Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 20-01-2011) 10-05-2011, n. 18042 Violenza sessuale

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Svolgimento del processo

Con sentenza del Tribunale di Catania del 24 Gennaio 2002 il Sig. S. è stato condannato alla pena di due anni di reclusione per violazione degli artt. 609-bis e 609-ter c.p., riconosciuta l’ipotesi di minore gravità prevista dall’ultima parte dell’art. 609- bis c.p., commessi in danno della figlia non ancora tredicenne della propria convivente nel periodo dal (OMISSIS).

La Corte di Appello di Catania con la sentenza oggetto del presente giudizio ha respinto tutti i motivi di impugnazione, in sintesi affermando: a) che le dichiarazioni della persona offesa sono attendibili, coerenti e reiterate; b) che esse hanno trovato conferma in riscontri esterni; c) che deve valorizzarsi la circostanza che l’indagine abbia preso avvio da confidenze, casualmente percepite da una persona adulta, che la persona offesa ha fatto ad un’amica coetanea; d) che non si ravvisa in atti alcun elemento che faccia pensare alla volontà della persona offesa di punire l’imputato; e) che il disinteresse personale della persona offesa è dimostrato anche dalla mancata costituzione quale parte civile.

Avverso tale decisione il Sig. S. propone tre motivi di impugnazione, che possono sintetizzarsi come segue:

1. Con primo e molto articolato motivo lamenta violazione di legge in relazione all’art. 192 c.p.p., evidenziando, in particolare, plurimi profili di vizio motivazionale:

a. l’esistenza di motivi di rancore della persona offesa contro l’imputato;

b. la dimostrazione di questo rinvenibile in un violento litigio tra i due;

c. l’esistenza di motivi di rancore del padre della persona offesa contro l’amante della ex moglie;

d. la contraddittorietà esistente tra le iniziali accuse di penetrazione e la diversa versione successiva fornita dopo la visita ginecologica;

e. la non credibilità dei tempi e dei luoghi in cui sarebbero avvenuti gli incontri;

f. la incredibilità del racconto della minore, cui la stessa madre non ha dato fede.

2. Con secondo motivo lamenta l’avvenuta prescrizione dei reati, dovendo i fatti essere collocati nel corso del 1994 e non del 1996, circostanza su cui la Corte di Appello ha omesso ogni motivazione.

3. Con terzo motivo lamenta violazione di legge per eccessività della pena e omessa sospensione condizionale della stessa.
Motivi della decisione

La Corte ritiene che il ricorso sia parzialmente fondato e che la sentenza impugnata debba essere annullata.

Premesso che il giudizio di legittimità non può costituire un terzo grado di valutazione del materiale probatorio, e che il controllo demandato al giudice di legittimità deve concentrasi sulla tenuta logica e sulla corretta applicazione della legge da parte della motivazione della decisione impugnata, la Corte ricorda come la giurisprudenza abbia costantemente affermato il principio che in presenza di fattispecie complesse e di vicende fondate esclusivamente sul racconto di persona offesa minore di età, il giudicante debba fornire una motivazione che affronti in modo particolarmente attento tutti gli aspetti di criticità emergenti dal dato probatorio.

Deve, allora, rilevarsi che la sintetica motivazione della sentenza di appello non appare rispondere ad alcune delle questioni centrali che l’appellante aveva opposto al giudizio di responsabilità formulato dal primo giudice.

Se è corretto sul piano logico sottolineare la rilevanza delle modalità con cui la narrazione della minore prese corpo, appare errato sul piano normativo e logico considerare come "riscontro" esterno al racconto della minore la circostanza che una persona adulta captò occasionalmente le confidente che venivano fatte ad una coetanea, oppure la condotta del padre successiva all’apprensione dei fatti. La prima circostanza, infatti, costituisce già elemento di fatto già apprezzato all’interno della genesi delle indagini e non rappresenta niente di più che la conferma che la minore ha raccontato alcuni fatti, non certo un "riscontro" alla veridicità di quegli stessi fatti. Quanto, poi, al disinteresse mostrato dal padre, tutto concentrato sulla relazione con una donna con cui voleva passare la notte, si è in presenza di dato logicamente neutro e, caso mai, indicativo di un contesto familiare e culturale che non conforta affatto il successivo passaggio motivazionale (parte conclusiva di pag. 3) secondo cui solo le condotte del ricorrente possono giustificare le conoscenze anatomiche rivelate dalla minore.

