Cass. civ. Sez. III, Sent., 29-11-2011, n. 25213 Affitto

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Svolgimento del processo

Con sentenza 15-30 novembre 2005 (no 40 2006) la Corte d’appello di L’Aquila ha confermato la decisione del Tribunale di Teramo del 19 aprile 2001, che aveva rigettato la domanda dell’attore G. F. intesa ad ottenere la declaratoria di inadempienza dei concedenti, tutti eredi di D.D.C., al contratto di affitto di fondo rustico, stabilito per la durata di quindici anni, dal 5 marzo 1989.

Con la medesima decisione, il Tribunale dichiarava inammissibile la domanda riconvenzionale proposta in via autonoma da Q. e D. D.R., con ricorso del 19 febbraio 2000.

Il ricorrente F., nel ricorso introduttivo, aveva dedotto che D.D.C. (dante causa dei tre resistenti) gli aveva concesso in affitto un fondo rustico di sei ettari, coltivato a noccioleto, con la possibilità di raccolta dei tartufi ivi esistenti.

In forza di tale contratto egli doveva provvedere alla coltivazione del noccioleto e poteva usufruire della parte non abitativa della casa colonica e delle attrezzature agricole, ripartendosi tra concedente ed affittuario il cinquanta per cento delle spese e del raccolto delle nocciole.

Sotto il controllo del D.D. – proseguiva il ricorrente F. – egli aveva provveduto a piantare alberi tartufigeni.

Deceduto il concedente, gli eredi – subentrati nel contratto lo avevano estromesso senza preavviso dal fondo, chiudendo il recinto e le rimesse degli attrezzi.

Concludeva il ricorrente che egli aveva, invece, diritto di rimanere nel fondo per la durata di quindici anni. Conseguentemente richiedeva la reintegra nel possesso del fondo, della rimessa della casa colonica e dei macchinari e la condanna dei convenuti al risarcimento dei danni o in subordine al pagamento della indennità per i miglioramenti da recinzione del fondo.

I convenuti, costituendosi in giudizio, chiedevano il rigetto della domanda, deducendo la inadempienza contrattuale del ricorrente per non avere questi coltivato il noccioleto nè consegnato la metà della raccolta dei tartufi.

In via riconvenzionale, chiedevano la risoluzione del contratto e la condanna del F. al pagamento della somma di L. 500 milioni, corrispondente alla metà dell’incasso della vendita dei tartufi effettuata in dieci anni.

Con ricorso autonomo, gli eredi di D.D.C. chiedevano l’accertamento della esistenza di un contratto agrario atipico della durata di cinque anni, con la previsione di recesso anticipato di tre mesi, in via subordinata la declaratoria di un affitto parcellare della durata di sei anni, con scadenza al 10 novembre 2001.

Riuniti i due giudizi, il Tribunale – come già precisato – aveva rigettato la domanda del F., dichiarando inammissibili la domanda riconvenzionale dei D.D. e quella proposta in via autonoma con separato ricorso.

Queste ultime – rilevava il primo giudice – avrebbero dovuto essere proposte, a pena di decadenza, con la comparsa di risposta.

La domanda del F. era respinto con la motivazione che non si trattava di affitto di fondo rustico ma di un contratto avente ad oggetto l’utilizzo del noccioleto ai soli fini della raccolta dei tartufi, il cui ricavato doveva essere diviso a metà.

L’obbligo di coltivazione del noccioleto era il corrispettivo per il godimento della già impiantata tartufaia, senza obbligo di corresponsione del canone quale corrispettivo per il godimento del terreno. Del resto, il tartufo costituisce produzione spontanea, il che esclude la costituzione di una impresa agricola su fondo altrui.

Confermando la decisione di primo grado, i giudici di appello osservavano che il contratto atipico del 5 marzo 1989 costituiva un contratto agrario di struttura associativa avente ad oggetto lo sfruttamento agricolo del fondo concesso dai danti causa degli appellati al F. perchè questi provvedesse alla coltivazione del noccioleto dove era impiantata una tartufaia, in modo da garantire la produttività della tartufaia in termini di produzione e raccolta di tartufi stabile e costante nel tempo.

Non era possibile la riconduzione del contratto all’affitto dei fondi rustici ai sensi della L. n. 203 del 1982, art. 27 per impossibilità giuridica di determinazione dell’oggetto del contratto.

1) Infatti, nel contrasto tra le parti, era impossibile determinare e identificare le superfici di terreno oggetto del contendere, poichè il contratto non indicava i metri quadrati di superficie nè indicazione del foglio o delle particelle catastali. Tra l’altro, il terreno ricompreso nella recinzione con pali di legno e rete metallica comprendeva particelle di terreno appartenenti ad altri proprietari, che non erano parti del giudizio.

