Cassazione civile, sez. I, sentenza 06.04.2009 n. 8227 Famiglia, separazione, figli, mantenimento, onere della prova, civile (2009-04-24)

LA SEZIONE I CIVILE

Motivi della decisione

Pregiudiziale è l’esame dell’eccezione sollevata dalla controricorrente che ha sostenuto l’inammissibilità del ricorso proposto ai sensi dell’art. 111 Cost. avverso il decreto in esame emesso dalla Corte d’Appello in sede di reclamo e riguardante la modifica della statuizione relativa al contributo di mantenimento delle figlie, eccezione basata sulla dedotta natura non decisoria né definitiva del provvedimento.

Al riguardo è opportuno rilevare che un contrasto di giurisprudenza si è formato relativamente ai provvedimenti adottati nei procedimenti di revisione delle condizioni stabilite in sede di separazione, essendosi ritenuto in alcune decisioni, in considerazione della diversa previsione di cui agli artt. 155 u.c. C.P.C., (ora 155 ter) e 156 u.c. C.P.C., che poiché il primo, a differenza del secondo, non richiede per la loro modificabilità il sopravvenire di nuove circostanze, non può attribuirsi ai provvedimenti riguardanti i figli, di cui tale norma si occupa, carattere definitivo, con l’ulteriore conseguenza dell’inammissibilità in tal caso (in tal senso Cass. 8495/07; Cass. 8046/98; Cass. 4988/99; Cass. 4499/02; Cass. 9484/02).

A tale orientamento si è posta consapevolmente in contrasto la sentenza n. 24265/04 la quale, riprendendo quanto già espresso in alcune decisione degli anni ottanta e dei primi anni novanta (Cass. 2050/88; Cass. 1695/87; Cass. 6621/91), hanno ritenuto ricorribili ai sensi dell’art. 111 Cost. anche i provvedimenti di carattere patrimoniale riguardanti i figli in quanto suscettibili di giudicato, sia pure “rebus sic stantibus”.

Nell’ipotesi in esame però il provvedimento di revisione riguarda le condizioni stabilite nel giudizio di cessazione degli effetti civili del matrimonio per il quale trova applicazione l’art. 9 della Legge 898/70, come sostituito da ultimo dall’art. 13 della Legge n. 74 del 1987, il quale al comma 1 prevede, perché possa disporsi la modifica delle condizioni precedentemente stabilite, la necessità che sopravvengano “giustificati motivi” anche per quanto riguarda i provvedimenti relativi ai figli.

È evidente pertanto che il provvedimento, essendo in tal caso suscettibile di passare in giudicato, sia pure “rebus sic stantibus”, e dovendosi quindi ritenere in tale ambito definitivo, oltre che decisorio, deve ritenersi ammissibile il ricorso per cassazione ex art. 111 Cost..

Con il primo motivo di ricorso G. S. denuncia violazione degli artt. 2697 comma 2 C.C. e 112 C.P.C.. Lamenta che la Corte d’Appello abbia ritenuto che non fosse cessato il rapporto di dipendenza economica delle due figlie nei suoi confronti sulla base, unicamente, dell’interrogatorio libero reso dalle interessate e sul rilievo che nessun riscontro alle sue affermazioni egli avrebbe fornito, senza considerare che le richieste di provare i fatti da lui assunti (attraverso l’invito alla produzione delle dichiarazioni fiscali e dei conti bancari delle figlie; attraverso l’assunzione di informazioni ex art. 210 C.P.C. in ordine ai rapporti di lavoro di entrambe ed agli emolumenti loro corrisposti; mediante la produzione degli estratti bancari e dei depositi dei titoli; mediante interrogatorio formale della reclamante) erano state disattese senza alcuna motivazione.

Con il secondo motivo il ricorrente denuncia ancora violazione dell’art. 2697 comma 2 C.C.. Lamenta che la Corte d’Appello, nonostante sia risultato che le figlie fossero avviate ad un’attività lavorativa adeguata ai titoli di studio conseguiti, fossero titolari di un conto corrente e ciascuna possedesse un autoveicolo, abbia disatteso ogni sua difesa, ritenendola non provata.