Ritiene la Corte che vada, poi, rilevato come la sentenza di appello abbia del tutto omesso di affrontare il tema delicatissimo, prospettato con il quinto motivo di appello in modo puntuale, dello sviluppo della narrazione della persona offesa nel tempo e della non coincidenza tra le iniziali dichiarazioni circa la natura e l’intensità degli atti sessuali e quelle riferite successivamente ai primi atti d’indagine e alla ricerca di riscontri obiettivi. Si tratta, a parere della Corte di una carenza argomentativa che incide in modo essenziale sulla tenuta dell’intera motivazione. Altrettanto rilevante deve considerarsi la carenza di motivazione circa la rilevanza degli appunti manoscritti della giovane, che con quarto motivo di appello la Difesa aveva definito incompatibili con il racconto accusatorio e con l’esistenza di traumi da violenza sessuale protratta negli anni. Analoghe censure merita la mancata risposta al sesto motivo di appello, secondo il quale dagli atti emergerebbe la non esistenza dei luoghi (case abbandonate) ove la giovane colloca un numero rilevante di condotte illecite.

Infine, non può la Corte omettere di evidenziare che la sentenza di primo grado aveva collocato nel (OMISSIS) i "toccamenti notturni" posti in essere dal ricorrente, così anticipando di due anni circa la collocazione temporale di alcune delle condotte contestate, invece, come protrattesi fino al mese di (OMISSIS). Tale circostanza, certamente rilevante ai fini della prescrizione dei reati, non trova alcun riscontro nella sentenza di appello ed è oggetto di specifico motivo di ricorso.

Sulla base delle argomentazioni qui esposte la Corte ritiene che la sentenza impugnata debba essere annullata, ai sensi dell’art. 623 c.p.p., con rinvio ad altra Sezione della Corte di Appello di Catania, che procederà a nuovo giudizio in considerazione dei principi affermati con al presente decisione.
P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra Sezione della Corte di Appello di Catania per nuovo esame.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. I, Sent., 30-09-2011, n. 20058 Opposizione

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Svolgimento del processo

A seguito di istanza della CALFIN s.r.l., fondata sulla sentenza n. 638/1997 del Tribunale di Roma, che aveva condannato il Comune di Roma al risarcimento del danno provocato con l’occupazione appropriativa di un terreno della Immobiliare Cometa s.r.l.

(cessionaria del credito a Bolton Industries LTD che, a sua volta, l’aveva ceduto alla CALFIN s.r.l.), il Presidente del Tribunale di Roma aveva emesso, in data 23 dicembre 2003, decreto ingiuntivo nei confronti del Comune di Roma per il pagamento della somma di Euro 29.739.266,73.

Il Comune ha proposto opposizione al decreto rilevando che, rispetto allo stesso credito, erano state notificate altre cessioni e che la sentenza n. 638/1997 era stata impugnata e la Corte di appello ne aveva disposto la parziale sospensione dell’esecutività a seguito della proposizione del ricorso per cassazione.

La CALFIN si è costituita e ha eccepito l’improcedibilità dell’opposizione per mancata costituzione nel termine di 5 giorni dalla notifica dell’atto introduttivo ( art. 165 c.p.c. e art. 645 c.p.c., comma 2) e ha rilevato che era stata apposta la clausola di esecutività in calce all’originale del decreto. Nel merito ha eccepito la infondatezza dell’opposizione.

E’ intervenuta in causa Immobiliare Cometa deducendo la nullità o inefficacia della cessione del credito alla CALFIN e ha chiesto di essere autorizzata a chiamare in causa Bolton Industries Ltd.

Il Tribunale di Roma ha pronunciato, ai sensi dell’art. 281 sexies c.p.c., l’inammissibilità dell’opposizione per tardiva costituzione, rispetto al termine ridotto, previsto dall’art. 645 c.p.c., comma 2, artt. 163 bis e 165 cod. proc. civ., equiparabile alla mancata costituzione ai fini dell’applicazione dell’art. 647 cod. proc. civ., mentre ha dichiarato l’inammissibilità dell’intervento in giudizio della Cometa Imm.re. perchè non riconducibile all’art. 105 c.p.c. e per la tardività della richiesta di autorizzazione alla chiamata in causa.

Ha proposto appello il Comune di Roma rilevando che erroneamente era stata ritenuta la tardività della costituzione in giudizio e che comunque doveva considerarsi illegittimo il rigetto delle istanze di rimessione in termini ex artt. 294 e 184 bis c.p.c. nonchè il rigetto dell’eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 647 c.p.c. nella parte in cui non consente la prosecuzione del giudizio se la tardiva costituzione è dipesa da caso fortuito o forza maggiore.

Si è costituita CALFIN. All’udienza di precisazione delle conclusioni il Comune ha eccepito la caducazione della sentenza su cui era stata basata la richiesta di decreto ingiuntivo per effetto della pronuncia della Cassazione n. 11322/05 e ha chiesto la condanna di CALFIN alla restituzione delle somme ricevute dal Comune.

