Cassazione penale Sez. V – Sentenza del 8 luglio 2008 n. 37322 Internet, penale, accesso abusivo, volontà tacita (2009-04-20)

S. R., P. B. ed A. M., unitamente a F. R., avevano costituito una associazione professionale denominata Studio associato S. dottor ragionier R., della quale il S. era il socio di maggioranza relativa e l’amministratore; M., B. e R., presumibilmente a causa di contrasti con il S., decisero di dare vita ad una nuova associazione professionale denominata Studio B. – M. ed associati.

Nei giorni del passaggio dalla vecchia alla nuova associazione accaddero alcuni fatti che hanno originato il presente procedimento penale.

B. e M. si recarono presso la sede dello Studio S., associazione della quale facevano ancora parte non essendo stata sciolta, e si introdussero nel sistema informatico dello studio prelevandone l’archivio.

Negli stessi giorni il S., parlando con alcuni clienti, disse che i tre soci stavano sviando la clientela; inoltre il S. fece bloccare i suoi colleghi da una guardia giurata impedendo loro di entrare nello studio.

Per tali fatti il S. era tratto a giudizio per rispondere dei reati di cui agli articoli 595 e 393 c.p. in danno di B., M. e R., che si costituivano parti civili; B. e M. erano chiamati a rispondere della violazione degli articoli 61 n. 11, 615 ter, 646 c.p. e 35 della legge 675 del 1996 in danno di S., che si costituiva parte civile.

Con sentenza del 4 maggio 2004 il Tribunale di Bergamo dichiarava B. P. e M. A. colpevoli dei reati loro ascritti e li condannava alla pena ritenuta di giustizia oltre al risarcimento dei danni ed al pagamento di una provvisionale, mentre assolveva il S. dal delitto di diffamazione perché il fatto non sussiste e da quello di cui all’articolo 610 c.p., così modificata la originaria imputazione, perché il fatto non costituisce reato.

Investita dagli appelli dei due imputati, anche nella loro qualità di parti civili insieme al R., la Corte di Appello di Brescia, con sentenza emessa in data 27 febbraio 2007, dichiarava inammissibile l’appello ex articolo 577 c.p.p. delle parti civili, non accoglieva l’appello agli effetti civili ed, in accoglimento dell’appello degli imputati, assolveva B. P. e M. A. dal reato continuato loro ascritto perché il fatto non sussiste.

In particolare la Corte di merito precisava che il reato di appropriazione indebita non era stato nemmeno correttamente contestato perché in imputazione non si parlava della appropriazione di computer e comunque non sussisteva perché la copiatura di dati informatici non costituisce appropriazione indebita di una cosa mobile altrui, che, con riferimento al reato di cui all’articolo 615 ter c.p., non risultava che il sistema informatico fosse protetto da misure di sicurezza e, comunque, B. e M. in qualità di soci avevano il diritto di accedere ai dati informatici, e che per quel che concerne il reato di cui all’articolo 35 della legge 675 del 1996, norma abrogata dall’articolo 183 del decreto legislativo n. 196 del 2003, mancava il nocumento.

Avverso la decisione di secondo grado proponeva ricorso, evidentemente agli effetti civili ai sensi dell’articolo 576 c.p.p., soltanto la parte civile R. S., che deduceva:

1) la manifesta illogicità della sentenza nella parte in cui la Corte di merito non ha ritenuto che fosse stata contestata l’appropriazione dei personal computers in dotazione dello studio e sui quali erano stati trasmessi i dati dei due servers dello studio, computers restituiti soltanto su richiesta del liquidatore;

2) la inosservanza ed erronea applicazione dell’articolo 646 c.p. nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto insussistente il fatto di appropriazione per essersi trattato di una attività di copia, sia perché l’appropriazione concerneva i due personal computers, sia perché la copia di documenti riservati per fini estranei a quelli della società costituiva appropriazione. A conforto della tesi il ricorrente citava due precedenti della Suprema Corte;

3) la manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui la Corte di merito aveva affermato che il sistema informatico non fosse protetto e nella parte in cui aveva affermato che i due imputati avessero titolo per introdursi e permanere nel sistema informatico stesso; il ricorrente ha ricordato che illogicamente la Corte di merito aveva fatto riferimento ai personal computers mentre la introduzione era avvenuta nei servers, che erano protetti e, comunque, il dato rilevante non sarebbe tanto la introduzione quanto la permanenza nel sistema al fine di estrarne copia e l’utilizzazione dei dati per fini estranei alla associazione;

4) la manifesta illogicità della motivazione nella parte in cui la Corte di merito asseriva l’insussistenza del delitto di cui all’articolo 167 del decreto legislativo n. 196 del 2003 per difetto di nocumento, nonostante avesse precedentemente riconosciuto il fatto che la condotta potesse essere posta a fondamento di pretesa risarcitoria a seguito di illecito civile.

