Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 06-04-2011) 09-06-2011, n. 23225

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La CdA di Catania, con la sentenza di cui in epigrafe, ha confermato la pronunzia di primo grado con la quale C.A. fu condannato alla pena di giustizia in quanto riconosciuto colpevole dei delitti di minaccia e tentate lesioni personali aggravate (così riformulata la originaria imputazione di tentato omicidio) e di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulla persona.

Ricorre per cassazione il difensore e deduce:

1) violazione dell’art. 192 c.p.p. e art. 52 c.p. e carenza dell’apparato motivazionale, atteso che erroneamente la Corte ha escluso che ricorressero i presupposti della legittima difesa. Non può assolutamente affermarsi che le dichiarazioni della pretesa PO abbiano carattere di linearità, costanza, coerenza e mancanza di contraddizione, meno che mai può dirsi che le stesse ricevano conferma nelle parole del teste P.; anzi proprio le dichiarazioni di costui, unitamente a quelle degli altri testi ( B. e T.) smentiscono l’assunto della PO con riferimento alle condizioni spazio-temporali in cui va inquadrato l’episodio. In nessun conto poi i giudici del merito hanno tenuto le lesioni riportate dall’imputato, che vengono attribuire alla condotta volontaria del suddetto (il quale si sarebbe procurato escoriazioni alla fronte cadendo all’indietro). Dette lesioni sono comprovate da certificazione medica che i giudicanti hanno del tutto ignorato.

Così stando le cose, non viene minimamente chiarito per qual motivo non sia credibile la versione dei fatti fornita dall’imputato, che ha affermato di avere scagliato il sasso contro il suo "avversario" dopo essere caduto a terra e quando questo ultimo era ormai sulla sua auto che già era in moto. Ciò è comprovato anche dalla dichiarazioni del teste D.V. che accompagnò in ospedale il C..

2) violazione degli artt. 521 e 522 c.p.p.. Essendo rimasto provato che l’imputato scagliò la pietra contro la presunta PO che era già in auto mentre egli si trovava già al suolo, è di tutta evidenza che trattasi di un gesto reattivo dettato dal senso di frustrazione derivante dalla aggressione che il C. ebbe a subire. Dunque i fatti si sono svolti con modalità ben differenti rispetto a quelle di cui alla contestazione, anche come modificata dal giudice di primo grado.

3) violazione dell’art. 43 c.p. e art. 530 c.p.p. e illogicità della motivazione. Per lo stesso motivo, non può ritenersi sussistente l’elemento soggettivo del delitto contestato. Aver scagliato un sasso contro un’auto ormai in movimento è, appunto, un gesto di stizza e non un’azione diretta a causare lesioni a terzi.

4) violazione dell’art. 612 c.p., comma 2 e art. 69 c.p., atteso che la CdA non motiva affatto in ordine alla aggravante contestata con riferimento al delitto di minaccia, nè in ordine alla richiesta dichiarazione di prevalenza delle attenuanti generiche e di quella della provocazione.
Motivi della decisione

La prima censura è inammissibile in quanto generica (nella parte in cui non tien conto delle argomentazioni svolte dalle sentenze di merito) e articolata in fatto (nella parte in cui propone una alternativa lettura degli elementi di prova posti dalla CdA a sostegno della decisione assunta).

La sentenza di secondo grado, in tutto confirmatoria di quella di primo, fa "corpo unico" con la stessa, di talchè le motivazioni delle due pronunzie devono essere lette come se costituissero un unico apparato giustificativo di una decisione che è rimasta invariata.

Ebbene, la ricostruzione in fatto proposta dalla PO e avallata dalle dichiarazioni del P. ha evidenziato come il C., a seguito di un alterco con il L., lo afferrò per una spalla, strappandogli la camicia; caduto al suolo (e feritosi), l’imputato si rialzò e minacciò il L., impugnando un coltello e brandendo una pietra. L., impaurito, montò in auto e mise in moto, ma la vettura fu raggiunta dalla pietra scagliata dal C., che infranse un finestrino e terminò la sua corsa sul sedile posteriore della vettura.

Il m.llo dei CC, cui la PO denunziò immediatamente il fatto, ascoltato in udienza, ha dato atto che l’auto del L. presentava un finestrino infranto e che, al suo interno, vi era una "pietra non piccola" (sent. primo grado, settima facciata).

Tali essendo le risultanze probatorie, come esposte dai giudici di merito, da un lato, non si comprende come il ricorrente possa sostenere che le parole della PO abbiano trovato smentita in quelle degli altri testi, dall’altro, meno ancorarsi comprende come possa sostenersi che la condotta del C. integri gli estremi della legittima difesa, atteso che non risulta che L. avesse assunto atteggiamento aggressivo.

Quanto all’apporto del teste D.V., è chiarito nelle sentenze di merito che costui non fu presente ai fatti, ma si limitò ad accompagnare il C. (che si era ferito cadendo al suolo) in ospedale.