2) La mancata identificazione della esatta superficie del terreno ceduto comportava anche la impossibilità ulteriore di determinazione del canone di affitto, da stabilire secondo i criteri di cui alla L. n. 203 del 1982, art. 8 e segg., art. 14, art. 62. a) la classe catastale dei terreni risultava essere "seminativo di prima e seconda classe" e "seminativo erborato di seconda classe" con redditi dominicali appartenenti a ciascuna di queste qualità. Tali classi catastali erano completamente diverse da quelle, mai operate dagli uffici competenti, nel territorio in esame (relative ad un terreno adibito a tartufaia). b) Non esisteva, presso la agenzia del territorio di Teramo, in quanto non censita, la qualità "tartufaia" nè la qualità "noccioleto" neppure nella ultima revisione degli estimi. Del resto gli interessati (proprietario/concedente e colono/affittuario) non avevano mai presentato istanza agli uffici competenti per un nuovo classamento, con la conseguente impossibilità di determinare il canone dovuto sulla base dei redditi dominicali, relativi alla nuove qualità e classi catastali e dei coefficienti per le categorie corrispondenti a decorrere dalla domanda di revisione catastale. c) Nè poteva prendersi a base della determinazione del canone il reddito dominicale risultante dalla classe catastale del fondo, ai sensi della L. n. 203 del 1982, artt. 9 e 62 in quanto dichiarati incostituzionali dalla Corte Costituzionale, perchè quel catasto ha perso qualsiasi idoneità a rappresentare le effettive e diverse caratteristiche dei terreni agricoli (Corte Cost. 318 del 2002). d) Peraltro, non poteva trovare applicazione neppure i meccanismo di cui alla L. n. 203 del 1982, art. 14 che prevede una richiesta alla Commissione tecnica provinciale per la determinazione del canone di affitto di fondi rustici, qualora manchino – come nel caso di specie – tariffe e redditi dominicali corrispondenti a particolari qualità di colture. Infatti, nessuno degli interessati aveva presentato istanze in tal senso e una volta estinto il contratto di affitto, l’affittuario non aveva più legittimazione a fare richiesta di determinazione del canone, ai sensi dell’art. 14, in relazione ad un contratto estinto (e privo di oggetto determinato al momento della scadenza). e) Quanto ai miglioramenti, per i quali il F. aveva richiesto la liquidazione di un compenso, doveva escludersi il diritto agli stessi, in mancanza di autorizzazione scritta del concedente. La recinzione del fondo realizzata con opere stabili avrebbe avuto necessità di autorizzazione, se non addirittura di concessione edilizia, che poteva essere rilasciata solo al proprietario del fondo, unico legittimato a condonare la opera abusiva.

Avverso tale decisione il F. ha proposto ricorso per cassazione sorretto da otto motivi. Resistono gli eredi D. D. con controricorso. Nel ricorso per cassazione vi è richiesta di distrazione delle spese dell’avv. Fonzi.
Motivi della decisione

1) Con il primo motivo si denunciano vizi di motivazione. Ad avviso del ricorrente, i giudici di appello non avevano tenuto conto di alcuni elementi essenziali, giungendo ad affermare la nullità di un contratto, che avevano escluso essere di natura agraria.

Il fondo adibito a noccioleto/tartufaia era bene identificato (del resto, lo stesso aveva formato oggetto di ordine del Tribunale di Teramo, di reimmissione nel possesso del terreno, del 20 maggio 1999) ed era bene individuato da un recinto in rete metallica.

2) Il secondo motivo di ricorso denuncia violazione o falsa applicazione della L. n. 203 del 1982, artt. 27, 58, artt. 1421, 2909 c.c., artt. 99, 112, 324 e 345 c.p.c., eccezione di giudicato. Il quesito di diritto è contenuto a pagg. p. 18/19. La decisione del Tribunale che aveva ritenuto la validità ed efficacia del contratto non era stata impugnata dai D.D., con la conseguenza che sul punto doveva ritenersi formato il giudicato.

La indagine dei giudici di appello avrebbe dovuto essere circoscritta alla natura agraria del contratto e conseguente applicabilità della L. n. 203 del 1982, art. 27. 3) Con il terzo motivo si deduce vizio di motivazione e violazione o falsa applicazione della L. n. 203 del 1982, art. 27, L. 606 del 1966, art. 3, artt. 61 e 115 c.p.c., art. 2909 c.c..