Con memoria difensiva depositata il 23 giugno 2008 il ricorrente adduceva a sostegno dei motivi secondo e terzo del ricorso nuovi argomenti tratti dalla sentenza della IV Sezione della Corte di Cassazione 4 maggio 2006 – 14 settembre 2006 che aveva deciso su un caso analogo e che aveva qualificato il fatto della copiatura dei dati come truffa piuttosto che come appropriazione indebita.

I motivi posti a sostegno del ricorso proposto dalla parte civile S. R. sono fondati nei limiti di cui si dirà.

Deve essere in primo luogo esaminato il terzo motivo di impugnazione.

In effetti la decisione impugnata sul punto appare erronea e la motivazione che la sorregge illogica in più punti.

A B. e M. è stata contestata la violazione dell’articolo 615 ter c.p. perché, introdottisi nel sistema informatico dello Studio S., si appropriavano dell’archivio informatico e procedevano al trattamento dei dati.

Il fatto storico nella sua materialità, ben ricostruito dai giudici di merito, non è in realtà contestato.

I due professionisti, che erano ancora soci dello Studio associato S. non ancora sciolto, effettivamente si introdussero nel sistema informatico dello studio costituito da due servers e da due computers portatili, sui quali trasfusero i dati contenuti nei servers; i due portatili furono poi portati in altro luogo ove i dati vennero copiati ed, infine, i computers furono restituiti allo studio a richiesta del liquidatore.

Orbene il fatto contestato costituisce violazione dell’articolo 615 ter c.p. perché si tratta di un accesso abusivo ad un sistema informatico.

È necessario ricordare che la norma in esame tutela, secondo la più accreditata dottrina, molti beni giuridici ed interessi eterogenei, quali il diritto alla riservatezza, diritti di carattere patrimoniale, come il diritto all’uso indisturbato dell’elaboratore per perseguire fini di carattere economico e produttivo, interessi pubblici rilevanti, come quelli di carattere militare, sanitario nonché quelli inerenti all’ordine pubblico ed alla sicurezza, che potrebbero essere compromessi da intrusioni o manomissioni non autorizzate.

Tra i beni e gli interessi tutelati non vi è alcun dubbio, come già osservato dalla Suprema Corte (Cass., Sez. VI penale, 4 ottobre 1999-14 dicembre 1999, n. 3067, CED 3067), che particolare rilievo assume la tutela del diritto alla riservatezza e, quindi, la protezione del domicilio informatico, visto quale estensione del domicilio materiale.

Tanto si desume dalla lettera della norma che non si limita soltanto a tutelare i contenuti personalissimi dei dati raccolti nei sistemi informatici, ma prevede uno ius excludendi alios quale che sia il contenuto dei dati, purché attinenti alla sfera di pensiero o alla attività lavorativa dell’utente; è, quindi, evidente che da tale norma vengono tutelati anche gli aspetti economici e patrimoniali, come si è dinanzi anticipato.

D’altro canto il reato di accesso abusivo ai sistemi informatici è stato collocato dalla legge 23 dicembre 1993 n. 547, che ha introdotto nel codice penale i cosiddetti computer’s crimes, nella sezione concernente i delitti contro la inviolabilità del domicilio e nella relazione al disegno di legge i sistemi informatici sono stati definiti un’espansione ideale dell’area di rispetto pertinente al soggetto interessato, garantita dall’articolo 14 della Costituzione e penalmente tutelata nei suoi aspetti più essenziali e tradizionali dagli articoli 614 e 615 c.p..

Tanto premesso, la discussione che si è sviluppata nei gradi di merito in ordine alla sussistenza o meno di una protezione del sistema informatico violato appare fuori luogo, dal momento che agli imputati non è stato contestato soltanto la introduzione, ma il permanere nel sistema informatico al fine di copiare i dati ivi contenuti.

L’articolo 615 ter c.p.. infatti punisce non solo chi si introduca abusivamente in un sistema informatico, ma anche chi nello stesso si trattenga contro la volontà dell’avente diritto.

Ciò a prescindere dal fatto che nel caso di specie i sistemi di protezione dei servers, che erano quelli che custodivano i dati raccolti, esistevano, dal momento che essi non debbono consistere in strumenti tecnologici particolari, essendo sufficiente anche una semplice password, come era previsto nel caso di specie, che renda evidente la volontà dell’avente diritto di non fare accedere chiunque al sistema informatico.

Come è stato acutamente osservato (Cass., Sez. V penale, 16 giugno 2000 – 10 agosto 2000, n. 9002, CED 217734 e Cass., Sez. V penale 7 novembre 2000, Zara e da ultimo Cass., Sez. II penale, 4 maggio 2006 – 14 settembre 2006), la violazione dei dispositivi di protezione del sistema informatico non assume rilevanza di per sé, perché non si tratta di un illecito caratterizzato dalla effrazione dei sistemi protettivi, bensì solo come manifestazione di una volontà contraria a quella di chi del sistema legittimamente dispone.

