Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 11-04-2011, n. 8250 Mansioni e funzioni

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

P.A. proponeva appello avverso la sentenza del Tribunale di Lucca del 24 dicembre 2004, che aveva respinto la sua domanda nei confronti del Ministero della Giustizia diretta a far accertare che le funzioni svolte dal 1 luglio 1998 corrispondevano, fino all’entrata in vigore del sistema di classificazione del personale introdotto dalla contrattazione collettiva, a quelle di cui alla 8^ qualifica funzionale prevista dalla L. n. 312 del 1980 e, successivamente all’entrata in vigore dei nuovi accordi collettivi, a quelle di cui alla posizione economica C3, nonchè a sentir condannare l’Amministrazione convenuta al pagamento delle differenze retributive conseguenti, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali. Deduceva il P. di avere svolto, presso l’Ufficio Notifiche del Tribunale di Livorno, le funzioni di ufficiale giudiziario dirigente, ricoprendo un incarico riconducibile, a suo dire, nell’ottavo livello, posizione economica C3 nel nuovo regime contrattuale, venendo tuttavia retribuito in base al trattamento economico spettante al settimo livello. Costituitosi in giudizio, il Ministero convenuto si opponeva all’accoglimento della domanda.

La causa, istruita con sola produzione documentale, è stata decisa dal Tribunale di Livorno che, previa ricognizione della normativa intervenuta in materia e previo esame comparativo delle attribuzioni riconducibili ai due diversi profili di funzionario profilo 292 relativo alla 8^ qualifica funzionale e di collaboratore profilo 293 inerente alla 7^ qualifica funzionale, rigettava la domanda sul rilievo che il P. non avesse effettivamente svolto le mansioni superiori da lui dedotte.

L’appellante contestava sia la ricostruzione normativa che la valutazione delle mansioni operate dal primo giudice.

L’Amministrazione della Giustizia contestava la fondatezza dell’impugnazione avversaria.

In particolare il Ministero evidenziava che la struttura organica cui era preposto l’appellato non era tale da richiedere un funzionario di 8^ livello. D’altro canto sottolineava che il collaboratore UNEP 7^ livello svolge gli stessi compiti del funzionario UNEP 8^ livello, ma in uffici di minore importanza. Sarebbe stato, pertanto, onere del P. provare che l’ufficio di Livorno era, secondo la pianta organica, assoggettato alla direzione di un funzionario ovvero che era, comunque, di rilevanza tale da rendere necessaria la presenza formale di tale figura professionale.

E tale situazione non sarebbe mutata, secondo l’appellata, col passaggio alla contrattualizzazione del rapporto di lavoro ed all’inquadramento del personale in aree funzionali.

La Corte di appello di Firenze, con sentenza del 3 luglio 2007, pur ritenendo che l’attribuzione della posizione economica C3 al dirigente di Ufficio UNEP non potesse ritenersi automatica, bensì da valutare caso per caso, riteneva nella specie che il c.c.n.l. integrativo del Ministero della Giustizia 5 aprile 2000 aveva previsto l’attribuzione della posizione economica C3 ai lavoratori preposti alla direzione dell’Ufficio N.E.P. all’interno delle "strutture giudiziarie di notevoli complessità e rilevanza". Che l’Ufficio N.E.P. presso il Tribunale di Livorno era stato qualificato dalla stessa Amministrazione appellata ( D.M. 6 aprile 2001) tale da richiedervi la preposizione di un ufficiale giudiziario con posizione economica C3. Accertava che il P. avesse svolto tali mansioni, sicchè riconosceva il suo diritto al relativo trattamento economico.

Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione il Ministero della Giustizia affidato a due motivi.

Resiste il P. con controricorso.

Motivi della decisione

1.- Con primo motivo il Ministero ricorrente denuncia la sentenza impugnata per omessa e/o insufficiente motivazione in ordine ad un fatto controverso e decisivo per il giudizio ( art. 360 c.p.c., n. 5).

Lamentava in particolare che la Corte territoriale aveva omesso di considerare: a) la sussistenza di tutte le condizioni di validità contemplate dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 40, comma 3; b) se in sede di contrattazione integrativa (c.c.n.l. integrativo del 5 aprile 2000) sia stato convenuto di riservare la dirigenza di un ufficio NEP di particolare complessità e rilevanza esclusivamente a dipendenti inquadrati nella posizione economica C3; c) se in attesa del completamento delle procedure di selezione interna previste dal citato c.c.n.l. integrativo, il personale UNEP inquadrato nella posizione economica C1 potesse comunque svolgere le mansioni di ufficiale giudiziario dirigente, anche di uffici di notevole complessità e rilevanza; d) se infine l’Ufficio NEP del Tribunale di Livorno possa effettivamente considerarsi ufficio di notevole complessità e rilevanza, ed in base a quali elementi.

2. -Il motivo è inammissibile.

L’Amministrazione ricorrente non specifica le ragioni della denunciata violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 40, comma 3;

in ogni caso censurando violazione o falsa applicazione di norme di diritto, non ha formulato alcuno specifico quesito ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c..

Parimenti inammissibili sono le doglianze sub b) e c), non allegando e neppure riportando in ricorso, in contrasto col principio dell’auto sufficienza, le norme collettive invocate (Cass. Sez. un. 23 settembre 2010 n. 20075, Cass. n. 15495 del 2009).