Nel ricorso ex art. 700 c.p.c. il F. aveva dedotto di essere coltivatore diretto di un fondo rustico della estensione di sei ettari.

Poichè egli aveva dimostrato la qualità di coltivatore diretto, il possesso di tale qualità lo esimeva dall’onere di provare per iscritto la esistenza del contratto di affitto.

Tra l’altro, la consulente P. aveva individuato senza alcuna difficoltà la superficie di terreno utilizzata per la coltivazione del tartufo e del noccioleto.

La stessa aveva individuato una estensione di ettari 7.64,30 della tartufaia, indicando in 40 giorni per anno per ettaro la forza lavoro necessaria per le cure culturali del nocciolo e la raccolta del tubero e delle nocciole in impianti specializzati di tartufaie.

4) Il quarto motivo riguarda la falsa applicazione o violazione della L. n. 203 del 1982, art. 6, L. n. 606 del 1966, art. 3, artt. 61 e 115 c.p.c., artt. 346, 1418 e 2909 c.c., sin dalle prime difese il F. aveva dedotto di essere coltivatore diretto e tale circostanza, in mancanza di contestazioni doveva darsi per pacifica.

La qualità di coltivatore diretto esime dall’onere di provare per iscritto il contratto di affitto e può essere dedotta anche presuntivamente dalla sufficienza della capacità lavorativa dell’affittuario e della sua famiglia.

5) Con il quinto motivo si deducono vizi della motivazione e violazione o falsa applicazione della L. n. 203 del 1982, artt. 27 e 58. Viene riportato il testo del contratto e si osserva che la Corte territoriale non aveva tenuto conto di quanto rilevato dalla ctu in merito alla esatta estensione della superficie coltivata a noccioleto (indicata in ettari 7.64,30).

La circostanza che non fosse indicato il corrispettivo dell’utilizzo del fondo non era rilevante considerato che questo è comunque definito dalla norma vigente con disposizioni inderogabili ( L. n. 203 del 1982, art. 58). Non era necessario neppure la esatta determinazione di canone annuo in denaro, poichè in corrispettivo dell’utilizzo il F. si era impegnato a coltivare il noccioleto a perfetta regola d’arte.

La dichiarazione di nullità del contratto era, dunque, incompatibile con la realtà fattuale.

6) Il sesto motivo riguarda la violazione o falsa applicazione della L. n. 203 del 1982, artt. 1, 2, 27 e 58, artt. 1346, 1418 e 2909 c.c., art. 345 c.p.c..

Non può ritenersi causa di nullità del contratto di affitto la mancata indicazione di un canone annuo, qualora sia previsto – come nella specie – un corrispettivo in natura. In realtà, la decisione del Tribunale del 2001 (453), passata sul punto in giudicato, aveva stabilito che il ricavato del noccioleto doveva andare a totale godimento del proprietario – Il quesito di diritto viene formulato a pag. 31. Un contratto agrario stipulato dopo la entrata in vigore della L. del 1982 secondo uno schema contrattuale diverso dall’affitto – senza la osservanza delle forme prescritte – non può considerarsi nullo quando rientri nell’ambito delle disposizioni dell’art. 27 e ad esso devono applicarsi le norme che regolano il contratto di affitto con conseguente sostituzione di tali norme alle clausole difformi contenute nella convenzione conclusa dalle parti.

7) con il settino motivo si denunciano vizi della motivazione: il giudice di appello non si era pronunciato su tutte le istanze istruttorie rigettate dal primo giudice (prove per testi su spese a suo carico e sul suo violento spoglio, il ricorrente aveva chiesto di provare che per oltre dieci anni aveva allevato la tartufaia, rinvenuta perfettamente produttiva con le ulteriori piante aggiunte dal F., il quale aveva poi recintato tutta la zona. Tutte le spese di recinzione e coltivazione erano state sostenute dal F.) i capitoli di prova sono riportati a pag. 33. 8) L’ultimo motivo riguarda la violazione e falsa applicazione degli artt. 61, 112, 115 c.p.c., artt. 1453, 1218, 2909 c.c. sin dall’ottobre dell’annata 1997/98 (dunque 1998) i D.D. avevano allontanato dal fondo il F., cambiando le chiavi del recinto, e mettendo dei cani nel recinto, avvisando la Polizia. Dato che il contratto andava a scadenza il 5 marzo 2004, al F. competeva il risarcimento dei danni per tutti gli anni per i quali egli era astato allontanato con violenza dal posto di lavoro. Su questo punto i giudici di appello non avevano pronunciato (donde il vizio denunciato di ultrapetizione). Osserva il Collegio:

gli otto motivi, da esaminare congiuntamente in quanto connessi tra di loro, sono infondati.

