Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 04-07-2011) 05-10-2011, n. 36150 Bancarotta fraudolenta

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con sentenza in data 16 giugno 2010 la Corte d’Appello di Genova, confermando la decisione assunta dal locale Tribunale, ha riconosciuto R.E.F. responsabile del delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale in relazione al fallimento della società Amerika s.r.l., per avere indotto l’amministratore di quest’ultima, P.U., a distrarre valori patrimoniali della società a favore della Vismara s.n.c., della quale l’imputato era legale rappresentante; ha quindi tenuto ferma la sua condanna alla pena di legge e al risarcimento dei danni in favore di fallimento, costituitosi parte civile.

Secondo l’ipotesi accusatoria, recepita dal giudice di merito, la distrazione era consistita nella cessione dalla Amerika alla Vismara di stampi per la produzione di calotte di caschi ad un prezzo fatturato per lire 244.500.000, ma in realtà concordato e versato in L. 70.000.000, mentre per una parte di L. 92.000.000 si era fatto luogo a compensazione con un precedente credito della Vismara:

circostanza, quest’ultima, sulla quale si era fondata un’imputazione di bancarotta preferenziale, poi caduta in prescrizione.

Ha proposto personalmente ricorso per cassazione il R., deducendo censure riconducibili a un solo motivo. Con esso, sostanzialmente, assume di aver concordato l’operazione incriminata non per acquisire la proprietà degli stampi, che nulla valevano nè interessavano alla propria azienda, ma al solo scopo di aiutare con un finanziamento la società Amerika, che attraversava un momento di difficoltà. A sostegno del proprio assunto si richiama alle risultanze dell’istruzione dibattimentale, di cui riproduce alcuni stralci.

Il ricorso è fondato e merita accoglimento.

Le argomentazioni difensive sviluppate dal ricorrente, invero, ancorchè in gran parte viziate dal riferimento ad emergenze istruttorie la cui rivisitazione è preclusa in sede di legittimità, richiamano tuttavia l’attenzione sul nucleo centrale del problema che contrassegna il giudizio di responsabilità – e che non ha trovato soddisfacente risposta nel giudizio di merito – là dove mettono in evidenza la necessità di verificare in concreto se il trasferimento in proprietà degli stampi abbia dato corpo a una distrazione di beni della società poi fallita, attraverso la vendita di essi per un prezzo sensibilmente inferiore al valore effettivo.

In tale proiezione il riferimento fatta dallo Corte d’Appello alla prova documentale, quale unica prova ritenuta valutabile in tema di bancarotta fraudolenta, è contrario a legge e si basa su una inaccettabile estensione al processo penale della gerarchia delle fonti probatorie che è invece esclusivamente propria del giudizio civile (ne fa fede l’inappropriata citazione degli artt. 2709 e 2710 c.c.); di contro nel giudizio penale, che è caratterizzato dai principi della libertà di prova e del libero convincimento del giudice, doveva riconoscersi all’imputato la possibilità di dimostrare con qualunque mezzo la veridicità del proprio assunto, secondo cui gli stampi negoziati con la Amerika s.r.l. non avevano alcun valore commerciale – in quanto, assertivamente, obsoleti e privi di mercato – nè alcun interesse per la Vismara s.n.c., ma erano stati acquistati al solo scopo di venire in soccorso alla società venditrice, che appariva versare in difficoltà.

A fronte di tale linea difensiva, occorreva dunque interrogarsi sul valore effettivo dei beni compravenduti, per poi raffrontarlo con la somma corrisposta alla Amerika s.r.l. a titolo di corrispettivo, computando in questa anche il controcredito estinto per compensazione: e ciò indipendentemente dalla configurabilità di una bancarotta preferenziale insita nella pattuita compensazione, in ordine alla quale – del resto – si è ritenuta applicabile la prescrizione.

S’impone, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata. Il giudice di rinvio, che si designa in altra sezione della Corte d’Appello di Genova, sottoporrà a rinnovata disamina l’intera vicenda tenendo conto dei principi suesposti.

P.Q.M.

la Corte annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello di Genova per nuovo esame.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 27-09-2011) 24-10-2011, n. 38188 Decreto che dispone il giudizio

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con ordinanza in data 16/2/2011 il Tribunale di Potenza in composizione monocratica, investito del procedimento penale a carico di P.C., imputato del reato di cui agli art. 372 c.p. e L. n. 203 del 1991, art. 7, giusta decreto di rinvio a giudizio del G.I.P. in data 27/10/2010, ritenuta la competenza del Tribunale in composizione collegiale ex art. 33 bis c.p.p., dichiarava la nullità del decreto emesso ex art. 429 c.p.p. e disponeva la trasmissione degli atti al G.I.P..

Contro tale ordinanza ricorre il P.M. Distrettuale e ne chiede l’annullamento, denunciandone l’abnormità nella parte in cui determinava una non codificata trasmissione del procedimento in una fase, quella dell’udienza preliminare, esclusa dal dettato normativo di cui all’art. 33 septies c.p.p., comma 1.

Seguiva da parte del difensore dell’imputato memoria di replica, nella quale si chiedeva la declaratoria di inammissibilità del ricorso del P.M. perchè tardivo.