E’ vero che tale sanzione non riguarda i contratti collettivi del pubblico impiego, Cass. sez. un. 12 ottobre 2009 n. 21568; Cass. 4 novembre 2009 n. 23329. Deve tuttavia evidenziarsi che ciò vale solo per i contratti ed accordi collettivi nazionali, con esclusione dei contratti integrativi, in relazione ai quali il controllo di legittimità è finalizzato esclusivamente alla verifica del rispetto dei canoni legali di interpretazione e dell’assolvimento dell’obbligo di motivazione sufficiente e non contraddittoria. Ne consegue che, in riferimento ai contratti integrativi, il ricorrente ha l’onere di riportare il testo della clausola contrattuale controversa, al fine di consentire il controllo nei limiti individuati, risultando altrimenti violata la regola dell’autosufficienza del ricorsa (Cass. n. 28859 del 2008.

Per il resto il ricorrente si limita a censurare accertamenti compiuti dal giudice di merito, congruamente motivati (sulla scorta del contratto integrativo invocato e del D.M. 6 aprile 2001 che prevedeva presso l’UNEP di Livorno un dirigente C3), limitandosi a ritenerli erronei.

3. – Con secondo motivo il Ministero ricorrente denuncia violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52 deducendo che tale norma si limiterebbe a prevedere la retribuibilità di mansioni superiori, prevalentemente svolte, e solo se limitata alla posizione immediatamente successiva. Formulava il seguente quesito di diritto: "dica la S.C. se possa riconoscersi al P. lo svolgimento di mansioni superiori, ed in caso affermativo se la retribuzione delle mansioni superiori di fatto svolte sia da effettuarsi con riferimento alla posizione economica C2 e non C3".

Il motivo è in parte inammissibile e per il resto infondato.

Evidentemente inammissibile laddove chiede tout court a questa Corte un nuovo accertamento in fatto. Deve peraltro rilevarsi che, come risulta incontestatamente dalla sentenza impugnata, l’Amministrazione non censurò in appello che il P. svolgesse pienamente, più che prevalentemente, le mansioni di dirigente dell’UNEP di Livorno, limitandosi a contestare in diritto la spettanza o meno della qualifica C3 al dirigente di tale UNEP. Per tale ragione, unitamente alla altrettanto decisiva assenza della relativa questione nel quesito di diritto formulato (Cass. sez. un. 9 marzo 2009 n. 5624), risulta inammissibile la doglianza inerente il mancato esame della prevalenza delle superiori mansioni svolte dal P.. Il motivo risulta poi infondato laddove ritiene che non possa essere retribuito lo svolgimento di fatto di mansioni superiori se non per la posizione economica immediatamente successiva.

Questa Corte ha già chiarito (sentt. n. 4367 del 2009, n. 20692 del 2004, n. 14944 del 2004) che il D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 52, comma 5, (norme generali dell’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche) – il quale prevede per i dipendenti pubblici l’ipotesi di assegnazione "a mansioni proprie di una qualifica superiore" e, in relazione ad essa, stabilisce, da un lato la nullità dell’assegnazione, e dall’altro riconosce al lavoratore il diritto alla differenza di trattamento economico rispetto alla qualifica superiore – non può essere inteso nel senso che detta espressione, quanto al riferimento alla "qualifica superiore", abbia contenuto equivalente a quella di "qualifica immediatamente superiore" che il legislatore usa nel comma 2, per individuare i casi nei quali è legittima l’assegnazione alle mansioni immediatamente superiori. La medesima pronuncia ha aggiunto che una diversa interpretazione del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 52 (nel quale è stato trasfuso il testo del D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 56 come modificato dal D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 25 e, quanto al D.Lgs. n. 387 del 1998, art. 15, comma 6), oltre a non essere giustificata dalla lettera del comma 5, sarebbe anche contraria alla sua "ratio", che è quella di assicurare comunque al lavoratore una retribuzione proporzionata alla qualità del lavoro prestato, in ossequio al principio di cui all’art. 36 Cost..

Il ricorso va pertanto respinto.

Le alterne vicende del giudizio giustificano la compensazione delle spese.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Compensa le spese.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Lombardia Milano Sez. I, Sent., 14-12-2011, n. 3150

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con ricorso ritualmente notificato e depositato il sig. P.D.N., già presidente del Consiglio provinciale di Sondrio, e taluni consiglieri con lui, hanno impugnato la delibera n. 11 del 2011 con cui il Consiglio ha approvato una "mozione di sfiducia" nei suoi confronti, e lo ha conseguentemente revocato dalla carica. Con un successivo ricorso recante motivi aggiunti è stata poi censurata la delibera n. 12 del 2011 di elezione del nuovo presidente.

Il principale atto impugnato è stato adottato sulla base dell’art. 31, comma 3, dello statuto della Provincia (anch’esso impugnato), a mente del quale "il presidente del consiglio dura in carica per tutto il mandato consiliare, salvo che un terzo dei componenti il consiglio non ne chieda la cessazione dalla carica con mozione motivata, approvata con le stesse modalità previste per la sua elezione".

Nel caso di specie, la mozione poggia su di una triplice motivazione: a) erronea e parziale applicazione del regolamento concernente i lavori del consiglio; b) erroneità del calcolo concernente il numero legale in occasione della seduta del 26 novembre 2010; c) assunzione di una posizione pubblica in "aperto contrasto" con quanto deliberato dal consiglio, con specifico riguardo al progetto di parco eolico in località S. Marco, ove il sig. D.N. avrebbe agito "in nome e per conto" di altri enti territoriali coinvolti nella vicenda (in particolare, il Comune di Albaredo per S. marco, di cui il ricorrente è assessore).

