Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 13-07-2011) 17-08-2011, n. 32146 Violenza sessuale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1) Le precedenti fasi processuali.

La Corte d’Appello di Bologna con sentenza 6 luglio 2010 -giudicando in sede di rinvio a seguito dell’annullamento pronunziato dalla terza sezione di questa Corte con sentenza 27 maggio 2009 – ha parzialmente riformato la sentenza 23 maggio 2007 del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Parma che, all’esito del giudizio abbreviato condizionato, aveva condannato D.M. alla pena di anni dodici di reclusione per vari episodi di violenza sessuale in danno di minori commessi nel periodo in cui il predetto, sacerdote, era responsabile della missione cattolica di (OMISSIS), sita nello – Stato del (OMISSIS).

In particolare gli abusi, in tesi di accusa, erano stati commessi in danno di S.R.O.I. (capo A: art. 609 bis, comma 2, n. 1 e art. 609 ter cod. pen., n. 1) anche prima che questi compisse i quattordici anni di età; di R.G.J.C., all’epoca sedicenne (capo B: art. 609 bis, comma 1 e art. 609 septies cod. pen., comma 4, n. 2) e di N.M.R.A., all’epoca quindicenne (capo C: art. 609 bis, comma 1 e art. 609 septies cod. pen., comma 4, n. 2).

Riferisce la Corte del rinvio che per altri numerosi abusi non si è proceduto per mancanza della condizione di procedibilità della richiesta del Ministro e perchè si trattava di reati ormai da tempo prescritti; ricorda ancora che, nel computer portatile del sacerdote, rientrato in Italia nel 2006 erano state rinvenute 1.400 immagini pedopornografiche con – la conseguente contestazione, (cui è seguita la condanna), anche del delitto di cui all’art. 600 quater cod. pen., commi 1 e 2 (capo D).

Entrambi i giudici della prima fase di merito hanno ritenuto attendibili le accuse confermate da altre persone – in particolare i volontari che prestavano la loro attività presso la missione – che avevano riferito delle confidenze loro fatte dai minori la cui attendibilità era stata confermata anche da una consulenza psicologica disposta dal pubblico ministero e dal contenuto delle conversazioni intercettate dalle quali era emersa anche una consistente attività di inquinamento delle prove posta in essere dal sacerdote e da suoi familiari anche con minacce alle persone offese e ai loro familiari.

La Corte di cassazione, con la sentenza già ricordata, ha dichiarato improcedibili, per mancanza della condizione di procedibilità (richiesta del ministro), i fatti commessi fino all’11 agosto 1998;

questa data corrisponde a quella di entrata in vigore della L. 3 agosto 1998, n. 269 il cui art. 10 ha sostituito l’art. 604 cod. pen. che, nella nuova formulazione, non prevede più la richiesta del Ministro per la procedibilità dei reati di cui agli artt. 609 bis e segg., commessi in danno di un cittadino straniero.

In conseguenza di questa modifica normativa la Corte di cassazione, ritenendo che l’innovazione normativa non potesse avere effetto per il passato, ha pronunziato annullamento senza rinvio per i fatti commessi anteriormente alla data indicata. Ha invece annullato con rinvio la sentenza di secondo grado, limitatamente ai fatti commessi dopo la data indicata, con riferimento alla motivazione sull’attendibilità delle persone offese per i capi A, B e C, all’acquisizione di documentazione negata dal giudice di appello e alla concessione delle attenuanti generiche.

2) Il giudizio di rinvio.

Giudicando in sede di rinvio la Corte d’Appello di Bologna ha ritenuto attendibili le dichiarazioni rese dai minori rilevando come le notizie sugli abusi sessuali commessi dall’imputato fossero emerse a seguito di confidenze fatte a terze persone estranee ai protagonisti della vicenda; che non era emersa alcuna ragione di rancore o di vendetta nei confronti del sacerdote; che le dichiarazioni si riscontravano tra di loro e con quelle delle persone offese per le quali era stata dichiarata l’improcedibilità.

Passando all’esame dei singoli episodi contestati la Corte ha confermato l’affermazione di responsabilità di D. per le violenze in danno di S.R.O.I. (capo A) rilevando come gli abusi fossero proseguiti fino al febbraio 1999; per le violenze in danno di R.G.J.C. (capo B) commesse fino all’aprile 1999; per quelle in danno di N.M.R. A. (capo C).

In particolare, per quanto riguarda quest’ultimo episodio (consistente nel toccamento dei genitali) la Corte ha rilevato che il minore aveva dichiarato che l’episodio si era verificato nel corso di un soggiorno nella città di Houston sita negli Stati Uniti d’America. Senonchè il minore a quel viaggio non aveva partecipato e la Corte ha peraltro ritenuto di confermare la veridicità anche per questo episodio ritenendo che l’episodio fosse avvenuto, in epoca prossima, a Miami (dove la persona offesa si era recata insieme all’imputato) e che il minore avesse errato per un cattivo ricorso nel riferire la località dove il fatto era avvenuto.

Peraltro, nel dubbio che l’episodio, pur ritenuto vero, potesse essersi verificato prima dell’11 agosto 1998, la Corte ha dichiarato l’improcedibilità per questo reato (capo C) e ha invece confermato la condanna per i reati di cui ai capi A e B oltre che per il capo D. Ha negato la concessione delle attenuanti generiche, riconosciuto la continuazione e ridotto la pena inflitta dal primo giudice.

3) I motivi di ricorso.

Contro la sentenza pronunziata nel giudizio di rinvio ha proposto ricorso D.M. deducendo, con il primo motivo, il vizio di motivazione in riferimento alla dichiarazione di improcedibilità per il reato di cui al capo C. Questo episodio, rileva il ricorrente, doveva essere escluso in esito a quanto emerso dall’istruzione dibattimentale essendo stato documentalmente provato che la persona offesa mai era stata a Houston dove aveva invece dichiarato essersi verificato l’episodio.

Manifestamente illogica è dunque la conclusione che N., ritenuto attendibile dai giudici di merito, si sia sbagliato. La Corte d’Appello avrebbe dunque dovuto assolvere l’imputato perchè il fatto non sussiste.

Con il secondo motivo, sempre con riferimento al capo C, si deduce analogo vizio di motivazione perchè la sentenza impugnata non avrebbe tenuto conto del fatto che nel corso di una conversazione intercettata nel 2006, tra persone che ignoravano l’esistenza di indagini in corso, si affermava esplicitamente che N. aveva mentito; ciò che, unitamente alla già acquisita prova documentale della falsità delle dichiarazioni del predetto, doveva convincere dell’assoluta inattendibilità del dichiarante. Da ciò consegue che il giudice del rinvio avrebbe dovuto esaminare in modo approfondito l’attendibilità anche delle altre persone offese ma, sotto questo profilo, la motivazione si limita a ribadire quanto già affermato nei precedenti giudizi di merito.

Con il terzo motivo si deduce ancora il vizio di motivazione con riferimento alla mancata concessione delle attenuanti generiche e alla determinazione della pena inflitta senza tener alcun conto degli elementi positivi della personalità dell’imputato e prendendo invece in considerazione condotte (i fatti per i quali è stata dichiarata l’improcedibilità o non si è proceduto) mai sottoposte alla verifica processuale.

Con il quarto motivo si denunzia invece la violazione dell’art. 597 cod. proc. pen., comma 3, perchè, nel determinare la pena, la Corte di merito sarebbe incorsa in una reformatio in peius avendo riconosciuto una continuazione interna, in relazione alla contestazione di cui al capo A, non presa in considerazione dai giudici del merito che, in precedenza, mai l’avevano ritenuta.

Con il quinto motivo si censura la sentenza impugnata per aver confermato nella loro interezza le statuizioni civili – comprese le spese tra le parti e la concessione di una provvisionale -malgrado la sentenza abbia dichiarato l’improcedibilità per il reato sub. C e per i reati previsti dai capi A e B per quanto riguarda i fatti commessi fino all'(OMISSIS).

Con il sesto motivo si censura infine la sentenza impugnata, sempre con riferimento alla determinazione della pena, per aver determinato la pena base per il reato di cui al capo A con riferimento all’ipotesi di reato aggravata prevista dall’art. 609 ter cod. pen. – fatti commessi in danno di persona che non ha compiuto i quattordici anni – malgrado i fatti commessi fino all’11 agosto 1998 siano stati dichiarati improcedibili e, a tale data, la persona offesa avesse già compiuto l’età indicata.

4) I giudizi di responsabilità in ordine ai fatti contestati.

Il ricorso proposto nell’interesse dell’imputato è fondato nei limiti di cui si dirà.

Va peraltro premesso all’esame dei motivi di ricorso che le censure proposte in merito all’affermazione di responsabilità del ricorrente riguardano essenzialmente il capo C d’imputazione (persona offesa NUNEZ M.R.A.) per il quale sono state articolate le specifiche censure già riassunte che saranno di seguito esaminate.

Alcuna specifica censura è stata invece proposta contro l’affermazione di responsabilità per i capi A (fatti commessi in danno di S.R.O.I.) e B (fatti commessi in danno di R.G.J.C.) salvo, in relazione al capo A, la censura che riguarda l’aggravante relativa all’età della quale parimenti si tratterà più avanti.

E’ vero che, all’interno del secondo motivo di ricorso, dopo aver trattato diffusamente la censura riguardante l’attendibilità della persona offesa di cui al capo C, il ricorrente estende questa critica anche alle persone offese di cui ai capi A e B ma si tratta di censure del tutto generiche estese agli altri fatti in contestazione quasi per proprietà transitiva: poichè le dichiarazioni di N. M. sono state documentalmente smentite (quanto al luogo di consumazione del reato) anche le dichiarazioni delle altre persone offese devono essere ritenute inattendibili.

Trattasi all’evidenza di censure inammissibili per genericità in presenza di una motivazione del giudice del rinvio che affronta espressamente, e certamente in modo non illogico, il tema dell’attendibilità delle dichiarazioni rese dalle persone offese da questi reati. La sentenza impugnata, richiamando quella di primo grado, ha infatti ricordato come il procedimento sia iniziato a seguito di un esposto dei finanziatori della missione che avevano raccolto le dichiarazioni di alcuni ospiti della missione sulle violenze sessuali subite dal sacerdote; che le dichiarazioni delle vittime erano state confermate dai volontari che operavano nella missione e che avevano parimenti raccolto le dichiarazioni dei minori; che la credibilità delle vittime risultava confermata da una consulenza tecnica del pubblico ministero.

Il giudice di rinvio ha confermato queste valutazioni ricordando come le persone offese avessero reiteratamente confermato le accuse e ha precisato come alcune discordanze ne confermassero, in definitiva, la genuinità escludendo altresì che fosse emersa alcuna ragione di rancore da parte dei dichiaranti nei confronti dell’imputato.