La seconda censura, come acutamente osservato dal PG in udienza, è in frontale contraddizione con la prima. Sostenere che l’imputato scagliò la pietra quando ormai il L. si era allontanato (ed era quindi "fuori tiro"), significa sostenere, implicitamente che non sussisteva più l’attualità del pericolo e, dunque, la necessità di scongiurarlo con un gesto di violenza. Pertanto; o ricorrevano gli estremi della legittima difesa (e allora la seconda censura non ha senso) o, per accreditare tale seconda censura, devesi ritenere che la reazione non fu necessaria per neutralizzare il pericolo (e allora non ha senso la prima).

In ogni caso, non si vede in cosa consista la dedotta non coincidenza tra imputazione e sentenza, dal momento che la ricostruzione dei fatti operata dai giudici di merito (sopra sintetizzata) vuole che la pietra sia stata lanciata da una distanza che certo non ne neutralizzava la pericolosità, se è vero che la stessa mandò in frantumi un finestrino dell’auto della PO. Detta censura dunque è, al tempo stesso, manifestamente infondata e articolata in fatto.

Contraddittoria (con la prima), a ben vedere, è anche la terza censura. Delle due l’una: o il lancio del sasso aveva finalità ed efficacia difensive, o non le aveva. Poichè la CdA (e prima ancora il Tribunale) ha ritenuto e provato che il lancio aveva capacità offensiva e che il C. prima minacciò con un coltello e – appunto – con un sasso la PO e poi lo scagliò, è di tutta evidenza che non illogicamente i giudici del merito hanno ritenuto che fosse sua intenzione colpire il L..

La quarta censura è infondata.

E’ pur vero che manca una esplicita motivazione, sia in ordine alla sussistenza della contestata aggravante, sia in riferimento al giudizio di mera equivalenza operato dal giudicante, ma, per quel che riguarda l’aggravante, si deve notare che, dal contesto della motivazione, si evince che le parole minacciose furono pronunziate mentre il C. impugnava un coltello (dunque ricorre la fattispecie ex art. 612 c.p., comma 2 e art. 339 c.p., comma 1), per quel che riguarda il trattamento sanzionatorio, si deve ricordare che il giudice di primo grado, sia pure con motivazione sintetica, nel riconoscere le circostanze attenuanti generiche, ha chiarito i motivi della ritenuta equivalenza (gravità e modalità della condotta – rubricata, in un primo momento, come tentato omicidio – personalità dell’imputato, indice di un’indole aggressiva e violenta, desumibile, tra l’altro, dalla esibizione del coltello).

Ebbene, è stato ritenuto da questa Corte (ASN 198607097-RV 173344) che, nel caso in cui all’obbligo della motivazione in ordine alla valutazione delle circostanze concorrenti abbiano adeguatamente e correttamente adempiuto i giudici di primo grado e l’imputato abbia, in sede di gravame, motivato la reiterazione della richiesta di prevalenza delle attenuanti con i medesimi, specifici elementi ritenuti inidonei nella sentenza impugnata, i giudici di appello non sono tenuti alla esposizione analitica delle ragioni che li hanno indotti a confermare l’equivalenza, piuttosto che la prevalenza, essendo sufficiente, in tal caso, il richiamo, anche implicito, a quelle esposte dai primi giudici.

Conclusivamente, il ricorso merita rigetto e il ricorrente va condannato alle spese del grado. Va anche condannato al ristoro delle spese sostenute dalla PC in questo grado di giudizio, che si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento, nonchè alla rifusione delle spese in favore della costituita parte civile, che liquida in Euro milleottocento (1.800) complessivi, oltre accessori come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Lazio Latina Sez. I, Sent., 29-06-2011, n. 573

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. In data 4 luglio 2007 la ricorrente si aggiudicava a seguito di asta indetta dal comune di Cassino il precedente 17 aprile un suolo sito in viale Europa e contrassegnato in catasto al foglio n. 89, particella n. 791 di mq. 1.514.

Tale suolo – alla data dell’aggiudicazione – secondo il P.R.G. vigente era destinato a "sede stradale" (e secondo una variante adottata il 23 dicembre 2004 era oggetto della seguente previsione: "conservazione dei volumi: art. 57 n.t.a.").

Con la delibera n. 51/19 del 13 ottobre 2008 il comune – tra l’altro – variava la destinazione urbanistica di tale suolo nel modo seguente: "Conservazione dei volumi esistenti – art. 57 n.t.a. Variante – volume edificabile pari al 25% della superficie del lotto, altezza massima 13,50 metri". Il tutto nell’ambito di una delibera (la n. 51/19 citata) che dava attuazione alla previsione dell’articolo 58 (Ricognizione e valorizzazione del patrimonio immobiliare di regioni, comuni ed altri enti locali) del d.l. 25 giugno 2008, n. 112, convertito con modificazioni dalla 6 agosto 2008, n. 133.

Con la delibera impugnata il Consiglio comunale di Cassino ha annullato questo mutamento di destinazione urbanistica, nel presupposto dell’illegittimità dell’applicazione alla vendita alla ricorrente della previsione del citato articolo 58.