Con riferimento a ciascuno di tali profili, il ricorrente ha elaborato una distinta linea difensiva: l’addebito sub a) sarebbe falso in fatto, e comunque generico; quello sub b) sarebbe da imputarsi ad un errore del segretario generale incaricato della verbalizzazione, che avrebbe sottostimato il numero di consiglieri effettivamente presenti; quanto al punto sub c), la circostanza non viene negata, ma si sottolinea che l’assunzione di una posizione politica da parte del presidente, con riferimento ad una vicenda cui la Provincia sarebbe estranea, non ne inficerebbe l’imparzialità nella conduzione dei lavori. Il ricorrente, infatti, muove dalla premessa in diritto secondo cui il presidente del consiglio provinciale è figura di garanzia, la cui revoca non può venire disposta per "motivazioni politiche", ma solo nei casi di reiterate e gravi violazioni di legge nell’adempimento dei compiti istituzionali.

Si rende necessaria, pertanto, una breve disamina in diritto dei profili generali implicati dalla questione, prima che essa sia affrontata specificamente.

La giurisprudenza parte dalla premessa per la quale il presidente del consiglio provinciale è organo disciplinato dalla legge dello Stato (in particolare, l’art. 39 del d.lgs. n. 267 del 2000), che gli assegna il compito di guidare i lavori dell’organo in modo imparziale: ne consegue che tale figura viene direttamente ad essere connotata da un tratto istituzionale, al quale debbono uniformarsi le fonti locali che si trovino ad occuparsene, e tra queste, in particolare, lo statuto provinciale.

La legge statale, che non prevede l’istituto della mozione di sfiducia nei confronti del presidente del consiglio, se da un lato non viene con ciò a sancirne l’irrevocabilità, dall’altro esclude che alla base di essa possa porsi la rottura di un rapporto fiduciario con la maggioranza, la cui sussistenza è denegata in origine.

La revoca, in armonia con la scelta compiuta a livello nazionale, potrà invece seguire alla persistente violazione dei compiti di garanzia assegnati al presidente, o comunque alla compromissione del profilo di neutralità che ad essi è consustanziale.

Posta in simili termini la questione, ben si comprende come si sia anche potuto sostenere che tale revoca possa essere approvata dal consiglio, quand’anche essa non sia contemplata dallo statuto (in questo senso Tar Lazio, sentenza n. 8881 del 2008; id. n. 710 del 2010), al quale, invece, altra parte della giurisprudenza si rivolge, per trovarvi il fondamento del relativo potere (Tar Catania, n. 12304 del 2011): difatti, se la deviazione dal modello istituzionale tracciato dal T.U. sugli enti locali si esaurisce in puntuali profili di violazione di legge, che sono apprezzati sulla base della normativa dello Stato, è implicitamente conforme al sistema tratteggiato da quest’ultima l’attivazione di un meccanismo di revoca, quali che siano le indicazioni fornite dalla fonte statutaria.

Tuttavia, questo Tribunale dubita che una simile svalutazione della competenza statutaria possa ancora predicarsi, nel vigore della revisione della seconda parte del Titolo V della Costituzione.

Per un verso, è noto che l’art. 117, secondo comma, lett. p) della Costituzione riserva alla competenza legislativa esclusiva dello Stato la legislazione, tra l’altro, in tema di "organi di governo": è tradizionale pensiero che con tale espressione debbano intendersi gli organi chiamati a definire l’indirizzo politico generale dell’ente, naturalmente nei limiti delle competenze di quest’ultimo, ovvero i soggetti tra cui si ripartiscono le funzioni di impulso e sviluppo dell’ azione politico – amministrativa.

Naturalmente, il novero degli organi di governo non può venire circoscritto secondo criteri astratti e predeterminati, posto che esso dipende dalla specifica conformazione che Costituzione e legge abbiano inteso imprimere all’ente di cui si discute.

Nel nostro caso, è significativo che l’art. 36 del d.lgs. n. 267 del 2000 individui tali organi nel consiglio, nella giunta e nel presidente della Provincia, e non rechi menzione del presidente del consiglio provinciale, la cui istituzione è regolata solo dal successivo art. 39: tale disposizione ne prevede l’elezione tra i consiglieri e gli affida "tra gli altri, i poteri di convocazione e direzione dei lavori e delle attività del consiglio", nonchè la formazione dell’ordine del giorno (comma 2) e la preventiva informazione ai consiglieri e ai gruppi consiliari circa i lavori (comma 4).

Sia l’omessa indicazione del presidente tra gli organi di governo, sia l’assegnazione di compiti estranei all’indirizzo politico, e piuttosto relativi alla conduzione dell’assemblea in veste di primus inter pares, militano nel senso che tale figura, a seguito della revisione dell’art. 117 Cost., abbia cessato di essere oggetto di una riserva esclusiva di competenza a favore della legislazione nazionale, riserva su cui, naturalmente, si era basata l’approvazione del T.U. sugli enti locali del 2000.