Peraltro una conferma della fondatezza delle accuse in relazione ai fatti contestati poteva trarsi dai numerosi altri episodi per i quali non si è proceduto ma per i quali esistono dichiarazioni delle persone offese di analogo contenuto.

Deve dunque ritenersi che per questi episodi il giudice del rinvio abbia adeguatamente motivato sulla attendibilità delle persone offese e che in questa ricostruzione non sia presente alcuna illogicità (che neppure il ricorrente riesce ad individuare) e che comunque le censure proposte siano del tutto generiche e dunque inammissibili.

Ne consegue che l’affermazione di responsabilità per i reati descritti nei capi A e B deve ritenersi ormai definitivamente accertata (ovviamente nei limiti indicati dalla precedente sentenza di annullamento della terza sezione di questa Corte) salvo quanto di seguito si dirà in relazione all’aggravante contestata per il capo A. Ed ad analoga conclusione deve pervenirsi in relazione alla contestazione di cui al capo D (art. 600 quater cod. pen., commi 1 e 2: detenzione di materiale pornografico avente ad oggetto minori degli anni diciotto) per il quale non è stata proposta alcuna censura con i motivi di ricorso e che peraltro non aveva formato oggetto neppure del primo ricorso in cassazione.

5) L’aggravante di cui all’art. 609 ter cod. pen., comma 1.

Il sesto motivo di ricorso si ricollega all’affermazione di responsabilità per il capo A (fatti di violenza commessa in danno di S.R.O.I.) per il quale è stata riconosciuta l’aggravante prevista dall’art. 609 ter cod. pen., comma 1, n. 1 (fatto commesso in danno di minore degli anni quattordici).

Il motivo è fondato. La sentenza impugnata ha preso atto che la Corte di cassazione ha annullato senza rinvio la prima sentenza della Corte di merito limitatamente ai fatti commessi anteriormente all’11 agosto 1998 ma non ha considerato che, a tale data, S.R. O.I. aveva già compiuto i quattordici anni essendo nato il 6 marzo 1984; tanto che, nel capo d’imputazione, l’aggravante è contestata per i fatti commessi fino al 5 marzo 1998.

L’aggravante deve quindi essere esclusa in considerazione della circostanza che i fatti per i quali viene confermata la sentenza di condanna sono stati commessi dopo il compimento del quattordicesimo anno di età. 6) L’imputazione di cui al capo C e le conseguenze della mancanza della condizione di procedibilità.

Vanno ora esaminate le censure contenute nei primi due motivi di ricorso riguardanti le statuizioni adottate in merito all’imputazione di cui al capo C (fatto commesso in danno di N.M.R. A.) per il quale, come si è già accennato, il giudice del rinvio ha dichiarato non doversi procedere per difetto della condizione di procedibilità della richiesta del Ministro.

Escluso che il fatto addebitato all’imputato potesse essere avvenuto a (OMISSIS) – città dove la persona offesa non si era mai recata – la Corte di merito ha invece ritenuto che verosimilmente il ragazzo si era sbagliato e che il fatto doveva considerarsi commesso in (OMISSIS). In questa località, peraltro, N.M. si era recato due volte insieme all’imputato; la prima sicuramente prima dell’11 agosto 1998 perchè era rientrato il 4 agosto di quell’anno;

la seconda nell’agosto dell’anno successivo. Nel dubbio che il fatto potesse essersi verificato nel corso del primo di questi viaggi la Corte ha ritenuto di dover pronunziare la sentenza di improcedibilità.

A fronte di questa decisione il ricorrente propone censure dirette ad ottenere un proscioglimento nel merito ma questo risultato è precluso quando il giudice abbia accertato la mancanza di una condizione di procedibilità.

La giurisprudenza di legittimità è infatti uniforme nel ritenere che la mancanza di una tal condizione non consente una valutazione nel merito della fondatezza dell’accusa ed anzi preclude ogni accertamento sia pure diretto a fini diversi (si veda in termini Cass., sez. 5^, 17 marzo 2010 n. 24687, Rizzo, rv. 248386, nonchè, analogamente, Cass., sez. 5^, 24 marzo 2010 n. 20734, Mattiaz, rv.

247476, con riferimento alla possibilità di dichiarare la falsità di atti o documenti; sez. un. 24 settembre 2009 n. 49783, Martinenghi, rv. 245163, che ha affermato che il difetto di una condizione di procedibilità prevale anche sulla dichiarazione di estinzione del reato, per morte dell’imputato; sez. 5^, 25 novembre 2003 n. 581, Morazzini, rv.226974, secondo cui il difetto della condizione preclude, in caso di remissione della querela accettata, di rilevare le nullità verificatesi nel giudizio).

Non sono dunque ammissibili nel giudizio di legittimità le censure proposte contro la sentenza di rinvio riguardanti l’attendibilità della persona offesa. Ma se anche fosse possibile proporre una tal censura può rilevarsi che la sentenza impugnata ha fornito, su questo problema, una risposta esente da alcuna illogicità avendo motivato in modo adeguato sulla attendibilità del testimone e avendo convincentemente ricostruito i fatti ritenendo che il ragazzo fosse stato tradito dalla memoria collocando il fatto come avvenuto in Houston e non in Miami. Argomentazioni che si sottrarrebbero comunque al vaglio di legittimità, se consentito, perchè consistenti in una ricostruzione dei fatti ed in una valutazione di merito esenti, come si è detto, da alcuna illogicità. Ciò a maggior ragione per quanto concerne la censura contenuta nel secondo motivo di ricorso con il quale si chiede una rivalutazione del contenuto di una conversazione intercettata.

7) La reformatio in pejus in relazione al capo A d’imputazione.

Proseguendo nell’esame delle censure che riguardano i punti della sentenza impugnata riguardanti le statuizione di natura penale si deve rilevare la fondatezza anche del quarto motivo di ricorso con il quale si è dedotta la violazione dell’art. 597, comma 3 (divieto di reformatio in pejus da parte del giudice dell’impugnazione).

Com’è noto su questo problema si erano formati in passato orientamenti giurisprudenziali, anche di legittimità, contrastanti perchè, a fronte di un orientamento che riferiva il divieto di reformatio in pejus alle singole componenti della pena ed in particolare al reato o ai reati ritenuti in continuazione (in questo senso Cass., sez. 2^, 16 giugno 1998 n. 7892, Baruffa; sez. 6^, 1 febbraio 1995 n. 2796, Galana; 24 maggio 1994 n. 10101, Catracchi) se ne contrapponeva altro che, al contrario, riteneva che il divieto dovesse riferirsi esclusivamente alla pena complessiva inflitta (in questo senso v. Cass., sez. 6^, 25 giugno 1999 n. 12936, Castiglioni;

sez. 5^, 17 febbraio 1998 n. 5764, Bambolino; sez. 1^, 17 giugno 1997 n. 8576, Bindi; sez. 3^, 24 ottobre 1996 n. 11718, Bozzelli).

Quest’ultima soluzione veniva fondata sulla formulazione del comma 4 in esame che si riferisce espressamente alla pena complessiva irrogata e alcun riferimento fa alle singole componenti della sanzione ritenendosi altresì che alcun divieto potesse rinvenirsi nell’art. 597, comma 3, che avrebbe avuto di mira, secondo questo orientamento, una tutela di natura sostanziale dell’appellante che non doveva subire, in concreto, un peggioramento del trattamento sanzionatorio. Questa interpretazione leggeva la possibilità di dare al fatto una definizione giuridica più grave come elemento sintomatico della volontà del legislatore di recepire una visione di natura sostanziale del divieto di reformatio in pejus limitata al solo beneficio globale che deve conseguire all’accoglimento dell’appello restando inalterata la facoltà per il giudice di appello di operare le operazioni interne contestate.

Le sezioni unite di questa Corte – con una decisione il cui contenuto questa sezione condivide (sentenza 27 settembre 2005 n. 40910, M.W., rv. 232066) e che è stata successivamente seguita dalla giurisprudenza di legittimità – hanno accolto l’orientamento secondo cui il divieto di reformatio in pejus riguarda non soltanto la pena complessiva finale determinata dal giudice di appello ma anche i singoli componenti della medesima.

La Corte ha richiamato il disposto del quarto comma dell’art. 597 c.p.p., innovativo rispetto al codice di rito previgente (art. 515) che, letto alla luce della relazione preliminare – nella quale si afferma che, con l’introduzione di questo comma, si è inteso "rafforzare il divieto della reformatio in peius"; divieto che, nel vigore del vecchio codice, veniva sostanzialmente eluso dalla giurisprudenza – e ha tratto un argomento di conferma dalla natura devolutiva dell’appello che comporta una cognizione, da parte del giudice dell’impugnazione, limitata ai motivi proposti e ai punti e capi oggetto dell’appello con la conseguente intangibilità di quei punti che non abbiano formato oggetto di impugnazione.

Applicati questi principi al caso in esame non può che rilevarsi come la sentenza impugnata se ne sia discostata avendo applicato un aumento per la continuazione interna, relativa al capo A, che nella sentenza di primo grado non era stato applicato e questa statuizione non aveva formato oggetto di impugnazione del pubblico ministero tanto che il primo giudice di appello si era posto il problema se potesse applicare d’ufficio l’aumento risolvendo negativamente il quesito proprio in base alle argomentazioni fatte proprie dalle sezioni unite nella sentenza ricordata.

Anche questa statuizione va dunque annullata.

8) Il trattamento sanzionatorio.

Sono invece inammissibili, nel giudizio di legittimità, le censure riguardanti il trattamento sanzionatorio di cui al terzo motivo di ricorso e riguardanti la mancata concessione delle attenuanti generiche e la determinazione della pena inflitta (con esclusione, ovviamente, di quanto ha già formato oggetto di annullamento).

Il trattamento sanzionatorio – comprensivo del riconoscimento delle circostanze attenuanti e della loro comparazione con le eventuali aggravanti e della concessione dei benefici della sospensione condizionale e della non menzione – rientra nelle attribuzioni esclusive del giudice di merito e così anche la determinazione della pena da infliggere in concreto che, per l’art. 132 cod. pen., è applicata discrezionalmente dal giudice che deve indicare i motivi che giustificano l’uso di tale potere. In sede di legittimità è invece consentito esclusivamente valutare se il giudice, nell’uso del suo potere discrezionale, si sia attenuto a corretti criteri logico giuridici e abbia motivato adeguatamente il suo convincimento.

Nel caso in esame la sentenza impugnata si è attenuta ai criteri indicati facendo riferimento, per motivare il diniego sulla richiesta formulata di concessione delle attenuanti generiche, alla personalità negativa e spregiudicata dell’imputato, alla ripetitività delle condotte, ai gravi danni provocati su persone immature con pregiudizio sullo sviluppo delle loro personalità, alle attività di inquinamento della prova poste in essere dall’imputato.

Questa valutazione, essendo congruamente e logicamente motivata, si sottrae ad ogni censura in sede di legittimità.