Deve innanzi tutto rilevarsi la inesistenza di qualsiasi giudicato in ordine alla validità ed efficacia del contratto. La decisione del giudice di primo grado era stata di rigetto della domanda del F.. Deve escludersi, pertanto, che il rilievo officioso di nullità del contratto, operato dal giudice di appello, possa costituire vizio di ultrapetizione e violazione di giudicato interno.

Con motivazione adeguata, che sfugge a tutte le censure di violazione di legge e di vizi della motivazione, la Corte territoriale ha ritenuto che il contratto atipico stipulato tra le parti dovesse configurarsi come un contratto agrario a struttura associativa, avente ad oggetto lo sfruttamento agricolo del fondo concesso dal dante causa degli appellati al F.. La Corte ha ritenuto che il contratto atipico non era riconducibile all’affitto di fondi rustici, ai sensi della L. n. 203 del 1982, art. 27.

Vi era incertezza, innanzi tutto , sulla estensione dell’appezzamento di terreno concesso a quest’ultimo. Da ciò derivava, in concreto, la impossibilità di qualsiasi determinazione dal canone annuo.

Avverso tale statuizione, il ricorrente si limita a dedurre che la consulente tecnica di ufficio aveva bene individuato la estensione di terreno adibita alla coltivazione del noccioleto e che in ogni caso il possesso della qualifica di coltivatore diretto lo esimeva dall’onere di provare per iscritto il contratto di affitto, con la descrizione del fondo. Quanto al canone annuo, la circostanza che non fosse stato stabilito una somma di danaro non era sufficiente a giustificare la decisione di nullità del contratto, essendo sufficiente che fosse stabilita una utilità anche di altra natura.

Il F. si era impegnato alla coltivazione del noccioleto. I frutti di questi dovevano andare interamente al concedente, unitamente ad una parte dei tartufi, senza limitazioni se raccolti personalmente.

In ogni caso, osserva il ricorrente, la presenza di eventuali clausole nulle non comportava, di necessità, la dichiarazione di nullità del contratto, poichè le clausole nulle devono essere sostituite da quelle di legge.

Le censure formulate dal ricorrente non colgono nel segno.

I giudici di appello, sul punto, hanno osservato che non era possibile far riferimento al reddito catastale secondo le disposizioni di legge dichiarate incostituzionali dalla Corte Costituzionale.

Infatti, gli interessati non avevano avanzato richiesta alla Commissione tecnica provinciale, competente ai sensi della L. n. 203 del 1982, art. 14.

Tale rilievo, unitamente a quello della impossibilità di individuazione del fondo, conduceva di necessità alla nullità del contratto per impossibilità giuridica di determinazione del contratto.

Conclusivamente il ricorso deve essere rigettato. Nessuna pronuncia in ordine alle spese, non avendo gli intimati svolto difese in questa sede.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese del giudizio di cassazione.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cons. Stato Sez. III, Sent., 03-08-2011, n. 4637 Esclusioni dal concorso

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

le stesse parti ai sensi dell’art. 60 cod. proc. amm.;

La signora C. Z. ha impugnato presso il Tribunale amministrativo regionale della Campania, Sezione staccata di Salerno, il provvedimento dell’Azienda ospedaliera A. Cardarelli di Napoli di esclusione dal concorso per titoli ed esami a 7 posti di coadiutore amministrativo esperto, categoria "BS" disabili. L’esclusione del concorso è stata in un primo tempo motivata con la mancata specificazione, nella domanda di partecipazione, del titolo di studio posseduto.

Dopo la presentazione del ricorso avverso la comunicazione di esclusione l’Ospedale Cardarelli ha ritenuto di riprendere in esame il fascicolo della ricorrente ed ha ulteriormente ribadito l’esclusione, sia perché l’interessata non aveva allegato (contrariamente a quanto dalla stessa sostenuto) alcun titolo di studio, sia perché era risultata iscritta nell’elenco dei disabili disoccupati di Salerno, anziché in quello di Napoli, come richiesto dal bando, sia infine perché non aveva allegato copia del documento di riconoscimento.

Contro il secondo provvedimento di esclusione la ricorrente ha presentato motivi aggiunti.

