoria: Euro 13,59/ora

– installatore di 2° categoria: Euro 12,67/ora

laddove le tabelle ASSISTAL in vigore dal 1°.1.2010, relativamente al costo della manodopera nel Settore Installazione Impianti, prevedono i seguenti valori minimi:

– installatore di 5° categoria: Euro 24,72/ora

– installatore di 4° categoria: Euro 23,10/ora

– installatore di 3° categoria: Euro 22,10/ora

– installatore di 2° categoria: Euro 19,93/ora;

Ritenuto che le richiamate doglianze non siano meritevoli di accoglimento, non ravvisandosi i presupposti applicativi della disposizione la cui violazione viene imputata alla parte controinteressata, dal momento che le tabelle elaborate dall’ANCE e dall’ASSISTAL, in quanto promananti da associazioni rappresentative delle imprese del settore, non sono identificabili come "fonti autorizzate dalla legge" a prescrivere i "trattamenti salariali minimi inderogabili";

Considerato inoltre che, come dedotto dalla difesa comunale (anche sulla scorta delle note tecniche a firma del Dirigente del Settore depositate il 15.2.2011) e dal difensore dell’impresa controinteressata, in assenza di controdeduzioni sul punto della parte ricorrente, l’impresa aggiudicataria non ha reso giustificazioni relativamente al costo della manodopera impegnata nella realizzazione delle "opere di natura civile" e delle "opere impiantistiche", avendo essa replicato i prezzi indicati dal progettista in sede di stima dell’importo dei lavori posto a base d’asta;

Evidenziato altresì che, relativamente alle predette opere, la corrispondenza dei prezzi orari della manodopera indicati dall’impresa aggiudicataria a quelli della Tabella dei Prezzi affissa all’Albo del Provveditorato Interregionale per le OO.PP. per la Campania ed il Molise in data 27.5.2010 inficia la valenza sintomatica, nel senso dell’anomalia dell’offerta da quella presentata, riconoscibile alla discrasia tra il costo della manodopera indicato con le menzionate giustificazioni e le tabelle ANCE ed ASSISTAL, dedotta dalla parte ricorrente;

Vista l’ulteriore censura, con la quale viene dedotto che il dettaglio analitico delle spese generali non contempla l’incidenza delle imposte sull’utile pari al 31,50%, comportando un ulteriore abbassamento dell’utile d’impresa ed un aumento delle spese generali, e ritenutane l’infondatezza, dal momento che, come già affermato dalla giurisprudenza, "il giudizio di verifica della congruità di un’offerta anomala ha natura globale e sintetica sulla serietà o meno dell’offerta nel suo insieme, ma non ha per oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell’offerta economica" (T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. I, 9.3.2011, n. 660);

Vista infine la censura con la quale viene dedotto che le offerte dei fornitori della ESA non risultano vincolate alla durata dell’appalto, e ritenutane l’infondatezza, dal momento che le offerte suindicate menzionano espressamente, e senza limitazioni di sorta, l’appalto in relazione al quale sono state formulate, ciò che induce a ritenere che le stesse siano destinate a rimanere ferme per tutta la durata della sua esecuzione;

Rilevato, in conclusione, che la Commissione di gara, mediante i verbali nn. 8 – 11, ha dato ampiamente conto del controllo effettuato sulla affidabilità dell’offerta dell’impresa aggiudicataria;

Ritenuto quindi che il ricorso proposto non sia meritevole di accoglimento;

Ritenuto che l’impresa ricorrente debba essere condannata al rimborso delle spese di giudizio sostenute dalle parti resistenti, nella misura di Euro 2.000 per ciascuna di esse;

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania, Sezione Staccata di Salerno, Sezione Prima, definitivamente pronunciando sul ricorso n. 135/2011:

– lo respinge;

– condanna la parte ricorrente al rimborso delle spese di giudizio sostenute dalle parti resistenti, nella misura di Euro 2.000 per ciascuna di esse.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 12-01-2011, n. 587 Parti comuni dell’edificio

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Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato il 26-2-2001 S.M. e V.L., premesso di essere proprietari del secondo piano di un edificio residenziale sito in (OMISSIS), convenivano in giudizio dinanzi al Giudice di Pace di Fermo I.M. e M.R., proprietari del primo piano del suddetto stabile, chiedendone la condanna alla rimozione delle tende poste sul loro balcone ed infisse alla soletta del balcone degli attori senza il consenso di questi ultimi.