2. Con il ricorso all’esame la signora C. impugna la delibera del 19 luglio 2010 deducendo che essa è illegittima perché non adottata dalla prescritta maggioranza.

3. Il comune di Cassino si è costituito in giudizio.

4. Preliminarmente occorre esaminare l’eccezione di difetto di legittimazione attiva sollevata dal comune di Cassino nella memoria depositata il 9 maggio 2011; il comune contesta che la ricorrente non abbia in alcun modo censurato il contenuto della delibera affidando le sue doglianze esclusivamente a motivi di carattere giuridico relative al procedimento di formazione della volontà dell’organo collegiale.

L’eccezione è infondata, dato che il destinatario degli effetti pregiudizievoli di un provvedimento può, avverso il medesimo, formulare sia censure di carattere sostanziale che censure di carattere formaleprocedurale relative alle modalità di formazione della volontà dell’organo emanante il medesimo, come avviene nel caso specifico.

5. Nel merito il ricorso è fondato e va accolto.

Ai fini della decisione è necessaria una sintetica premessa sulla disciplina relativa alle sedute del Consiglio comunale di Cassino.

5.1. Lo statuto dispone all’articolo 34 che "1. il Consiglio comunale si riunisce, senza computare a tal fine il Sindaco, validamente con la presenza della metà dei consiglieri assegnati, salvo che sia richiesta una maggioranza speciale. 2. Nella seduta di seconda convocazione è sufficiente per la validità dell’adunanza l’intervento di almeno dieci consiglieri".

A sua volta l’articolo 44 del regolamento del consiglio comunale ribadisce al primo comma il principio della validità delle sedute a condizione che sia presente la metà dei consiglieri assegnati; il successivo articolo 45 stabilisce al primo comma che "l’adunanza di seconda convocazione fa seguito in giorno diverso per ogni argomento iscritto all’ordine del giorno ad altra riunione andata deserta per mancanza del numero legale"; il terzo comma stabilisce quindi che "nell’adunanza di seconda convocazione… le deliberazioni…. sono valide purchè intervenga un terzo dei consiglieri assegnati senza computare a tal fine il Sindaco".

5.2. Ad avviso della ricorrente la disciplina sopra citata è stata violata in quanto alla seduta del Consiglio in cui è stata approvata la delibera impugnata erano presenti quattordici consiglieri e il Sindaco e, essendo tale seduta di prima convocazione, mancava il prescritto numero legale di quindici consiglieri (cioè la metà dei componenti dell’organo senza computare a tal fine il Sindaco).

Intuibilmente opposta è la tesi sostenuta dal comune che sostiene che la delibera impugnata è stata approvata in "seconda convocazione" con la conseguenza che l’assemblea consiliare era legittimamente costituita, essendo presenti almeno dieci dei consiglieri assegnati.

5.3. Al fine di comprendere la sostanza del problema occorre premettere in fatto che:

a) in data 23 giugno 2010 era convocata seduta ordinaria di prima convocazione per la trattazione nei giorni 5 e 9 luglio dei seguenti oggetti: "1) piano triennale del LL.PP. – discussione e approvazione; 2) bilancio di previsione esercizio finanziario 2010, relazione previsionale e programmatica e bilancio pluriennale 20102012 e relativi allegati"; la seduta del 5 luglio non poteva svolgersi mancando il numero legale;

b) in data 7 luglio 2010 era convocata, previo annullamento della convocazione della seduta del 9 luglio, seduta ordinaria di 2° e 1° convocazione per la trattazione, nelle date del 16, 17 e 19 luglio: b1) in 2° convocazione degli oggetti già posti all’ordine del giorno della seduta del 5 luglio; b2) in 1° convocazione, di provvedimenti relativi alla delibera C.C. n. 51/19 del 13 ottobre 2008; la seduta del 16 luglio 2010 non poteva svolgersi per la mancanza del numero legale essendo intervenuti il Sindaco e 9 consiglieri (e difettando pertanto il quorum strutturale sia per la parte di ordine del giorno da trattare in 2° convocazione che – a maggior ragione – per la parte di ordine del giorno da trattare in 1° convocazione); parimenti non si svolgeva la seduta del 17 luglio alla quale erano invece presenti il Sindaco e 11 consiglieri (al riguardo è opportuno precisare che per espresso disposto dell’articolo 44, comma 4, del regolamento citato anche in seconda convocazione per la trattazione di bilancio e relative relazioni previsionali si richiede il quorum strutturale di 15 consiglieri);

c) alla seduta del 19 luglio 2010 intervenivano invece il Sindaco e 14 consiglieri per cui la seduta veniva aperta; si constatava l’assenza del numero legale per la trattazione del piano triennale dei LL.PP. e del bilancio di previsione e della relazione previsionale e programmatica, non essendo presenti almeno 15 consiglieri; a questo punto uno dei consiglieri chiedeva che si invertisse l’ordine del giorno e si esaminasse il punto 1 della parte di ordine del giorno da trattare in prima convocazione, nel presupposto che per questa parte il numero legale vi fosse; la proposta era approvata all’unanimità e, parimenti all’unanimità, era quindi approvata la delibera impugnata.