La Corte di appello, ai sensi dell’art. 336 c.p.c., comma 2, ha dichiarato automaticamente caducato il decreto ingiuntivo con conseguente cessazione della materia del contendere in ordine al giudizio di opposizione e ha condannato CALFIN alla restituzione:

della somma di Euro 29.881.699,42 con interessi legali dal 20 aprile 2004.

Ricorre per cassazione CALFIN s.r.l. deducendo due motivi di impugnazione.

Si difende con controricorso e propone ricorso incidentale condizionato il Comune di Roma. Il Comune deposita memoria ex art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione

Con il primo motivo di ricorso si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c. ( art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4) nonchè violazione e falsa applicazione dell’art. 647 c.p.c. ( art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4). La ricorrente chiede alla Corte se siano domande nuove, ai sensi dell’art. 345 c.p.c., e quindi precluse nel giudizio di appello, le domande di caducazione del decreto ingiuntivo e di condanna alla restituzione delle somme pagate in esecuzione di tale provvedimento, proposte dall’opponente-appellante soltanto in sede di gravame.

Il motivo è infondato. La richiesta di rilievo del giudicato sul titolo che ha giustificato l’emissione del decreto ingiuntivo non può costituire una domanda e tanto meno una domanda nuova tanto è vero che il giudice del merito ben poteva rilevare d’ufficio la formazione del giudicato.

Con il secondo motivo di ricorso si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 647 c.p.c. ( art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4). La ricorrente chiede alla Corte se, ai sensi dell’art. 647 c.p.c. siano proponibili in grado di appello dall’opponente a decreto ingiuntivo, il quale si sia tardivamente costituito nel giudizio di opposizione, domande di accertamento della caducazione del provvedimento monitorio e di restituzione delle somme pagate in esecuzione del predetto provvedimento.

Il motivo è infondato per le stesse ragioni che sottendono al rigetto del primo motivo di ricorso. Il venir meno del titolo giustificativo dell’emissione del decreto ingiuntivo rendeva inesistente lo stesso oggetto della controversia e non poteva non essere rilevato pregiudizialmente anche rispetto all’esame della tempestività dell’appello.

Con il terzo motivo di ricorso si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 111, 39, 645, 647, 653 c.p.c. e dell’art. 336 c.p.c., comma 2, ( art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4). La ricorrente chiede alla Corte se il decreto ingiuntivo, emesso nella pendenza di un altro giudizio ordinario sul medesimo diritto di credito, acquisti efficacia di cosa giudicata qualora l’opposizione (nella quale si sarebbe dovuta far valere l’eccezione di litispendenza) sia improcedibile; e se, in tale ipotesi, sia erronea la sentenza che faccia dipendere la caducazione del decreto ingiuntivo dall’esito del giudizio ordinario.

Con il quarto motivo di ricorso si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 633, 641, 647, 653 c.p.c., art. 336 c.p.c., comma 2, ( art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4). La ricorrente chiede alla Corte se, allegata una sentenza a fondamento del ricorso per decreto ingiuntivo, essa sia da considerare quale semplice prova scritta del credito; e dunque, se riformata o annullata la predetta sentenza, sia preclusa al giudice di appello, nell’ipotesi di improcedibilità dell’opposizione a decreto ingiuntivo, di valutare il sopravvenuto difetto di prova.

Le ragioni che hanno portato a ritenere infondati i primi due motivi di ricorso fanno ritenere altresì infondati il terzo e il quarto motivo di ricorso e portano a escludere che possa formarsi un giudicato indipendente e astratto rispetto alla decisione giudiziale che ha giustificato l’emanazione del decreto ingiuntivo. Il decreto anche se inoppugnabile per mancata impugnazione non avrà mai una vita autonoma dal giudizio presupposto diretto all’accertamento dello stesso credito.

Con il quinto motivo di ricorso si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 336 cod. proc. civ. ( art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4). La ricorrente chiede alla Corte se la riforma o l’annullamento della sentenza resa tra altre parti espanda la propria efficacia sul decreto ingiuntivo emesso in favore di una parte diversa; e se il decreto ingiuntivo possa considerarsi, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 2, quale provvedimento dipendente dalla sentenza riformata o annullata resa inter alios che sia stata allegata come prova del credito nel giudizio monitorio.

Al quesito va data risposta affermativa e cioè del tutto opposta a quella perorata dalla società ricorrente in quanto tale società quale cessionaria del credito non può considerarsi un soggetto terzo rispetto al rapporto di credito che ha costituito l’oggetto del giudizio presupposto.