Con il terzo motivo il ricorrente denuncia violazione dell’art. 155 comma 2 C.C.. Sostiene che, nonostante l’art. 155 comma 2 C.C. preveda l’obbligo di mantenimento anche per i figli maggiorenni qualora non abbiano conseguito una autonomia economica e malgrado nella fattispecie le due figlie tale autonomia avessero raggiunto, la Corte d’Appello ha ugualmente riconosciuto un tale obbligo a suo carico.

Con il quarto motivo il ricorrente denuncia violazione dell’art. 100 C.P.C. nonché falsa ed erronea applicazione dell’art. 155 C.C.. Deduce che, nell’ipotesi in cui il figlio si sia reso autonomo, non è più ipotizzabile un ritorno nella sua precedente posizione di non autosufficienza, potendosi, eventualmente, riconoscere il diritto agli alimenti per i quali lo stesso figlio e non già il genitore convivente è legittimato ad agire.

Con il quinto motivo il ricorrente denuncia violazione dell’art. 112 C.P.C.. Lamenta che la Corte d’Appello abbia omesso di pronunciarsi in ordine alla sua domanda subordinata di riduzione dell’assegno basata sul fatto che aveva costituito una nuova famiglia con due figli.

Con il sesto motivo il ricorrente denuncia violazione dell’art. 2697 comma 1 C.C. nonché violazione e falsa applicazione dell’art. 117 C.P.C.. Lamenta che la Corte d’Appello abbia deciso solo sulla base del libero interrogatorio reso dalle figlie, vale a dire delle dirette interessate, nonostante non fossero parti e malgrado alle loro dichiarazioni non possa essere riconosciuto valore di testimonianza in quanto non rese con le modalità e le formalità di cui agli artt. 244 e segg. C.P.C., con la conseguenza che le prove devono ritenersi illegittimamente acquisite.

Gli esposti motivi di ricorso vanno esaminati congiuntamente, contenendo censure, a volte, ripetitive ed, altre volte, strettamente connesse fra di loro.

Orbene, è da tempo consolidato in giurisprudenza il principio secondo cui l’obbligo del genitore, separato o divorziato, di concorrere al mantenimento dei figli non cessa automaticamente con il raggiungimento da parte di costoro della maggiore età, ma persiste finché non abbiano raggiunto l’indipendenza economica attraverso un’attività lavorativa con concrete prospettive di indipendenza ovvero non sia provato che, posti nelle concrete condizioni di addivenire a detta autosufficienza, non ne abbiano tratto profitto per loro colpa.

Corollario di tale principio è che l’espletamento di un lavoro precario, limitato nel tempo, non è sufficiente per esonerare il genitore da un tale obbligo di mantenimento, non potendosi in tal caso affermare che si sia raggiunta l’indipendenza economica la quale richiede, come si è già evidenziato, una prospettiva concreta di continuità.

Nell’ipotesi in esame, se corretto può definirsi il principio desumibile, sia pure implicitamente, dal decreto impugnato che ha ritenuto evidentemente che lo state di indipendenza economica non possa prescindere da una situazione di relativa stabilità dell’attività lavorativa, non altrettanto può dirsi in ordine alla corretta applicazione dei principi che presiedono alla distribuzione dell’onere della prova ed al diritto riconosciuto a ciascuna parte di poter assolvere ad un tale onere.

Se, da una parte, compete al coniuge che richiede la prestazione di carattere economico, sia pure per il mantenimento dei figli maggiorenni, la prova della ricorrenza delle condizioni che la legittimano, dall’altra, deve essere assicurato al soggetto nei cui confronti la prestazione viene richiesta la possibilità di provare, se richiesta, la loro inesistenza, vale a dire la raggiunta indipendenza economica da parte dei figli.

Nel caso in esame invece la Corte d’Appello si è limitata a prendere atto delle dichiarazioni rese dalle figlie e su di esse ha tratto il convincimento della non raggiunta indipendenza economica in considerazione della saltuarietà e precarietà dell’attività lavorativa da loro svolta.