La giurisprudenza costituzionale, infatti, dopo una fase iniziale di ridimensionamento delle novità in tema di competenza sull’ ordinamento degli enti locali introdotte dalla riforma costituzionale per le Regioni a statuto ordinario (sentt. nn. 48 del 2003 e 377 del 2003) sembra, da ultimo, indirizzarsi verso il riconoscimento di uno spazio normativo impregiudicato dalla legge statale, concernente la "organizzazione" dell’ente (sentenza n. 324 del 2010). Da ultimo, sia pure con pronuncia di inammissibilità, si è suggerito che, per l’ipotesi in cui la competenza dello Stato non dovesse ritenersi "omnicomprensiva", verrebbe a configurarsi una potestà legislativa residuale della Regione (sentenza n. 261 del 2011).

Posto che l’art. 117, secondo comma, lett. p) Cost. enuclea dalla materia dell’ordinamento degli enti locali uno specifico, per quanto ampio, campo di intervento riservato alla legge nazionale, ne segue che, al di fuori di esso, trovano espansione le ulteriori fonti del diritto competenti, tra cui la legge regionale e lo statuto (il principio di cedevolezza della normativa statale innanzi alla fonte statutaria è già stato affermato in giurisprudenza: Cass. S.U. n. 12868 del 2005).

Altra novità significativa portata con sé dalla revisione costituzionale del 2001 è, infatti, l’abrogazione dell’art. 128 Cost., che riservava alla legge dello Stato la competenza a definire l’ambito di autonomia dell’ente locale, e l’introduzione del nuovo art. 114 Cost., ove si riconosce direttamente autonomia statutaria all’ente, secondo i principi fissati non già dalla legge, ma dalla Costituzione.

Come è ovvio, il principio di continuità dell’ordinamento giuridico prescrive l’osservanza del T.U. sugli enti locali per le parti oramai sottratte alla potestà legislativa dello Stato, fino a che la fonte divenuta competente non si appropri della materia: nel caso di specie, peraltro, non viene in discussione il delicato problema del riparto delle attribuzioni tra legge regionale e statuto provinciale, atteso che, in assenza di vincoli derivanti dalla prima, come nell’ipotesi della Regione Lombardia, la seconda si può espandere per i profili di organizzazione e funzionamento dell’ente che non siano legittimamente pregiudicati dalla normativa statale resa in forza della lett. p) dell’art. 117, secondo comma, Cost.

Lo statuto, svincolatosi dall’osservanza della legge della Repubblica, è ontologicamente diretto, anzitutto, alla disciplina delle modalità di funzionamento degli organi provinciali, che ne costituiscono, in forza dell’art. 114 Cost., un oggetto di specifica attribuzione secondo il criterio di competenza.

Come giova ribadire, la presente questione esime dall’interrogarsi sui limiti entro cui, eventualmente, a tali profili, si possa sovrapporre la legge regionale che sia ritenuta idonea ad intervenire nella materia dell’ordinamento degli enti locali, secondo il modello finora invalso nelle Regioni a statuto speciale e nelle Province autonome. Tuttavia, lo spazio da cui si è ritratta la competenza del legislatore statale ben può essere occupato, pur in difetto di normazione regionale, da parte della fonte espressiva di autonomia, con la quale si supera la perdurante applicazione della prima imposta dal principio di continuità dell’ordinamento giuridico.

Per effetto di simili passaggi argomentativi, si giunge alla conclusione che, nel vigente assetto costituzionale, e salva la sopravvenienza della legislazione regionale nel solo ambito consentitole dalla Costituzione, la disciplina del funzionamento interno del consiglio, e, all’interno di esso, del ruolo del suo presidente, debba essere rinvenuta nello statuto.

In linea astratta, pertanto, non è neppure più possibile escludere che quest’ultimo venga a rafforzare il rapporto di consonanza politica (l’espressione è impiegata dalla sentenza n. 12 del 2006 della Corte costituzionale, in opposizione alla fiducia in senso proprio) tra presidente e maggioranza consiliare, sia pure nell’ambito di un esercizio neutrale delle funzioni di organizzatore dei lavori assembleari (cfr. C.G.A. n. 69 del 2006).

In effetti, neppure lo statuto potrebbe discostarsi da un limite intrinsecamente legato alle funzioni esercitate dal presidente di un’assemblea rappresentativa, ovvero che questi agisca con imparzialità, nella scrupolosa osservanza della legge e dei regolamenti, al fine di permettere il libero e pieno dispiegarsi dei voti e delle opinioni, su cui si regge la formazione di una volontà democratica. Tale limite discende direttamente da principi costituzionali cui lo statuto è tenuto ad obbedire, posto che essa inserisce l’azione degli enti rappresentativi della popolazione locale nel circuito del pluralismo istituzionale, e con ciò, finanche nell’ambito di una concezione, peraltro largamente in crisi, meramente procedurale della democrazia, esige neutralità nell’applicazione delle regole che presiedono al confronto delle idee in seno alle assemblee.

Nel contempo, non è detto che ad un simile nocciolo duro di attribuzioni lo statuto non ne accompagni di ulteriori, o comunque che l’imprescindibile garanzia della legalità nella conduzione dei lavori si affianchi ad una valutazione compiuta dalla maggioranza consiliare con riferimento alle capacità politiche del presidente eletto, ed alle affinità che esse possano avere con l’orientamento condiviso da quella stessa maggioranza; in tal caso, lo statuto potrà allargare le maglie della revocabilità, fino alla rottura di una simile consonanza.