In effetti l’illecito è caratterizzato dalla contravvenzione alle disposizioni del titolare, come avviene nel delitto di violazione di domicilio e come è testimoniato dalla seconda parte del primo comma dell’articolo 615 ter c.p., già dinanzi richiamato.

Conseguenza di tale impostazione è che la protezione del sistema può essere adottata anche con misure di carattere organizzativo che disciplinino le modalità di accesso ai locali ove il sistema è ubicato ed indichino le persone abilitate all’utilizzo dello stesso.

Naturalmente l’accesso al sistema è consentito dal titolare per determinate finalità, ovvero il raggiungimento degli scopi aziendali, cosicché se il titolo di legittimazione all’accesso viene dall’agente utilizzato per finalità diverse da quelle consentite non vi è dubbio che si configuri il delitto in discussione, dovendosi ritenere che il permanere nel sistema per scopi diversi da quelli previsti avvenga contro la volontà, che può, per disposizione di legge, anche essere tacita, del titolare del diritto di esclusione.

Sul punto appare opportuno precisare che l’introdursi in un sistema informatico al fine di duplicare i dati ivi esistenti costituisce (come si chiarirà anche meglio in seguito) condotta tipica del delitto di cui all’articolo 615 ter c.p., perché la intrusione informatica può sostanziarsi sia in una semplice lettura dei dati contenuti nel sistema, sia nella copiatura degli stessi.

Orbene nel caso di specie è rimasto accertato, per come è lecito desumere dalla motivazione delle due sentenze di merito, che nei servers in questione erano custoditi i dati relativi ai clienti dello Studio S., del quale il S. era non solo socio di maggioranza relativa, ma anche amministratore ed in quanto tale garante del corretto utilizzo degli strumenti esistenti nello studio, e, quindi, anche del sistema informatico, per le finalità tipiche dello studio associato.

È del tutto evidente che la copiatura dei dati, necessaria per fare funzionare lo studio concorrente creato dai due imputati, non era affatto compiuta nell’interesse dello Studio S., ma al fine di avvantaggiare uno studio concorrente; da ciò è lecito desumere che detta copiatura sia avvenuta con il dissenso, in verità anche espresso perché mediante una guardia giurata il S. impedì, anche se successivamente alla consumazione dei fatti contestati, l’accesso ai locali dello studio al B. ed al M., quanto meno tacito dell’amministratore dello studio che aveva il dovere di garantire il raggiungimento dei fini dello studio associato.

Cosicché appare priva di pregio la considerazione che i due imputati, in quanto ancora formalmente associati, avevano il diritto di accesso al sistema, perché il problema e, quindi, la violazione della norma consiste nel fatto che i due non avevano il diritto di accesso al fine di sottrarre dati importanti per lo studio associato, con i quali fare concorrenza allo stesso; tale attività costituisce certamente una indebita intrusione nel sistema informatico.

In dottrina, invero, è stato efficacemente rilevato che commette reato anche chi, dopo essere entrato legittimamente in un sistema, continui ad operare o a servirsi di esso oltre i limiti prefissati dal titolare e, quindi, in siffatta ipotesi ciò che si punisce è l’uso dell’elaboratore avvenuto con modalità non consentite più che l’accesso ad esso.

Gli argomenti esposti rendono evidente la erroneità della decisione impugnata, che non può, ovviamente, essere modificata per gli aspetti penali, mancando una impugnazione del Pubblico Ministero, ma che deve essere annullata agli effetti civili.

Per quanto concerne i motivi di ricorso primo e secondo, che riguardano il contestato delitto di appropriazione indebita, va detto che i pur pregevoli argomenti spesi dal ricorrente non possono essere accolti.

Ciò non tanto per le considerazioni dei giudici di appello sulla impossibilità di configurare il reato di cui all’articolo 646 c.p. quando l’appropriazione concerna beni immateriali, perché in tal caso l’appropriazione riguarderebbe, come correttamente osservato dal ricorrente, i due computers portatili, fatto che, contrariamente a quanto sostenuto dai giudici di appello, era stato debitamente contestato, ma per la semplice ragione che quelle indicate nel capo di imputazione non sono altro che le modalità attraverso le quali si è realizzata la intrusione nel sistema informatico punibile ai sensi dell’articolo 615 ter c.p..

Come si è già rilevato, infatti, la duplicazione dei dati contenuti in un sistema informatico costituisce condotta tipica del reato di cui all’articolo 615 ter c.p., potendo l’intrusione informatica punibile sostanziarsi sia in una semplice lettura dei dati contenuti nel sistema, sia nella copiatura degli stessi.

Ciò perché per accesso – così la rubrica dell’articolo 615 ter c.p. – deve ritenersi, come chiarito da autorevole dottrina, non tanto il semplice collegamento fisico, ovvero l’accensione dello schermo ecc., ma quello logico, ovvero il superamento della barriera di protezione del sistema che renda possibile il dialogo con il medesimo in modo che l’agente venga a trovarsi nella condizione di conoscere dati, informazioni e programmi; la conoscenza dei dati, evidentemente, può avvenire sia con la semplice lettura, sia con la copiatura degli stessi.