Ora, pur dovendosi prendere atto delle valutazioni operate al riguardo dalla Corte d’Appello le quali, risolvendosi in un apprezzamento di merito, sono insindacabili in questa sede, anche se formulate su circostanze provenienti direttamente dallo stesso interessato, non può sfuggire in sede di scrutinio di legittimità l’assoluta mancanza di spazio concesso all’odierno ricorrente in sede istruttoria dalla Corte d’Appello la quale, nonostante le numerose richieste formulate al riguardo, non solo non ha fornito alcuna motivazione ignorandole del tutto, ma ha addirittura osservato che nessuna prova era stata fornita dall’interessato. La Corte d’Appello avrebbe ben potuto disattendere tali richieste ma in tal caso, invece di affermare che nessuna prova di segno contrario era emersa ad opera del soggetto obbligato pur in presenza di dette richieste, avrebbe dovuto fornire una congrua motivazione sulle ragioni che l’avrebbero indotta a ritenerle superflue od assorbite ovvero non decisive in presenza delle risultanze emerse attraverso l’interrogatorio delle figlie.

Nei limiti sopra descritti, vale a dire sulla necessità di una valutazione cui il giudice di merito non può sottrarsi in ordine alla rilevanza delle prove richieste, devono trovare accoglimento il primo, il secondo, il terzo ed il sesto motivo di ricorso.

Quanto al quarto, basato sul principio della irreversibilità della perdita del diritto al mantenimento dopo che l’avente diritto si è reso autosufficiente, la censura deve ritenersi assorbita, dipendendo dall’esito della valutazione sulla raggiunta indipendenza che il giudice di rinvio dovrà compiere nell’ambito di un eventuale più ampio quadro istruttorio.

Quanto al quinto, riguardante l’omessa pronuncia sulla richiesta di riduzione dell’assegno basata sulla circostanza che il ricorrente avrebbe costituito una nuova famiglia, la Corte d’Appello non ne fa alcun cenno pur essendo stata tale domanda formulata sin dall’atto introduttivo e non potendosi dubitare in linea di principio della sua possibile rilevanza per l’incidenza che può assumere in concreto sulle disponibilità economiche dell’obbligato.

Il ricorso va pertanto accolto nei limiti di cui in motivazione con rinvio, anche per le spese, alla Corte d’Appello di Roma in diversa composizione che si uniformerà ai principi accolti.

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione

Accoglie il ricorso nei limiti di cui in motivazione. Cassa il decreto impugnato in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’Appello di Roma in diversa composizione.

Cassazione Civile Sezione I Civile Sentenza n. 4816 del 27 febbraio 2009 Famiglia, separazione, assegnazione, casa coniugale (2009-04-24)

Svolgimento del processo

Con sentenza in data 17 novembre 2004, il Tribunale di Modena dichiarò la separazione personale dei coniugi …. E … addebitandola al marito, affidò la figlia minore I., nata il 1987, alla moglie, e su tale premessa assegnò a quest’ultima la casa di Vignola.

Nel giudizio d’appello, il sig. … denunciò l’ingiustizia della pronuncia di addebito, basata – secondo il suo assunto – sulle circostanze che egli aveva contratto, prima del matrimonio, un’infezione del virus HDS, e l’aveva trasmesso alla moglie, ignara. Secondo l’appellante, causa del fallimento dell’unione erano state le continue accuse della moglie – peraltro affetta da una depressione di origine anteriore al matrimonio – e della famiglia di lei per quanto fatto addebitatogli a titolo di colpa; accuse ingiuste, essendo poi stato accertato che la malattia gli era stata trasmessa da una trasfusione di sangue infetto, eseguita a seguito di un infortunio sul lavoro, eseguita in seguito di un infortunio sul lavoro (infortunio in itinere).

La Corte d’appello di Bologna, con sentenza in data 10 maggio 2005, respinge l’appello del sig. … in punto di addebito. La corte esclude che l’addebito fosse giustificato da queste circostanze, essendo stato invece legittimamente basato dal primo giudice sul comportamenti del marito, che aveva privato la moglie, prima, dalle possibilità economiche, e poi anche di solidarietà ed aiuto di ordine morale, con un comportamento particolarmente violento, anche nei confronti della figlia, culminato dell’abbandono del tetto coniugale.

La corte invece accolse il motivo di gravame concernente l’assegnazione alla moglie, quale affidataria della figlia minore, della casa in Vignola.

Quell’immobile, sebbene nella disponibilità dei genitori, non era mai stato adibito a casa coniugale, neppure saltuariamente. La circostanza che esso fosse, secondo il Tribunale, logisticamente più idoneo alla figlia, perché più vicino alla scuola da lei frequentata e ai parenti della sig. … non valeva ad integrare i presupposti del provvedimento.