Il ricorso, sebbene non tardivo, come deduce la difesa, siccome proposto a mezzo posta in data 4/3/2011 contro l’ordinanza del Tribunale in data 16/2/2011, pervenuta alla conoscenza dell’Ufficio del P.M. in data 2/3/2011, è tuttavia inammissibile.

Ed invero va preliminarmente osservato che, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, deve essere escluso ogni profilo di abnormità, quando si sia in presenza di un provvedimento del giudice, emesso nell’esercizio del potere di adottarlo, salvo il caso limite che ad esso consegua la stasi del procedimento per l’impossibilità del P.M. di proseguirlo senza concretizzare un atto nullo, rilevabile nel corso del procedimento (Cass. Sez. Un. 26/3/2009 Toni).

Ciò posto va detto che il potere di cui il giudice è dotato ai sensi dell’art. 33 septies c.p.p., ancorchè finalizzato ad investire degli atti del Tribunale in diversa composizione, si risolve comunque ed essenzialmente ancor prima nella dismissione degli atti di ritenuta non appartenenza alla propria cognizione, con la conseguenza che, quale che sia in ipotesi la sua correttezza giuridica, l’odierno provvedimento è stato comunque emesso nell’esercizio di quel potere di verifica della propria cognizione, che costituisce precipua attribuzione del giudice. Nel caso in esame, poichè il provvedimento impugnato risulta espressione di un potere riconosciuto al giudice dall’ordinamento, anche se esso sia stato male esercitato, la dedotta abnormità non si verifica, giacchè in ogni caso il detto cattivo esercizio del potere è destinato a sfociare in un atto illegittimo, ma non in un atto abnorme (Cass. Sez. 3^ 5/11-22/12/04 n. 48979 Rv.

230223).

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. I, Sent., 14-05-2012, n. 7450 Onorari

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Svolgimento del processo

Al dott. N.A., che aveva ricevuto dal Comune di Savoca l’incarico di uno studio geologico dell’area in cui era la chiesa della (OMISSIS) oggetto di lavori di ristrutturazione, era corrisposto il compenso professionale di L. 16.456.000, su sua fattura del (OMISSIS). Dopo il conto finale dei lavori del 20 aprile 2000, con raccomandata del 13 luglio 2000, il dr. N. inviava al comune committente fattura del (OMISSIS), approvata dal Consiglio dell’ordine di appartenenza, con cui, a saldo dell’attività professionale svolta, che nel 1994 era da intendere solo parzialmente retribuita, chiedeva l’ulteriore somma di L. 25.136.144.

Dato che l’ente locale aveva rifiutato il nuovo pagamento, il N., ai sensi dell’art. 16 del disciplinare di incarico, dava inizio a giudizio arbitrale con atto di accesso e nomina del proprio arbitro notificato il 24 gennaio – 2002. Nell’inerzia del Comune di Savoca, l’istante, ai sensi dell’art. 810 c.p.c., comma 2 chiedeva la nomina degli altri due componenti del collegio, arbitrale al presidente del Tribunale di Messina, che nominava l’avv. M. G. e l’ing. Me.Fr., designato come presidente.

Nel corso del giudizio arbitrale, il comune sollevava varie eccezioni ed escusso un teste indicato dal professionista, il collegio pronunciava lodo in data 29 maggio 2003, con il quale, rigettate le deduzioni preliminari, pregiudiziali e di merito dell’ente locale, accoglieva la domanda del N.. Il lodo riconosceva il diritto del professionista al pagamento di Euro 10.365,58, quale saldo del compenso per la relazione dello studio geologico, con gli interessi dal 12 luglio 2000 al saldo, condannando l’ente locale a pagare le spese di funzionamento del collegio arbitrale e quelle di difesa dell’altra parte.

Con l’impugnazione per nullità del lodo alla Corte d’appello di Messina, notificata il 26 agosto 2003, il Comune di Savoca denunciava la illegittima ed errata composizione del collegio e il mancato rispetto dei termini di costituzione, deducendo poi che non gli era stata comunicata la nomina del terzo arbitro, ledendo i suoi diritti di difesa ex art. 816 c.p.c.. Il lodo era pure impugnato per il mancato rispetto del D.Lgs. 25 febbraio 1995, n. 77, art. 35 che comportava il difetto di legittimazione passiva dell’ente locale sulla domanda di pagamento di controparte e la falsa applicazione degli artt. 2233, 2957 e 2956 C.C.. L’adita Corte d’appello, con la sentenza n. 22 del 18 gennaio 2006, ha rigettato l’impugnazione del lodo, condannando l’impugnante alle spese del giudizio.

Per la cassazione di tale sentenza della Corte di appello di Messina, notificata il 18 maggio 2006, il Comune di Savoca propone ricorso di cinque motivi notificato il 17 luglio 2006, cui replica il N. con controricorso notificato a mezzo posta al ricorrente il 2 – 5 ottobre 2006 e illustrato da memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

1.1. Con il primo motivo di ricorso il Comune di Savoca deduce che la Corte d’appello di Messina ha erroneamente negato la nullità del lodo pronunciato da un collegio un componente del quale era stato nominato dal presidente del tribunale senza tenere conto delle qualifiche professionali dei componenti previste nella clausola compromissoria.