Se quanto detto è vero deve ritenersi che quelle contestate non siano altro che semplici modalità per consumare il delitto di abusivo accesso informatico, cosicché la condotta del presunto delitto di appropriazione indebita si esaurisce in quella del delitto di cui all’articolo 615 ter c.p..

Deve, pertanto, ritenersi che la condotta rubricata come ipotesi di violazione dell’articolo 646 c.p. rimanga assorbita dal reato di cui all’articolo 615 ter c.p. e non sia autonomamente punibile, trattandosi di modalità di consumazione di quest’ultimo delitto.

L’ultimo motivo di impugnazione è fondato.

In effetti l’unica ragione della esclusione del reato di cui all’articolo 167 del decreto legislativo n. 196 del 2003 – trattamento illecito dei dati – indicata dalla Corte di merito consiste nella ritenuta assenza del nocumento, dal momento che lo Studio S. continuò a funzionare anche dopo la illecita intrusione nel sistema informatico ed il trattamento dei dati illecitamente acquisiti.

In altra parte della motivazione, però, la Corte di merito aveva segnalato che non sussistevano i reati contestati, ma che non vi era dubbio che lo storno di clientela attuato tramite la acquisizione dei dati ed il trattamento degli stessi avesse prodotto dei danni che avrebbero potuto essere posti a fondamento di una pretesa risarcitoria a seguito di illecito civile.

Appare difficile conciliare una tale affermazione con la ritenuta assenza di nocumento, apparendo, peraltro, del tutto fuorviante l’argomento che lo studio aveva continuato a funzionare.

Il problema, infatti, non è questo perché nella specie potrebbe, a cagione delle condotte costituenti reato poste in essere da B. e M., esservi stata una riduzione della attività e di ciò i giudici avrebbero dovuto tenere conto.

Insomma la motivazione posta a sostegno della assoluzione dal reato di cui all’articolo 167 del decreto legislativo 196 del 2003 è affetta da manifeste illogicità che impongono l’annullamento della sentenza impugnata anche se, come già detto, limitatamente agli effetti civili.

In conclusione per tutte le ragioni indicate la sentenza impugnata deve essere annullata agli effetti civili con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello.

Le spese della parte civile vanno liquidate con la sentenza definitiva.

P.Q.M.

La Corte annulla agli effetti civili la sentenza impugnata con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello.

Cassazione civile III, 17 marzo 2009, n. 8703 Danno non patrimoniale, danno esistenziale, fisco, rimborsi, lungaggini, giudice di pace (2009-04-22)

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con citazione notificata in data 4-11-2004 XX conveniva in giudizio innanzi al giudice di pace di Catania l’AGENZIA DELLE ENTRATE di Catania, per sentirla condannare al risarcimento dei danni morali e da stress, subiti a seguito delle lungaggini dell’iter burocratico affrontato per ottenere lo sgravio di somme non dovute. Precisava che aveva proposto istanza per l’annullamento della cartella esattoriale in data 17-2-2004, ottenendone l’accoglimento solo a sei mesi di distanza, dopo numerose richieste e reiterati solleciti, visite allo sportello e ingiustificati rinvii e dinieghi.

Resisteva l’AGENZIA DELLE ENTRATE di Catania, la quale deduceva, tra l’altro, la propria carenza di legittimazione passiva, in quanto ufficio periferico.

Con sentenza in data 7 aprile 2005, il giudice di pace di Catania dichiarava l’AGENZIA DELLE ENTRATE di Catania responsabile del danno non patrimoniale provocato al XX e, per l’effetto, la condannava al risarcimento dei danni, liquidati in via equitativa nella somma di ~ 300,00, nonche’ al pagamento delle spese processuali.

Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del direttore, svolgendo due motivi, cui ha resistito XX depositando controricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.1. Con il primo motivo parte ricorrente censura la decisione impugnata, nel punto in cui ha rigettato l’eccezione di carenza di legittimazione passiva sollevata dall’AGENZIA DELLE ENTRATE di Catania, ritenendo il vizio sanato ex art.156 c.p.c. a seguito della costituzione in giudizio dell’ufficio periferico.

A tal riguardo la ricorrente AGENZIA denuncia violazione e falsa applicazione degli artt.156 co. 3, 166 e segg. c.p.c., 10 d.Lgs. n.546/1992 e deduce l’”inesistenza giuridica” del soggetto convenuto in relazione all’art.360 n.4 c.p.c., lamentando che sia stata fraintesa la portata dell’eccezione, con la quale si sosteneva il difetto di legittimazione rispetto alla domanda risarcitoria, in considerazione del carattere eccezionale della norma di cui all’art.10 d.Lgs. n. 546/1992 che, nella materia del contenzioso tributario, attribuisce la legittimazione agli uffici periferici, peraltro esclusivamente nelle fasi di merito.