5.4. Ciò premesso in punto di fatto, si possono esporre le posizioni delle parti.

Per la ricorrente la seduta del 19 luglio 2010, limitatamente all’oggetto che viene in rilievo nella controversia, doveva considerarsi seduta di prima convocazione, come del resto specificato dall’avviso di convocazione, e non potesse quindi assolutamente considerarsi come seduta di seconda convocazione.

Opposta è la ricostruzione del comune secondo cui la seduta di seconda convocazione è quella che fa seguito, in giorno diverso, a una seduta di prima convocazione andata deserta e avente il medesimo ordine del giorno. Ciò è quanto si è verificato nel caso all’esame dato che le sedute del 16 e 17 luglio erano andate deserte. Quindi la seduta del 19 luglio 2010, facendo seguito ad altra seduta di prima convocazione andata deserta, andava considerata come seduta di seconda convocazione, con conseguente sussistenza del numero legale e conseguente legittimità della delibera impugnata.

5.5. Il Collegio condivide le argomentazioni della ricorrente.

La seduta del 19 luglio era, relativamente all’oggetto che interessa il presente processo (al quale d’ora in poi si farà esclusivo riferimento), individuata come seduta di prima convocazione, per cui il quorum strutturale necessario ai fini della valida costituzione dell’assemblea doveva intendersi fissato in quindici consiglieri, escluso il Sindaco.

La tesi del comune secondo cui, per poter considerare una seduta di seconda convocazione, non è necessario che l’avviso di convocazione la individui come tale ma è sufficiente che essa abbia i caratteri indicati nel primo comma dell’articolo 45 non è persuasiva, nel senso che è senz’altro possibile che la seduta di prima convocazione e quella di seconda convocazione siano convocate contestualmente ma l’avviso deve essere esplicito indicando chiaramente che la seduta successiva a quella indetta per prima è di seconda convocazione.

Questa ricostruzione è confermata sul piano giuridico dal comma 6 dell’articolo 45 che espressamente considera l’ipotesi in cui l’avviso di prima convocazione contenga anche l’avviso di convocazione per la seconda convocazione, stabilendo che, qualora quest’ultima si renda necessaria, il Presidente è tenuto a inviare un avviso ai consiglieri che non siano intervenuti alla seduta di prima convocazione o che siano risultati assenti al momento in cui questa, legalmente costituitasi, fu dichiarata deserta.

Da questa disposizione si desume che l’avviso deve esplicitamente individuare la seduta successiva come di seconda convocazione e che, ove la seduta di seconda convocazione si renda effettivamente necessaria, un avviso della medesima deve essere inviato almeno 24 ore prima ai consiglieri risultati assenti.

Nella fattispecie non solo la seduta del 19 luglio non era individuata come di seconda convocazione ma neppure risulta che i consiglieri risultati assenti alle sedute del 16 e del 17 luglio abbiano ricevuto l’avviso previsto dall’articolo 45, comma 6.

A ciò si aggiunge che la ricorrente ha depositato il 13 gennaio 2011 documentazione – peraltro relativa proprio all’approvazione del bilancio 2010 e della relazione previsionale e programmatica – che dimostra che la prassi consiliare è pienamente allineata alla normativa citata; è infatti stato depositato l’avviso relativo alla prima convocazione (per il 29 aprile 2010) che contemplava esplicitamente la convocazione dell’adunanza di seconda convocazione (per il successivo 30 aprile) e copia dell’avviso – inviato ai consiglieri assenti – che la seduta di prima convocazione era andata deserta e della conseguente conferma della seduta di seconda convocazione.

6. Il ricorso va quindi accolto e l’atto impugnato annullato. Sussistono giusti motivi per disporre la compensazione tra le parti delle spese di giudizio.

P.Q.M.

Il Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sezione staccata di Latina, definitivamente pronunciandosi sul ricorso in epigrafe, lo accoglie e, per l’effetto, annulla l’atto impugnato.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 30-11-2011, n. 25565 Cosa in custodia

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Svolgimento del processo

1. La Corte di appello di Catania, con sentenza pubblicata il 2 agosto 2006, in riforma della sentenza del tribunale del 18 dicembre 2001, ha rigettato le domande proposte da F.A. quale parte lesa da sinistro stradale, nei confronti del Comune di Catania, della società Enel spa e della MAA ass.spa, assicuratrice della società I.E.T. curatela fallimentare, contumace in appello, condannando il F. a rifondere le spese dei due gradi del giudizio. La decisione del tribunale era stata oggetto di appello principale da parte del F. in punto di concorso di colpa al 40% e di liquidazione dei danni, e di appello incidentale da parte del Comune, dello Enel e della nuova Maa. La Corte riteneva fondati gli appelli incidentali. Per quanto qui ancora interessa la Corte di appello, investita del riesame del merito, attraverso una analisi critica delle prove in ordine alla dinamica del sinistro, avvenuto in (OMISSIS), con la caduta del motociclo condotto dal F. in presenza di un avvallamento sulla sede stradale, subito dopo un dosso, con lesioni gravi e danni materiali, escludeva la causa dello incidente fosse costituita da una buca presente sulla carreggiata, trattandosi invece di un avvallamento in un tratto della carreggiata maldestramente riparata, e cioè di un ostacolo avvistabile e non costituente insidia. Il fatto dannoso era allora imputabile unicamente alla condotta imprudente e negligente del motociclista a titolo esclusivo, non avendo adeguato la velocità allo stato dei luoghi.