Dopo che il N. aveva proposto domanda di arbitrato nominando il proprio arbitro, l’ente locale non aveva designato il suo arbitro nei tempi previsti e l’istante aveva chiesto al presidente del tribunale di provvedere a tale nomina. Quest’ultimo ha nominato il membro del collegio che avrebbe dovuto designare il comune, senza tenere conto della qualifica di avvocato dello Stato o di dipendente degli uffici legislativi o legali della Regione siciliana con qualifica di avvocato., che tale componente doveva avere per la clausola compromissoria di cui all’art. 19 del disciplinare di incarico. Ad avviso del ricorrente il Presidente del Tribunale, se può sostituire la parte rimasta inerte e nominare i componenti del collegio arbitrale che la stessa avrebbe dovuto indicare, era vincolato nella nomina a designare i componenti del collegio, nel rispetto delle qualifiche previste nella clausola (in tal senso, il ricorso cita S.U. 4 dicembre 2001 n. 15290, che ritiene possibile un discostamento motivato dai limiti indicati nella clausola, così implicitamente ritenendoli rilevanti). La mancata affermazione della nullità della composizione del collegio, ad avviso del Comune di Savoca, costituisce violazione degli ordinari canoni di ermeneutica contrattuale, da ritenere vincolanti anche per il presidente del tribunale. Afferma il ricorrente che le norme regolatrici dell’ermeneutica contrattuale si suddividono in due gruppi, l’uno costituito dagli artt. da 1362 a 1365 c.c., che regola la lettura dell’atto tesa ad accertare la comune volontà delle parti attraverso una interpretazione soggettiva delle clausole; il secondo gruppo, dall’art. 1366 c.c. all’art. 1370 c.c., è invece da utilizzare solo quando non possa ritenersi giustificato il primo modo di interpretare il contratto e presuppone quindi una lettura oggettiva del contenuto di esso.

A tale secondo tipo di interpretazione andava ispirata la lettura della clausola arbitrale, con la quale le parti avevano limitato la scelta del membro del collegio designato dal comune alle sole categorie professionali sopra indicate, vincolanti in ogni caso per chiunque avesse designato l’arbitro che il comune doveva indicare.

L’inosservanza della clausola nella individuazione dell’arbitro che al comune spettava designare, rendeva nullo il lodo, in quanto chiara era la volontà delle parti di limitare il potere di tale parte nella nomina del suo arbitro, da scegliere tra gli avvocati dello Stato e di dipendenti dell’ufficio legislativo e legale della Regione con qualifica di avvocato. Ogni nomina che non avesse osservato i limiti della clausola, era illegittima e nulla, anche se proveniente dal presidente del tribunale.

Deduce il ricorrente a conferma della sua tesi, che quando un collegio arbitrale sia "convenzionalmente" nominato come previsto nel D.P.R. n. 1063 del 1962, art. 45 richiamato nella clausola, si è sempre affermato che la violazione della norma sulla composizione del collegio comporta nullità del lodo (Cass. 29 gennaio 2002 n. 1066 e 27 dicembre 1999 n. 14588). Il quesito ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c. chiede di enunciare il principio di diritto per cui, in caso d’inerzia della parte che deve nominare un arbitro nell’ambito di una determinata categoria professionale prevista in clausola, il presidente del tribunale che, ai sensi dell’art. 810 c.p.c., comma 3 provveda alla stessa, deve scegliere l’arbitro nei modi previsti nella clausola e nei limiti delle categorie professionali o qualifiche degli – arbitri in essa indicate. Si lamenta inoltre, sempre nel primo motivo di ricorso, il mancato rispetto dei termini di costituzione delle parti per la omessa comunicazione del nome del terzo arbitro con lesione del diritto del comune al contraddittorio, ai sensi dell’art. 816 c.p.c. nella versione vigente alla data del giudizio arbitrale, anteriore al D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40.

La Corte d’appello ha respinto tale motivo di nullità del lodo, ritenendo che la regolamentazione del procedimento tra le parti spetti al collegio arbitrale, che poteva quindi liberamente fissare i termini da concedere alle parti per difendersi. Si deduce peraltro che al Comune di Savoca non era stata comunicata la data di costituzione del collegio, ma si era solo reso noto all’avv. Biondo Giuseppe, con nota del 24 ottobre 2002, che il successivo 28 novembre si sarebbe costituito il collegio e le parti avrebbero potuto scambiare memorie, documenti e formulare istanze istruttorie.

Tale comunicazione data all’avv. Biondo, non ancora costituito come difensore del comune nel giudizio arbitrale, era, per tale ragione, inidonea a rendere edotta la parte dello stato della procedura arbitrale, dovendosi essa comunicare all’ente locale in proprio in persona del sindaco, in mancanza di difensore.

Afferma il ricorrente che la mancata comunicazione del nominativo del terzo arbitro ha impedito al comune ogni verifica sulla compatibilità dell’arbitro con l’incarico che avrebbe dovuto svolgere, limitando le sue facoltà di difesa. Nel lodo si afferma che il Comune di Savoca era a conoscenza della nomina del terzo arbitro, tanto che il suo procuratore, con lettera raccomandata del 1 luglio 2002 prodotta dallo stesso ente locale, aveva comunicato il suo mandato ai due arbitri già designati avv.ti Ma. e M. e all’avvocato Grazia Crea, difensore del dr. N., chiedendo di conoscere il nome del terzo arbitro, nominato nelle more. Falsamente il lodo ha negato che non si era contestata la nomina del terzo arbitro, avendo il comune espressamente dedotto, con la costituzione a mezzo del suo difensore dell’8 novembre 2002, di non avere avuto ancora il nominativo del terzo arbitro e che non gli erano stati concessi i termini a difesa su tale nomina, cui aveva diritto.

Ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c. si chiede di enunciare un principio di diritto che neghi al collegio arbitrale di regolare il contraddittorio tra le parti, in modo da impedire ad una esse di esplicare le proprie difese in termini logici e di non consentire al collegio stesso di comunicare la sua costituzione e il nome del terzo arbitro.

2.2. Il secondo motivo di ricorso deduce che erroneamente s’è negata la nullità del lodo, non dando rilievo al D.Lgs. n. 77 del 25 febbraio 1995, art. 35 e successive modificazioni, normativa che esclude la legittimazione passiva del comune ricorrente nella controversia.

La eccezione, come emerge dal lodo e dalla sentenza della corte d’appello, è stata respinta per l’esistenza di fondi sufficienti a coprire il nuovo pagamento, tanto che, ultimata l’opera è risultato un risparmio di L. 361.788.102, sufficiente a coprire la differenza richiesta del compenso. Afferma il ricorrente che, nella Delib. giunta 27 maggio 1993, n. 147 di conferimento dell’incarico e nel connesso disciplinare, non era prevista la somma stanziata per il pagamento della prestazione professionale ma si precisava solo che essa doveva restare nei limiti delle somme messe a disposizione nel progetto a tal fine.

Nella delibera si afferma che il comune "corrisponderà la somma stabilita dalla tariffa per le prestazioni professionali dei geologi e comunque quella prevista, per tale scopo, nel relativo progetto", facendosi riferimento chiaro ai fondi di cui al finanziamento dell’opera previsti nel progetto. Le somme eccedenti quelle previste nel progetto, in quanto non iscritte nel bilancio del comune, non sono riferibili a tale soggetto, ai fini delle pretese del professionista; nell’ultima variante di perizia e nello stato finale dei lavori di costruzione per cui fu elaborato lo studio geologico, del 20 aprile 2000, il compenso previsto per tale relazione era di L. 16.456.000, per cui di tutto quanto eccedente tale somma, doveva rispondere il funzionario responsabile dell’ incarico e non il comune, privo di legittimazione passiva in base alla norma che si deduce violata.

2.3. Il terzo motivo di ricorso denuncia la omessa o insufficiente motivazione della sentenza sul punto decisivo della controversia dell’accoglimento della domanda di pagamento della richiesta della somma ulteriore di L. 25.136.144 a integrazione del compenso professionale del dr. N.. L’importo da aggiungere a quello pagato non era previsto in contratto e quindi non era dovuto, nessun rilievo avendo la circostanza che il N. ignorasse che vi era stato un finanziamento comprensivo di una somma a titolo di compenso maggiore di quella dovuta in base alla delibera di incarico, come affermato in sede di prova per testi.

Dalla parte propositiva della citata delibera di conferimento dell’incarico emerge che l’opera era stata finanziata dall’Assessorato per L. 3.719.000.000, ma i parametri cui ancorare il compenso erano quelli fissati con la Delibera che limitava il dovuto alla somma in concreto pagata nel 1994 al dr. N., che non aveva diritto ad alcun altro emolumento.

2.4. Con il quarto motivo di ricorso si censura la sentenza per violazione dell’art. 2233 c.c., in relazione al disposto della Delib.

G.M. 27 maggio 2003, n. 147.

Il lodo e la sentenza impugnata hanno escluso ogni rilievo al compenso concordato al momento dell’incarico nei limiti di quanto espressamente stanziato a tal fine nel progetto, stabilendo la citata delibera che il corrispettivo delle prestazione doveva adempiersi "con gli appositi fondi previsti nel finanziamento dell’opera ed inclusi nel progetto". In quest’ultimo il compenso era fissato in L. 16.465.000 e nulla in aggiunta a tale somma competeva al dr. N., non essendovi alcuna autorizzazione del direttore dei lavori per l’aumento di tale corrispettivo e dovendo prevalere comunque la convenzione delle parti, perchè, solo in mancanza di questa, avevano rilievo le tariffe, gli usi o la determinazione del giudice (il ricorso cita Cass. 29 gennaio 2003 n. 1317, 28 gennaio 2003 n. 1223, 1 febbraio 2000 n. 10094 e altre sentenze precedenti).

2.5. Si lamenta, in quinto luogo, la violazione degli artt. 2957 e 2956 c.c., in quanto il lodo e la sentenza che ha deciso l’impugnazione fanno decorrere la prescrizione dalla data di ultimazione dei lavori (2 agosto 1999), sulla presunzione che le ultime prestazioni del geologo si fossero avute a tale data. Secondo il ricorrente, invece, il dr. N. avrebbe completato il suo lavoro nel 1994, tanto che il professionista era stato pagato su fattura n. (OMISSIS) di quell’anno, non avendo più operato successivamente per conto dell’ente locale. Poichè ai sensi dell’art. 2957 c.c. la prescrizione presuntiva triennale decorre dal compimento della prestazione d’opera professionale (art. 2956 c.c.), alla data di trasmissione della seconda fattura del N., ogni credito del professionista era ormai estinto per prescrizione.