Per quanto riguarda invece la determinazione della pena definitiva da infliggere all’imputato la correttezza delle considerazioni svolte nella sentenza impugnata andrà però rapportata alla pena prevista per l’ipotesi non aggravata dal giudice del rinvio che provvedere a rideterminare la pena con riferimento all’ipotesi non aggravata, eliminando l’aumento per la continuazione interna, e rivalutando altresì il giudizio di maggior gravità per il reato sub A anche per l’esclusione dell’aggravante.

9) La prescrizione dei reati di cui ai capi A e B. Le ragioni della richiesta.

Va a questo punto esaminato il problema, posto dai difensori del ricorrente – nel corso della discussione orale e con la memoria depositata all’udienza – relativo alla prescrizione dei reati sub A e B che sarebbe maturata dopo la sentenza pronunziata in sede di rinvio.

Secondo la tesi della difesa le date dei commessi reati sarebbero state erroneamente individuate dalla Corte del rinvio che ha collocato il reato sub A tra l’11 agosto 1998 e il febbraio 1999 e quello sub B nel marzo aprile 1999. Con questa pronunzia, peraltro, la Corte d’Appello avrebbe operato "una nuova e diversa contestazione" rispetto a quella operata dal pubblico ministero e non modificata nel corso del processo. Solo con la contestazione ai sensi dell’art. 516 c.p., il prolungamento del tempo del commesso reato avrebbe potuto trovare ingresso nel processo garantendo l’esercizio del diritto di difesa.

Rileva poi il ricorrente che la medesima Corte, nella prima sentenza di appello, aveva collocato il reato di cui al capo A nell’autunno inverno 1998 e quello di cui al capo B tra l’autunno 1998 e la primavera del 1999.

Poichè i reati per i quali si procede si prescrivono in anni dodici e mesi sei il reato sub A sarebbe certamente prescritto; quello sub B lo sarebbe ugualmente dovendosi, l’arco temporale indicato, essere interpretato secondo il principio del favor rei e quindi considerando cessata la condotta nel momento più lontano dell’arco temporale indicato.

L’estensione temporale operata dalla Corte di merito integra, secondo il ricorrente, non solo la nullità, a regime intermedio, prevista dall’art. 522 cod. proc. pen. ma altresì la nullità assoluta e insanabile prevista dall’art. 179, lett. b) del medesimo codice riguardante l’iniziativa del pubblico ministero nell’esercizio dell’azione penale. In definitiva ci troveremmo in presenza di una palese violazione del principio del contradditorio, del principio di contestazione dell’accusa e di quello concernente l’iniziativa e l’autonomia del pubblico ministero nell’esercizio dell’azione penale.

Infine, secondo il ricorrente, la statuizione della Corte in sede di rinvio violerebbe il giudicato formatosi a seguito della prima sentenza di appello che aveva individuato la data di consumazione dei reati nelle epoche già indicate; statuizione che, su questo punto, non aveva formato oggetto di ricorso neppure da parte del pubblico ministero.

10) Presupposti della richiesta di dichiarare prescritti i reati indicati.

Le censure proposte all’udienza di discussione, e dirette all’accertamento del decorso del periodo minimo di prescrizione per i reati di cui ai capi A e B di imputazione, sono inammissibili e comunque infondate anche se le premesse da cui traggono le mosse sono condivisibili.

E’ infatti corretto invocare la più favorevole disciplina oggi in vigore. Com’è noto la L. 5 dicembre 2005, n. 251, art. 10, comma 3 (che ha modificato la normativa del codice penale in tema di prescrizione) ha previsto una disciplina transitoria prevedendo che se, per effetto delle nuove disposizioni, i termini di prescrizione risultano più brevi si applicano i nuovi termini salvo che si tratti di processi pendenti, alla data di entrata in vigore della nuova legge, in grado di appello o davanti alla Corte di cassazione.

Questo assetto normativo è derivato anche dall’intervento della Corte costituzionale che ha dichiarato incostituzionale (v. sentenza 23 novembre 2006 n. 393) il comma 3 indicato nella parte in cui faceva riferimento anche ai processi pendenti in primo grado per i quali vi era stata la dichiarazione di apertura del dibattimento (e non alla mera pendenza del processo in primo grado).

Da un punto di vista interpretativo era rimasto aperto il problema di individuare il momento cui deve farsi riferimento per individuare la "pendenza" del processo e su questo tema si sono pronunziate le sezioni unite di questa Corte che, risolvendo il contrasto creatosi nella giurisprudenza di legittimità, con sentenza 29 ottobre 2009 n. 47008, D’Amato, rv. 244810, hanno accolto la tesi secondo cui la pendenza del grado di appello ha inizio con la pronuncia della sentenza di condanna di primo grado.

Nel caso in esame deve ritenersi applicabile la più recente e favorevole normativa: i reati di cui ai capi A e B (eliminata per il primo l’aggravante ricordata), sono puniti con la pena della reclusione fino a dieci anni e, prima della modifica normativa, si prescrivevano in anni quindici; in base alla nuova disciplina si prescrivono in anni dodici e mesi sei). Alla data di entrata in vigore della L. n. 251 del 2005 (8 dicembre 2005), il processo non era pendente in grado di appello (la sentenza di primo grado è del 23 maggio 2007) e dunque, in base alla disciplina transitoria prevista dal già ricordato art. 10, deve applicarsi la nuova disciplina; solo se la sentenza di primo grado fosse stata pronunziata prima dell’entrata in vigore della L. n. 251 del 2005 si applicherebbe la precedente e sfavorevole normativa.

Parimenti condivisibile è la richiesta di non ritenere sospeso il decorso della prescrizione a seguito del rinvio dell’udienza del 16 giugno 2008 al 22 settembre 2008.

Com’è noto le sezioni unite di questa Corte hanno affermato (sentenza 28 novembre 2001 n. 1021, Cremonese, rv. 220509) il principio secondo cui " l’art. 159 c.p., comma 1, deve essere interpretato nel senso che la sospensione o il rinvio del procedimento o del dibattimento hanno effetti sospensivi della prescrizione, anche se l’imputato non è detenuto, in ogni caso in cui siano disposti per impedimento dell’imputato o del suo difensore ovvero su loro richiesta, salvo quando siano disposti per esigenze di acquisizione della prova o in seguito al riconoscimento di un termine a difesa." Nel caso in esame si rientra nel primo dei due casi di deroga perchè il rinvio fu disposto per l’acquisizione, da parte dell’appellante, dell’originale di un documento e quindi a fini di prova. Nè rileva che nella medesima udienza sia stata disposta la sospensione del decorso della prescrizione essendo questo provvedimento privo di efficacia a tale fine dovendosi ritenere che la causa di sospensione operi per la mera sua esistenza e che, per converso, una sospensione dichiarata al di fuori dei casi consentiti, sia priva di efficacia.

Non forma oggetto delle argomentazioni del ricorrente ma è opportuno precisare ancora che nel presente giudizio di legittimità, conseguente ad un annullamento con rinvio da parte della Corte di cassazione, la sopravvenienza della causa di estinzione del reato costituita dalla prescrizione può essere ancora rilevata perchè l’annullamento con rinvio è avvenuto su punti concernenti anche la responsabilità dell’imputato. Non si è dunque formato il giudicato nè può ritenersi esistente alcuna preclusione all’eventuale dichiarazione di estinzione del reato (cons., in questo senso, Cass., sez. Ili, 23 ottobre 2003 n. 47579, Arici, rv. 226646).

11) Rigetto della richiesta di dichiarare estinti per prescrizione i reati di cui ai capi A e B. Ciò premesso va preliminarmente osservato che i poteri della Corte di cassazione, in tema di accertamento della data del commesso reato, non differiscono dagli ordinari poteri del giudice di legittimità.

Nel senso che il giudice di legittimità deve prendere in considerazione la data del commesso reato contenuta nel capo d’imputazione ovvero quella accertata dai giudici di merito; non compete infatti alla Corte una ricostruzione fattuale estranea ai suoi compiti istituzionali (cfr. Cass., sez. 1^, 30 gennaio 2001 n. 11037, Ardito, rv. 218617; in senso ancor più rigoroso sez. 4^, 27 aprile 2000 n. 9944, Meloni, rv. 217255).

Naturalmente il giudice di merito, in particolare quello di appello o di rinvio) può errare in questo accertamento fattuale e dunque, in questi casi, è consentito alla parte che ne abbia interesse proporre ricorso deducendo o il vizio di motivazione quando l’accertamento della data del commesso reato sia avvenuto con criteri manifestamente illogici o il vizio del cd. travisamento della prova che può ravvisarsi nei casi in cui il giudice di merito abbia fondato il suo convincimento su una prova che non esiste o su un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello reale. Non si tratta, in queste ipotesi, di reinterpretare gli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione ma di verificare se questi elementi esistano.

Nel caso in esame non può dunque il ricorrente rimettere in discussione un accertamento fattuale compiuto dal giudice di merito la cui sentenza, sotto questo profilo, non ha formato oggetto di impugnazione.

Il ricorrente tenta peraltro di ovviare a questa conclusione deducendo una asserita nullità (che parimenti non forma oggetto dei motivi di ricorso) che si sarebbe verificata per aver ritenuto un fatto diverso ( art. 516 cod. proc. pen.) o un fatto nuovo (art. 518) con la conseguente nullità prevista dall’art. 522 cod. proc. pen.;

ma non solo, sarebbe ipotizzabile anche la nullità assoluta e insanabile prevista dall’art. 179 c.p.p., lett. b) del medesimo codice riguardante l’iniziativa del pubblico ministero nell’esercizio dell’azione penale.

E’ però da osservare che il presupposto su cui si fonda la richiesta del ricorrente – l’Illegittima modifica della contestazione – non corrisponde alla realtà processuale. Il giudice del rinvio non ha infatti immutato l’imputazione aggiungendo fatti diversi o nuovi ma si è limitato a collocare diversamente nel tempo i medesimi fatti ritenuti accertati anche dagli altri giudici di merito. Non abbiamo dunque alcun fatto "nuovo" che si aggiunge a quelli originariamente contestati (si veda il caso esaminato da Cass., sez. 6^, 19 ottobre 2010 n. 6987, N., rv. 249461) o assolutamente difforme da quello contestato (v. l’ipotesi presa in considerazione da Cass., sez. 6^, 11 dicembre 2002 n. 8011, rv. 223947).

Del resto la giurisprudenza di legittimità ha precisato che la modifica della data del commesso reato non comporta un’alterazione avente incidenza sull’identità sostanziale dell’addebito a meno che la diversa collocazione temporale non condizioni le possibilità di difesa dell’imputato (cfr. Cass., sez. 5^, 22 novembre 2001 n. 6977, Calza, rv. 221385). Il che nella specie non è avvenuto (diversamente da quanto poteva ipotizzarsi per il capo C nel quale la data del commesso reato era fondamentale per valutare la credibilità della persona offesa) essendo rimaste integre le possibilità difensive dell’imputato (al quale non è stato contestato alcun fatto nuovo o diverso) e rilevando, la data del fatto accertato, esclusivamente ai fini della prescrizione.