2. Il T.A.R. della Campania, Sezione staccata di Salerno, ha dichiarato improcedibile il ricorso originario, in quanto il primo provvedimento di esclusione è stato assorbito dal secondo, non avente valore meramente confermativo. Il T.A.R. ha quindi considerato le censure avanzate nei confronti di quest’ultimo nei motivi aggiunti respingendo il ricorso per le seguenti ragioni:

– la ricorrente ha omesso di specificare nel testo della domanda il titolo di studio, visto che non può essere considerato sufficiente definirsi "diplomata" nel testo della domanda e visto che non ha dato prova dell’affermazione di averne allegata copia alla domanda, visto che la copia non viene indicata nell’elenco dei documenti allegati stilato dalla stessa ricorrente;

– non convincente appare la pretesa di una interpretazione secundum constitutionem della clausola del bando di limitazione del concorso ai disabili della sola provincia di Napoli. Tale limitazione, chiaramente indicata dal bando di concorso non si presta a interpretazioni correttive da parte dell’organo deputato alla sua applicazione;

– appare pertanto irrilevante l’accoglimento della terza censura relativa alla ritenuta non obbligatorietà di allegare copia del documento di identità.

3. L’appello, previa proposizione di istanza cautelare per la sospensione degli effetti della sentenza impugnata, ribadisce nei confronti della sentenza del T.A.R. le due censure non accolte dalla medesima, sottolineando in particolare come la sentenza abbia ignorato sia il dovere dell’ Amministrazione di richiedere il titolo di studio dichiarato nella domanda anche se questo fosse stato eventualmente mancante, sia il fatto che l’amministrazione, di fronte alla mancata precisazione del tipo di diploma nel testo della domanda, avrebbe dovuto limitarsi nel dubbio a non concedere il punteggio aggiuntivo per il diploma di scuola superiore. Inoltre si osserva che la clausola di limitazione del bando di concorso ai disabili della provincia di Napoli era oggetto di una specifica censura di illegittimità e incostituzionalità, mentre la sentenza si limita ad osservare che l’Amministrazione non poteva non applicarla. Infine l’appello rileva che il T.A.R. non avrebbe dovuto neppure prendere in considerazione il secondo provvedimento di esclusione e le ulteriori cause di esclusione dell’interessata dal concorso da esso dedotte, in quanto l’Amministrazione non poteva pronunciarsi una seconda volta sullo stesso oggetto dopo l’impugnazione del primo provvedimento.

4.. Il Collegio ha ritenuto insussistenti i presupposti per una misura cautelare e, considerata la natura della controversia, dato il preavviso alle parti, ha ritenuto di poter decidere direttamente nel merito sulla base delle argomentazioni contenute dalla sentenza del T.A.R..

5. L’appello, infatti, non può essere accolto per le seguenti ragioni:

– è determinante, al fine di motivare la esclusione dal concorso, la omessa dichiarazione nella domanda – ovvero tra gli allegati – del titolo di studio, che era obbligatoria alla stregua del bando di concorso. E’ rilevante in relazione ad uno dei motivi dell’appello che questa causa determinante sia indicata già nella prima comunicazione di esclusione del concorso. Lo stesso appello del resto riconosce di non poter dar prova della presentazione del titolo di studio in allegato alla domanda, non avendolo l’interessata indicato nell’elenco degli allegati da lei stesso predisposto. La presenza dell’inciso "diplomata" nel contesto della domanda, alla luce della precisa indicazione del bando che richiedeva la dichiarazione del titolo di studio posseduto, non può essere ritenuta sufficiente e neppure idonea a determinare un obbligo dell’Amministrazione di richiedere il completamento della domanda con la documentazione mancante;

– quanto alle censure sollevate nell’appello in ordine alla seconda ragione di esclusione accolta dalla sentenza del T.A.R. relative alla costituzionalità e illegittimità della clausola di limitazione contenuta nel bando di concorso ai disabili iscritti nella provincia di Napoli e alla mancata presa in considerazione sostanziale di tali censure, appare corretta la impostazione seguita dal T.A.R., il quale, premesso che l’autonoma validità e rilevanza della prima causa di esclusione rende inutile l’esame degli altri motivi, ritiene comunque di affermare che la pretesa ad un’interpretazione in conformità alla Costituzione di detta clausola, a prescindere dal suo fondamento, è comunque preclusa dalla chiara formulazione della disposizioni del bando di concorso che non potevano non essere applicate in sede di svolgimento. Infatti solo in questa accezione "interpretativa" la censura di illegittimità e incostituzionalità verso la clausola limitativa contenuta nel bando è ammissibile in quanto il bando stesso – indetto in data 6 novembre 2006 – non è stato autonomamente impugnato nei termini.

L’appello è pertanto respinto.