La corte, pur non qualificando espressamente il titolo della responsabilità, nella parte narrativa dava atto che era controverso il titolo, se quello della responsabilità per il neminem laedere o se quello della responsabilità per la custodia, ma interpretando la citazione ordinaria propendeva per la responsabilità aquiliana da illecito in generale, escludendo sia la insidia, sia il nesso di causalità tra la condotta del Comune o delle società convenute che avevano eseguito lavori di elettrificazione, riparando il manto stradale, e quindi anche la responsabilità solidale della assicuratrice.

2. Contro la decisione ha proposto ricorso il F. deducendo dieci motivi di censura, cui replicano il Comune e l’Enel con controricorso e memoria; non resistono le altre parti, ritualmente citate.

Motivi della decisione

3. Il ricorso non merita accoglimento in ordine ai motivi dedotti.

Per chiarezza espositiva se ne offre una sintesi descrittiva ed a seguire la confutazione in diritto, al punto 4.

SINTESI DEI MOTIVI. Nel PRIMO motivo si deduce error in iudicando per disapplicazione della norma di cui all’art. 2051 C.d.S., che pure doveva considerarsi in ordine al fatto dannoso descritto nella citazione, con evidente riferimento alla responsabilità del custode Comune e degli enti intervenuti sulla sede viaria. IL QUESITO viene posto in termini a pag. 6 del ricorso.

Nel SECONDO motivo si denuncia violazione dell’art. 2049 c.c., in relazione ai lavori eseguiti dalla Impresa elettrica telefonica s.r.l. su commissione dell’Enel, che prevedevano il ripristino del manto stradale.

Nel TERZO MOTIVO si denuncia carenza assoluta di motivazione circa la individuazione delle norme regolatrici della fattispecie concreta.

Nel QUARTO motivo si denuncia congiuntamente la violazione degli artt. 2043, 2049 e 2051 c.c., sotto il profilo della errata esclusione della insidia, in relazione al c.d. avvallamento.

Nel QUINTO motivo si deduce la violazione degli artt. 2733 e 2755 c.c., in relazione alla valutazione delle relazioni di servizio dello agente M. e del rapporto degli agenti C. e G., contenenti la descrizione dei fatti e dei luoghi.

Nel SESTO motivo si deduce, come vizio di motivazione, la carenza o la insufficienza della motivazione in ordine alla natura ed al valore probatorio degli atti amministrativi contenente la narrazione di fatti contrari alla amministrazione convenuta.

Nel SETTIMO motivo si deduce la violazione dell’art. 2700, sul rilievo che gli atti amministrativi richiamati, per le circostanze di fatto che assumono accertate, hanno un grado di attendibilità elevato. Quesiti in termini a ff 13 del ricorso.

Nell’OTTAVO MOTIVO si deduce la violazione dello art. 2727 c.c. in relazione dall’art. 360 c.p.c., n. 3, nel punto in cui la Corte accerta in via presuntiva la responsabilità esclusiva del motociclista. Quesito a ff 15.

Nel NONO MOTIVO si deduce carenza o insufficienza della motivazione in ordine al convincimento del giudice del merito.

Nel DECIMO motivo di deduce la contraddittorietà della motivazione in ordine alla valutazione del rapporto della polizia municipale, dotato di pubblica fede.

CONFUTAZIONE IN PUNTO DI DIRITTO. Il giudizio di Cassazione, anche dopo la riforma procedurale che introduce la obbligatorietà dei quesiti di diritto e la precisa individuazione del fatto controverso in relazione a vizi motivazionali, è un giudizio a critica vincolata, delimitato e vincolato dai motivi di ricorso, in ordine ai quali ciascun motivo assolve ad una funzione condizionante della impugnazione.

In relazione a tale premessa, che tiene conto degli apporti dottrinali, occorre considerare che tutte le censure espresse come vizi della motivazione nel terzo, nel sesto, nel nono e nel decimo motivo, non appaiono conformi al criterio della chiara indicazione del fatto controverso in ordine al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria e non indicano specificamente le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione. I motivi sono pertanto inammissibili ai sensi dell’art. 366 bis cod. proc. civ., nella parte dedicata ai vizi motivazionali.

La ragione di tale difformità al modello che delimita tali vizi, risiede nella sottovalutazione del principio della formulazione della domanda, che non contiene dalla sua origine la chiara formulazione della causa petendi come poi viene evidenziata e precisata nel corso delle varie fasi del giudizio,con continui aggiustamenti. Il primo giudice, pur accogliendo in parte le domande del F., con un concorso di responsabilità, evidenzia chiaramente di applicare la norma del neminem laedere, descrivendo una situazione di pericolo occulto qualificabile come insidia. Ha poi ritenuto la responsabilità dello Enel e della società che eseguì le opere di costruzione del manto stradale, per il concorso nel fatto dannoso ai sensi dell’art. 2055 c.c..