Con il sesto motivo di ricorso si deduce violazione del principio di corrispondenza fra chiesto e pronunciato nonchè dell’art. 653 c.p.c. e dei principi che regolano il giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo ( art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4). La ricorrente chiede alla Corte se, annullata la sentenza posta a fondamento del ricorso per decreto ingiuntivo e instando il creditore appellato per la decisione sul merito della domanda introdotta con il ricorso per ingiunzione, possa il giudice d’appello limitarsi a dichiarare la cessazione della materia del contendere.

Il quesito è fuorviante e rende inammissibile il ricorso. La Corte di appello non si è limitata ad accertare la cessazione della materia del contendere ma ha dato atto della avvenuta caducazione del decreto ingiuntivo ovverosia del venir meno dell’oggetto del giudizio di opposizione.

Con il ricorso incidentale condizionato si chiede alla Corte, in caso di denegato accoglimento del ricorso avversario, di esaminare direttamente i motivi di appello proposti dal Comune ovvero disporre che gli stessi siano esaminati in sede di eventuale rinvio del processo al giudice del merito. In particolare con il primo motivo di ricorso incidentale condizionato si deduce violazione dell’art. 645, comma 2, per l’erronea e illegittima estensione della riduzione a metà dei termini di comparizione, previsti dall’art. 645 c.p.c., comma 2, al termine di costituzione in giudizio. Il ricorrente incidentale chiede alla Corte di decidere se l’interpretazione sistematica degli artt. 645, 165, 166 e 163 bis c.p.c. debba intendersi nel senso che la riduzione a metà dei termini di comparizione prevista dall’art. 645 c.p.c., comma 2, comporta l’automatica riduzione a metà dei termini di costituzione in giudizio, ovvero se la disposizione di cui all’art. 645 c.p.c., debba intendersi nel senso che la riduzione dei termini abbia ad oggetto la comparizione dell’opposto e non la costituzione dell’opponente.

Con il secondo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione dei principi di cui all’art. 294 c.p.c. e/o 184 bis c.p.c. e dei principi in tema di rimessione dei termini della parte decaduta da un diritto per causa alla stessa non imputabile nonchè la violazione degli artt. 3 e 24 Cost.. Il ricorrente incidentale chiede alla Corte di decidere se, in virtù dei principi di diritto desumibili dagli artt. 294 e 184 bis c.p.c., l’opponente che si è costituito in giudizio oltre il termine di legge nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo ha diritto di chiedere la rimessione in termini allegando l’esistenza di un impedimento non imputabile con richiesta di prova sul punto. In via subordinata richiede se la questione di legittimità costituzionale dell’art. 647 c.p.c., commi 1 e 2, in riferimento all’art. 24 Cost., nella parte in cui non consente che il giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo possa proseguire qualora la mancata tempestiva costituzione dell’opponente sia dipesa da caso fortuito, o forza maggiore, sia o meno manifestamente infondata e debba essere rimessa al giudizio della Corte costituzionale.

Con il terzo motivo di ricorso incidentale si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 645, 647 c.p.c. e violazione dei principi di diritto secondo cui l’atto di opposizione a decreto ingiuntivo può produrre gli effetti di un ordinario atto di citazione anche in caso di improcedibilità dell’opposizione. Il ricorrente incidentale chiede alla Corte, tenuto conto delle domande proposte nelle fasi di merito dal Comune di Roma, di decidere se le stesse erano o meno ammissibili e da esaminare a prescindere dalla denegata ipotesi di inammissibilità dell’opposizione in quanto non precluse dalla dichiarata inoppugnabilità del decreto ingiuntivo e se l’omesso esame ha determinato la violazione dell’art. 112 c.p.c. cosicchè le stesse domande debbano essere esaminate in sede di rinvio.

Il rigetto dei sei motivi del ricorso principale comporta l’assorbimento del ricorso incidentale condizionato.

Sussistono giusti motivi con riferimento alla peculiarità della controversia per compensare interamente le spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso principale e compensa interamente le spese del giudizio di cassazione.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 15-04-2011) 09-06-2011, n. 23347

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Svolgimento del processo

Il Tribunale del Riesame di Perugia, con provvedimento del 5.10.2010, dichiarava l’inefficacia dell’ordinanza emessa dal G.I.P. del Tribunale di Perugia in data 13.09.2010 con la quale veniva applicata la misura cautelare della custodia in carcere nei confronti di F. C. per omessa trasmissione al predetto Tribunale dei decreti autorizzativi delle intercettazioni telefoniche; ordinava, per l’effetto, l’immediata scarcerazione di F.C. se non detenuta per altra causa diversa dal presente procedimento.