In altri termini: posto che al presidente del consiglio sono riconosciuti compiti in sé neutrali, è ad essi connaturata la garanzia dei diritti delle opposizioni e dei singoli consiglieri, sicchè sarebbe senz’altro sindacabile per eccesso di potere l’eventuale mozione di sfiducia approvata dalla maggioranza, allo scopo, forse non dichiarato, ma comunque apprezzabile tramite istruttoria, di castigare il presidente ligio ad un simile dovere. Ciò, tuttavia, non significa affatto che nomina e revoca del presidente non possano essere statutariamente indirizzati verso la costituzione o la dissoluzione di un rapporto basato sulla condivisione di una linea di indirizzo politico, che travalica la "fiducia sulla capacità dell’eletto di farsi garante del corretto funzionamento dell’organo", su cui è finora attestata la giurisprudenza (Cons. Stato, sez. V. n. 114 del 2006). Del resto, allo stato, il membro del consiglio eletto presidente continua ad esercitare le funzioni di consigliere, cosicché appare arduo negare in via assoluta che egli possa assumere, per volontà statutaria, una connotazione (anche) politica, oltre che istituzionale.

Certamente, il modello costituito dai Presidenti delle Camere, presidiato da regolamenti parlamentari e consuetudine costituzionale risalente al periodo statutario, escludono senza appello che essi possano ritenersi espressivi di una maggioranza. Tuttavia, bisogna guardarsi dall’illusione ottica, indotta dall’esperienza nazionale, secondo cui la conduzione di un’Assemblea, fermo il dovere di imparzialità connesso alle funzioni di tutela delle opposizioni, sia in sé incompatibile con un rapporto di consonanza politica rispetto alla maggioranza: anzi, specie nei sistemi maggioritari, non è raro che il presidente assuma una veste dichiaratamente militante, anche al fine di organizzare e dirigere i lavori dell’Assemblea in accordo con le linee programmatiche della maggioranza di governo (basti pensare al ruolo dello speaker presso il Congresso degli Stati Uniti).

Con ciò non si intende dire che un simile modello sia integralmente traslabile nell’ente locale, ma piuttosto che, in ogni caso, non vi sono preclusioni logiche ad immaginare un presidente che sia al contempo garante nell’applicazione delle regole di funzionamento dell’Assemblea e soggetto politicamente attivo.

Nel rinnovato assetto delle competenze costituzionali, pertanto, non si può cedere alla tentazione di disegnare a tavolino un ideal type di presidente dei consigli provinciali e comunali, per poi sovrapporlo alle scelte normative effettivamente compiute dallo statuto, e giudicare la legittimità di queste ultime alla luce del primo.

In questo senso, la linea di tendenza favorevole a confinare la revoca del presidente nell’alveo della violazione di legge affonda le proprie radici nella valorizzazione della dimensione amministrativa dell’ente locale, attivo quale centro di imputazione di interessi pubblici "di base", il cui apprezzamento matura sul piano della legalità dell’agire amministrativo. Tuttavia, con ciò si disconosce, alla fine, che riconoscimento e promozione delle autonomie locali significano, nel disegno costituzionale, anche proiezione di esse nel vasto mare dei processi di integrazione politica, la cui interazione genera dinamicamente le basi del pluralismo istituzionale.

Non è allora possibile chiudere gli occhi di fronte al carattere squisitamente politico delle scelte che gli organi di governo degli enti locali sempre più spesso compiono, nell’esercizio delle proprie attribuzioni, e tagliare la via all’ingresso di una tale dimensione nella configurazione dei rapporti interni al consiglio.

Questo Tribunale, al fine di risolvere l’attuale controversia, intende per tale ragione attenersi al principio di diritto, secondo cui, in difetto di vincoli per la cui introduzione sia competente la legislazione regionale, ed al di fuori delle materie riservate alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, spetta allo statuto della Provincia definire ruolo ed attribuzioni del presidente del consiglio provinciale, ed in particolare prevederne la revoca anche per motivi connessi alla rottura del rapporto di consonanza politica con la maggioranza assembleare, fermo il divieto di procedervi per il solo fatto che il presidente abbia agito con imparzialità nel garantire i diritti dei consiglieri e dei gruppi di opposizione.

Tale principio va ora applicato alla controversia pendente innanzi al Tribunale.

In via preliminare, peraltro, deve disattendersi l’eccezione di improcedibilità dei ricorsi per sopravvenuta carenza di interesse avanzata dalla difesa provinciale: essa si fonda sul fatto per cui il sig. D.N. ha pubblicamente dichiarato di non avere intenzione di assumere nuovamente l’incarico.

Tuttavia, se una simile circostanza è valsa ad escludere la sussistenza del periculum in mora con riguardo all’istanza cautelare avanzata dai ricorrenti, dall’altro è palese che persista l’interesse ad agire, legato anche ad un eventuale e pur sempre possibile ripensamento: in assenza di rinuncia al ricorso, l’improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse va apprezzata con estrema prudenza, e ritenuta nei soli casi in cui appaia evidente che nessuna utilità possa derivare al ricorrente dalla pronuncia di merito: tale non è evidentemente il caso nell’ipotesi a giudizio.

A tale proposito, va aggiunto che è, viceversa, fondata l’eccezione di inammissibilità del solo ricorso incidentale, posto che esso non è stato notificato all’unico controinteressato individuato dall’atto, ovvero al sig. P.P.F., eletto nuovo presidente del consiglio, e non costituitosi in giudizio.