Il F., appellante principale, nelle conclusioni svolte in appello e riprodotte nella parte narrativa di tale sentenza, chiede la condanna solidale di tutti i convenuti al risarcimento di tutti i danni patrimoniali e non derivanti dal sinistro, mentre il Comune e l’Enel, appellanti incidentali, deducono la mancanza della prova del nesso di causalità con una anomalia della sede stradale caratterizzata dalla invisibilità ed imprevedibilità.

La Corte di appello, investita del riesame del merito, ma nei limiti del devolutum, ha ampiamente indicato le ragioni che censurano la sentenza del tribunale fondata sulla norma generale dello illecito civile, applicata alla pubblica amministrazione, accertando e motivando in ordine al profilo causale e di imputabilità soggettiva delle varie concorrenti condotte, dando priorità logica al primo accertamento proprio in ordine alla valutazione della c.d. insidia – vedi per un approfondimento Cass. 22 dicembre 2006 n. 27498 e Cass. SU 1 ottobre 2007 n. 2063 e 30 dicembre 2009 od. n. 27680.

IN CONCLUSIONE i vizi di motivazione come formulati con censurano le chiare rationes decidendi in relazione alla prova del fatto storico dannoso, ma intendono sorreggere una diversa rappresentazione dei fatti e delle prove, favorevole alla tesi del ricorrente di non avere colpa alcuna in ordine alla sua caduta dalla moto. DOVE al rilievo formale della inammissibilità si aggiunge quello della infondatezza.

Ma anche gli errores in iudicando denunciati nel primo, nel secondo, nel quarto, nel quinto, nel settimo e nell’ottavo motivo sono in parte inammissibili ed in parte manifestamente infondati.

Il primo, il secondo, ed il quarto motivo, vengono in esame unitario, posto che riguardano la qualificazione giuridica della domanda e delle sue causae petendi verso il Comune ed i suoi solidali, prescindendo dalla corretta valutazione giuridica data dai due giudici del merito che si sono mantenuti nell’ambito delle norme di cui agli artt. 2043 e 2055 cod. civ.. Tale delimitazione del devolutum non risulta dalla impugnazione in appello ed introduce motivi nuovi e inammissibili in questa sede. Risultano pertanto inammissibili i quesiti posti a sostegno di una censura alla qualificazione giuridica della domanda, ormai preclusa, essendosi svolto un sostanziale contraddittorio sul punto nella fase del merito. Il quarto motivo, nella parte relativa allo accertamento della insidia, è inammissibile in quanto riguarda un prudente apprezzamento delle prove.

Manifestamente infondati, oltre che inammissibili sotto il profilo della autosufficienza, risultano il quinto, il settimo e l’ottavo motivo che attengono alla valutazione delle prove ed alla maggiore attendibilità dei rapporti dei vigili verbalizzanti intervenuti sul luogo del c.d. avvallamento.

Qui il giudice del merito e del riesame hanno compiuto una diversa valutazione della medesima situazione di fatto, pervenendo a conclusioni diverse, e la seconda conclusione sfavorevole all’imprudente motociclista, pone in evidenza che la imputabilità dello evento gli è imputabile in via esclusiva,con un apprezzamento in fatto congruamente motivato, senza che possa ravvisarsi la violazione delle norme sostanziali richiamate, e senza che possa dirsi che la responsabilità sia stata ritenuta per via presuntiva – se si considera la chiara ratio decidendi a ff 11 della motivazione.

IN CONCLUSIONE il ricorso deve essere rigettato ed il ricorrente deve rifondere le spese del grado in favore delle parti costituite Comune di Catania ed Enel nella misura indicata nel dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna F.A. a rifondere le spese del giudizio di Cassazione al Comune di Catania ed a Enel Distribuzione spa, che liquida a ciascuna parte in Euro 3.200,00 di cui Euro 200,00 per spese, oltre accessori e spese generali come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 19-12-2011, n. 27371

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

La parte ricorrente chiede l’annullamento della sentenza di appello che ha negato il suo diritto al riconoscimento integrale dell’anzianità maturata presso l’ente locale di provenienza da parte del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca (MIUR).

La medesima questione è stata già decisa da Cass. 12 ottobre 2011, n. 20980 e Cass. 14 ottobre 2011, n. 21282, cui si rinvia per una motivazione più analitica. In estrema sintesi, deve rilevarsi quanto segue.

La controversia concerne il trattamento giuridico ed economico del personale amministrativo, tecnico ed ausiliario (ATA) della scuola trasferito dagli enti locali al Ministero in base alla L. 3 maggio 1999, n. 124, art. 8.