L’individuazione della casa coniugale non poteva, infatti, fondarsi sui desideri del minore, ma esclusivamente sull’importanza del suo eventuale sradicamento da precedente habitat domestico, che nella specie non vi era stato. La stessa sig.ra …, del resto, aveva chiesto l’assegnazione della casa coniugale da localizzarsi, sia pure in via subordinata, nell’attuale dimora di Savignano sul … e quest’ultima doveva essere assegnata all’appellante per il titolo in questione. Infine, la corte respinse nel merito le altre doglianze, concernenti aspetti economici della causa.

Per la cassazione della sentenza, notificata il 7 luglio 2005, il sig. … ricorre con atto articolato in due mezzi d’impugnazione, illustrati anche in memoria.

La sig.ra … resiste con controricorso e ricorso incidentale, con un mezzo d’impugnazione.

Motivi della decisione

I due ricorsi, proposti contro la stessa sentenza, devono essere riuniti a norma dell’art 335 c.p.c..

Con il primo motivo, denunciando vizi di motivazione della sentenza impugnata (art. 360 comma primo n. 5 c.p.p.), il ricorrente censura la statuizione in punto di addebito della separazione.

Egli espone tutti gli argomenti svolti nel giudizio di merito a sostegno della sua tesi circa le vere cause del fallimento dell’unione, riconducibili alla malattia che aveva contagiato entrambi, e della quale egli non aveva responsabilità, come era stato accertato solo nel giugno 2004, dopo che nel giudizio di primo grado egli era stato sempre ritenuto colpevole dell’infezione trasmessa alla moglie. La malattia aveva logorato entrambi i coniugi, e in particolare la moglie, affetta da sindrome depressiva da data anteriore al matrimonio. Il diniego, nell’impugnata sentenza, dell0incidenza della malattia nella dichiarazione di addebito della separazione sarebbe contrario ad ogni logica. La corte territoriale avrebbe dovuto comprendere che la malattia aveva alterato i caratteri dei coniugi portandoli all’esasperazione, e che si trattava di fatti indipendenti dalla loro volontà.

Nonostante la formale intestazione del vizio di motivazione, il mezzo non indica le affermazioni del giudice di merito che dovrebbero considerarsi logicamente viziate (limitandosi alla generica – e propriamente inconcludente – affermazione che il diniego della rilevanza della sua malattia nella dichiarazione di addebito della separazione sarebbe contrario ad ogni logica), né i punti, sottoposti al suo giudizio con l’atto d’appello, che lo stesso giudice avrebbe trascurato di prendere in esame. Ciò a cui il mezzo tende, sotto la formulazione ap­parente di un vizio di legittimità, è il riesame della vicenda coniugale, al fine di pervenire ad una diversa statuizione di merito, il mezzo è per­tanto inammissibile.

Con il secondo motivo di ricorso, anch’esso posto sotto la rubrica del vizio di motivazione, si censurano affermazionì della corte territoriale in punto di statuizioni di contenuto economico non me­glio precisate, e si svolgono considerazioni critiche in ordine alla situazione economica comparativa dei coniugi. La corte d’appello avrebbe smentito -con affermazioni che non sono indicate – le risultanze di una relazione di consulenza tecnica d’ufficio, il cui contenuto non è riportato. Il ricorrente svolge sue considerazioni a proposito dell’acquisto di un appartamento e del modo in cui l’esponente vi avrebbe fatto fronte; lamenta che la corte territoriale avrebbe confuso indebitamento e patrimonio; tratta poi dei suoi redditi di lavoro e sostiene che, di fatto, egli non avrebbe percepito redditi di partecipazione; addebita alla corte d’appello di non aver considerato le potenzialità di lavoro della moglie e di aver trascurato altri elementi.

Il mezzo è inammissibile. Esso è del tutto ca­rente delle necessarie premesse in fatto, sui temi in discussione, e omette di riferire le vicende sa­lienti del processo, quale premessa indispensabile all’identificazione di pretesi vizi d’insufficiente motivazione, per i quali si richiede l’allegazione della preventiva, specifica sottoposizione del pun­to medesimo all’esame del giudice d’appello, con la trascrizione nel corpo del ricorso delle difese svolte ed ignorate dal giudice di merito, accompa­gnata dall’indicazione del luogo di riscontro in atti, e di ogni altro elemento necessario ad illu­strare la rilevanza decisiva del punto.