Costituendosi in giudizio i convenuti chiedevano il rigetto della domanda attrice sostenendo in particolare di aver lecitamente ancorato le suddette tende per essere la soletta bene comune ex art. 1125 c.c..

Il Giudice di Pace adito con sentenza del 3-9-2002 accoglieva la domanda attrice e condannava i convenuti alla rimozione delle tende parasole.

Proposta impugnazione da parte dello I. e della M. cui resistevano il S. e la V. il Tribunale di Fermo con sentenza del 13-1-2005, in integrale riforma della sentenza di primo grado, ha rigettato la domanda introdotta da questi ultimi.

Per la cassazione di tale sentenza il S. e la V. hanno proposto un ricorso affidato a due motivi cui lo I. e la M. hanno resistito con controricorso; le parti hanno successivamente depositato delle memorie.

Motivi della decisione

Con il primo motivo i ricorrenti, denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 1117 c.c. e vizio di motivazione, censurano la sentenza impugnata per aver affermato che la soletta del balcone aggettante, di pertinenza dell’appartamento degli esponenti, è di proprietà comune.

Essi sostengono che invero secondo l’orientamento prevalente della giurisprudenza i balconi aggettanti (e quindi anche il piano di calpestio degli stessi) appartengono in via esclusiva al proprietario dell’unità immobiliare cui afferiscono perchè sono al servizio soltanto di detta unità, di cui costituiscono il prolungamento, ed aggiungono che l’eventuale ulteriore utilità che il bene di proprietà esclusiva di un condomino possa comportare all’appartamento sottostante non può condurre alla conclusione che esso divenga oggetto di comproprietà con altro condomino.

I ricorrenti rilevano altresì che il Tribunale di Fermo con motivazione illogica ed in parte apparente ha tratto il convincimento in ordine ad una duplice funzione della soletta del balcone per cui è causa (ovvero di appoggio e di calpestio per il balcone cui inerisce e di copertura del balcone sottostante) sul mero fatto oggettivo dell’esistenza del balcone stesso, circostanza di per sè irrilevante, considerato che la soletta era stata realizzata per rendere possibile la costruzione e la realizzazione del balcone.

Il S. e la V. inoltre assumono che il giudice di appello, invece di accertare l’esistenza di caratteristiche particolari dell’edificio idonee ad attribuire alla soletta in questione anche la funzione di copertura del balcone sottostante, non ha spiegato le ragioni per le quali la soletta stessa potesse fungere da copertura del suddetto balcone nonostante che questo fosse aperto da tre lati.

La censura è fondata.

La sentenza impugnata ha affermato che i coniugi I. non avevano alcun onere di ottenere l’assenso delle controparti per utilizzare la soletta del sovrastante balcone al fine di impiantarvi le strutture di sostegno della tenda parasole in quanto la soletta dei balconi, avendo la stessa funzione di calpestio/copertura del solaio, di cui costituisce un prolungamento, è assoggettata al regime giuridico del medesimo previsto dall’art. 1125 c.c.; infatti la soletta costituisce, come il solaio, una struttura divisoria tra due immobili, e presenta utilità uguale ed inseparabile per gli stessi, estrinsecantesi prevalentemente nelle funzioni di calpestio e di copertura.

Il giudice di appello, poi, dissentendo dall’assunto delle pronunce di questa stessa Corte (Cass. 21-1-2000 n. 637; Cass. 30-7-2004 n. 14576) secondo cui le solette dei balconi aggettanti sono sottratte alla disciplina di cui all’art. 1125 c.c. in quanto non aventi funzioni di copertura ma solo di servizio al singolo appartamento cui accedono, ha rilevato che, laddove sussistano analoghi manufatti posti sulla stessa verticale al piano sottostante, la funzione di piano d’appoggio e di calpestio che la soletta svolge per il balcone cui inerisce è inscindibile rispetto a quella di copertura del balcone sottostante.

Il Tribunale di Fermo ha quindi concluso che la soletta deve ritenersi di proprietà comune, e che il proprietario del piano sottostante ha l’uso esclusivo della faccia rivolta verso il basso e ne può fruire, oltre che per la copertura fornita al proprio balcone, anche per acquisire ogni ulteriore attingibile utilità cui non ostino ragioni di statica o di estetica.

Tale convincimento non può essere condiviso.