Sulla base di tale premessa la ricorrente assume che l’AGENZIA DELLE ENTRATE con sede in Roma era l’unico soggetto destinatario della vocatio in ius e che l’evocazione in giudizio di un soggetto giuridico “inesistente ai fini del processo civile”, quale l’ufficio periferico, si e’ concretata in una causa di nullita’ assoluta e insanabile.

1.2. Il motivo e’ infondato, ancorche’ la motivazione del giudice di pace debba essere integrata e rettificata ai sensi dell’art.384 co.4 c.p.c..

Parte ricorrente fa riferimento a un orientamento giurisprudenziale consolidato nel regime antecedente all’assunzione di operativita’ delle Agenzie delle Entrate che, fondandosi sul disposto degli artt. 10 e 11 del d.Lgs. n.546 del 1992, limitava la legittimazione degli uffici periferici dell’amministrazione finanziaria ai soli giudizi innanzi alle commissioni tributarie, ritenendosi che, in difetto di speciale disciplina, riprendesse vigore la regola generale (art. 11 r.d. n. 1611 del 1933) che attribuiva al Ministero delle Finanze l’esclusiva legittimazione. Si tratta, pero’, di una ricostruzione della normativa rilevante in materia, che e’ stata rivista alla luce della nuova realta’ ordinamentale introdotta dal d. Lgs. 30-7-l999, n. 300 ed operativa, secondo il d.m. 28-12-2000 a partire dal 1 gennaio 2001, che ha comportato l’attribuzione delle funzioni statali concernenti i tributi erariali all’AGENZIA DELLE ENTRATE, quale soggetto dotato di personalita’ giuridica di diritto pubblico, rappresentata dal direttore (artt. 61 e 66 del cit. d.Lgs. n.300). In particolare – come chiarito dalle SS.UU. l’attribuzione agli uffici periferici dell’AGENZIA della stessa capacita di stare in giudizio spettante, in base agli artt. 10 e 11 del d.Lgs. n.546 del 1992 agli uffici finanziari che avevano emesso l’atto, comporta il conferimento ai medesimi uffici periferici della capacita’ di stare in giudizio, in via concorrente ed alternativa al direttore, secondo un modello simile alla preposizione institoria disciplinata dagli artt. 2203 e 2204 c.c., configurandosi detti uffici, quali organi dell’AGENZIA che, al pari del direttore, ne hanno la rappresentanza ai sensi e agli effetti dell’art. 163 co. 2 n.2 c.p.c. e degli artt. 144 e 145 c.p.c. (cfr. sentenza 14 febbraio 2006, n.3116 in motivazione).

Senza ripetere qui gli argomenti svolti dalle SS.UU., condivisi dal Collegio e ormai consolidati nella giurisprudenza di questa Corte, val la pena di precisare che la ricostruzione del rapporto tra 1’AGENZIA e l’ufficio periferico negli schemi della procura institoria, con conseguente imputabilita’ all’ente pubblico preponente dell’attivita’ posta in essere dal secondo, impone di riconoscere, secondo le regole stabilite in via generale dal codice di procedere civile, all’ufficio periferico la legittimazione processuale attiva e passiva concorrente con quella dell’ente, anche nel processo innanzi al giudice ordinario, per i rapporti sorti dagli atti compiuti da detto periferico. Ed e’ cio’ che e avvenuto nel caso di specie, in cui 1’AGENZIA DELLE ENTRATE di Catania e’ stata evocata innanzi al giudice di pace, per il risarcimento di danni asseritamente provocati da1 tardivo ritiro dell’atto impositivo da essa posto in essere.

2. 1. Con il secondo motivo la ricorrente censura il merito della decisione impugnata, per avere ritenuto violato il divieto del neminem ledere, in considerazione della lunghezza dell’iter burocratico, durato sei mesi, con conseguente turbamento del “diritto alla tranquillita’” del XX facendogli spendere tempo ed energie, tra visite “a vuoto” agli sportelli, richieste e reiterati solleciti, per dimostrare che la somma richiestagli non era dovuta.

In particolare la ricorrente – denunciando violazione e falsa applicazione dell’art.2043 c.c. in relazione all’art.360 n.3 c.p.c. – lamenta violazione di principio informatore del diritto per difetto del carattere dell’”ingiustizia” del danno, segnatamente evidenziando che l’annullamento in autotutela della P.A. non si configura come un obbligo dell’amministrazione e contestando, nel contempo, la violazione, dei criteri di ordinaria diligenza, avuto riguardo al limitato arco di tempo in cui intervenne il ritiro dell’atto impositivo.