Non vi è luogo a provvedere sulle spese non essendovi stata costituzione di controparti.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza)

definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Nulla per le spese.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. I, Sent., 29-12-2011, n. 30022 Liquidazione delle spese

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. P.G., con ricorso alla Corte d’appello di Roma proponeva, ai sensi della L. n. 89 del 2001, domanda di equa riparazione per violazione dell’art. 6 della C.E.D.U. a causa della irragionevole durata del giudizio instaurato nel giugno 1998 dinanzi al Giudice del lavoro di Napoli, per ottenere il riconoscimento di interessi e rivalutazione sul sussidio di disoccupazione. Giudizio definito in primo grado nel luglio 2001 con sentenza di rigetto, avverso la quale nel settembre 2001 era stato proposto appello, definito con sentenza depositata nel giugno 2005. 2. La Corte d’appello, ritenuta una durata ragionevole di due anni e mezzo per il primo grado e di due anni per l’appello, liquidava a titolo di danno non patrimoniale per la ulteriore durata irragionevole di circa due anni e tre mesi del giudizio presupposto la somma di Euro 2.160,00 (pari a Euro 960,00 per anno di ritardo) oltre interessi legali e spese del procedimento, liquidate in Euro 492,46 oltre accessori.

3. Avverso tale decreto, depositato il 24 aprile 2008, P. G. ha proposto ricorso a questa Corte con atto notificato il 23 marzo 2009, formulando dodici motivi. Il Ministero intimato non ha svolto difese.

4. Il Collegio ha disposto farsi luogo a motivazione semplificata.

5. Con i primi cinque motivi è denunciata erronea e falsa applicazione di legge ( L. n. 89 del 2001, art. 2, art. 6, par. 1 C.E.D.U.) in relazione al rapporto tra norme nazionali e la C.E.D.U. come interpretata dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, nonchè omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, ed omessa decisione di domande ( art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5; art. 112 c.p.c.). Secondo l’istante, una volta accertata la violazione del termine ragionevole, la liquidazione dell’equo indennizzo dovrebbe effettuarsi, applicando la normativa C.E.D.U. secondo la giurisprudenza della Corte europea e disapplicando la L. n. 89 del 2001, art. 2 che con essa contrasti, in relazione non già al tempo eccedente la ragionevole durata bensì all’intera durata del processo, ed in misura non inferiore a Euro 1000,00 – 1.500,00 per anno; nella specie peraltro il decreto non avrebbe motivato in ordine alla mancata osservanza di detti parametri (motivi 1, 2, 3). Inoltre, ratione materiae doveva essere liquidato un bonus di Euro 2.000,00, concernente la controversia su diritti inerenti a rapporti di lavoro, ed il giudice non si sarebbe pronunciato sulla relativa domanda così violando l’art. 112 c.p.c. e l’obbligo di motivazione su un punto decisivo (motivi 4 e 5).

6. Con gli ulteriori sette motivi è denunciata, in relazione alla liquidazione delle spese del procedimento esposta nel provvedimento impugnato, erronea e falsa applicazione di legge ( artt. 91, 92 c.p.c., art. 6, par. 1 CEDU, normativa in tema di tariffe professionali), nonchè omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione ( art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5). Secondo l’istante, la liquidazione delle spese sarebbe illegittima perchè presumibilmente effettuata in applicazione delle tariffe per i procedimenti di volontaria giurisdizione anzichè di contenzioso ordinario, sarebbe insufficiente nonchè priva di motivazione con riguardo alla non conformità alle tariffe forensi ed agli standards europei che dovrebbero trovare nella specie applicazione. La Corte di merito avrebbe inoltre illegittimamente disatteso la nota spese depositata, omettendo peraltro di motivare al riguardo.

7. I motivi indicati nel punto 5, da esaminare congiuntamente perchè giuridicamente e logicamente connessi oltre che spesso ripetitivi, sono infondati.

7.1 Quanto al rapporto tra le norme nazionali (in particolare, la L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 3) e la CEDU, deve in primo luogo escludersi che l’eventuale contrasto tra tali normative possa essere risolto semplicemente con la "non applicazione" della norma interna.

Fermo il principio enunciato dalle S.U. (n. 1338 del 2004), in virtù del quale il giudice italiano, chiamato a dare applicazione alla L. n. 89 del 2001, deve interpretarla in modo conforme alla CEDU per come essa vive nella giurisprudenza della Corte europea, va precisato come tale dovere operi entro i limiti in cui detta interpretazione conforme sia resa possibile dal testo della stessa L. n. 89 del 2001:

qualora ciò non fosse possibile, ovvero il giudice dubitasse della compatibilità della norma interna con la disposizione convenzionale interposta, dovrebbe investire la Corte Costituzionale della relativa questione di legittimità costituzionale rispetto al parametro dell’art. 117 Cost., comma 1, (cfr. Corte Cost. sentenze nn. 348 e n. 349 del 2007). D’altra parte, la compatibilità della normativa nazionale con gli impegni internazionali assunti dalla Repubblica Italiana con la ratifica della CEDU va verificata con riguardo alla complessiva attitudine della L. n. 89 del 2001 ad assicurare l’obiettivo di un serio ristoro per la lesione del diritto ad una ragionevole durata del processo: come la stessa Corte europea ha riconosciuto, la limitazione, prevista dalla L. n. 89 del 2001, art. 2 dell’equa riparazione al solo periodo di durata irragionevole del processo, di per sè non esclude tale complessiva attitudine della legge stessa (cfr. Cass. n. 16086/2009; n. 10415/2009; n. 3716/2008).

Rettamente dunque la Corte di merito ha seguito la modalità di calcolo dell’indennizzo prevista dall’art. 2 citato.

7.2 Quanto alla liquidazione dell’indennizzo del danno non patrimoniale, posto il principio già ricordato secondo cui il giudice nazionale deve in linea di principio uniformarsi ai parametri elaborati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per i casi simili, salvo il potere di discostarsene in misura ragionevole avuto riguardo alle peculiarità della singola fattispecie, delle quali deve dar conto (Cass. S.U. n. 1340/2004), va osservato come nel caso in esame la Corte di appello non si sia sostanzialmente discostata da tali criteri, liquidando un importo (Euro 960,00 per anno) prossimo allo standard di base, indicando peraltro nella lieve entità concreta della posta in gioco le ragioni di tale valutazione. Ha dunque validamente esercitato la sua discrezionalità, esponendo congruamente criteri senz’altro ammissibili (sui quali peraltro il ricorso non espone alcuna censura specifica), la cui concreta incidenza del caso in esame costituisce peraltro oggetto di apprezzamento di merito non censurabile in sede di legittimità. 7.3 Quanto al diniego di una somma forfetaria di Euro 2.000,00 (c.d. bonus) in relazione alla circostanza che il giudizio presupposto aveva ad oggetto una controversia di lavoro, deve respingersi la tesi che tale somma ulteriore vada riconosciuta automaticamente in ogni caso di controversia di lavoro o previdenziale. La ragione di tale bonus, che la giurisprudenza europea riconosce laddove la particolare importanza di taluni giudizi induca a ritenere che il pregiudizio per la loro durata irragionevole sia stato maggiore di quello che si verifica nella generalità dei casi, postula l’accertamento e la valutazione nel caso specifico delle particolari circostanze alle quali sia da ricondurre tale eventuale maggior pregiudizio. Sì che, quando il giudice del merito non riconosce tale ulteriore indennizzo forfetario, la critica del punto della decisione non può essere affidata alla sola contraria postulazione che il bonus spetterebbe ratione materiae ed era stato richiesto – tanto meno, nella specie, che la decisione negativa non sarebbe motivata, ma deve avere specifico riguardo alle concrete allegazioni – e se del caso alle prove – addotte nel giudizio di merito. Ciò che non è dato riscontrare nel ricorso in esame.

8. Anche i motivi concernenti la liquidazione delle spese del procedimento presupposto – da esaminare congiuntamente perchè strettamente connessi, oltre che spesso ripetitivi – sono privi di fondamento. Premesso che in tema di spese processuali possono essere denunciate in sede di legittimità solo violazioni del criterio della soccombenza o del principio di inderogabilità della tariffa professionale vigente (cfr. Cass. n. 4347/1999; n. 4818/2000; n. 1485/2001), e che nei giudizi di equa riparazione la liquidazione delle spese processuali della fase davanti alla Corte d’appello deve essere effettuata in base alle tariffe professionali previste dall’ordinamento italiano, senza necessità di tener conto degli onorari liquidati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (cfr.

Cass. n. 23397/2008), si osserva che parte ricorrente: a) non ha specificamente e analiticamente indicato, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, le voci e gli importi richiesti e ad essa spettanti (cfr. Cass. n. 21325/2005; n. 9082/2006; n. 9098/2010): tale omissione non consente al giudice di legittimità il controllo – senza bisogno di svolgere ulteriori indagini in fatto e di procedere alla diretta consultazione degli atti – degli error in iudicando solo astrattamente enunciati nella illustrazione dei motivi di ricorso e nella altrettanto astratta formulazione dei quesiti di diritto;

b) non ha dimostrato la presunta applicazione nel provvedimento impugnato delle tariffe professionali vigenti riguardanti i procedimenti di volontaria giurisdizione. Neppure tali motivi possono quindi trovare accoglimento.