Avverso la sopra indicata ordinanza presentava ricorso per Cassazione il Procuratore della repubblica presso il Tribunale di Perugia che concludeva chiedendone l’annullamento con rinvio allo stesso Tribunale del riesame in diversa composizione.

Il difensore di F.C. presentava tempestiva memoria difensiva in cui sosteneva che la perdita di efficacia della misura conseguiva automaticamente alla mancata trasmissione dei decreti per impossibilità da parte del Tribunale di valutare la ritualità dei decreti autorizzativi e dunque l’utilizzabilità delle intercettazioni. Sosteneva che comunque una sola telefonata era riferibile alla F. e che l’ordinanza del G.i.p. era motivata in maniera apodittica.

Concludeva pertanto chiedendo il rigetto del ricorso.
Motivi della decisione

Il Procuratore della Repubblica ricorrente censurava l’ordinanza del Tribunale del Riesame di Roma per il seguente motivo:

inosservanza delle norme processuali ( art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c))in relazione agli artt. 267, 268, 271 e 309 cod. proc. pen..

Secondo il Procuratore della Repubblica ricorrente erroneamente il Tribunale del Riesame di Perugia aveva ritenuto che la mancata trasmissione dei decreti autorizzativi delle intercettazioni telefoniche comportasse la perdita di efficacia della misura cautelare, mentre invece tale mancata trasmissione poteva comportare al più l’inutilizzabilità degli esiti delle intercettazioni, qualora i decreti stessi fossero stati adottati fuori dei casi consentiti dalla legge o in violazione delle disposizioni previste dall’art. 267 c.p.p. e art. 268 c.p.p., commi 1 e 3.

Tanto premesso si osserva che la giurisprudenza di questa Corte è concorde nel ritenere che: "la mancata trasmissione al Tribunale del riesame dei decreti autorizzativi delle intercettazioni telefoniche non inviati in precedenza neanche al G.i.p., non comporta la perdita di efficacia della misura ma, se del caso, solo l’inutilizzabilità degli esiti delle intercettazioni, qualora i decreti stessi siano stati adottati fuori dei casi consentiti dalla legge o in violazione delle disposizioni previste dall’art. 267 c.p.p. e art. 268 c.p.p., commi 1 e 3" (cfr., tra le altre, Cass., Sez. 1, Sent. n. 7350 del 28.01.2008, Rv. 239139; Cass., Sez. 3, Sent. n. 42371 del 12.10.2007, Rv. 238059; Cass., Sez. 4, Sent. n. 34925 del 17.06.2003, Rv.

226383).

Il Tribunale del riesame pertanto non avrebbe potuto dichiarare l’inefficacia dell’ordinanza con cui il G.i.p. aveva applicato la misura della custodia in carcere, ma avrebbe dovuto accertare se, a prescindere dalle intercettazioni telefoniche, vi fossero indizi gravi, precisi e concordanti che giustificassero il permanere della misura cautelare. In caso negativo, qualora cioè il Tribunale del riesame ritenesse che,sulla base degli atti inviatigli, mancasse il requisito della gravità indiziaria, potrebbe revocare o annullare l’ordinanza applicativa della misura cautelare, ma non già dichiararne l’inefficacia, in quanto il provvedimento in questione non sarebbe confacente alla fattispecie di cui è causa.

Il provvedimento impugnato deve essere quindi annullato con rinvio al Tribunale di Perugia.
P.Q.M.

Annulla il provvedimento impugnato con rinvio al Tribunale di Perugia.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 26-05-2011) 23-06-2011, n. 25249

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Svolgimento del processo

1. Il 27 ottobre 2009 il gup del Tribunale per i minorenni di Milano, all’esito di giudizio abbreviato, dichiarava M. alias W.M. alias M.F.M.M.M. colpevole dei delitti, in forma concorsuale, di tentato omicidio (capo a), rissa (capo b) e della contravvenzione di porto abusivo aggravato in luogo pubblico di un coltello (capo c) e, ritenuta la continuazione fra i reati, applicata la diminuente della minore età e del rito abbreviato, previa concessione delle circostanze attenuanti generiche, lo condannava alla pena di sette anni di reclusione, oltre alla pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici. Applicava, inoltre, la misura di sicurezza del riformatorio, da eseguire nelle forme del collocamento in comunità per la durata di due anni e sei mesi.

2. Il 23 settembre 2010 la Corte d’appello di Milano, sezione per i minori, in parziale riforma della decisione della decisione di primo grado, appellata dall’imputato, assolveva M. alias W. M. alias M.F.M.M.M. dal delitto di tentato omicidio per non avere commesso il fatto e, per l’effetto, rideterminava la pena per i restanti reati in dieci mesi di reclusione. Confermava, nel resto, la sentenza di primo grado.