3.1. Il primo motivo di ricorso è infondato e da rigettare. In ordine al provvedimento del presidente del tribunale di designazione dell’arbitro non nominato tempestivamente dal Comune di Savoca al di fuori delle categorie professionali previste nella clausola compromissoria, l’atto di nomina è censurato per avere individuato il componente del collegio privo della qualifica che avrebbe dovuto avere secondo la clausola arbitrale.

Il ricorso, che non riporta la motivazione del provvedimento del presidente del tribunale, denuncia però la illegittimità della nomina operata da questo, per avere violato i limiti contrattualmente posti all’ente locale nella designazione del componente del collegio di sua competenza.

Peraltro la previsione limitativa dell’autonomia del Comune di Savoca contenuta nel compromesso, con la individuazione delle categorie di avvocato dello Stato o di componente dell’ufficio legislativo e legale della Regione siciliana con la qualifica di avvocato per l’arbitro che esso doveva nominare, non può estendere i suoi effetti sui poteri di nomina di cui la legge investe il presidente del tribunale nell’inerzia delle parti. Non avendo l’ente locale provveduto alla nomina ad esso spettante nel termine di venti giorni di cui all’art. 810 c.p.c. (sia prima che dopo la riforma dell’arbitrato del 2006), su istanza della parte più diligente, il presidente del tribunale deve procedere alla nomina del secondo arbitro come sancito dalla legge e può quindi discostarsi dalle previsioni della clausola compromissoria che vincola solo i suoi autori (art. 1372 c.c.).

Una volta che la nomina avviene a cura del presidente per non avere la parte interessata provveduto nei termini di legge alla designazione, l’intervento sollecitato del presidente del tribunale per procedere a nominare il secondo arbitro, non è soggetto ai limiti fissati dall’autonomia privata ma si attua con la discrezionalità del magistrato, che opera secondo legge nell’esercizio dei suoi poteri e senza vincoli di mandato. Si è già rilevato come il termine di venti giorni dall’invito a nominare il proprio arbitro dopo la notifica della designazione dell’altra parte che non vi ha – provveduto, non è perentorio (Cass. 2 dicembre 2005 n. 26257), tanto che l’inadempiente può provvedere anche dopo tale termine e finchè alla nuova nomina non ha provveduto il presidente del tribunale, il quale esercita un suo potere, sostituendo, in base alla legge, la volontà della parte rimasta inerte nella nomina, che quindi non è più quella di cui alla clausola arbitrale.

Il presidente del tribunale non da attuazione al compromesso ma nomina l’arbitro nell’esercizio di suoi poteri giudiziari con provvedimento di volontaria giurisdizione non decisorio e neppure impugnabile (Cass. 18 maggio 2007 n. 11665, 19 gennaio 2006 n. 101, 6 giugno 2003 n. 9143).

L’intervento del presidente del tribunale "supera la volontà delle parti che non vi abbiano provveduto e può aversi anche quando la nomina non sia stata accettata (così Cass. 21 luglio 2010 n. 17114);

anche quando sia prevista nella convenzione d’arbitrato la categoria professionale dei soggetti tra cui nominare l’arbitro, il potere del magistrato non è limitato dalla volontà delle parti espressa nella clausola, potendo designare come arbitri anche soggetti al di fuori delle categorie indicate nella clausola (così la già citata Cass. n. 15290 del 2001, cui fanno riferimento entrambe le parti). Resta quindi assorbito per irrilevanza ogni rilievo delle norme sull’interpretazione del compromesso, cui fa riferimento il primo motivo di ricorso, dovendo il presidente del tribunale esercitare il suo potere solo nei limiti della legge. La designazione, con ordinanza del presidente del tribunale, del componente del collegio arbitrale scelto al di fuori delle categorie indicate nel compromesso, non incide sulla valida e regolare costituzione del collegio, che è pienamente legittimo quando alla nomina provveda l’autorità giudiziaria, nell’esercizio di poteri ad essa conferiti dalla legge e non in mera sostituzione delle volontà delle parti.

Il presidente del tribunale non è soggetto ai limiti convenzionali che vincolano le parti, quando provvede alla nomina di arbitri, nei casi previsti dagli artt. 810 e 811 c.p.c., in entrambe le versioni, anteriore e successiva al D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40.

In ordine poi alla mancata concessione dei termini al ricorrente, per consentirgli di indicare le ragioni per contestare la validità della nomina degli arbitri operata dal giudice e comunque per svolgere, nell’ambito di un corretto contraddittorio, le sue difese, il primo motivo di ricorso è privo di autosufficienza e quindi inammissibile.

Il ricorrente non precisa, neppure in questa sede, le ragioni ostative alla validità delle nomine operate dal presidente del tribunale, al di fuori dei limiti effetto del compromesso irrilevanti per l’autorità giudiziaria, ovvero i profili per cui risulta essere stato leso il suo diritto di difesa e il contraddittorio tra le parti nella fattispecie (S.U. 5 maggio 2011 n. 9839 e Cass. 31 gennaio 2007 n. 2201).