2.2. Il motivo e fondato nei termini che seguono.

Come e noto le SS.UU. con quattro contestuali sentenze di contenuto identico (nn. 26972, 26973, 26974 e 26975 in data 11-11-2008), hanno di recente proceduto ad una rilettura in chiave costituzionale del disposto dell’art.2059 c.c., ritenuto principio informatore del diritto, come tale vincolante anche nel giudizio di equita’, da leggersi – non gia’ come disciplina di un’autonoma fattispecie di illecito, produttiva di danno non patrimoniale, distinta da quella di cui all’art.2043 c.c. – bensi’ come norma che regola i limiti e le condizioni di risarcibilita’ dei pregiudizi non patrimoniali (intesa come categoria omnicomprensiva, all’interno della quale non e’ possibile individuare, se non con funzione meramente descrittiva, ulteriori sottocategorie), sul presupposto dell’esistenza di tutti gli elementi costitutivi dell’ illecito richiesti dall’ art. 2043 c.c. e cioe’: la condotta illecita, l’ingiusta lesione di interessi tutelati dall’ordinamento, il nesso causale tra la prima e la seconda, la sussistenza di un concreto pregiudizio patito dal titolare dell’interesse leso.

In tale prospettiva la peculiarita’ del danno non patrimoniale viene individuata nella sua tipicita’, avuto riguardo alla natura dell’art. 2059 cit., quale norma di rinvio ai casi previsti dalla legge (e, quindi, ai fatti costituenti reato o agli altri fatti illeciti riconosciuti dal legislatore ordinario produttivi di tale tipo di danno) ovvero ai diritti costituzionali inviolabili, presieduti dalla tutela minima risarcitoria, con la precisazione, in quest’ultimo caso, che la rilevanza costituzionale deve riguardare l’interesse leso e non il pregiudizio conseguenzialmente sofferto e che la risarcibilita’ del pregiudizio non patrimoniale presuppone, altresi’, che la lesione sia grave (e, cioe’, superi la soglia minima di tollerabilita’, imposto dai doveri di solidarieta’ sociale) e che il danno non sia futile, (vale a dire che non consista in meri disagi o fastidi o sia addirittura meramente immaginario).

Cio’ precisato, si osserva che, nella specie, non sussiste un’ingiustizia costituzionalmente qualificata, tantomeno si verte in un’ipotesi di danno patrimoniale prevista dal legislatore ordinario, risultando, piuttosto, la ritenuta lesione del “diritto alla tranquillita’” insuscettibile di essere monetizzata, siccome inquadrabile in quegli sconvolgimenti [della] quotidianita’ “consistenti in disagi, fastidi, disappunti, ansie ed in ogni altro di insoddisfazione” (pag. 34 della sentenza n.26972/2008).

In conclusione, il secondo motivo di ricorso va accolto e, ai sensi dell’art.384 co.2, la sentenza impugnata va cassata senza rinvio, posto che, non essendo necessari accertamenti di fatto va pronunciato nel merito e – in applicazione dei principi affermati dalle SS.UU. sopra richiamati – domanda di risarcimento del XX va rigettata.

Le spese dell’intero processo vanno integralmente compensate tra le parti, avuto riguardo al rigetto del primo motivo, nonche’ alla relativa novita’ e alla natura delle questioni trattate con il secondo.

P.Q.M.

La Corte rigetta primo motivo di ricorso; accoglie il secondo motivo; cassa senza rinvio la sentenza impugnata e, pronunciando nel merito, rigetta la domanda di XX; compensa interamente tra le parti le spese dell’intero processo.

Roma 17 marzo 2009

Cassazione, Sezione Sesta Penale, sentenza n.6490/2009 Famiglia, minori, maltrattamenti, litigi (2009-04-24)

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

Sesta Sezione Penale

Composta dagli Ill.mi sigg.:

Dott. Agrò Antonio Presidente

1. Dott. Milo Nicola Consigliere

2. Dott. Dogliotti Massimo Consigliere

3. Dott. Rotundo Vincenzo Consigliere

4. Dott. Carcano Domenico Consigliere

Ha pronunciato la seguente

SENTENZA/ORDINANZA

Sul ricorso proposto da:

1) B. A. n. il 18/12/1951

Avverso SENTENZA del 12/02/2007

Corte Appello di Roma

Visti gli atti, la sentenza ed il ricorso

Udita in Pubblica Udienza la relazione fatta dal Consigliere

Milo Nicola

Udito il P.G. in persona del dr. F.M. Iacoviello che ha concluso per l’annullamento senza rinvio della sentenza, in relazione al capo e), per remissioni di querela, e per l’inammissibilità nel resto del ricorso;

udito il difensore avv. d. Scialla, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

N. 24914/07

FATTO E DIRITTO

1 – La Corte d’Appello di Roma, con sentenza 12/2/2007, confermava la decisione 8/4/2004 dal locale Tribunale nella parte in cui aveva dichiarato A. B. colpevole dei reati di maltrattamenti e lesioni volontarie lievi in danno della moglie, R.T.C., e della figlia M., ma riduceva la misura della pena inflitta.