Infondata è anche la pretesa del ricorrente secondo cui la statuizione della Corte in sede di rinvio violerebbe il giudicato formatosi a seguito della prima sentenza di appello che aveva individuato la data di consumazione dei reati nelle epoche già indicate e che, su questo punto, non aveva formato oggetto di ricorso neppure da parte del pubblico ministero.

In merito a questa censura va premesso che il giudicato si forma sui capi della sentenza e non sui punti della medesima (v. Cass., sez. un., 19 gennaio 2000 n. 1, Tuzzolino, rv. 216239); sui punti può formarsi una preclusione in caso di mancata impugnazione che non osta però alla possibilità di dichiarare estinto il reato.

Orbene la sentenza 31 ottobre 2008 della Corte d’Appello di Bologna, contrariamente a quanto si afferma nella memoria, non ha affatto individuato una data precisa di consumazione dei reati ma ha individuato un arco di tempo all’interno dei quali i medesimi dovevano essere ritenuti consumati. Quello di cui al capo A fin quasi all’epoca in cui la persona offesa avrebbe compiuto quindici anni (data che corrisponde al 5 marzo 1999) e quello di cui al capo B che è stato collocato tra l’autunno 1998 e la primavera del 1999.

Se dunque fosse anche corretta l’impostazione del ricorrente -ma non lo è perchè il giudicato si forma sul fatto reato e non sulle circostanze di fatto accertate nel giudizio: v. Cass., sez. 2^, 13 novembre 2008 n. 45153, Uccisero, rv. 242210; sez. 1^, 2 dicembre 1998 n. 1495, Archine, rv. 212271 – non era dunque precluso al giudice del rinvio procedere ad un’ulteriore specificazione della data del commesso reato quanto meno all’interno dell’arco temporale individuato dalla prima sentenza di appello.

Accertamento che, in mancanza di nullità assolute o comunque rilevabili d’ufficio, andava – lo si ribadisce – censurato con i motivi di ricorso.

12) Le statuizioni civili.

Fondato è anche, nei limiti di cui si dirà, il quinto motivo di ricorso riguardante la conferma delle statuizioni civili adottate nel primo grado di giudizio. Il giudice del rinvio ha infatti confermato integralmente tali statuizioni – comprese le spese tra le parti e la concessione di una provvisionale malgrado la sentenza abbia dichiarato l’improcedibilità sia per il reato di cui al capo C che per i reati previsti dai capi A e B per quanto riguarda i fatti commessi fino all'(OMISSIS).

Il motivo è integralmente fondato per quanto riguarda le statuizioni adottate dal primo giudice a favore di N.M.R.A. persona offesa nel reato di cui al capo C. La dichiarazione di non doversi procedere per la mancanza di una condizione di procedibilità preclude al giudice di adottare alcuna statuizione non solo penale ma, ovviamente, anche di natura civile.

Tali statuizioni adottate dal primo giudice e confermate da quello di rinvio vanno dunque eliminate unitamente alla concessione di una provvisionale e alla condanna alle spese.

Diversa soluzione va invece adottata per quanto riguarda la pronunzia al risarcimento dei danni in favore delle parti civili S.R. O.I. e R.G.J.C. (persone offese nei reati di cui ai capi B e C). In questo caso il primo giudice ha riservato a separato giudizio la liquidazione dei danni subiti e questa statuizione è corretta anche a seguito della dichiarazione di improcedibilità per i reati commessi fino all’11 agosto 1998 di cui il giudice della liquidazione dovrà tener conto escludendoli dalla liquidazione.

Diverse sono le conclusioni in merito alla concessione di una provvisionale a favore delle parti civili S.R. e R. G.. In questo caso la richiesta di riduzione della provvisionale è del tutto generica e non può derivare automaticamente dalla delimitazione temporale dei commessi reati; il ricorrente avrebbe dovuto, infatti, per ottemperare all’onere di specificità e decisività delle censure proposte, indicare le ragioni della ritenuta sopravvenuta non adeguatezza della somma liquidata a titolo di provvisionale.

Le altre statuizioni civili, peraltro non oggetto di impugnazione, vanno invece confermate.

13) Conclusioni.

Il ricorso proposto va dunque accolto nei limiti indicati con annullamento della sentenza impugnata limitatamente ai punti già indicati e rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello di Bologna per la rideterminazione della pena.

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione, Sezione 4^ penale, annulla la sentenza impugnata limitatamente:

1) al riconoscimento, in relazione alla contestazione di cui al capo A), dell’aggravante prevista dall’art. 609 ter cod. pen., comma 1, n. 1;

2) alla continuazione interna riconosciuta per la contestazione di cui al capo A);

3) alla condanna al risarcimento dei danni ed al riconoscimento della provvisionale in favore N.M.R.A. – statuizioni – queste ultime – che elimina unitamente alla condanna alle spese.

Rinvia per la determinazione della pena ad altra sezione della Corte d’Appello di Bologna.

Liquida le spese sostenute dalle parti civili in complessivi Euro 3.000,00 oltre accessori come per legge.

Rigetta il ricorso nel resto.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 31-01-2012, n. 1373 Danno biologico

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

V.G. in proprio e quale esercente la potestà genitoriale sulla figlia minore C.C. convenne dinanzi al Tribunale di Firenze La Fondiaria Assicurazioni, Mo.Re.

T. ed M.A. chiedendo il risarcimento dei danni che asseriva di aver subito a seguito dell’incidente stradale nel quale l’auto condotta dal Mo. e di proprietà del M., nel corso di una manovra di sorpasso, aveva invaso l’opposta corsia venendo a collisione con altra auto condotta da Ci.Al. che decedeva mentre la sua vettura diveniva un rottame.

Si costituiva in giudizio la sola compagnia assicuratrice.

Il Tribunale di Firenze riconosceva la responsabilità del Mo. nella causazione del sinistro e liquidava il danno patrimoniale in L. 200.000.000, il danno morale per la ricorrente in proprio e nella qualità in L. 360.000.000 prò capite, in L. 20.000.000 per spese funerarie e in L. 10.000.000 per l’auto.

Venivano rigettate la domanda relativa al danno biologico sia iure proprio che iure successionis, quella relativa al danno edonistico e la rifusione delle spese liquidate in sede penale, da addossare all’assicurazione.

Proponeva appello V.G. in proprio e nella qualità di legale rappresentante della figlia minore criticando l’impugnata sentenza perchè: aveva liquidato il danno morale in L. 360.000.000, sia per lei che per la figlia, attenendosi alla tabelle e non alle peculiarità del caso concreto; aveva liquidato il danno patrimoniale in L. 200.000.000 senza indicare il procedimento seguito ed in misura esigua; aveva negato la liquidazione del danno biologico iure hereditatis benchè la morte non fosse sopraggiunta immediatamente;

aveva escluso il danno biologico subito da lei e dalla figlia senza fare ricorso ad una c.t.u.; non aveva riconosciuto il danno edonistico; non aveva riconosciuto le spese sostenute nel processo penale; aveva erroneamente liquidato rivalutazione e interessi su quanto dovuto.

La Fondiaria si costituiva resistendo e chiedendo la condanna dell’appellante al pagamento delle spese del grado.

La Corte d’appello accoglieva il motivo sulla condanna dell’assicurazione al pagamento delle spese penali e rigettava le altre censure.

Propone ricorso per cassazione V.G. con un unico, articolato motivo.

Resiste con controricorso Fondiaria Sai Assicurazioni s.p.a..

In udienza l’Avv. Candiani ha chiesto l’integrazione del contraddittorio.

Motivi della decisione

Con l’unico motivo del ricorso V.G. denuncia "Violazione dell’art. 360, nn. 3 e 5, in relazione agli artt. 1223, 1226, 2056 e 2059 c.c.".

Il motivo si conclude con i seguenti quesiti.

1) Dica la Corte Suprema se la regula iuris imponga al giudice del merito di valutare complessivamente il pregiudizio determinato dall’evento lesivo quale che sia il nome o la categoria attribuitagli nella richiesta risarcitoria ovvero possa disattendere tale compito limitandosi alla negazione ontologica quale che sia la forma della tipologia di nocumento lamentata dal danneggiato dall’evento mortale e senza alcuna verifica concreta della dedotta lesione da considerare unitariamente come statuito dalla Corte Suprema. Dica la Corte Suprema se nella determinazione della globale entità del danno non patrimoniale la regula iuris imponga di non considerare affatto la perdita del rapporto parentale in conseguenza della morte del congiunto con la definitiva perdita di tale rapporto ed in particolare quando ciò si verifichi per persone in giovane e giovanissima età ovvero ciò si possa omettere come ha disposto la Corte fiorentina. Nella complessiva trattazione del danno morale nella nuova configurazione datane dalle S.U. della Corte Suprema debbono redigersi ulteriori quesiti in merito alle censure proposte:

Dica la Corte Suprema se la regula iuris in materia di liquidazione del danno morale soggettivo debba imporre al giudice del merito di valutare autonomamente senza far ricorso alle c.d. tabelle in uso presso i Tribunali senza alcun esercizio del potere discrezionale ed equitativo per adeguare al caso concreto la determinazione delle entità risarcitorie ovvero tale comportamento sia del tutto legittimo non dovendo il giudice del merito rispondere nè alle deduzioni nè alle censure svolte nel giudizio da parte della vittima persona offesa che pure aveva indicato specificamente le sue sofferenze patemi e depressione derivati dall’evento mortale che aveva colpito il marito e aveva inibito alla figlia di avere la presenza e vicinanza del padre e se una tale motivazione si sottragga alla censura di apparenza ed apoditticità per la Corte fiorentina che si è limitata a confermare la valutazione seguita dal Tribunale;

Dica la Corte Suprema se la regula iuris imponga al giudice di applicare una equità circostanziata e ponderata per renderla adeguata alle condizioni fisiche e psichiche del superstiti in caso di decesso della vittima dell’evento lesivo ovvero consenta di applicare le c.d. tabelle senza nulla dedurre in merito trattando automaticamente il valore del danno morale senza alcun riferimento al totale risarcimento del danno effettivamente subito quando come nel caso che ne occupa la vittima ed i superstiti sono ed erano in giovane e giovanissima età e la moglie ha visto ed assistito al trauma mortale;

Dica la Corte Suprema se la regula iuris derivata dalle S.U. indicate imponga al giudice, anche se intervenuta medio tempore ma prima della definizione della causa, di motivare perchè richiesto, sulla nuova configurazione del danno morale ovvero del danno complessivo extrapatrimoniale rispondendo alle sollecitazioni degli scritti difensivi ovvero possa lecitamente sottrarsi all’obbligo motivazionale come ha in effetti fatto la Corte fiorentina.

