Coscienza (Conscience)

Termine che nella storia della filosofia occidentale ha assunto signifcati diversi.
Per gli stoici ed i neoplatonici la (—) si determinò come intimo colloquio dell’anima con se stessa. Tale idea fu ripresa e sviluppata da Sant’Agostino che considerò la (—) un’«illuminazione interiore». In De vera religione (390) e nelle Confessioni (397/401), Agostino affermò infatti che l’uomo può conoscere la Verità solo prescindendo dall’esperienza esteriore e dalle facoltà psichiche e dedicandosi alla meditazione devota.
Col cristianesimo la (—) assunse un significato morale: essa fu considerata la fonte diretta e infallibile di conoscenza dei principi regolatori del retto comportamento.
Contro tale concezione reagirono i filosofi rinascimentali. Ad esempio M. Montaigne (1533-1592) nei Saggi (1580/1588) affermò che la (—) è nient’altro che l’insieme delle opinioni comuni inculcate nella mente dell’uomo sin dall’infanzia.
Con Cartesio (1596-1650) si introdusse in filosofia il concetto di «sostanza pensante» e il termine (—) assunse il significato di «consapevolezza» che il soggetto ha di sé e del proprio pensiero. Nel Discorso sul metodo (1637) Cartesio riferì della scoperta fatta in giovane età dell’evidenza originaria ed immediata con cui la (—) è presente a se stessa. Nella coscienza di dubitare (cogito) l’individuo ha la certezza evidente di esistere come soggetto pensante (res cogitans) e tale certezza si pone a fondamento di ogni possibile dimostrazione.
Kant distinse tra la (—) «empirica», propria di ciascun uomo e l’appercezione pura (l’«Io penso»), ossia una pura funzione di conoscenza universale identica in tutti gli uomini.
In Fenomenologia dello Spirito (1807), Hegel distingue tra (—) e autocoscienza. La (—) è l’atteggiamento dello spirito umano rivolto al mondo della natura al fine di conoscerlo l’autocoscienza (o coscienza di sé) è la consapevolezza raggiunta dall’uomo della propria superiorità e autonomia rispetto al mondo sensibile.
Dopo Hegel il concetto di autocoscienza sarà posto al centro di ogni problematica soltanto dalle filosofie variamente connesse all’idealismo tedesco.
Marx in Per la critica dell’economia politica (1859) affermò che non è la (—) degli uomini a determinare il loro essere ma, al contrario, è il loro essere sociale a determinare le loro coscienze.
Engels e Lenin (1870-1924) ribadirono che i gusti, gli orientamenti, i comportamenti e la (—) degli individui si sviluppano all’interno della classe economica a cui appartengono.
Gli spiritualisti contemporanei hanno accolto la concezione agostiniana secondo cui (—) è sinonimo di interiorità.
Ad esempio, H. Bergson (1859-1941) nel Saggio sui dati immediati della coscienza (1889) si pose in polemica con la psicologia sperimentale positivistica, tendente a rapportare i dati interni della (—) ai fatti fisici esterni. Egli, al contrario, definì la (—) come un movimento liberamente emergente dal flusso continuo dell’energia vitale.
Il comportamentismo, infine, rifiuta qualsiasi pretesa conoscitiva all’introspezione (considerata causa di autoinganno) e propone un metodo alternativo fondato su dati oggettivamente osservabili.

Rousseau, Jean-Jacques (1712 – 1778)