3. Da entrambe le sentenze emergeva la seguente ricostruzione dei fatti. Il (OMISSIS), intorno alle ore 23,30, nel cortile interno di uno stabile posto in (OMISSIS), scoppiava una rissa per questioni legate al mercato della droga al dettaglio, cui partecipavano due gruppi contrapposti di cittadini egiziani. Ad una delle due fazioni appartenevano il ricorrente, il maggiorenne A. S. e un altro individuo, mentre del gruppo avverso facevano parte M.K., H.W. e A.E.R.. Quest’ultimo, nel corso della rissa, veniva attinto da quattro colpi di coltello che lo attingevano alle pleure e al cuore, provocandone il decesso quasi immediato.

3. Il gup riteneva provata la responsabilità dell’imputato in ordine a tutti i reati a lui contestati sulla base delle testimonianze rese dalle persone presenti all’accaduto, S.M., M.K., A.B.A., S.H.. Le stesse riferivano concordemente in merito alla disponibilità di un coltello da parte del minore che, con esso, sferrava colpi nel tentativo di colpire chi si avvicinasse a lui, pronunziando al contempo frasi minacciose, nonchè in ordine all’aggressione della vittima ad opera del solo maggiorenne A.S. che, nel corso della rissa, aveva preso il coltello in possesso dell’odierno ricorrente. Ad avviso del giudice di primo grado le testimonianze acquisite erano confermate dalle parziali ammissioni dell’imputato, dal contenuto del referto medico a lui rilasciato sotto falso nome dai sanitari del nosocomio dove si era fatto curare, attestante lesioni del tutto compatibili con la partecipazione ad una rissa, dal sequestro nel luogo del fatto di un coltello da cucina con lama lunga circa dodici centimetri, di un bastone di legno e di pezzi di pegno, tutti macchiati di sangue. Dal complesso di questi elementi il gup argomentava che l’imputato aveva partecipato armato ad una rissa e aveva estratto il coltello durante le fasi iniziali della stessa. Le caratteristiche dell’arma, le modalità di utilizzo da parte del minore che l’aveva estratta di propria iniziativa nel contesto della rissa, nella quale nessuno impugnava armi proprie, la complessiva condotta dell’imputato che aveva brandito l’arma all’indirizzo degli antagonisti, profferendo la frase "se qualcuno mi tocca l’ammazzo", il passaggio consenziente dell’arma dal minore alle mani del maggiorenne corrissante, la pregressa conoscenza del maggiorenne del minorenne quale soggetto "aggressivo" ed "incapace di parlare con gli altri", costituivano altrettanti elementi che, ad avviso del gup, imponevano di ritenere che il minore, pur in mancanza di un pregresso accordo e di una prova certa circa un’effettiva deliberazione omicidiaria, erano univocamente indicativi della consapevolezza, da parte del ricorrente, dell’uso lesivo che A.S. ne sarebbe stato capace di fare per risolvere le sorti della rissa in proprio favore. Egli, dunque, aveva accettato il rischio, valutato certamente come altamente probabile, che il maggiorenne potesse utilizzare l’arma e con essa cagionare la morte degli antagonisti.

4. La Corte d’appello di Milano assolveva l’imputato dal delitto di tentato omicidio sulla base delle dichiarazioni rese in sede di incidente probatorio – svoltosi il 13 novembre 2008 nell’ambito del processo a carico dei coimputati maggiorenni – da S.H. e H.W.. Entrambi riferivano che il maggiorenne, nel corso della rissa, aveva "tirato via" il coltello dalle mani del minorenne e aveva colpito a morte la vittima. Mancava, quindi, la prova di una qualsiasi forma di contributo materiale o morale del minorenne alla consumazione dell’omicidio.

5. Avverso la sentenza d’appello ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore generale presso la Corte d’appello di Milano, che lamenta erronea applicazione della legge penale e illogicità della motivazione. Osserva in proposito che il giudice di secondo grado è pervenuto all’assoluzione dal delitto di tentato omicidio valorizzando esclusivamente le dichiarazioni acquisite nell’ambito dell’incidente probatorio e omettendo di valutare le stesse nell’intero contesto dell’azione che è stata esaminata in maniera frazionata e incompleta. In realtà il minorenne, portando con sè l’arma, correndo con essa contro gli avversari ed estraendola al loro cospetto, non opponendosi al suo passaggio di mano, dette un fondamentale contributo alla consumazione dell’omicidio, posto che dette ausilio e soccorso al correo maggiorenne nel momento in cui questi si slanciò contro la vittima che ostacolava i due che intendevano spacciare in quel posto.