Con il ricorso incidentale si denuncia l’insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza d’appello sul punto dell’assegnazione della casa coniugale. Richiamandosi ad affermazioni ricorrenti nella giurisprudenza, circa la necessità che l’assegnazione della casa coniugale sia decisa con riguardo alle esigenze di tutela, per i figli minori o non autosufficienti, dell’ambiente domestico, inteso come centro degli affetto, degli interessi e delle consuetudini in cui si articola e si esprime la vita della famiglia, la ricorrente sostiene che il centro di interessi, affetto e consuetudini della vita della figlia I. era a Vignola, dove si trova l’appartamento assegnato alla sig.ra … in primo grado e non a Savignano sul Panaro, dove la ragazza risiede con la madre.

Il mezzo è infondato. Secondo la consolidata giurisprudenza di questa corte, l’assegnazione della casa familiare prevista dall’art. 155, quarto comma, cod. civ., rispondendo all’esigenza di conservare l’habitat domestico, degli interessi e delle consuetudini in cui s’esprime e s’articola la vita familiare, è consentita unicamente con riguardo a quell’immobile che abbia costituito il centro d’aggregazione della famiglia durante la convivenza, con esclusione d’ogni altro immobile di cui i coniugi avessero disponibilità (Cass. 16 luglio 1992 n. 8667; 9 settembre 2002 n. 13065; 20 gennaio 2006 n. 1198). Di conseguenza, la decisione del giudice di merito, di respingere la domanda d’assegnazione della casa formulata dal coniuge affidatario della prole, è adeguatamente motivata con l’accertamento che l’immobile in questione non è mai stato adibito a casa familiare.

Gli argomenti della ricorrente, basati sulle esigenze, per i figli minori o non autosufficienti, di tutela dell’ambiente domestico, non colgono nel segno, giacché confondono l’oggetto del provvedimento ex art. 155, comma quarto, c.c., che è esclusivamente la casa costituente già in costanza di convivenza il centro di aggregazione della famiglia, con le ragioni invocate, che giustificano il provvedimento di assegnazione (senza peraltro imporlo, trattandosi di decisione fondata su valutazioni discrezionali riservate al giudice di merito; cfr. Cass. 22 novembre 1995 n. 12083; 27 novembre 1996 n. 10538; 21 giugno 2002 n. 9071).

In conclusione il ricorso principale deve essere dichiarato inammissibile, e il ricorso incidentale deve essere rigettato. Le spese della ricorrente incidentale sono liquidate come in dispositivo. Esse sono compensate per la metà in ragione della soccombenza della stessa ricorrente incidentale, e poste per l’altra metà a carico del ricorrente principale, soccombente in punto di addebito della separazione, e autore di un ricorso inammissibile.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi; dichiara inammissibile il ricorso principale; rigetta il ricorso incidentale; condanna il ricorrente principale al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in ragione del 50%, liquidandole per l’intero in €. 3.200,00, di cui 3.000,00 per onorari, oltre alle spese generali e agli accessori come per legge; compensa il residuo 50% delle spese tra le parti.

Cassazione I civile del 20-01-2006, n. 1198 Separazione, divorzio, casa familiare, assegnazione (2009-04-24)

CASSAZIONE SEZIONE PRIMA CIVILE SENTENZA 20-01-2006, n. 1198

Svolgimento del processo

1.- Con sentenza depositata il giorno 11/10/2001, il Tribunale di Rimini dichiaro’ cessati gli effetti civili del matrimonio concordatario fra i signori C.C. e P.I. e, per quanto ancora interessa, riconobbe a quest’ultima un assegno di divorzio di L. 250.000 mensili, rivalutabili, condannando l’ex coniuge anche al pagamento di un quarto delle spese di lite.

2.- Propose appello C.C. per chiedere, in riforma della sentenza impugnata, la revoca della condanna al pagamento dell’assegno di divorzio e di quella sulle spese.

La signora P., costituendosi in giudizio, chiese il rigetto dell’impugnazione proposta ex adverso e spiego’ appello incidentale per domandare l’assegnazione della casa coniugale.

3.- Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte d’Appello di Bologna, accogliendo entrambi i gravami, revoco’ la disposizione relativa all’assegno di divorzio, ma attribui’ a P.I., convivente con figlia maggiorenne, l’abitazione nella casa familiare; e compenso’ integralmente fra le parti le spese di giudizio.