Il quesito è inammissibile.

A norma dell’art. 366 bis c.p.c., la formulazione dei quesiti in relazione a ciascun motivo del ricorso deve infatti consentire in primo luogo la individuazione della regula iuris adottata dal provvedimento impugnato e, poi, la indicazione del diverso principio di diritto che il ricorrente assume come corretto e che si sarebbe dovuto applicare, in sostituzione del primo; è palese che la mancanza anche di una sola delle due predette indicazioni rende inammissibile il motivo di ricorso. In difetto di tale articolazione logico giuridica il quesito si risolve in una astratta petizione di principio o in una mera riproposizione di questioni di fatto con esclusiva attinenza alla specifica vicenda processuale o ancora in una mera richiesta di accoglimento del ricorso come tale inidonea a evidenziare il nesso logico giuridico tra singola fattispecie e principio di diritto astratto oppure infine nel mero interpello della Corte di legittimità in ordine alla fondatezza della censura così come illustrata nella esposizione del motivo (Cass. 26 gennaio 2010, n. 1528, specie in motivazione, nonchè Cass., sez. un., 24 dicembre 2009, n. 27368).

Nella specie il quesito contiene plurime censure prolisse e contorte e non si attiene ai suddetti criteri.

Si deve peraltro osservare che il danno non patrimoniale da lesione della salute costituisce una categoria ampia ed omnicomprensiva, nella cui liquidazione il giudice deve tenere conto di tutti i pregiudizi concretamente patiti dalla vittima, ma senza duplicare il risarcimento attraverso l’attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici. Ne consegue che è inammissibile, perchè costituisce una duplicazione risarcitoria, la congiunta attribuzione alla vittima di lesioni personali, ove derivanti da reato, del risarcimento sia per il danno biologico, sia per il danno morale, inteso quale sofferenza soggettiva, il quale costituisce necessariamente una componente del primo (posto che qualsiasi lesione della salute implica necessariamente una sofferenza fisica o psichica), come pure la liquidazione del danno biologico separatamente da quello c.d. estetico, da quello alla vita di relazione e da quello cosiddetto esistenziale (Cass., 11 novembre 2008, n. 26972).

L’impugnata sentenza ha tenuto conto non solo delle peculiarità del caso concreto ma ha anche tenuto conto della lesione del diritto alla famiglia nella sua integrità liquidando il danno morale nella misura massima sia per la ricorrente che per la di lei figlia.

2) Dica la Suprema Corte se la regula iuris per determinare il criterio da seguire nella identificazione del reddito di artista o professionista in giovane età possa prescindere dal giudizio prognostico sui riscontri probatori in atti iuxta alligata et probata come indica la Corte territoriale ovvero tali riscontri probatori debbano essere valutati al fine di raggiungere una valutazione equitativa legittima atteso il sicuro miglioramento reddituale di persona deceduta all’età di 32 anni musicista concertista e professore di musica in scuola media superiore;

Dica la Corte Suprema se il giudice nella determinazione del reddito sul quale effettuare il calcolo delle somme afferenti le posizioni reciproche di moglie trentenne e di figlia di poco più di un anno possa prescindere dalla durata del mantenimento gravante sul soggetto deceduto ovvero la regula iuris impone di rendere conto con ampia ed esauriente motivazione sul criterio seguito e sul calcolo effettuato non solo sul reddito reale o probabile del de cuius ma anche e soprattutto sulla durata dell’obbligo di mantenimento protratto per tutto il periodo di tempo necessario per il rispetto di tale obbligo legale ovvero possa prescindere del tutto come ha fatto la Corte territoriale limitandosi a congetturale ed apodittica motivazione.

3) Dica la Corte se è conforme alla regula luris la necessità di considerare e valutare ai fini risarcitori integrali le invalidazione totale che segua alla morte intervenuta successivamente alle fatali lesioni della vittima e se tale danno conseguente debba essere liquidato agli eredi del de cuius ovvero se come ha sostenuto la Corte fiorentina tale diritto non sia affatto consacrato ed è di conseguenza trasmissibile agli eredi.

4) Dica la Corte Suprema se per la verifica della sussistenza del danno biologico iure proprio il giudice debba procedere unicamente mediante la nomina di un CTU e sulla base di certificazioni mediche attestanti le sofferenze fisico-psichiche come indicato dalla Corte Fiorentina ovvero la regula iuris imponga di verificare e valutare non solo i riscontri oggettivi risultanti dagli atti processuali ma altresì e non in surrogazione gli elementi indiziari e le nozioni di comune esperienza nel caso concreto sottoposto all’esame del giudice del merito per addivenire ad un legittimo e giusto giudizio sul danno nel suo complesso determinato e valutato.

I quesiti sono inammissibili.

Alla luce di una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte regolatrice il quesito di diritto previsto dall’art. 366 bis c.p.c. (nei casi previsti dall’art. 360 c.p.c., nn. 1, 2, 3 e 4) deve infatti costituire la chiave di lettura delle ragioni esposte e porre la Corte di cassazione in condizione di rispondere a esso con la enunciazione di una regula iuris che sia, in quanto tale, suscettibile di ricevere applicazione in casi ulteriori rispetto a quello sottoposto all’esame del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata.

In altri termini, la Corte di cassazione deve poter comprendere dalla lettura dal solo quesito, inteso come sintesi logico giuridica della questione, l’errore di diritto asseritamente compiuto dal giudice del merito e quale sia, secondo la prospettazione del ricorrente, la regola da applicare.

La ammissibilità del motivo, in conclusione, è condizionata alla formulazione di un quesito, compiuta e autosufficiente, dalla cui risoluzione scaturisce necessariamente il segno della decisione (Cass., sez. un., 25 novembre 2008, n. 28054; Cass. 7 aprile 2009, n. 8463).

Nel caso in esame i quesiti non si attengono ai criteri appena esposti.

Si deve peraltro osservare che le censure formulate da parte ricorrente deducono questioni di fatto insindacabili in sede di legittimità.

Quanto alla richiesta integrazione del contraddittorio si deve rilevare che l’inammissibilità del ricorso esime da tale integrazione.

Nel giudizio di cassazione infatti il rispetto del principio della ragionevole durata del processo impone, in presenza di un’evidente ragione d’inammissibilità del ricorso, di definire con immediatezza il procedimento, senza la preventiva integrazione del contraddittorio nei confronti di litisconsorti necessari cui il ricorso non risulti notificato, trattandosi di un’attività processuale del tutto ininfluente sull’esito del giudizio (Cass., 22 marzo 2010, n. 6826).

In conclusione, il ricorso deve essere rigettato con condanna di parte ricorrente alle spese del giudizio di cassazione che si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente alle spese del giudizio di cassazione che si liquidano in complessivi Euro 1.200,00 di cui Euro 1.000,00 per onorari, oltre rimborso forfettario delle spese generali ed accessori come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Lombardia Milano Sez. II, Sent., 04-11-2011, n. 2649 Sanzioni amministrative e pecuniarie

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo

La società esponente realizzava, in via Togliatti in Comune di Vigevano (PV), un edificio ad uso commerciale su più piani, in forza di rituale titolo abilitativo.

In data 13.3.2003, il tecnico della società chiedeva il rilascio del certificato di abitabilità per una serie di unità immobiliari site nel citato edificio, la cui destinazione era però nel frattempo stata mutata da uso commerciale (come da originaria concessione edilizia), ad uso abitativo.

L’Amministrazione comunale, ritenendo tale mutamento di destinazione – seppure posto in essere senza opere edili – in contrasto con lo strumento urbanistico (Piano Regolatore Generale, PRG), irrogava alla società, nel novembre 2003, la sanzione prevista dall’allora vigente legge regionale n. 1/2001, la quale, all’art. 3, stabiliva, in caso di mutamento di destinazione d’uso senza opere in difformità dalle previsioni urbanistiche, l’irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria pari all’aumento di valore venale dell’immobile oggetto di cambio d’uso (la legge regionale 1/2001 è oggi abrogata, ma analoga previsione è contenuta nell’art. 53 della vigente legge regionale 12/2005).

Contro il citato primo provvedimento sanzionatorio era proposto – davanti a questo TAR – il ricorso RG 3323/2003, che era successivamente accolto con sentenza della Seconda Sezione del TAR n. 1877 del 2005; in particolare il Tribunale annullava il provvedimento di irrogazione della sanzione del 28.11.2003 per erroneità nella determinazione della superficie delle unità immobiliari interessate.

A fronte della suddetta sentenza, il Comune di Vigevano chiedeva all’Agenzia del Territorio di Pavia una nuova perizia di stima dell’incremento del valore venale dell’immobile e – conseguentemente – irrogava all’esponente una nuova sanzione pecuniaria, per un importo di euro 60.900,00, con determinazione dirigenziale del 4.7.2008.

Contro quest’ultimo provvedimento era proposto il presente ricorso, con domanda di sospensiva, per i motivi che possono così essere sintetizzati:

1) eccesso di potere e nullità per sviamento di giudicato, dove si sostiene che il Comune avrebbe erroneamente interpretato il giudicato formatosi sulla sentenza del TAR Lombardia n. 1877/2005;

2) eccesso di potere per travisamento dei presupposti di fatto, illogicità manifesta e vizi del procedimento, nel quale sono contestati i criteri utilizzati dall’Agenzia del Territorio di Pavia per la stima dell’incremento di valore degli immobili;

3) difetto di motivazione (motivo proposto in via subordinata).

Si costituiva in giudizio il Comune intimato, concludendo per il rigetto del gravame.

In esito all’udienza cautelare del 20.11.2008, la domanda di sospensiva era respinta con ordinanza n. 1710/2008, per difetto del periculum in mora.

Alla pubblica udienza del 20.10.2011, la causa era trattenuta in decisione.

Motivi della decisione

1. Nel primo mezzo di ricorso, è lamentata la presunta violazione del giudicato formatosi sulla sentenza del TAR Lombardia n. 1877/2005, che aveva annullato un precedente provvedimento di irrogazione della sanzione pecuniaria amministrativa, per la medesima fattispecie di cui è causa.

Il mezzo è privo di pregio: è sufficiente l’integrale lettura della sentenza citata per verificare che il TAR, accogliendo il ricorso per motivi aggiunti contro il provvedimento di rettifica dell’originario importo della sanzione, ha censurato l’operato del Comune di Vigevano – e pertanto anche dell’Agenzia del Territorio di Pavia, autrice della perizia di stima dell’incremento di valore degli immobili – soltanto perché l’Amministrazione, anziché tenere conto dell’effettiva superficie degli immobili stessi, aveva preso a riferimento una superficie fittizia, determinata in applicazione del DPR 138/1998, avente però rilevanza soltanto ai fini fiscali (cfr. il testo della sentenza, doc. 12 della ricorrente ed in particolare le considerazioni svolte a pag. 5 ed a pag. 6 della sentenza stessa).