Il Giudice distrettuale evidenziava che la prova della responsabilità dell’imputato era integrata dalla precisa e puntuale testimonianza di M. B. , che aveva riferito in ordine al clima di permanente tensione che aveva caratterizzato la vita familiare, ai continui litigi tra i suoi genitori a causa prevalentemente dell’abuso di alcool da parte di entrambi, al suo coinvolgimento di riflesso in tali litigi, alla protrazione del comportamento violento e vessatorio del padre anche dopo la morte della madre in data 5/2/2001. Aggiungeva che tale testimonianza aveva trovato indiretto riscontro in quelle del m.llo dei CC. E.C. , intervenuto piu’ volte in occasione di litigi verificatisi in casa B..

2 – Ha proposto ricorso per cassazione, tramite il proprio difensore, l’imputato e ha lamentato: 1) erronea applicazione dell’art. 603/3° c.p.p. per non essere stata accolta la richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale al fine di meglio chiarire i fatti posti a base dell’accusa di maltrattamenti; 2) erronea applicazione dell’art. 572 c.p. non essendosi tenuto conto delle ragioni sottese ai litigi verificatisi, le quali portavano ad escludere l’elemento soggettivo del reato; 3) vizio di motivazione in ordine al realistico e corretto apprezzamento dei fatti di causa.

3 – Il ricorso è fondato.

Tralasciando il primo motivo di censura che, per quello che si dirà in seguito, è privo di rilevanza, osserva la corte che la presente vicenda, per così come emerge dalla ricostruzione in fatto operata dai Giudici di merito, deve essere apprezzata e valutata nel particolare contesto familiare in cui è maturata, al fine di invidiare realisticamente l’esatto rilievo penale dei comportamenti sicuramente antigiuridici tenuti dall’imputato in danno della moglie e della figlia.

Il racconto di M. B. , al di là delle accuse mosse contro il padre, delinea un quadro familiare caratterizzato e condizionato da anomalie comportamentali di tutti i suoi componenti, determinate dall’uso smodato e incontrollato che i suoi genitori facevano dell’alcool, nonchè delle gravi patologie a livello psichiatrico di cui la madre era portatrice. Non può evidentemente prescindersi da tale peculiare situazione, per cogliere la reale portata e il vero significato delle tensioni verificatesi in casa B. e spesso sfociate in litigi verbali, connotati da provocazioni o minacce, oppure in vere e proprie aggressioni fisiche ad iniziativa non solo dell’imputato ma anche della moglie. In sostanza, non può affermarsi che sia stato il prevenuto, con la sua condotta prevaricatrice e violenta, ad imporre un regime di vita vessatorio e intollerabile all’interno del consorzio familiare, essendo egli stesso rimasto vittima di comportamenti lesivi del suo patrimonio morale e della sua integrità fisica ad opera della moglie. In definitiva, tute le persone coinvolte nella presente vicenda, devono considerarsi in qualche modo vittime di una situazione familiare difficile per le gravi difficoltà esistenziali vissute dai coniugi e di una incapacità dei medesimi a fronteggiarla efficacemente con la necessaria serenità. La stessa figlia M. , per la sua giovane età e per l’impossibilità di avere in uno dei genitori un punto di riferimento certo su cui fare affidamento, ha finito per essere travolto dal clima di tensione imperante in casa, lasciandosi andare, per sua stessa ammissione, a sconsiderati comportamenti fortemente reattivi verso il padre, in occasione dei litigi tra costui e la madre. Dopo la morte della C. , il clima di tensione e la residuale conflittualità tra l’imputato e la figlia si stemperano progressivamente, anche perché quest’ultima si allontanò dalla casa paterna.

Ciò posto, ritiene la corte che siano difettate nell’agente la coscienza e la volontà di sottoporre i soggetti passivi ad una serie di sofferenze fisiche o morali in modo continuativo ed abituale. I singoli atti lesivi, certamente verificatisi, non possono che essere letti come forme espressive di reazioni determinate da tensioni contingenti, anche se non infrequenti nel descritto contesto familiare; detti atti non appaiono, per quanto accertato in sede di merito, tra loro connessi e cementati dalla volontà unitaria e persistente dell’agente di sottoporre i soggetti passivi a ingiuste sofferenze morali o fisiche, si da rendere abitualmente doloro il rapporto relazionale.

La sentenza impugnata, pertanto va annullata senza rinvio, con riferimento ai contestati reati di maltrattamenti, perché il fatto non costituisce reato.

Residuano logicamente i reati di lesioni volontarie lievi, la cui sussistenza e ascrivibilità soggettiva all’imputato risultano oggettivamente provate.

Tuttavia, il reato di lesioni in danno della C. (capo b), commesso il 21-22 agosto 2000, è estinto per prescrizione, in quanto il relativo termine, considerato nella sua massima estensione di anni sette e mesi sei (artt. 157/1° n. 4 e 160/3° c.p. nel testo previgente) e mai sospeso è ad oggi interamente decorso.