Motivi della decisione

Il ricorso è manifestamente infondato.

1. Il giudice d’appello che riformi la decisione di primo grado ha l’onere di esaminare tutti gli elementi acquisiti, di valutare la loro valenza probatoria e di spiegare le ragioni sottese ad un diverso epilogo decisionale. In presenza, quindi, di due decisioni di merito difformi, ai fini della rilevabilità del vizio di motivazione in ordine ad una (o più) prova omessa decisiva la Corte di cassazione può e deve fare riferimento, come tertium comparationis per lo scrutinio di fedeltà al processo del testo del provvedimento impugnato, non solo alla sentenza d’appello, ma anche a quella di primo grado allo scopo di stabilire se l’iter logico argomentativo seguito dal giudice dell’impugnazione sia stato fondato sulla disamina di tutte le prove acquisite oppure abbia pretermesso altre, decisive informazioni.

La mancata risposta dei giudici d’appello circa la portata di decisive risultanze probatorie acquisite al processo inficia la completezza e la coerenza logica della sentenza a causa della negativa verifica di corrispondenza tra il materiale probatorio esistente e il contenuto della pronuncia e la rende suscettibile di annullamento. Ne consegue che la Corte di cassazione, senza necessità di accedere agli atti d’istruzione probatoria, prendendo in esame il testo della sentenza impugnata e confrontandola con quella di primo grado è chiamata a saggiarne la tenuta, sia "informativa" che "logico-argomentativa" (Cass., Sez. Un. 30 ottobre 2003, n. 45276, rv. 226093). Una verifica del genere è compatibile con le funzioni della Corte di cassazione, in quanto essa non richiede la individuazione del risultato probatorio, ma comporta unicamente un confronto tra la richiesta di valutazione di una prova e il provvedimento impugnato.

2. Nella giurisprudenza di questa Corte è stato chiarito che il procedimento logico di valutazione degli indizi si articola in due distinti momenti. Il primo è diretto ad accertare il maggiore o minore livello di gravità e di precisione degli indizi, ciascuno considerato isolatamente, tenendo presente che tale livello è direttamente proporzionale alla forza di necessità logica con la quale gli elementi indizianti conducono al fatto da dimostrare ed è inversamente proporzionale alla molteplicità di accadimenti che se ne possono desumere secondo le regole di esperienza. Il secondo momento del giudizio indiziario è costituito dall’esame globale e unitario tendente a dissolverne la relativa ambiguità, posto che "nella valutazione complessiva ciascun indizio (notoriamente) si somma e, di più, si integra con gli altri, talchè il limite della valenza di ognuno risulta superato sicchè l’incidenza positiva probatoria viene esaltata nella composizione unitaria, e l’insieme può assumere il pregnante e univoco significato dimostrativo, per il quale può affermarsi conseguita la prova logica del fatto… che – giova ricordare – non costituisce uno strumento meno qualificato rispetto alla prova diretta (o storica) quando sia conseguita con la rigorosità metolodogica che giustifica e sostanzia il principio del c.d. libero convincimento del giudice" (Cass., Sez. Un. 4 febbraio 1992, n. 6682, rv. 191231).

Le linee dei paradigmi valutativi della prova indiziaria sono state recentemente ribadite dalle Sezioni Unite che hanno evidenziato che il metodo di lettura unitaria e complessiva dell’intero compendio probatorio non si esaurisce in una mera sommatoria degli indizi e non può, perciò, prescindere dalla operazione propedeutica che consiste nel valutare ogni prova indiziaria singolarmente, ciascuna nella propria valenza qualitativa, tendente a porre in luce i collegamenti e la confluenza in un medesimo contesto dimostrativo (Cass. Sez. Un. 12 luglio 2005, n. 33748, rv. 231678).

3. La regola dell’"oltre il ragionevole dubbiò" formalizzata nell’art. 533 c.p.p., comma 1, come sostituito dalla L. n. 46 del 2006, art. 5 impone di pronunciare condanna, quando il dato probatorio acquisito lascia fuori solo eventualità remote, pur astrattamente formulabili e prospettabili come possibili in rerum natura, ma la cui concreta realizzazione nella fattispecie concreta non trova il benchè minimo riscontro nelle emergenze processuali, ponendosi al di fuori dell’ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana. Il procedimento logico, invero non dissimile dalla sequenza del ragionamento inferenziale dettato in tema di prova indiziaria dall’art. 192 c.p.p., comma 2, – il cui nucleo essenziale è già racchiuso, peraltro, nella regola stabilita per la valutazione della prova in generale dal primo comma della medesima disposizione, nonchè in quella della doverosa ponderazione delle ipotesi antagoniste prescritta dall’art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e), – deve condurre alla conclusione caratterizzata da un alto grado di razionalità quindi alla "certezza processuale" che, esclusa l’interferenza di decorsi alternativi, la condotta sia attribuibile all’agente come fatto proprio.