Premesso che nella specie è pacifico che la soletta sulla quale lo I. e la M. avevano infisso le tende parasole inerisce ad un balcone aggettante, deve escludersi che tale soletta sia di proprietà comune tra i proprietari del primo e del secondo piano ai sensi dell’art. 1125 c.c.; invero l’assenza di una sua funzione divisoria tra i due piani comporta l’insussistenza del necessario presupposto per ritenerla di proprietà comune tra i proprietari dei due piani l’uno all’altro sovrastante (vedi in tal senso Cass. 28/5/1963 n. 1406).

In linea più generale, poi, deve escludersi che i balconi aggettanti fungano da copertura del piano inferiore in quanto essi, dal punto di vista strutturale, sono del tutto autonomi rispetto agli altri piani, poichè possono sussistere indipendentemente dall’esistenza di altri balconi nel piano sottostante o sovrastante; non avendo quindi funzione di copertura del piano sottostante, il balcone aggettante non soddisfa una utilità comune ai due piani, e non svolge neppure una funzione a vantaggio di un condomino diverso dal proprietario del piano (vedi in tal senso in motivazione Cass. 21-1-2000 n. 637);

sotto tale profilo la sentenza impugnata non ha offerto adeguata e convincente motivazione della ritenuta funzione di copertura del balcone sottostante da parte della soletta di un balcone aggettante.

Non sussistono quindi ragioni per discostarsi dall’orientamento ormai consolidato di questa Corte secondo cui i balconi aggettanti (e dunque le relative solette), costituendo un prolungamento della corrispondente unità immobiliare, appartengono in via esclusiva al proprietario di questa (Cass. 30-7-2004 n. 14576; Cass. 17-7-2007 n. 15913); anzi la prima di tali pronunce ha altresì affermato che, seppure volesse riconoscersi alla soletta del balcone una funzione di copertura rispetto al balcone sottostante, tuttavia, trattandosi di copertura disgiunta dalla funzione di sostegno e quindi non indispensabile per l’esistenza stessa dei piani sovrapposti, non può parlarsi di elemento a servizio di entrambi gli immobili posti su piani sovrastanti, nè, quindi, di presunzione di proprietà comune del balcone aggettante riferita ai proprietari dei singoli piani.

Infine deve aggiungersi che il diverso convincimento espresso da questa Corte con le pronunce 14-7-1983 n. 4821 e 16-1-1987 n. 283, menzionate dalla sentenza impugnata, si riferiva a casi in cui – come osservato in motivazione dalla citata sentenza 30-7-2004 n. 14576 sempre di questa Corte – i balconi sovrastanti svolgevano contemporaneamente funzioni sia di separazione, sia di copertura, sia di sostegno, come può avvenire quando essi sono incassati nel corpo dell’edificio; di qui pertanto t’irrilevanza di tale orientamento nella fattispecie, dove si è in presenza, come si è visto, di balconi aggettanti.

Con il secondo motivo i ricorrenti, deducendo omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, ritengono che l’affermazione del Tribunale secondo cui i grossi bracci metallici che sostenevano la tenda non compromettevano la staticità del balcone di proprietà degli esponenti non era condivisibile perchè fondata soltanto sulle foto in atti e non teneva conto che i ganci erano stati infissi, oltre che nell’intonaco, anche nella struttura in conglomerato cementizio che ne costituiva l’indispensabile supporto.

I ricorrenti, inoltre, rilevano che erroneamente il giudice di appello ha ritenuto inammissibile la produzione tardiva nel secondo grado di giudizio della consulenza di parte, non trattandosi di un mezzo di prova relativamente al quale possano esservi preclusioni;

avendo comunque il Tribunale esaminato tale consulenza ed avendo affermato che essa aveva evidenziato solo la possibilità di un dissesto in futuro escludendo un pregiudizio alla statica, essi sostengono che nel pericolo di dissesto era già ravvisabile un pregiudizio.

Tale censura resta assorbita all’esito dell’accoglimento del primo motivo di ricorso.

In definitiva quindi la sentenza impugnata deve essere cassata in relazione al motivo accolto, e la causa deve essere rinviata per un nuovo esame della controversia al Tribunale di Ancona che provvederà anche alla pronuncia sulle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

LA CORTE Accoglie il primo motivo di ricorso, dichiara assorbito il secondo, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa anche per la pronuncia sulle spese del presente giudizio al Tribunale di Ancona.