Filosofo svizzero. Il suo pensiero, magistralmente esposto nelle sue principali opere, quali Discorso sulla disuguaglianza (1755), Émile (1762), Il contratto sociale (1762), ebbe grande incidenza durante il periodo più drammatico della Rivoluzione francese.
Partendo dall’assunto giusnaturalistico [vedi Giusnaturalismo] della contrapposizione tra stato di natura e stato sociale dell’uomo, egli progettò un modello di vita associata basato sul trasferimento dei diritti dell’individuo alla società.
Contro l’idea principale dell’Illuminismo, secondo cui la forza e la capacità della ragione rendono l’uomo migliore e in grado di migliorare le proprie condizioni di vita, (—) sostenne che il progresso ha strappato l’uomo alla semplicità della natura e l’ha condotto verso la degenerazione e l’abiezione.
«Tutto è bene uscendo dalle mani dell’Autore delle cose, tutto degenera fra le mani dell’uomo. Egli sforza un terreno a nutrire i prodotti propri di un altro, un albero a portare i frutti d’un altro; mescola e confonde i climi, gli elementi e le stagioni, mutila il suo cane, il suo cavallo, il suo schiavo; sconvolge tutto, altera tutto; ama le deformità e i mostri; non vuol nulla come l’ha fatto natura» (Rousseau).
(—) rivendicò il primato dell’Io come sentimento e spontaneità. Ne Il contratto sociale egli pose il problema politico nella sua forma più radicale; la società civile, con il suo inibente intreccio di convenienze e di regole rende l’uomo schiavo delle leggi, o di altri uomini, mentre in realtà egli è nato libero. In quanto profondamente strutturata sull’ingiustizia, la società civile non possiede alcun diritto di ottenere il consenso morale dei singoli individui. L’ingiustizia e la disuguaglianza hanno avuto origine dalla proprietà privata la quale, favorendo la separazione tra gli uomini e la creazione di due classi sociali (quella dei ricchi e quella dei poveri), ha allontanato l’uomo dalla condizione originaria e di fatto ha creato bisogni artificiali. Tuttavia, il rimedio che il filosofo ginevrino propone non consiste nella demolizione semplicistica della società civile e nel ritorno allo stato di natura. L’uomo, anche se libero per natura, ha bisogno di un governo che regolamenti e organizzi la sua vita in comune con i propri simili. Attraverso un contratto stipulato fra tutti i membri del corpo politico e col quale ognuno si obbliga verso tutti, l’individuo compie un salto di qualità e si trasforma in cittadino.
Nel contratto sociale l’individuo naturale si realizza nella pienezza della propria essenza. Il fatto non priva l’uomo della propria libertà ma, anzi, accresce il valore della sua dimensione sociale. Nella società che sorge dalla volontà generale degli individui la sovranità risiede nell’unità del corpo sociale, che esprime la propria volontà attraverso la funzione legislativa.
Secondo (—), quindi, il migliore metodo di governo non poteva essere che la democrazia diretta, ossia una comunità piccola in grado di governarsi da sola e in cui l’alienazione totale dei diritti individuali a favore della comunità trovasse il proprio fondamento nel consenso generale, nella volontà promanante dal corpo sociale nel suo insieme. La volontà generale non è data dalla mera somma delle volontà individuali (che finirebbero con l’elidersi a vicenda, a causa dell’inevitabile prevalere degli interessi particolari), ma è un’unica volontà superiore e scaturisce dall’intrinseca essenza dell’uomo. Solo una scelta a favore della democrazia diretta è in grado di ricreare le stesse condizioni di uguaglianza originaria, in cui tutti hanno pari diritti e doveri.
Ne Il contratto sociale, inoltre, (—) affermò la necessità di credere nell’esistenza di un Dio, che punisce i reprobi e premia i buoni. Questa convinzione era necessaria in ogni uomo, al fine di rinvenire la motivazione atta ad elevarsi dallo stato di natura a quello sociale. Per ogni altro aspetto della vita sociale, comunque, il filosofo ginevrino ritenne irrilevante qualsiasi altra credenza religiosa, sostenendo che ogni Stato avrebbe dovuto improntare la propria condotta alla tolleranza.
In tale concezione organicistica, il popolo che possiede la sovranità non è più un ente formale, ma è la sovranità stessa: è evidente qui l’implicazione democratica, nel senso più letterale del termine, di tale tesi.
La sovranità è inalienabile e indivisibile, essa non deve dare alcuna garanzia ai propri membri poiché, essendo formata da essi, non può avere alcun interesse contrario al loro stesso interesse.
La legge, in quanto volontà del corpo politico, viene concepita come lo strumento di conservazione del corpo politico stesso. Per questo motivo la legge deve essere stabilita da tutto il popolo per tutto il popolo, cioè deve essere generale e astratta e non riferirsi ad alcun caso concreto.