La pretesa nullità della comunicazione del nome del terzo arbitro all’avv. Biondo, che ancora non era costituito difensore del comune nel giudizio arbitrale, in mancanza di deduzioni che rendano invalida detta nomina dell’arbitro, resta superata dalla integrità del contraddittorio instaurato dinanzi al collegio arbitrale (Cass. 14 febbraio 2007 n. 3269, 6 settembre 2006 n. 19129 e S.U. 3 marzo 2003 n. 3075). Non risulta dal ricorso in che modo si siano violati i termini a difesa o il principio del contraddittorio nel giudizio arbitrale e correttamente si è respinta la impugnazione per nullità del lodo per tali profili, indicandosi alle pag. 6 e 7 della sentenza i motivi che escludono le nullità dedotte per violazioni di norme procedimentali lesive dei diritti del Comune di Savoca.

Si afferma dai giudici di merito alle indicate pagine della sentenza impugnata e senza censure in ricorso su tali punti che alle parti "è stato consentito … di svolgere le proprie difese attraverso le rispettive comparse di costituzione depositate il 7/11/2002, attraverso le memorie autorizzate del 22/11/2002, nonchè attraverso le note conclusionali e le memorie di replica depositate il 3/4/2003 e il 16/4/ 2003", per cui deve rigettarsi il primo motivo di ricorso anche per tale profilo, data la liberà delle forme che ispira il giudizio arbitrale (Cass. 17 febbraio 2011 n. 3917).

3.2. In ordine al secondo, terzo e quarto motivo di ricorso, non risulta adeguatamente censurata l’affermazione, a pag. 8 della sentenza della Corte di merito, per la quale "per le opere geognostiche e per le competenze tecniche complessive il comune aveva a disposizione la somma complessiva di L. 519.253.929", assai maggiore di quella poi in concreto erogata per tali prestazioni.

Secondo il comune, (pag. 14 del ricorso), per la Delib. giunta n. 147 del 1993, al professionista si doveva corrispondere "la somma stabilita dalla tariffa per le prestazioni professionali dei geologi e, comunque, pari a quella prevista, per tale scopo nel relativo progetto", precisandosi che si doveva liquidare "l’onorario spettante dalle tariffe professionali, la cui spesa verrà affrontata, con gli appositi fondi previsti nel finanziamento dell’opera e inclusi nel progetto".

Allo stesso onorario determinato in base alla tariffa approvata con D.M. 18 novembre 1971 fa riferimento anche l’art. 8 del disciplinare, anche se il successivo art. 11 prevede che il corrispettivo da versare al professionista è quello di cui al progetto, nella misura concretamente erogata al"dr. N. nel 1994.

Nel caso, pur dovendosi confermare che, a pena di nullità, nella delibera di conferimento dell’incarico professionale deve essere previsto l’ammontare del compenso da versare al professionista (Cass. 28 dicembre 2010 n. 26202, 2 luglio 2008 n. 18144 e 28 giugno 2005 n. 13831), la previsione complessiva di spesa per l’opera per la quale era stata prestata l’attività professionale, comprensiva dei relativi compensi, di L. 3.719.000.000 è stata inserita in bilancio e il finanziamento è risultato maggiore delle spese effettivamente sostenute, come affermano il lodo e la sentenza che ha deciso l’impugnazione. E’ quindi da escludere si versi in una ipotesi di debito fuori bilancio, trattandosi di un obbligo contrattuale regolarmente assunto (Cass. 27 aprile 2011 n. 9412 e 18 novembre 2008 n. 27406), che esclude la rilevanza della norma che il ricorrente ritiene violata.

Il secondo motivo di ricorso è quindi infondato, non potendo applicarsi nella fattispecie il D.Lgs. n. 77 del 1995, art. 35 che regola i soli debiti fuori bilancio, per cui resta legittimato l’ente locale a pagare al dr. N. quanto dovuto e liquidato in base alle tariffe professionali, cui si è fatto espresso riferimento sia nella delibera di incarico che nel disciplinare, atti in cui il richiamo alle somme previste allo scopo in progetto sembra riportato subordinatamente all’applicazione delle tariffe, con conseguente infondatezza del motivo di ricorso.

In rapporto alle carenze motivazionali denunciate nel terzo motivo di ricorso, rilevata la logica contraddizione tra la denuncia di omessa e quella di insufficiente motivazione di cui al motivo di ricorso (Cass. 1 aprile 2011 n, 7375), quanto accertato in ordine al corretto pagamento del compenso in base alle tariffe professionali, esclude che vi fosse un vincolo contrattuale per il N. di limitare il compenso nei limiti pretesi dal ricorrente.

Nell’incarico e nel disciplinare, le tariffe professionali sono specificamente richiamate, e la loro applicazione è giustificata in sentenza in ragione delle Delibere di incarico e del disciplinare, come affermato nella sentenza adeguatamente e correttamente motivata su tale punto, con infondatezza conseguente del terzo motivo di ricorso.

Dato il corretto pagamento del compenso in conformità al contratto e poichè la somma pretesa non era maggiore dei fondi disponibili iscritti in bilancio a copertura del debito, deve negarsi non solo qualsiasi incertezza motivazionale sul punto ma pure la dedotta violazione dell’ art. 2233 c.c., con conseguente infondatezza, oltre che del terzo, anche del quarto motivo del ricorso.