Il reato di lesioni in danno di M. B. (capo e) è estinto per remissione di querela (cfr. atto di remissione in data 5/4/2007 e successiva accettazione in data 8/5/2007 dell’imputato). E’ il caso di precisare che tale reato è punibile a querela della persona offesa, non essendo contestata in fatto alcuna aggravante che lo renda perseguibile d’ufficio; il richiamo, nel capo d’imputazione all’art. 576 n. 2 c.p. è errato dovendosi, invece, fare correttamente riferimento – per quanto indicato in fatto – all’art. 577 n. 1 c.p., aggravante quest’ultima non ostativa alla perseguibilità a querela del reato (artt. 582/2° c.p.).

La Sentenza impugnata va, quindi, annullata senza rinvio anche in relazione a questi ultimi due reati con la formula corrispondente.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, con riferimento ai maltrattamenti, perché il fatto non costituisce reato; con riferimento alle lesioni di cui al capo b), perché il reato è estinto per prescrizione; con riferimento alle lesioni di cui al capo e), per remissione di querela.

Così deciso in Roma il 4/11/2008.

IL Consigliere est. Il presidente

DEPOSITATO IN CANCELLERIA

IL 13 FEBBRAIO 2009.

Cassazione Sezione III, 16 ottobre 2008 n. 25251 Condominio, civile, amministratore, responsabilità (2009-04-24)

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato il 6 marzo 1990 A.G. conveniva dinanzi al Tribunale di Roma R.G., in proprio e quale amministratore del Condominio di (OMISSIS) in (OMISSIS) chiedendone la condanna al risarcimento dei danni che asseriva di aver subito il (OMISSIS) in conseguenza della caduta in una buca situata nel cortile antistante la propria abitazione, all’interno dell’area condominiale.

I convenuti si costituivano in giudizio contestando la domanda attrice di cui chiedevano il rigetto. Espletata l’istruttoria, il Tribunale di Roma, con sentenza n. 14052/1997, condannava R.G. ed il Condominio di (OMISSIS), in solido, a pagare a favore di A.G. la somma di L. 42.441.000 a titolo di risarcimento dei danni, oltre spese di lite.

Avverso tale sentenza proponeva appello R.G. con atto di citazione notificato il 16 luglio 1998, chiedendo il rigetto della domanda di risarcimento proposta nei suoi confronti e, in subordine, l’affermazione di una concorrente responsabilita’ del danneggiato.

Si costituivano in giudizio A.G. e il Condominio di (OMISSIS), entrambi chiedendo il rigetto dell’appello.

Il Condominio spiegava anche appello incidentale chiedendo l’esclusione di ogni sua responsabilita’ e in subordine l’esclusione del risarcimento del danno patrimoniale in favore dell’ A..

La Corte d’appello, con ordinanza del 19 aprile 2000, ritenuto che il giudizio si era svolto in difetto di rappresentanza processuale del Condominio in quanto il R. era cessato dalla carica di amministratore gia’ prima della costituzione in appello dello stesso Condominio, concedeva termine per la costituzione dei nuovo amministratore.

Successivamente il processo veniva interrotto per morte dell’appellante i cui eredi provvedevano alla riassunzione con atto depositato il 23 aprile 2002.

La R.a.s. s.p.a. si associava alle istanze ed eccezioni del Condominio con atto d’intervento volontario depositato il 14 febbraio 2003.

La causa veniva infine trattenuta in decisione dalla Corte, sulla base delle conclusioni precisate, alla udienza del 18 novembre 2003.

La Corte d’appello, in riforma della sentenza di primo grado, rigettava la domanda avanzata da A.G. nei confronti del R. e condannava il primo alla rifusione delle spese di lite di entrambi i gradi del giudizio in favore di P.L.M. e R.P. quali eredi di R.G.. Quindi, in parziale accoglimento dell’appello incidentale proposto dal Condominio avverso la medesima sentenza, rigettava la domanda di A.G. per la liquidazione del danno patrimoniale e determinava l’ammontare del risarcimento dovuto allo stesso A. in Euro 8.080,90 oltre accessori. Condannava conseguentemente A.G. a restituire alla controparte quanto eventualmente percepito in eccesso rispetto alla somma sopra indicata, con gli interessi legali a decorrere dalla data del pagamento.

Compensava interamente tra A.G. e il Condominio le spese di lite del giudizio di appello, ferma restando la condanna del secondo al pagamento delle spese di lite dei giudizio di primo grado; compensava ugualmente tra tutte le altre parti le spese processuali.

Proponeva ricorso per cassazione A.G. con tre motivi.

Resistevano con controricorso P.M. e R.P. Quali eredi di R.G. e la R.a.s..

L’udienza di discussione era fissata al 28 maggio 2008.

Il Collegio era successivamente riconvocato al 3 luglio 2008.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo parte ricorrente denuncia