Nella sentenza non è però in alcun modo messo in discussione l’operato dell’Amministrazione per ragioni differenti da quella sopra indicata; in particolare il Tribunale non ha negato né l’intervenuto mutamento di destinazione d’uso né il contrasto di quest’ultimo con le previsioni di piano.

Di conseguenza, il giudicato sopra indicato non ha alcun effetto preclusivo sul riesercizio del potere da parte dell’Amministrazione.

Pertanto, di fronte alla citata pronuncia giurisdizionale, correttamente il Comune di Vigevano ha avviato nuovamente il procedimento sanzionatorio in applicazione della legge regionale 1/2001 – ora sostituita dalla legge regionale n. 12/2005, recante però previsioni normative pressoché identiche -, ponendo a fondamento della propria ultima determinazione, ivi impugnata, la nuova perizia dell’Agenzia del Territorio di Pavia del 29.5.2007.

Sotto tale profilo, pertanto, la condotta del Comune non può dirsi in contrasto con il giudicato di cui alla sentenza 1877/2005.

2. Nel secondo motivo, la ricorrente contesta la perizia di stima del valore degli immobili di cui è causa, redatta dall’Agenzia del Territorio di Pavia nell’interesse del Comune di Vigevano: quest’ultimo, infatti, ha stipulato con la suddetta Agenzia apposita convenzione, ai fini delle stime immobiliari.

La perizia di cui è causa è quella redatta il 15.5.2007, trasmessa all’Ente locale con nota del Direttore dell’Agenzia del 23.5.2007 e ricevuta il successivo 29 maggio (cfr. doc. 12 del resistente e doc. 16 della ricorrente), perizia espressamente richiamata nel provvedimento impugnato (cfr. doc. 13 del resistente, ultimo "Vista").

Nella perizia sono individuate sette unità immobiliari, collocate al primo ed al secondo piano, che sono state oggetto di cambio di destinazione d’uso, per una superficie totale complessiva di 609 metri quadrati.

Il Tecnico Redattore, prima dell’effettuazione della stima, ricorda che, al momento del cambio d’uso, la destinazione urbanistica della zona, secondo il PRG allora vigente, era quella di cui all’art. 74 delle Norme Tecniche di Attuazione (NTA), vale a dire "zona commerciale".

L’esponente, nel secondo motivo, pare contestare il richiamo all’art. 74, ma tale argomento è privo di pregio, visto che è incontestato che tale era la norma di piano applicabile al momento del cambio di destinazione, norma che qualifica espressamente l’area dove è collocato l’edificio di cui è causa fra le "zone commerciali" (cfr. il testo del citato art. 74, doc. 3 del Comune e doc. 14 della ricorrente).

A detta della ricorrente, tuttavia, l’errore essenziale in cui sarebbe incorso il tecnico stimatore dell’Agenzia del Territorio, consisterebbe nella fallace indicazione dell’immobile da stimare, in rapporto alla sua destinazione urbanistica.

In particolare, si continua nell’atto introduttivo del giudizio, la destinazione originaria dell’immobile, da tenere in considerazione da parte del tecnico, doveva essere quella "commerciale", secondo il citato art. 74 delle NTA, mentre ai fini della valutazione sarebbe stata presa in considerazione una destinazione differente, cioè quella "uffici" (cfr. pag. 4 della perizia), ovverossia quella "terziaria" (cfr. pag. 5 della perizia).

La radicale diversità, secondo l’esponente, fra la destinazione commerciale e quella terziaria, utilizzata dall’Agenzia per la propria stima, implicherebbe l’illogicità della perizia e la conseguente illegittimità del provvedimento di irrogazione della sanzione pecuniaria.

La tesi difensiva della società ricorrente non può trovare accoglimento.

L’art. 74 delle NTA, sopra citato, consente la realizzazione, nelle zone commerciali, di: a) spazi commerciali; b) depositi e magazzini; c) servizi tecnici e amministrativi per l’attività commerciale.

Le sette unità immobiliari di cui è causa, per le quali è stata mutata la destinazione d’uso in violazione del PRG (circostanza questa non contestata, visto che il ricorso attiene esclusivamente al problema del valore delle unità stesse), sono collocate al primo ed al secondo piano (cfr. pag. 1 della perizia), quindi non possono ragionevolmente assumere il valore di mercato proprio degli spazi commerciali siti al piano terra e sulla pubblica via, questi ultimi normalmente aperti al pubblico degli utenti e dei consumatori ed aventi quindi solitamente un apprezzabile valore economico.

Al contrario, la collocazione al primo ed al secondo piano implica una destinazione o ad uso deposito/magazzino (poco probabile, viste le maggiori difficoltà logistiche legate alla collocazione di merci su piani rialzati), oppure ad uso di – per utilizzare le parole dell’art. 74 delle NTA – "servizi tecnici amministrativi per l’attività commerciale", vale a dire ad uso ufficio o terziario (la parola "terziario" deve essere considerata in senso atecnico, quale sostanziale sinonimo di "ufficio").

Di conseguenza, non pare esservi stato alcun travisamento o alcun errore da parte dello stimatore dell’Agenzia del Territorio né una supposta violazione dell’art. 74 citato: infatti le unità immobiliari di cui è causa, per la loro collocazione, ben possono essere valutate secondo una destinazione ad uso terziario, che appare compatibile con la destinazione di "zona commerciale" di cui all’art. 74.

Risulta, pertanto, corretta la stima sull’incremento di valore degli immobili, pari a 100,00 euro al metro quadrato, visto il maggior valore della destinazione residenziale rispetto a quella commerciale nella zona cittadina di cui è causa.

Si aggiunga ancora, fermo restando quanto sopra esposto, che le valutazioni tecniche espresse dall’Agenzia del Territorio rappresentano manifestazione di discrezionalità tecnica, censurabile soltanto in caso di evidenti errori o macroscopiche illogicità, non riscontrabili nel caso di specie (cfr. sul punto Consiglio di Stato, sez. V, 18.2.1991, n. 160).

Nel tentativo di confutazione della citata perizia, l’esponente produce, infine, due documenti, contrassegnati al n. 19 ed al n. 20, vale a dire due stime provenienti la prima dall’ing. Asta di Vigevano e la seconda dalla società Casa Più Srl, sempre di Vigevano.

Tali documenti, prodotti peraltro tardivamente il 16.9.2011, in violazione pertanto del termine di quaranta giorni di cui all’art. 73 comma 1° del D.Lgs. 104/2010 ("Codice del processo amministrativo"), non mutano però l’orientamento del Collegio.

Si tratta, infatti, di dichiarazioni di valore degli immobili tutto sommato apodittiche, prive di adeguato supporto e riscontro tecnico, che si risolvono pertanto in una sorta di petizione di principio, non certo idonea a scalfire le risultanze dell’Agenzia del Territorio.

Il secondo motivo deve, di conseguenza, essere respinto.

3. Con il terzo motivo, proposto peraltro in via subordinata, è denunciato il presunto difetto di motivazione della perizia dell’Agenzia del Territorio, che avrebbe in maniera acritica ed autoreferenziale richiamato i dati dell’Osservatorio del Mercato Immobiliare, senza sottoporli ad una adeguata valutazione.

La censura non merita accoglimento, tenuto conto in primo luogo che l’Osservatorio del Mercato Immobiliare è un organismo pubblico, istituito presso l’Amministrazione Finanziaria ai fini di agevolare l’attività di stima degli immobili svolta ora dall’Agenzia del Territorio ed un tempo dagli Uffici Tecnici Erariali; le cui valutazioni, seppure non vincolanti, hanno però carattere di ufficialità (cfr. Commissione Tributaria Regionale di Bari, sez. VII, 1.9.2009, n. 96), al punto che la giurisprudenza tributaria assegna loro anche la valenza probatoria delle presunzioni, seppure semplici (cfr. Commissione Tributaria Provinciale di Modena, sez. IV, 20.4.2010, n. 84).

Ciò premesso, non può reputarsi illogica la scelta dell’Agenzia del Territorio di Pavia di avvalersi dei dati in possesso dell’Osservatorio, ferma restando, giova ripeterlo, la correttezza della scelta di utilizzare i dati dei fabbricati con destinazione "terziaria" (uffici) e non con destinazione "commerciale" (negozi), per le ragioni sopra esposte al punto 2 della presente narrativa in diritto.

Il presente ricorso deve quindi complessivamente rigettarsi, per cui non devono neppure essere accolte le istanze istruttorie avanzate da parte ricorrente, non apparendo necessario disporre una consulenza tecnica d’ufficio.

4. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Seconda)

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Condanna la ricorrente al pagamento delle spese di causa, che liquida in euro 1.500,00 (millecinquecento/00), oltre accessori di legge (IVA e CPA).

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità Amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cons. Stato Sez. IV, Sent., 22-11-2011, n. 6152 Competenza delle Commissioni tributarie

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con la sentenza in epigrafe impugnata il Tribunale amministrativo regionale del Lazio – Sede di Roma – pronunciandosi sul ricorso proposto dalla Società B. A. T. Italia s.p.a., già Ente T. I. – ha dichiarato il difetto di giurisdizione del plesso giurisdizionale amministrativo in ordine alla domanda di annullamento del dM 10 luglio 2002 (avente ad oggetto disposizioni concernenti la contabilizzazione delle dotazioni dei magazzini di vendita di cui alla l. 22 dicembre 1957 n. 1293) limitatamente all’art. 2 n. 4 lett. b) e c) nella parte in cui imponeva all’Ente T. di corrispondere l’accisa dovuta in caso di eventuale condanna da parte della magistratura contabile e che, fino alla definizione delle decisioni dell’organo contabile, doveva essere prestata apposita garanzia, e nella parte in cui prevedeva che per le partite in sospeso derivanti da furti o rapine verificatesi alla data del 31 dicembre 1998 doveva essere corrisposta l’accisa calcolata sul prezzo di vendita al pubblico dei prodotti trafugati vigente all’atto dell’evento criminoso.

La società odierna appellante aveva impugnato in parte qua il predetto decreto del Direttore Generale dell’AAMS evidenziando tra l’altro che esso, nel dettare disposizioni sulla contabilizzazione della dotazione dei magazzini vendita di cui alla legge 22 dicembre 1957 n. 1293, regolamentava il carico dell’accisa dovuta sulla merce sottratta in occasione di furti e rapine (art. 4, lett. bc).

Essa aveva sostenuto che la previsione di un’obbligazione tributaria a suo carico, avente ad oggetto l’accisa dovuta sulle partite in sospeso derivanti da furti e rapine perpetrate prima del 31 dicembre 1998, era in contrasto con il principio della personalità dell’obbligazione tributaria e con le disposizioni contenute nel d.L. 30 agosto 1993 n. 331, nella parte in cui veniva fatto coincidere il titolare del rapporto d’imposta con il depositario fiscale (depositario che, all’epoca dei fatti, era il gestore del magazzino).