Tale norma fu oggetto di un vasto contenzioso concernente, specificamente, l’applicazione che della stessa venne data dal D.M. Pubblica Istruzione 5 aprile 2001, che recepì l’accordo stipulato tra l’ARAN e i rappresentanti delle organizzazioni sindacali in data 20 luglio 2000. Le controversie giudiziarie riguardarono in particolare la possibilità di incidere, su di una norma di rango legislativo, da parte di un accordo sindacale poi recepito in D.M..

La giurisprudenza si orientò in senso negativo, sebbene con percorsi argomentativi diversi (ex plurimis, Cfr. Cass., 17 febbraio 2005, n. 3224; 4 marzo 2005, n. 4722, nonchè 27 settembre 2005, n. 18829).

Intervenne il legislatore, dettando la L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 218 (Finanziaria del 2006), che recepì, a sua volta, i contenuti dell’accordo sindacale e del D.M.. Il legislatore elevò, quindi, a rango di legge la previsione dell’autonomia collettiva.

Si sostenne, da un lato, che tale norma non avesse efficacia retroattiva e, dall’altro, che se dotata di efficacia retroattiva, fosse incostituzionale sotto molteplici profili. Entrambe le posizioni sono stata giudicate non fondate. L’efficacia retroattiva è stata affermata da questa Corte (per tutte, S.U., 8 agosto 2011, n. 17076) e dalla Corte costituzionale (sentenza n. 234 del 2007).

L’incostituzionalità è stata esclusa in quattro interventi del giudice delle leggi (Corte cost. n. 234 e n. 400 del 2007; n. 212 del 2008; n. 311 del 2009). Per tali motivi, ricorsi di contenuto analogo a quello qui considerato, sono stati respinti (cfr. per tutte, Cass., 9 novembre 2010, n. 22751).

Questo approdo deve ora essere integrato con quanto statuito dalla Corte di giustizia dell’Unione europea (Grande sezione) nella sentenza 6 settembre 2011 (procedimento C- 108/10), emessa su domanda di pronuncia pregiudiziale in merito all’interpretazione della direttiva del Consiglio 14 febbraio 1977, 77/187/CEE. La Corte ha risposto a quattro questioni poste dal Tribunale di Venezia. La prima consisteva nello stabilire se il fenomeno successorio disciplinato dalla L. n. 124 del 1999, art. 8 costituisca un trasferimento d’impresa ai sensi della normativa dell’Unione relativa al mantenimento dei diritti dei lavoratori. La soluzione è affermativa ("La riassunzione, da parte di una pubblica autorità di uno Stato membro, del personale dipendente di un’altra pubblica autorità, addetto alla fornitura, presso le scuole, di servizi ausiliari comprendenti, in particolare, compiti di custodia e assistenza amministrativa, costituisce un trasferimento di impresa ai sensi della direttiva del Consiglio 14 febbraio 1977, 77/187/CEE, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di stabilimenti, quando detto personale è costituito da un complesso strutturato di impiegati tutelati in qualità di lavoratori in forza dell’ordinamento giuridico nazionale di detto Stato membro").

Con la seconda e la terza questione si chiedeva alla Corte di stabilire: -se la continuità del rapporto di cui all’art. 3, n. 1 della 77/187 deve essere interpretata nel senso di una quantificazione dei trattamenti economici collegati presso il cessionario all’anzianità di servizio che tenga conto di tutti gli anni effettuati dal personale trasferito anche di quelli svolti alle dipendenze del cedente (seconda questione);

-se tra i diritti del lavoratore che si trasferiscono al concessionario rientrano anche posizioni di vantaggio conseguite dal lavoratore presso il cedente quale l’anzianità di servizio se a questa risultano collegati nella contrattazione collettiva vigente presso il cessionario, diritti di carattere economico (terza questione). Il dispositivo della decisione è: "quando un trasferimento ai sensi della direttiva 77/187 porta all’applicazione immediata, ai lavoratori trasferiti, del contratto collettivo vigente presso il cessionario e inoltre le condizioni retributive previste da questo contratto sono collegate segnatamente all’anzianità lavorativa, l’art. 3 di detta direttiva osta a che i lavoratori trasferiti subiscano, rispetto alla loro posizione immediatamente precedente al trasferimento, un peggioramento retributivo sostanziale per il mancato riconoscimento dell’anzianità da loro maturata presso il cedente, equivalente a quella maturata da altri lavoratori alle dipendenze del cessionario, all’atto della determinazione della loro posizione retributiva di partenza presso quest’ultimo. E’ compito del giudice del rinvio esaminare se, all’atto del trasferimento in questione nella causa principale, si sia verificato un siffatto peggioramento retributivo".

Il giudice nazionale è quindi chiamato dalla Corte di giustizia ad accertare se, a causa del mancato riconoscimento integrale della anzianità maturata presso l’ente cedente, il lavoratore trasferito abbia subito un peggioramento retributivo.