Benché il ricorso per motivi aggiunti rechi nell’intestazione l’indicazione del sig. F. quale destinatario dell’atto in proprio, oltre che del consiglio di cui questi è "legale rappresentante", tuttavia la notifica è stata eseguita nei confronti del solo consiglio provinciale, ovvero dell’organo che ha deliberato l’atto impugnato, e non già personalmente nei riguardi del sig. F. quale controinteressato individuato dall’atto. A quest’ultimo la notifica è stata indirizzata esclusivamente quale rappresentante del consiglio. Ove si intenda radicare un giudizio nei confronti del controinteressato, si rende invece necessario che il ricorso gli sia notificato in tale veste, al fine di costituire il contraddittorio nei suoi confronti, rendendolo edotto del fatto che l’azione è esercitata anche verso di lui.

Tale profilo assorbe l’ulteriore rilievo, per il quale, in ogni caso, la notifica non sarebbe stata eseguita a mani proprie del sig. F. (nel senso che l’art. 139 c.p.c. non sia applicabile all’ufficio pubblico, la consolidata giurisprudenza amministrativa, tra cui, da ultimo, Cons. Stato, sez. VI, n. 659 del 2011; nel senso opposto, tra le altre, Cass. n. 7329 del 1993).

In ogni caso, l’inammissibilità del ricorso volto a conseguire l’annullamento dell’elezione del nuovo presidente, benché renda dubbio che l’eventuale caducazione della delibera di revoca del precedente presidente possa consentirne il reinsediamento in carica, ugualmente non incide sull’interesse ad una pronuncia che accerti l’illegittimità della revoca, anche con riguardo ad eventuali profili risarcitori.

Si rende perciò necessario affrontare il merito del ricorso principale: a soli fini di completezza, in questo peculiare caso, il Tribunale intende soffermarsi in via incidentale anche sulle censure dedotte con l’inammissibile ricorso per motivi aggiunti.

Su questo piano, va rilevato in via prioritaria che lo statuto della Provincia di Sondrio non ha rinunciato alla consueta collocazione del presidente del consiglio nell’alveo delle figure di garanzia, volte a costituire una cerniera tra maggioranza ed opposizione nello svolgimento dei lavori assembleari: di particolare rilievo, su questo piano, è la previsione (art. 31, commi 1 e 2) secondo cui tale soggetto è eletto dal consiglio a scrutinio segreto ed a maggioranza assoluta (il quorum scende alla maggioranza semplice alla terza votazione). Da un lato, elemento tipico delle investiture fiduciarie è il voto palese, attraverso il quale viene ad emergere con nettezza la maggioranza politica che designa il candidato alla carica; dall’altro lato, la fiducia rifugge dal crinale degli scrutini a quorum qualificato, cui invece si ricorre allo scopo di sollecitare la convergenza delle forze politiche su di un nome comunemente ben accetto, che possa garantire i diritti di tutti.

Se poi si pone lo sguardo sulle funzioni del presidente (art. 31, comma 5 dello statuto; art. 4 del regolamento del consiglio provinciale), va constatato che esse non deviano dai compiti istituzionali di organizzatore e guida dei lavori consiliari, esercitati al fine di assicurare "l’imparzialità e la difesa delle prerogative del consiglio e dei diritti dei consiglieri".

Tale contesto normativo suggerisce di escludere che lo statuto provinciale abbia inteso fondare l’elezione e la revoca del presidente del consiglio su di un elemento di consonanza politica tra maggioranza assembleare ed organo. Ciò non toglie, tuttavia, che ai fini della revoca (da approvarsi con le "stesse modalità previste per la sua elezione") l’art. 31, comma 3, si limiti ad esigere che essa sia approvata su mozione "motivata", mentre omette di indicarne le ragioni giustificatrici.

L’obbligo di motivare la mozione di revoca, unitamente alle garanzie procedurali da cui essa è assistita, conferma che lo statuto ha assegnato al presidente del consiglio un certo grado di stabilità, che ne escludono una sorta di rimozione ad nutum (ammesso per mera ipotesi che ciò sia possibile), e apre la via al sindacato del giudice amministrativo sul relativo processo decisionale. Le cause della revoca, pertanto, andranno ricavate combinando il carattere di garanzia del ruolo presidenziale, come emerge dallo statuto, con la discrezionalità politicoamministrativa a selezionare i fatti idonei ad incidere su di esso, che lo statuto tratteggia con larghezza.

La mancata specificazione delle ipotesi di revoca non autorizza perciò né a ritenere, come vorrebbe il ricorrente, che lo statuto sia per tale parte illegittimo, né che esso debba venire necessariamente eterointegrato con criteri di carattere pretorio, desunti dalla, peraltro assai scarna, normativa nazionale recata dal d.lgs. n. 267 del 2000, divenuta oramai incompetente in materia.

Nella logica dello statuto, piuttosto, l’omissione amplia lo spazio di apprezzamento concesso al consiglio per attrarre nell’area del rilevante, con riferimento al ruolo istituzionale del presidente, ipotesi ulteriori rispetto alla mera applicazione imparziale delle regole assembleari e allìequidistanza dalle parti politiche, su cui la giurisprudenza si è allo stato esercitata. Ciò a condizione che esse non sconfinino verso la rottura della (insussistente) consonanza politica, e non siano manifestamente inconferenti rispetto alla posizione istituzionale del presidente.