Il Tribunale amministrativo, ricostruita anche sotto il profilo cronologico la scansione normativa successiva alla istituzione istituito dell’Ente T. I. (art. 1 del d.Lgs. 9 luglio 1998 n. 283) ha affermato che il petitum introdotto atteneva direttamente e immediatamente all’individuazione del soggetto passivo dell’obbligazione tributaria (obbligo di pagamento dell’accisa sui prodotti trafugati).

Ne discendeva quindi che la controversia doveva essere devoluta alla giurisdizione tributaria in quanto quest’ultima aveva assunto i caratteri di una giurisdizione generale e l’elencazione degli atti impugnabili davanti a quel giudice (di cui all’art. 19 del d. Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546) non poteva considerarsi tassativa.

Sotto altro profilo, da tale giurisdizione esulavano, secondo il disposto dell’art 7, comma 5 del citato decreto legislativo, soltanto gli atti a carattere generale: tuttavia il riferimento ivi contenuto riguardava unicamente gli atti generali che fossero adottati nell’esercizio di un potere amministrativo di carattere discrezionale.

Nel caso di specie, invece, l’ obbligazione tributaria in virtù delle disposizioni di cui al d.l. 30 agosto 1993 n. 331 era sorta in capo all’Amministrazione dei Monopoli di Stato, mentre la disciplina dei rapporti intestati a questa Amministrazione e che, a seguito della costituzione dell’Ente T., erano imputati al nuovo soggetto era compiutamente definita dall’art. 3 del d.lgs. 9 luglio 1998 n. 283 che non introduceva alcun potere discrezionale dell’Amministrazione dei Monopoli in ordine ad una diversa determinazione o ulteriore specificazione delle disposizioni inerenti il rapporto di imposta de quo, tanto in ordine ai suoi presupposti, quanto in ordine ai soggetti.

Né in senso contrario poteva essere invocata la disposizione contenuta nell’ultimo comma dell’art. 7 della legge 27 luglio 2000 n. 212("la natura tributaria dell’atto non preclude il ricorso agli organi di giustizia amministrativa quando ne ricorrano i presupposti") in quanto essa non fondava, ma presupponeva, la sussistenza della giurisdizione del plesso giurisdizionale amministrativo.

Ne discendeva la devoluzione della controversia al giudice tributario.

La società originaria ricorrente ha impugnato la detta decisione criticandola sotto numerosi angoli prospettici: ne ha chiesto pertanto l’annullamento – previa affermazione della giurisdizione del plesso giurisdizionale amministrativo – ed ha riproposto i motivi di censura prospettati nel mezzo di primo grado e non esaminati dal Tribunale amministrativo.

Ha poi puntualizzato e ribadito le dette censure depositando una articolata memoria.

In particolare essa ha sostenuto la sussistenza della giurisdizione amministrativa sulla controversia in esame alla stregua di una pluralità di argomentazioni.

Sotto un primo profilo ha puntualizzato l’oggetto del petitum articolato in primo grado ed ha esaminato la natura dell’impugnato decreto ministeriale 10 luglio 2002.

Quest’ultimo trovava la propria causa (come esattamente rilevato dal primo giudice: "entro la data del 30 settembre 2002 andavano definite le procedure volte alla trasformazione dei Magazzini vendita in depositi fiscali, ragion per cui è stato emanato il Decreto, a firma del Direttore Generale dei Monopoli, del 10 luglio 2002, n. 04/04610 contenente le disposizioni concernenti la contabilizzazione delle dotazioni dei Magazzini medesimi.") nel d.Lgs. 9 luglio 1998 n. 283 (art. 5), e nel successivo d.M. 22 febbraio 1999 n. 67.

Tale decreto non regolamentava in alcun modo l’obbligazione tributaria (accisa).

Detta obbligazione era incontestabilmente già sorta in passato, ed il contestato decreto non ne aveva in alcun modo modificato gli elementi o la natura.

Il decreto, invece – inammissibilmente e comunque illegittimamente – aveva unicamente "traslato" detta obbligazione su un altro soggetto (il cessionario appellante BAT) rispetto a quello cui era addossata in precedenza (AMMS).

Il decreto quindi non incideva sul (già insorto) rapporto tributario ma aveva natura autoorganizzativa amministrativa individuando una posizione debitoria nell’ambito di una vicenda traslativa di beni e cespiti aziendali.

Per altro verso, il primo giudice aveva errato nell’interpretare il disposto di cui all’art. 7 comma 5 del d. Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 richiamando il concetto di "atto discrezionale" in termini del tutto avulsi dalla questione della individuazione del giudice fornito di giurisdizione e, parimenti, aveva svalutato la portata dell’ultimo comma dell’art. 7 della legge 27 luglio 2000, n. 212.

L’appellata amministrazione ha depositato un articolato controricorso sostenendo la carenza di legittimazione attiva alla proposizione del ricorso di primo grado in capo all’odierna appellante e chiedendo la reiezione dell’appello perché infondato.

Alla odierna camera di consiglio del 4 novembre 2011 la causa è stata posta in decisione.

Motivi della decisione

1.L’appello è fondato e merita di essere accolto. Deve pertanto essere affermata la sussistenza della giurisdizione del plesso giurisdizionale amministrativo sulla controversia all’esame del Collegio e l’impugnata decisione deve essere annullata con rinvio della controversia al Tribunale amministrativo regionale del Lazio – Sede di Roma -.

1.1.Al fine di perimetrare l’oggetto del giudizio appare opportuno rammentare che per la pacifica giurisprudenza formatasi in ordine alla interpretazione dell’art. 35 della legge 6 dicembre 1971 n. 1034, non possono essere esaminate nel grado di appello le questioni di merito, ove il giudizio debba essere rimesso al giudice di primo grado, (nel caso per errata dichiarazione di difetto di giurisdizione da parte del Tribunale amministrativo regionale). Infatti, in casi del genere appare ravvisabile quel " difetto di procedura " della sentenza appellata, che non consente di trattenere in decisione la causa per l’effetto devolutivo dell’appello, tenuto conto dell’esigenza di non sottrarre alle parti – ivi compresi i soggetti controinteressati- le garanzie del doppio grado di giudizio (Consiglio Stato, sez. VI, 17 settembre 2009, n. 5587).

1.2.Per completezza si rileva altresì che il comma 1 dell’art. 105 del codice del processo amministrativo (comunque non applicabile ratione temporis alla controversia posto che l’impugnata decisione, non notificata, è stata depositata il 5 marzo 2010, mentre l’appello è stato proposto il 17 settembre 2010: trova applicazione pertanto il disposto di cui all’art. 2 dell’allegato 3 al codice del processo amministrativo entrato in vigore in data 16 settembre 2010) ha espressamente positivizzato detto principio di matrice giurisprudenziale.

A fortiori le dette questioni di merito proposte non potrebbero essere esaminate da questo Consiglio di Stato neppure laddove venisse confermata la declinatoria di giurisdizione resa dal primo giudice.

Ne consegue l’improponibilità nell’odierno segmento processuale di tutte le censure contenute nell’appello volte a riproporre gli argomenti critici che investono la legittimità delle previsioni contenute nell’impugnato decreto e dei contrapposti argomenti difensivi di merito contenuti nel controricorso della difesa erariale dell’amministrazione.

In ultimo, sfuggono all’odierno esame del Collegio – esclusivamente limitato alla risoluzione della questione relativa alla spettanza, o meno, della giurisdizione al plesso giurisdizionale amministrativo- anche le eccezioni della difesa erariale incentrate sulla carenza di legittimazione attiva alla proposizione del mezzo di primo grado (e dell’odierno appello) in capo alla originaria ricorrente.

L’esame di tali problematiche, infatti, è logicamente successivo alla risoluzione della questione in ordine alla spettanza o meno della giurisdizione.

Tali questioni sono quindi esaminabili nel merito unicamente unicamente dal giudice fornito di giurisdizione ed a seguito della individuazione di quest’ultimo (si veda Consiglio Stato, sez. IV, 02 aprile 2008, n. 1372 per la espressione di una analogo principio con riferimento alle questioni proponibili in sede di giudizio su regolamento di competenza).

2.Ciò premesso, passando ad esaminare l’unico profilo oggetto dell’odierna cognizione giudiziale, il Collegio non ravvisa motivo di discostarsi dall’orientamento consolidato della Corte Costituzionale e della Corte regolatrice della giurisdizione secondo cui la giurisdizione del giudice tributario è ravvisabile nelle sole ipotesi in cui la controversia abbia ad oggetto immediato e diretto la contestazione dei presupposti di fatto e di diritto della pretesa avanzata dall’amministrazione finanziaria o dei relativi accessori normativamente individuati, ossia l’an o il quantum di un particolare tributo, di modo che la stessa sia imprescindibilmente collegata alla natura tributaria del rapporto controverso (v. Corte Cost. 14 marzo 2008, n. 64; Corte Cost. 14 maggio 2008, n. 130; Cass. Civ., Sez. Un., 15 maggio 2007, n. 11077; Cass. Civ., Sez. Un., 10 agosto 2005, n. 16776).

In particolare, si rammenta che con la decisione n. 130 del 14 maggio 2008 la Corte costituzionale, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2 comma 1 d.lg. 31 dicembre 1992 n. 546, nella parte in cui attribuisce alla giurisdizione tributaria le controversie relative alle sanzioni comunque irrogate da uffici finanziari, anche nel caso in cui esse conseguano alla violazione di disposizioni non aventi natura tributaria. E’ stato in particolare ivi affermato che "la norma in parola – così interpretata dal diritto vivente – conclude con l’attribuire alla giurisdizione tributaria le controversie relative a sanzioni unicamente sulla base del mero criterio soggettivo costituito dalla natura finanziaria dell’organo competente ad irrogarle e, pertanto, a prescindere dalla natura tributaria del rapporto cui tali sanzioni ineriscono. La norma censurata è dunque in contrasto con l’art. 102, comma 2, e con la VI disp. trans. della Costituzione, risolvendosi nella creazione di un nuovo giudice speciale.".

La Corte Costituzionale aveva in precedenza chiarito peraltro (Corte costituzionale, 14 marzo 2008 n. 64) che la giurisdizione del giudice tributario, in base all’art. 102, comma 2 cost., deve ritenersi imprescindibilmente collegata alla natura tributaria del rapporto. Pertanto, l’attribuzione alla giurisdizione tributaria di controversie non aventi natura tributaria – sia che derivi direttamente da un’espressa disposizione legislativa ovvero, indirettamente, dall’erronea qualificazione di "tributaria" data dal legislatore (o dall’interprete) ad una particolare materia – comporta la violazione del divieto costituzionale di istituire giudici speciali.