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Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 20-02-2012, n. 2423 Licenziamento

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Svolgimento del processo

Con sentenza dell’1 dicembre 2009 la Corte d’Appello di Catania, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Catania del 20 gennaio 2004, ha condannato la ST. Microeletronics s.r.l. al pagamento in favore di M.S. della somma di Euro 45.191,89 a titolo di risarcimento del danno relativo al licenziamento intimatogli in data 30 settembre 1992 e dichiarato illegittimo con sentenza passata in giudicato.

La Corte territoriale ha motivato tale pronuncia considerando che le mansioni a cui il M. è stato adibito successivamente al provvedimento di reintegra sono state inferiori a quelle espletate in epoca precedente al licenziamento, per stessa ammissione del datore di lavoro, e che non si è in presenza di un’acquiescenza da parte del lavoratore, e che il danno patito dal lavoratore è stato correttamente calcolato dal consulente tecnico contabile d’ufficio, comparando le buste paga relative al periodo anteriore al licenziamento con quelle relative al periodo successivo alla reintegra, con il correttivo costituito dalla considerazione dei compensi medi percepiti con esclusione dei periodi di ferie e di documentata malattia.

Avverso questa sentenza propone ricorso per cassazione la ST. Microelectronics s.r.l. articolato su due motivi.

Resiste con controricorso il M..

Motivi della decisione

Con il primo motivo di ricorso si lamenta violazione degli artt. 1223, 1225, 1226 e 1227 cod. civ., della L. n. 300 del 1970, art. 18 nonchè omessa e insufficiente motivazione su fatti controversi e decisivi del giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5. In particolare si deduce che, nel calcolo del risarcimento del danno, sarebbero stati considerati illegittimamente compensi ed indennità strettamente collegati all’effettivo svolgimento della prestazione lavorativa, ed emolumenti eventuali, occasionali e di fatto non rientranti nel concetto di retribuzione globale di fatto. Inoltre non sarebbe stato tenuto conto che il danno da demansionamento non è in re ipsa ma deve essere provato dal lavoratore che, nel caso in esame, non vi avrebbe provveduto.

Con secondo motivo si lamenta violazione dell’art. 1227 cod. civ. e omessa motivazione su fatti controversi e decisivi del giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 con riferimento all’acquiescenza dimostrata dal lavoratore allo svolgimento delle mansioni inferiori dedotte, stante il lungo periodo di tempo trascorso prima di azionare la propria pretesa.

Il primo motivo è infondato. Correttamente il danno subito dal lavoratore è stato calcolato sulla base del raffronto obiettivo fra la retribuzione antecedente al licenziamento e quella successiva. Nel caso in esame, infatti, non è in questione la retribuzione fissa ai fini del calcolo di particolari istituti, ma è in questione il calcolo del danno subito dal lavoratore a seguito dello svolgimento di mansioni inferiori retribuite corrispondentemente con un compenso inferiore, per cui è legittimo e logico il raffronto fra le retribuzioni percepite indipendentemente dalla natura delle retribuzioni stesse, salva l’esclusione dei compensi collegati all’effettivo svolgimento delle mansioni, circostanza, questa, di fatto ed il cui accertamento è riservato al giudice del merito, il cui relativo giudizio è incensurabile in sede di legittimità. A tale riguardo questa Corte ha affermato che, in caso di accertato demansionamento professionale del lavoratore in violazione dell’art. 2103 cod. civ., il giudice del merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato, può desumere l’esistenza del relativo danno, avente natura patrimoniale e il cui onere di allegazione incombe sul lavoratore, determinandone anche l’entità in via equitativa, con processo logico – giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all’esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto (per tutte Cass. 26 febbraio 2009 n. 4652).

Anche il secondo motivo è infondato. La Corte territoriale ha ritenuto provata l’adibizione del lavoratore, dopo la reintegra, a mansioni inferiori rispetto a quelle a cui era adibito in epoca precedente al licenziamento. La Corte, riprendendo la motivazione della sentenza di primo grado, ha descritto i due tipi di mansioni ricavandone il giudizio di demansionamento con argomentazione logica sulla base di circostanze di fatto, sulla base dell’allegazione del ricorrente, e non rivisitagli in sede di legittimità.

Al rigetto del ricorso consegue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese di giudizio liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso;

Condanna la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio liquidate in Euro 50,00 oltre ad Euro 3.000,00 per onorari, oltre I.V.A. e C.P.A..

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