Tale omissione, in altri termini, acquisisce il significato giuridico di permettere alla maggioranza formatasi in consiglio (e non necessariamente stabile) di sostituire il presidente ogni qual volta, per fatti la cui sussistenza va allegata e dichiarata espressamente, sia venuta a mancare la fiducia che essa ha riposto non soltanto sulle modalità con cui questi ha gestito i lavori assembleari, ma anche sulla sua figura di uomo politico: gravi vicende personali che si riflettano oggettivamente sulla credibilità e sul prestigio della carica, in quanto capaci di assumere un più ampio rilievo politico; iniziative giudicate dannose per l’ente e la sua immagine; assunzione di posizioni pubbliche incompatibili con gli indirizzi consiliari, o comunque ritenute in contrasto con gli interessi della Provincia; dissidi insanabili, anche di natura personale, che rendano intollerabile la prosecuzione del rapporto di direzione dei lavori. Queste, ed altre, possono essere le cause della rimozione alla luce di una disposizione statutaria di estrema larghezza, che volutamente rifugge dalla tipicità, per allargarsi verso l’emersione di fattispecie di apprezzamento proprie della discrezionalità politicoamministrativa, per ciò stesso indeterminabili.

Indeterminabilità, tuttavia, non significa insindacabilità: si è pur sempre al cospetto di un atto amministrativo conoscibile dal giudice in forza dell’art. 113 Cost., la cui legittimità non può dunque ridursi all’osservanza delle garanzie procedimentali cui sono invece affidati i meccanismi di formazione e dissoluzione del rapporto fiduciario tra Parlamento e Governo.

Il giudice amministrativo non si limiterà dunque a verificare la legalità del procedimento di revoca, ma accerterà altresì, con gli ampi poteri istruttori di cui oramai dispone, la sussistenza dei fatti storici posti a base della decisione, ove contestata in giudizio. In particolare, dovrà vigilare che vi sia corrispondenza tra le ragioni selezionate dallo statuto ai fini della revoca, o comunque desumibili implicitamente dal ruolo che tale fonte ha conferito all’organo, e lo scopo perseguito dall’atto nel caso concreto. Difatti, quand’anche lo statuto si allarghi fino all’ipotesi estrema della costituzione del rapporto di consonanza politica, resta fermo che la revoca dovrà comunque fondarsi su elementi che non siano manifestamente estranei alla sfera pubblica propria delle dinamiche politicoamministrative, senza trasmodare in censure che abbiano un rilievo meramente privato, o che, peggio ancora, investano l’esercizio dei diritti della persona garantiti dalla Costituzione e dalle fonti di diritto internazionale.

Come è poi ovvio, al di fuori di simili ipotesi, permane la discrezionalità del consiglio a soppesare in piena autonomia l’incidenza delle circostanze indicate nella mozione ai fini della revoca, rispetto alla quale il sindacato giurisdizionale ha un carattere esterno e debole (Cons. Stato, Sez. V, n. 1042 del 2004; id, n. 2970 del 2008).

Nel caso di specie, l’attribuzione al presidente di una funzione di garanzia, in parte connaturata al suo ruolo, ma qui accentuata dallo statuto, permette invece di escludere non solo (come è regola indefettibile) che la revoca possa muovere in realtà dallo scopo di procurarsi un soggetto più malleabile nel tutelare i diritti delle opposizioni, ma anche che, alla base di essa, si pongano dissonanze relative all’azione politica del gruppo assembleare cui nei fatti il presidente si ricollega, valutate alla luce della condotta osservata in qualità di membro del consiglio. Lo statuto, in altri termini, ha esercitato un’opzione (non l’unica possibile, come si è visto) che si può sintetizzare nella formula "fiducia nell’uomo politico", piuttosto che in quella, sottilmente diversa, di "fiducia nella linea politica dell’uomo".

Se così è, appare evidente che a giustificare sul piano della legittimità la revoca del sig. D.N. è già sufficiente il fatto, specificamente addebitatogli e da questi neppure negato, di avere assunto in pubblico una posizione, circa lo sviluppo del parco eolico di Albaredo di S.Marco, in contrasto con quanto deliberato in proposito dal consiglio provinciale, ed in rappresentanza del Comune di cui il presidente è assessore: un conflitto di interessi palesato, in altri termini, e capace in linea astratta di minare la fiducia del consiglio nella dedizione del proprio presidente (che ne ha la rappresentanza: art. 31 dello statuto) alla sola causa della Provincia. Né simile ragione rischia di mascherare la volontà di comprimere la posizione della minoranza, giacché la mozione proviene proprio da quest’ultima.

In questo caso, al presidente non viene contestata una certa scelta politica maturata in qualità di membro del consiglio, eventualmente divergente da quella della maggioranza consiliare che lo ha eletto, ma la divulgazione di una posizione che, per quanto estranea ai compiti istituzionali che gli competono, urta con quella del consiglio e si manifesta nel perseguimento della volontà di altro ente locale, con l’effetto di far venir meno la fiducia nell’uomo politico di curare al meglio, e di rappresentare fedelmente, gli interessi provinciali.

Sono per tali ragioni infondati, sia nel ricorso principale, sia in quello per motivi aggiunti: il primo motivo, nella parte in cui si lamenta la illegittimità dell’art. 31 dello statuto, per non avere esso predeterminato i casi di revoca del presidente; il secondo motivo (violazione di legge, artt. 39 e 52 del d.lgs. n. 267 del 2000, ed eccesso di potere), nella parte in cui si deduce che il sig. D.N., con riguardo alla questione del parco eolico, non avrebbe potuto "essere censurato politicamente per l’attività svolta in ambito di un diverso ruolo istituzionale", e comunque rimosso per ragioni estranee alla violazione dei suoi doveri di presidente del consiglio; il terzo motivo (eccesso di potere, in particolare difetto di istruttoria, insussistenza dei fatti, sviamento), con cui si evidenzia che il ricorrente sarebbe stato revocato per ragioni politiche, e sulla base di fatti generici e dubbi: limitatamente all’assorbente profilo sopra evidenziato, il fatto è specifico e, come si è visto, giustifica, sul piano della legittimità, la revoca.