4. Il rigetto del ricorso si impone dunque, senza provvedere sulle spese in assenza di attività difensiva dell’intimato.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Campania Napoli Sez. VIII, Sent., 11-10-2011, n. 4647 Pensioni, stipendi e salari

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Col ricorso in epigrafe, D.T.D.C.G., dicente di scuola materna con incarichi di supplenza temporanea, richiedeva il risarcimento del danno cagionatole dall’asserito ritardo colposo dell’INPS nell’erogazione dell’indennità di disoccupazione non agricola, dovutale per l’anno 2009.

2. A supporto dell’azione proposta, rassegnava le seguenti doglianze: violazione dei principi del giusto procedimento; violazione dell’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea; violazione dell’art. 97 Cost.; violazione degli artt. 1 e 2 della l. n. 241/1990.

3. Costituitosi l’ente previdenziale intimato, eccepiva il difetto di giurisdizione, l’inammissibilità e l’infondatezza della domanda proposta ex adverso, della quale richiedeva, quindi, il rigetto.

4. All’udienza pubblica del 13 luglio 2011, la causa veniva trattenuta in decisione.

5. In rito, il Collegio rileva la sussistenza dell’eccepito difetto di giurisdizione dell’adito Tribunale amministrativo regionale.

In materia di indennità di disoccupazione, è, infatti, configurabile, in capo agli interessati, un diritto soggettivo all’attribuzione previdenziale, la cui cognizione – anche tenuto conto dell’attinenza ai rapporti di lavoro di cui all’art. 63, comma 1, del d.lgs. n. 165/2001 – è devoluta al giudice ordinario, residuando, invece, posizioni di interesse legittimo, tutelabili dinanzi al giudice amministrativo, unicamente in riferimento agli atti regolamentari o generali presupposti (espressione di un potere discrezionale e autoritativo), che esulano del tutto dal thema decidendum definito col ricorso in epigrafe (cfr. TAR Lazio, Roma, sez. III, 26 febbraio 2010, n. 3102).

Ed è appena il caso di soggiungere che una controversia deve intendersi devoluta al giudice ordinario, anche allorquando essa investa un procedimento connesso alla gestione del rapporto previdenziale (nella specie, il procedimento di erogazione dell’indennità di disoccupazione) (cfr. TAR Emilia Romagna, Bologna, sez. I, 19 dicembre 2008, n. 4675; sez. II, 1° febbraio 2010, n. 536; TAR Puglia, Lecce, sez. I, 6 novembre 2009, n. 2583; TAR Abruzzo, Pescara, sez. I, 28 maggio 2010, n. 598; TAR Toscana, Firenze, sez. I, 14 febbraio 2011, n. 313). Ciò, in quanto trattasi di procedimento avulso da quei poteri autoritativi che, alla luce dell’insegnamento di Corte cost. 6 luglio 2004, n. 204 e 11 maggio 2006, n. 191, devono, in ogni caso, connotare (anche) la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, prevista dall’art. 133, comma 1, lett. a, n. 1, cod. proc. amm. in materia di "risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento amministrativo".

6. In conclusione, posto che, nel caso in esame, la D.T.D.C. si duole della ritardata erogazione dell’indennità di disoccupazione spettantele, in relazione alla quale è esperibile il rimedio risarcitorio previsto dall’art. 1223 cod. civ. in ipotesi di mora debendi, è palese che deve dichiararsi, con riferimento alla controversia dedotta col ricorso in epigrafe, il difetto di giurisdizione dell’adito Tribunale amministrativo regionale e, ai sensi dell’art. 11 cod. proc. amm., va individuata nel giudice ordinario l’autorità munita di giurisdizione, dinanzi alla quale il processo dovrà essere riassunto.

7. Quanto alle spese relative alla presente fase processuale, esse devono seguire la soccombenza e, quindi, essere poste a carico della parte ricorrente.

Dette spese vanno liquidate in complessivi Euro 1.000,00 in favore dell’INPS.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania (Sezione Ottava), definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe, dichiara il proprio difetto di giurisdizione e indica nel giudice ordinario l’autorità munita di giurisdizione, dinanzi alla quale la causa andrà riassunta.

Condanna D.T.D.C.G. al pagamento delle spese relative alla presente fase processuale, che si liquidano in complessivi Euro 1.000,00 in favore dell’INPS.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Napoli nella camera di consiglio del giorno 13 luglio 2011 con l’intervento dei magistrati:

Antonino Savo Amodio, Presidente

Alessandro Pagano, Consigliere

Olindo Di Popolo, Referendario, Estensore

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.