In questi limiti, va condivisa la ricorrente affermazione – correttamente fatta propria anche dal primo giudice- secondo cui la giurisdizione del giudice tributario ha carattere pieno ed esclusivo (si veda Cassazione civile, sez. un., 07 maggio 2010, n. 11082) ed ha natura "generale", in quanto non limitata alle fattispecie elencate sub art. 19 del d.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546.

3.Nel caso di specie si rileva che l’avversato decreto ministeriale del 10 luglio 2002 non ha inciso, se non in via derivata ed indiretta sugli aspetti tributari del rapporto giuridico tra l’appellante società e l’amministrazione appellata.

3.1. Va infatti rammentato che il d.Lgs. 9 luglio 1998, n. 283 (recante "istituzione dell’Ente T. I.") all’art. 3 (patrimonio dell’Ente, destinazione dei beni e del personale estranei all’Ente) aveva fissato le disposizioni che connotavano la struttura del neo costituito soggetto giuridico (" L’Ente è titolare dei rapporti attivi e passivi, nonché dei diritti e dei beni afferenti le attività produttive e commerciali già attribuite all’Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato. All’Ente è attribuito un fondo di dotazione costituito dal saldo positivo netto fra il valore contabile dell’insieme dei rapporti attivi e passivi ad esso attribuiti a norma del comma 1.

Il fondo di dotazione iniziale non può essere inferiore a lire 500 miliardi. Qualora il saldo positivo netto di cui al comma 2 non raggiunga il valore del fondo di dotazione iniziale, questo è integrato, con decreto del Ministro delle finanze, anche con beni e diritti di cui è titolare l’Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato.

L’ordinato trasferimento delle risorse ai fini dell’inizio dell’attività dell’Ente pubblico economico è curato, nel termine di sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto, da una commissione straordinaria nominata dal Ministro delle finanze. Alla conclusione di tale procedura è insediato il consiglio di amministrazione di cui all’articolo 2, comma 1, lettera b).

Il Ministro delle finanze, contestualmente alla nomina di cui all’articolo 2, comma 3, del presidente e del consiglio di amministrazione dell’ente, determina con proprio decreto, di concerto con il Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione economica, la composizione del patrimonio iniziale dell’ente, oltre alla quota parte dell’accantonamento per il fondo di previdenza dei dipendenti dell’Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato, previsto dall’articolo 17 della legge 29 gennaio 1986, n. 25, di pertinenza dei dipendenti medesimi, tenuto conto altresì dei limiti patrimoniali minimi di cui al comma 3. Il Ministro delle finanze, entro tre mesi dall’emanazione del decreto di cui al presente comma, presenta alle competenti commissioni parlamentari una relazione sulle dismissioni o sull’eventuale utilizzazione del patrimonio dell’Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato non conferito all’Ente.

L’Ente può assumere esclusivamente personale di professionalità adeguatamente qualificata, ove non sia reperibile fra il personale di cui al comma 1 dell’articolo 4.

Il Ministro delle finanze dispone con decreto in ordine alle attività diverse da quelle produttive e commerciali e alle assegnazioni di beni e personale ad esse afferenti.")

Il medesimo d.Lgs. 9 luglio 1998, n. 283 all’art. 5 aveva stabilito che "per quanto non specificamente stabilito dagli articoli 1, 2 e 3, si provvede con regolamenti a norma dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, o con singoli provvedimenti del Ministro delle finanze.".

In attuazione proprio di quest’ultimo articolo, era stato emanato il dM 22 febbraio 1999, n. 67 recante "istituzione e regime dei depositi fiscali e la circolazione nonché le attività di accertamento e di controllo delle imposte riguardanti i T. lavorati" che, ai commi 4 e 5 dell’art. 18 così dispone: "I depositi fiscali indicati nel comma 2, continuano ad operare, fino all’esecuzione degli adempimenti di cui allo stesso comma 2, con le procedure amministrative e contabili in precedenza applicate dall’Amministrazione dei monopoli di Stato, e sono assoggettati ai controlli previsti dall’articolo 9 del decreto del Presidente della Repubblica 14 ottobre 1958, n. 1074, concernente il regolamento di esecuzione della legge 22 dicembre 1957, n. 1293, sull’organizzazione dei servizi di distribuzione e vendita dei generi di monopolio.

Per consentire l’esercizio dei controlli previsti dal comma 4, i depositi fiscali comunicano mensilmente all’Amministrazione dei monopoli di Stato, per ciascun magazzino di vendita, l’ammontare delle relative dotazioni ricevute ai sensi dell’articolo 5 della legge 22 dicembre 1957, n. 1293. Le eventuali modifiche delle dotazioni stesse sono comunicate entro cinque giorni. Le modifiche che comportano la restituzione delle dotazioni da parte dei magazzini di vendita sono previamente comunicate all’Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato e sono adottate sotto la vigilanza dell’Amministrazione stessa secondo criteri stabiliti con decreto direttoriale.".

L’avversato decreto ministeriale del 10 luglio 2002 (recante "Disposizioni concernenti la contabilizzazione delle dotazioni dei magazzini vendita di cui alla legge 22 dicembre 1957, n. 1293") trova causa proprio negli atti normativi sinora elencati.

Nel preambolo dello stesso decreto ministeriale, infatti, (del quale appare utile riportare un breve stralcio) si rinviene il fondamento normativo e logico che ne ha giustificato l’emanazione.

Ivi infatti è dato leggere che: "Visto il decreto legislativo 9 luglio 1998, n. 283, che istituisce l’Ente T. I. per lo svolgimento delle attività produttive e commerciali già attribuite all’Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato, con esclusione delle attività, inerenti il lotto e le lotterie, e riserva allo Stato le funzioni e le attività di interesse generale già affidate o conferite per effetto di disposizioni di legge alla predetta Amministrazione;

Visto il decreto ministeriale 22 febbraio 1999, n. 67, regolamento recante, tra l’altro, norme sull’istituzione ed il regime dei depositi fiscali;

Visti i decreti ministeriali 1 giugno 1999, n. 202, 9 giugno 2000, n. 170 e 12 giugno 2002, n. 119 recanti modificazioni al citato decreto ministeriale 22 febbraio 1999, n. 67;

Atteso che, l’Ente T. I. e le società nelle quali l’Ente stesso si è trasformato ai sensi dell’art. 1, comma 6, del predetto decreto legislativo 9 luglio 1998, n. 283, ha continuato ad operare ed opererà in via transitoria, fino alla completa applicazione degli adempimenti di cui al citato decreto ministeriale 22 febbraio 1999, n. 67, con le procedure amministrative e contabili in precedenza applicate dall’Amministrazione dei monopoli di Stato;

Ritenuto che ai magazzini vendita, ai sensi dell’art. 5 della citata legge 22 dicembre 1957. n. 1293, è stata affidata, in sospensione di imposta, una dotazione a titolo di deposito all’atto dell’apertura del magazzino stesso;

Considerato che all’Ente T. I., è stato conferito, a titolo di dotazione degli organi di vendita, l’importo corrispondente alle relative componenti, costituite da generi, liquidità di conto corrente, fido e partite in sospeso, risultanti alla data del 31 dicembre 1998;

Atteso che il citato Ente, ai sensi dell’art. 3 del predetto decreto legislativo 9 luglio 1998, n. 283, è titolare dei rapporti attivi e passivi, nonché dei diritti e dei beni afferenti le attività produttive e commerciali già attribuite all’Amministrazione dei monopoli di Stato;

Considerato che all’atto della cessazione del citato periodo transitorio, i magazzini vendita saranno trasformati in depositi fiscali e, di conseguenza occorrerà procedere alla definitiva contabilizzazione delle relative dotazioni;

Ritenuta, la necessità di stabilire a tal fine le modalità per procedere alla citata contabilizzazione…".

3.2. E’ agevole riscontrare, pertanto, che il detto decreto è parte attuativa del progressivo procedimento di privatizzazione dell’ amministrazione dei monopoli di stato; esso detta la modalità di contabilizzazione delle dotazioni dei magazzini di vendita e non è ad esso ascrivibile la trasformazione di questi in depositi fiscali; non individua alcun fatto giuridico generatore dell’obbligazione tributaria, – già in precedenza sorta a carico dell’amministrazione dei Monopoli di stato- né alcun altro elemento del rapporto di imposta.

E’ ovvio che esso produce un "effetto" tributario consistente nella traslazione dell’obbligazione tributaria connessa all’accisa relativa al periodo pregresso.

Ma ciò avviene in termini non dissimili ad un qualsivoglia trasferimento di un bene giuridico da un soggetto ad un altro, che crea il presupposto per cui il soggetto obbligato al pagamento dell’imposta divenga l’avente causa.

3.3. Come è chiaramente evincibile dal tenore dell’art. 2 del dL 30 agosto 1993, n. 331 il regime dell’imposta dovuta è ivi compiutamente delineato, e l’impugnato decreto ministeriale non ha (né poteva) su tale regime incidere ("I prodotti di cui all’art. 1, comma 1, sono assoggettati ad accisa al momento della fabbricazione o dell’importazione.

L’accisa è esigibile all’atto dell’immissione in consumo del prodotto. Si considera immissione in consumo anche:

a) l’ammanco in misura superiore a quella consentita o quando non ricorrono le condizioni per la concessione dell’abbuono di cui all’art. 5;

b) lo svincolo, anche irregolare, da un regime sospensivo;

c) la fabbricazione o l’importazione, anche irregolare, avvenuta al di fuori di un regime sospensivo.

E’ obbligato al pagamento dell’accisa il titolare del deposito fiscale dal quale avviene l’immissione al consumo ovvero il soggetto nei cui confronti si verificano i presupposti per l’esigibilità dell’imposta o che si è reso garante di tale pagamento.")

4.Ne consegue che quale atto generale, di natura organizzativa, e solo indirettamente produttivo di conseguenze di natura tributaria la giurisdizione in ordine alle controversie relative alla legittimità dello stesso rientra pienamente nell’alveo della giurisdizione amministrativa senza che su tale profilo possa incidere il tasso di discrezionalità ad esso sotteso.

5. L’appello deve essere pertanto accolto, e, affermata la giurisdizione amministrativa sulla controversia in oggetto l’impugnata decisione deve essere annullata con rinvio al Tribunale amministrativo regionale del Lazio- Sede di Roma.

6. La natura della controversia e la novità delle questioni trattate legittimano la compensazione tra le parti delle spese dell’odierno grado di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

definitivamente pronunciando sull’appello, numero di registro generale 8043 del 2010 come in epigrafe proposto lo accoglie, e per l’effetto, dichiara la giurisdizione del plesso giurisdizionale amministrativo sulla controversia ed annulla la impugnata decisione con rinvio al Tribunale amministrativo regionale del Lazio – Sede di Roma -.

Spese processuali compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.