Il concetto, espresso in alcune recenti sentenze delle Sezioni Unite di questa Corte (Cass., Sez. Un. 21 aprile 1995, n. 11, rv. 202001;

Cass., Sez. Un. 10 luglio 2002, n. 30328, rv. 222139; Cass., Sez. Un. 30 ottobre 2003, n. 45276, rv. 226094), cui si è uniformata la giurisprudenza successiva (Cass., Sez. 1, 21 maggio 2008, n. 31456, rv. 240763; Cass., Sez. 1, 11 maggio 2006, n. 20371, rv. 234111), ancor prima della modifica dell’art. 533 c.p.p., era già stato chiaramente delineato dalla giurisprudenza di legittimità. Si era, in proposito, argomentato, che la prova indiziaria è quella che consente la ricostruzione del fatto in termini di certezza tali da escludere la prospettabilità di ogni altra ragionevole soluzione, ma non anche di escludere la più astratta e remota delle possibilità che, in contrasto con ogni e qualsivoglia verosimiglianza ed in conseguenza di un ipotetico, inusitato combinarsi di imprevisti e imprevedibili fattori, la realtà delle cose sia stata diversa da quella ricostruita in base agli indizi disponibili (Cass. 2 marzo, 1992, n. 3424, rv. 189682; Cass. Sez. 6, 8 aprile 1997, n. 1518, rv.

208144; Cass. Sez. 2, 10 settembre 1995, n. 3777, rv. 203118).

In questo articolato contesto, la regola di giudizio dell’"oltre il ragionevole dubbio" pretende percorsi epistemologicamente corretti, argomentazioni motivate circa le opzioni valutative della prova, giustificazione razionale della decisione, standard conclusivi di alta probabilità logica in termini di certezza processuale, essendo indiscutibile che il diritto alla prova, come espressione del diritto di difesa, estende il suo ambito fino a comprendere il diritto delle parti ad una valutazione legale, completa e razionale della prova. E’ evidente, in tale prospettiva, la stretta correlazione, dinamica e strutturale esistente tra la regola dell’"oltre il ragionevole dubbio" e le coesistenti garanzie, proprie del processo penale, rappresentate: a) dalla presunzione di innocenza dell’imputato, regola probatoria e di giudizio collegata alla struttura del processo e alle metodiche di accertamento del fatto; b) dall’onere della prova a carico dell’accusa; c) dalla regola di giudizio stabilita per la sentenza di assoluzione in caso di "insufficienza", "contraddittorietà" e "incertezza" della prova d’accusa ( art. 530 c.p.p., commi 2 e 3), secondo il classico canone di garanzia in dubio pro reo; d) dall’obbligo di motivazione delle decisioni giudiziarie e della necessaria giustificazione razionale delle stesse.

4. La struttura e l’articolazione della motivazione della sentenza impugnata appaiono conformi ai principi in precedenza enunciati.

Infatti i giudici d’appello sono pervenuti alla confutazione delle conclusioni assunte dal gup sulla base, da un lato, di una scrupolosa analisi delle argomentazioni da questi poste a base della decisione di primo grado e, dall’altro, del puntuale esame delle dichiarazioni rese il 13 novembre 2008, in sede di incidente probatorio assunto nell’ambito del processo a carico dei coimputati maggiorenni, da S.H. e H.W..

In proposito ha correttamente evidenziato la Corte territoriale, che da entrambe le testimonianze risultava in modo univoco e chiaro che, nel corso della rissa, il coimputato maggiorenne si era impossessato del coltello con il quale il minorenne cercava di tenere lontano da sè gli avversari e con esso aveva colpito a morte la vittima.

L’azione è stata, quindi, correttamente ricondotta, avuto riguardo alla sua fulmineità ed estemporaneità, all’esclusivo processo decisionale del coimputato maggiorenne in assenza di alcun obiettivo elemento univocamente espressivo di una qualsiasi forma di contributo materiale o morale del minorenne alla consumazione dell’omicidio.

Nè, d’altra parte, possono trovare ingresso in questa sede prospettazioni (come quelle formulate dal pubblico ministero ricorrente) volte a mirate estrapolazioni delle dichiarazioni dei testi dal più ampio tessuto narrativo oppure ad una non consentita lettura alternativa del contenuto degli atti acquisiti.

Per tutte questa ragioni il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso.

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