Nessun rilievo hanno nella fattispecie i richiami, negli atti delle parti, ad un preteso pagamento condizionato al finanziamento, che non risulta previsto o assunto nè nella delibera nè nel disciplinare, nè emerge da alcuna delle clausole concordate dalla parti per iscritto, che limitino il compenso alla sola somma pagata dal comune nel 1994. 3.3. Il quinto motivo di ricorso deduce la erroneità della sentenza per avere rigettato l’eccezione di prescrizione presuntiva del credito del N..

Il motivo di ricorso fa risalire il decorso del periodo triennale di prescrizione presuntiva alla data dell’intervenuto pagamento della parte di compenso erogato nel 1994, con conseguente presunta estinzione dell’intero debito per il decorso dei tre anni alla data della domanda del N.. Il Comune di Savoca non censura la sentenza impugnata in ordine alla esistenza di atti interruttivi posti in essere dal professionista, anche se la sentenza fa riferimento solo ad una lettera del 2001, compatibile con la decorrenza in essa fissata al 6 agosto 1999 e non con quella del 1994 dedotta in ricorso. Peraltro resta incensurata dal ricorso la ratio decidendi per la quale l’eccezione non si poteva sollevare dal comune quale debitore che aveva dichiarato di avere estinto con il pagamento l’obbligazione pecuniaria verso il creditore, con atto che presuppone il riconoscimento dell’esistenza del credito; per tale profilo, il quinto motivo di ricorso è inammissibile. 4. In conclusione il ricorso deve rigettarsi perchè in parte infondato e nel resto inammissibile, e, per la soccombenza, il ricorrente dovrà corrispondere al controricorrente le spese del giudizio di cassazione che si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a pagare al controricorrente le spese del giudizio di cassazione che liquida in Euro 2.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese generali e agli accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 22-06-2011) 24-11-2011, n. 43647 Omissione o rifiuto di atti d’ufficio

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. La Corte d’Appello di Palermo, con sentenza 23/11/2009, confermava la decisione 14/1/2008 del locale Tribunale, che aveva assolto I.F., perchè il fatto non sussiste, dal delitto di cui all’art. 328 c.p., comma 2, in quanto, nella qualità di dirigente dell’Ufficio del personale dell’Ente di Sviluppo Agricolo di Palermo e di responsabile del procedimento amministrativo, pur formalmente sollecitato da F.B., con atto di diffida e costituzione in mora del 2/12/2004, a dare esecuzione alle Delib. dell’Ente 24 febbraio 1988, n. 81/C.A. e 27 luglio 1988, n. 305/C.A., non aveva compiuto l’atto del proprio ufficio e non aveva risposto nel termine di trenta giorni per esporre le ragioni del ritardo; in (OMISSIS).

Il Giudice distrettuale escludeva, sulla base dei seguenti argomenti, la configurabilità dell’ipotizzato reato: a) l’imputato, nel periodo a cui risale l’atto di "messa in mora", era affiancato, per ragioni di salute, da tale dr. D. con funzioni di "vicario"; b) la posizione del F., che aspirava al riconoscimento della qualifica di dirigente superiore e del corrispondente trattamento economico, era stata già valutata in sede di giurisdizione amministrativa, nel senso che doveva essere contemperata con le reali necessità dell’Ente in relazione alla situazione della pianta organica; c) nessun atto era esigibile dall’imputato, considerato che la natura e il contenuto dell’attività sollecitata implicava l’esercizio di una discrezionalità tecnica, che esulava dalle funzioni esercitate dal predetto e comportava il coinvolgimento dell’Ufficio legale dell’Ente e della Commissione a ciò istituzionalmente deputata.

2. Hanno proposto ricorso per cassazione il Procuratore Generale presso la Corte territoriale e la parte civile F.B..

Il primo lamenta la mancanza, l’illogicità della motivazione, il travisamento dei fatti e la violazione della legge penale, sotto il profilo che la diffida ad adempiere indirizzata dal F. al dirigente dell’Ufficio del personale dell’E.S.A. imponeva al medesimo funzionario, quale responsabile del procedimento, di dare comunque tempestivo riscontro, sia pure interlocutorio, alla richiesta;

l’inerzia del pubblico ufficiale aveva integrato il reato di cui all’art. 328 c.p., comma 2.

La parte civile deduce: 1) violazione della legge penale, con riferimento all’art. 328 c.p., comma 2, in quanto l’atto sollecitato all’imputato, nella qualità di responsabile del procedimento, era vincolato ai principi enunciati nella sentenza n. 404/2001 del Consiglio di Giustizia Amministrativa e, in ogni caso, anche a volerlo ritenere discrezionale, v’era l’obbligo di giustificare il mancato compimento; 2) contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione nella parte in cui non dava il giusto rilievo a quanto statuito dal Consiglio di Giustizia Amministrativa, che aveva imposto all’E.S.A. di valutare la posizione del F. e di adottare le conseguenti determinazioni; 3) illogicità della motivazione nella parte in cui dava rilievo esimente alla contemporanea presenza presso l’Ufficio del personale di altro funzionario con compiti vicari del dirigente e alla missiva 27/4/2005 inviata dall’imputato al legale del F..