In motivazione la Corte rileva che, una volta inquadrato nel concetto di trasferimento d’azienda e quindi assoggettato alla direttiva 77/187, al trasferimento degli ATA si applica non solo il n. 1 dell’art. 3 della direttiva, ma anche il n. 2, disposizione che riguarda segnatamente l’ipotesi in cui l’applicazione del contratto in vigore presso il cedente venga abbandonata a favore di quello in vigore presso il cessionario (come nel caso in esame). Il cessionario ha diritto di applicare sin dalla data del trasferimento le condizioni di lavoro previste dal contratto collettivo per lui vigente, ivi comprese quelle concernenti la retribuzione (punto n. 74 della sentenza). Ciò premesso, la Corte sottolinea che gli stati dell’Unione, pur con un margine di elasticità, devono attenersi allo scopo della direttiva, consistente "nell’impedire che i lavoratori coinvolti in un trasferimento siano collocati in una posizione meno favorevole per il solo fatto del trasferimento" (n. 75, il concetto è ribadito al n. 77 in cui si precisa che la direttiva "ha il solo scopo di evitare che determinati lavoratori siano collocati, per il solo fatto del trasferimento verso un altro datore di lavoro, in una posizione sfavorevole rispetto a quella di cui godevano precedentemente").

Quindi, nella definizione delle singole controversie, è necessario stabilire se si è in presenza di condizioni meno favorevoli. A tal fine, il giudice del rinvio deve osservare i seguenti criteri.

1. Quanto ai soggetti la cui posizione va comparata, il confronto è con le condizioni immediatamente antecedenti al trasferimento dello stesso lavoratore trasferito (così il n. 75 e, al n. 77, si precisa "posizione sfavorevole rispetto a quella di cui godevano prima del trasferimento". Idem nn. 82 e 83). Al contrario, non ostano eventuali disparità con i lavoratori che all’atto del trasferimento erano già in servizio presso il cessionario (n. 77).

2. Quanto alle modalità, si deve trattare di peggioramento retributivo sostanziale (così il dispositivo) ed il confronto tra le condizioni deve essere globale (n. 76: "condizioni globalmente meno favorevoli"; n. 82: "posizione globalmente sfavorevole"), quindi non limitato allo specifico istituto.

3. Quanto al momento da prendere in considerazione, il confronto deve essere fatto all’atto del trasferimento (nn. 82 e 84, oltre che nel dispositivo: "all’atto della determinazione della loro posizione retributiva di partenza").

La quarta ed ultima questione posta dal Tribunale di Venezia atteneva alla conformità della disciplina italiana e specificamente della Legge Finanziaria del 2006, art. 1, comma 218, all’art. 6, n. 2 TUE in combinato disposto con gli artt. 6 della CEDU e artt. 46, 47 e 52 n. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000, come recepiti nel Trattato di Lisbona. La Corte, dando atto della pronunzia emessa il 7 giugno 2011 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, ha statuito che "vista la risposta data alla seconda ed alla terza questione, non c’è più bisogno di esaminare se la normativa nazionale in oggetto, quale applicata alla ricorrente nella causa principale, violi i principi" di cui alle norme su indicate. La sentenza della Corte di giustizia incide sul presente giudizio. In base all’art. 11 Cost. e all’art. 117 Cost., comma 1, il giudice nazionale e, prima ancora, l’amministrazione, hanno il potere-dovere di dare immediata applicazione alle norme della Unione europea provviste di effetto diretto, con i soli limiti derivanti dai principi fondamentali dell’assetto costituzionale dello Stato ovvero dei diritti inalienabili della persona, nel cui ambito resta ferma la possibilità del controllo di costituzionalità (cfr, per tutte, Corte cost. sentenze n. 183 del 1973 e n. 170 del 1984; ordinanza n. 536 del 1995 nonchè, da ultimo, sentenze n. 284 del 2007, n. 227 del 2010, n. 288 del 2010, n. 80 del 2011). L’obbligo di applicazione è stato riconosciuto anche nei confronti delle sentenze interpretative della Corte di giustizia (emanate in via pregiudiziale o a seguito di procedura di infrazione) ove riguardino norme europee direttamente applicabili (cfr. Corte cost. sentenze n. 113 del 1985, n. 389 del 1989 e n. 168 del 1991, nonchè, sull’onere di interpretazione conforme al diritto dell’Unione, sentenze n. 28 del 2010 e n. 190 del 2000).

Il caso in esame deve quindi essere deciso in consonanza con la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea. Ciò comporta che il ricorso deve essere accolto perchè la violazione del complesso normativo, costituito dalla L. n. 124 del 1999, art. 8 e L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 218 denunziata, deve essere verificata in concreto sulla base dei principi enunciati dalla Corte di giustizia europea. La decisione impugnata deve, pertanto, essere cassata con rinvio alla medesima Corte d’appello in diversa composizione, la quale, applicando i criteri di comparazione su indicati, dovrà decidere la controversia nel merito, verificando la sussistenza, o meno, di un peggioramento retributivo sostanziale all’atto del trasferimento e dovrà accogliere o respingere la domanda del lavoratore in relazione al risultato di tale accertamento. Il giudice del rinvio provvederà anche sulle spese del giudizio. Il collegio ha deliberato che la presente sentenza venisse redatta con motivazione semplificata.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa e rinvia alla medesima Corte d’appello in diversa composizione, anche per le spese.

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