4.- Per la cassazione di tale sentenza C.C. propone ricorso, con un solo motivo, illustrato da memoria, cui resiste P.I.

mediante controricorso e proponendo altresi’ ricorso incidentale, pure con un solo motivo.

Motivi della decisione 5.- Devesi disporre preliminarmente la riunione, ai sensi dell’articolo 335 c.p.c., del ricorso principale e dell’incidentale, siccome proposti contro la stessa sentenza.

6.- Con l’unico motivo del ricorso principale, C.C. censura la sentenza impugnata per violazione della L. 1 dicembre 1970, n. 898, articolo 6, comma 6, come sostituito dalla L. 6 marzo 1987, n. 74, articolo 11, nonche’ per omessa, insufficiente ed errata motivazione su un punto decisivo della controversia ed omesso esame di documenti e circostanze decisive per la soluzione della lite, con riferimento all’attribuzione della casa coniugale alla ex moglie.

6.1.- Afferma, in particolare, che non sussisterebbe alcun diritto della donna all’assegnazione della casa di proprieta’ comune di esse parti, sia perche’ tale immobile e’ diverso da quello, tolto in locazione, in cui la famiglia abito’ finche’ rimase unita sia perche’ la figlia ultraventenne convivente con la madre devesi considerare autosufficiente sotto il profilo economico, tanto da non essere destinataria di alcun assegno di mantenimento a carico del padre, come gia’ motivatamente disposto dal Tribunale con decisione coperta dal giudicato.

6.2.- Il motivo di censura suesposto e’ fondato, sotto entrambi i profili della violazione di legge e del vizio di motivazione.

6.2.1.- La sentenza impugnata, premesso che l’abitazione nella casa familiare

Cassazione Sezioni unite civili Sentenza 26 novembre 2008, n. 28170 Praticanti, esame avvocato, incompatibilità (2009-04-24)

MOTIVI DELLA DECISIONE

Dalla lettura della sentenza impugnata e del ricorso contro di essa proposto emerge in fatto che in data 16 ottobre 2006, P. Sergio ha presentato al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Bergamo domanda d’iscrizione nel Registro Speciale dei praticanti avvocati.

Considerato che il richiedente prestava servizio come carabiniere, il Consiglio dell’Ordine l’ha dapprima iscritto con riserva di verifica dell’eventuale esistenza di una causa d’incompatibilità e poi, decorso il primo semestre di pratica, l’ha cancellato in applicazione dell’art. 3 del r.d.l. n. 1578/1933.

Il P. ha impugnato la relativa delibera davanti al Consiglio Nazionale Forense deducendo, per quanto ancora interessa in questa sede, la mancata concessione di un termine a difesa non inferiore a dieci giorni, l’inestensibilità delle ipotesi d’incompatibilità di cui all’art. 3 del r.d.l. n. 1578/1933 ai praticanti non ammessi al patrocinio e, in ogni caso, l’avvenuta rimozione di qualunque occasione di sospetto mediante la richiesta di esonero dalla pratica professionale in conseguenza della partecipazione alla Scuola di specializzazione delle professioni forensi di Brescia.

Con la sentenza in epigrafe indicata, il Consiglio Nazionale Forense ha disatteso la prima doglianza sottolineando in proposito che pur non essendogli stato assegnato il termine di legge, il P. era ugualmente comparso davanti al Consiglio locale senza chiedere alcun rinvio ed, anzi, difendendosi compiutamente nel merito.

Ciò posto, il Consiglio Nazionale ha poi ricordato che in base all’art. 3 del r.d.l. n. 1578/1933, l’iscrizione all’albo era incompatibile con qualsiasi impiego pubblico e comportava dei doveri che riguardavano tutti gli avvocati e i praticanti, a proposito dei quali l’art. 1 del d.P.R. n. 101/1990 aveva puntualizzato che il tirocinio doveva essere svolto con assiduità, diligenza, lealtà e riservatezza ed implicava il compimento delle attività proprie della professione indipendentemente dall’ammissione o meno alla difesa.

Tenuto conto di quanto sopra e non dimenticato che l’obbligo di denuncia che il P. aveva come carabiniere contrastava con i doveri di segretezza e fedeltà cui era, invece, sottoposto l’avvocato, il Consiglio Nazionale ha rigettato il gravame, aggiungendo che