3. Il ricorso del Procuratore Generale è inammissibile, perchè proposto tardivamente.

La sentenza impugnata, pronunciata in data 23/11/2009, è stata depositata, completa di motivazione, in data 18/8/2010, ben oltre quindi il termine di 90 giorni fissato dal giudice ex art. 544 c.p.p., comma 3.

Il termine per proporre ricorso per cassazione, nel caso specifico, è di 45 giorni (art. 585 c.p.p., comma 1, lett. c)) e deve farsi decorrere dal giorno della comunicazione, avvenuta in data 9/9/2010, al P.G. dell’avviso di deposito (art. 585 c.p.p., comma 2, lett. c)), con l’effetto che detto termine andava a scadere il 30/10/2010 (non vanno computati i giorni dal 9 al 15 settembre, compresi nel periodo di sospensione feriale). Il ricorso risulta essere stato depositato in data 16/11/2010, quindi ben oltre il termine perentorio di legge.

4. Il ricorso della parte civile F.B. è fondato e merita accoglimento, ai soli effetti della responsabilità civile dell’imputato.

Deve premettersi, in punto di fatto, che I.F., nella qualità di dirigente dell’Ufficio del personale dell’E.S.A. di Palermo e di responsabile del procedimento amministrativo, dopo avere ricevuto la diffida ad adempiere, datata 2/12/2004, inviata da F.B. (già dipendente dello stesso Ente), che rivendicava il riconoscimento della qualifica di dirigente superiore e del corrispondente trattamento economico, aveva omesso una qualsiasi risposta a tale sollecitazione nei successivi trenta giorni. Si tratta di stabilire se tale condotta, ai soli fini della responsabilità civile, integri o meno gli estremi dell’omissione di cui all’art. 328 c.p., comma 2. Il percorso argomentativo su cui riposa la sentenza impugnata non fa buon governo della legge penale (art. 328 c.p., comma 2) e dei connessi principi in tema di responsabilità civile per fatto illecito (art. 2043 c.c.) e da rilievo, per giustificare la pronuncia assolutoria di I. F. dal reato contestatogli, a circostanze di fatto non coerenti con tale conclusione: la presenza presso l’Ufficio del personale dell’E.S.A. di altro funzionario con compiti vicari non esclude la responsabilità del dirigente del medesimo ufficio, che non risulta essersi venuto a trovare nella condizione di assoluta impossibilità ad adempiere i propri doveri, dando comunque riscontro alla diffida inviatagli dal F.; quest’ultimo era in una posizione di conflittualità, non ancora definita, con l’Ente, per rivendicare l’inquadramento in una determinata qualifica professionale, e legittimamente aveva diffidato l’Ente medesimo ad adottare le proprie determinazioni; la valutazione della posizione rivendicata dal F., anche se oggetto di un procedimento amministrativo complesso, che richiedeva plurimi passaggi, non escludeva la competenza funzionale dell’imputato, che a tale valutazione avrebbe dovuto dare concreta esecuzione, di informare la persona interessata sullo stato della pratica.

Riassuntivamente deve osservarsi che l’art. 328 c.p., comma 2 incrimina non solo l’omissione dell’atto richiesto, ma anche la mancata indicazione delle ragioni del ritardo entro i trenta giorni dall’istanza di chi vi abbia interesse. L’omissione dell’atto, in sostanza, non comporta ex se la punibilità dell’agente; questa scatta soltanto se il pubblico ufficiale (o l’incaricato di pubblico servizio), oltre a non avere compiuto l’atto, non risponde per esporre le ragioni del ritardo; viene punita non già la mancata adozione dell’atto, che potrebbe rientrare nel potere discrezionale della Pubblica Amministrazione, bensì l’inerzia del funzionario, la quale finisce per rendere poco trasparente l’attività amministrativa. La formulazione della norma, che utilizza la congiunzione "e", delinea una equiparazione ex lege dell’omessa risposta che illustra le ragioni del ritardo alla mancata adozione dell’atto richiesto.

Deve precisarsi, inoltre, che il delitto di cui si discute si perfeziona quando la prestazione omessa coincide con la funzione propria del pubblico ufficiale, competente ad effettuare tale prestazione, e certamente il dirigente dell’Ufficio del personale dell’E.S.A. era il referente del procedimento amministrativo al quale era interessato il F. e, in quanto tale, a prescindere dall’iter complesso che caratterizzava tale procedimento e che implicava una approfondita valutazione da parte della P.A., aveva – quanto meno – l’obbligo di dare riscontro alla diffida nel termine di legge previsto, informando l’interessato sullo stato del procedimento medesimo e sulle ragioni che ne determinavano il ritardo nella definizione. Tale obbligo non può ritenersi adempiuto con il tardivo invio della missiva 27/4/2005 al legale della parte civile.

Non va sottaciuto, infine, che, al di là della condotta materiale ascritta all’imputato, va approfondita l’indagine, sempre ai soli fini della responsabilità civile conseguente a reato, in ordine alla prospettazione soggettiva dell’agente.

La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata, ai soli effetti della responsabilità civile, con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso del Procuratore Generale.

Annulla agli effetti civili la sentenza impugnata e rimette le parti dinanzi al giudice civile competente per valore in grado di appello.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.