Parimenti infondati sono: il primo motivo, nella parte in cui si lamenta che l’art. 31 dello statuto non garantirebbe al presidente adeguate garanzie difensive, e il quarto motivo (violazione del giusto procedimento; eccesso di potere), poiché al presidente non è stato inviato l’avviso di inizio del procedimento e poiché la delibera di revoca non è stata preceduta dal parere di legittimità del funzionario competente: il Tribunale condivide quanto statuito in merito dal Consiglio di Stato, nella citata sentenza n. 1042 del 2004, secondo cui la revoca del presidente "non può considerarsi assimilabile agli atti di autotutela, sottoposti a principi garantistici stringenti (partecipazione procedimentale, indicazione delle ragioni di interesse pubblico, ecc.)". Difatti, si è già rimarcato che essa merita di venire valutata alla luce del lato carattere di discrezionalità politicoamministrativa che la sorregge: esso assorbe i profili di garanzia formali del procedimento amministrativo nelle logiche del confronto pubblico all’interno di un’assemblea politicamente orientata.

Infondati sono anche: il sesto motivo aggiunto (violazione di legge; eccesso di potere) diretto contro la delibera di nomina del nuovo presidente, posto che essa non è stata preceduta da alcun "provvedimento amministrativo di rimozione e/o revoca e/o cessazione della carica" del sig. D.N.: la pretesa in diritto del ricorrente che l’approvazione della mozione di revoca sia seguita da altro atto amministrativo, in assenza del quale il presidente continuerebbe ad esercitare le sue funzioni, è del tutto priva di base legale. Il presidente cessa dalla carica con effetto immediato a seguito dell’approvazione della mozione, né si vede perché l’art. 31 dello statuto dovrebbe, come sostiene il ricorrente, aggravare la procedura, prescrivendo l’adozione di altro atto di rimozione; il settimo motivo aggiunto (violazione di legge; eccesso di potere), anch’esso svolto contro la seconda delibera impugnata, poiché il consiglio è stato convocato per l’elezione del nuovo presidente dal Presidente della Giunta, anziché dal sig. D.N., o comunque dal consigliere anziano, cui spetta l’esercizio delle funzioni presidenziali, in caso di "assenza o impedimento" del titolare (art. 31 dello statuto). Fermo quanto appena detto circa la cessazione dalla carica del ricorrente, va osservato che nella sostanza la censura contesta l’incompetenza del Presidente della Giunta a convocare l’assemblea, adducendo che essa si rifletta sulla legittimità della delibera: è assorbente rilevare che l’atto di convocazione, dal contenuto vincolato, ha pienamente raggiunto il proprio scopo, sicchè l’eventuale vizio di incompetenza sarebbe in ogni caso superato alla luce dell’art. 21 octies della legge n. 241 del 1990.

Restano assorbiti i motivi di ricorso concernenti le ulteriori censure mosse al sig. D.N., atteso che la sola contestazione fin qui valutata è sufficiente a fondare la legittimità degli atti impugnati.

In conclusione, il ricorso principale è infondato, mentre il ricorso per motivi aggiunti è inammissibile.

La complessità della vicenda giustifica la compensazione delle spese.

P.Q.M.

il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione I), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, così provvede:

dichiara inammissibile il ricorso recante motivi aggiunti e respinge il ricorso principale.

Compensa le spese.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. Unite, Sent., 12-06-2012, n. 9513

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Il Tribunale di Lamezia Terme, giudice del lavoro, ha dichiarato, riguardo alla domanda di risarcimento del danno biologico, alla vita di relazione ed esistenziale, proposta dal dr. B.F., già dipendente dell’Azienda Sanitaria Locale n. (OMISSIS) della stessa città fino al mese di agosto 2002, il difetto di giurisdizione del giudice ordinario per i fatti antecedenti al 1 luglio 1998 e rigettato la domanda per i fatti descritti come avvenuti in epoca successiva.

Il Tribunale, qualificata la domanda risarcitoria del dott. B. come azione contrattuale, ha ritenuto che per le condotte poste in essere prima del 30 giugno 1998 fosse da dichiarare il difetto di giurisdizione del giudice ordinario e la giurisdizione del giudice amministrativo; che, per i fatti successivi, la domanda del dott. B. si rivelava priva di fondamento, attenendo la condotta descritta ad una situazione di "disagio collettivo" dei medici dirigenti del reparto ovvero al mancato adempimento di istituti contrattuali riferiti a tutto il personale operante presso l’Unità di Neonatologia.

2. La sentenza è stata gravata di appello dal dott. B. che ne assume la erroneità, evidenziando che la qualificazione, peraltro contestabile, della domanda come azione contrattuale, non conduceva alla declaratoria di difetto di giurisdizione del giudice ordinario, atteso che gli atti e le omissioni, riferibili all’ASL, tutti assolutamente collegati ed ininterrotti, costituivano condotte illecite permanenti, oggettivamente mobbizzanti e tutte orientate inscindibilmente al mantenimento di una condizione di indebita sottomissione del ricorrente a logiche antigiuridiche, immediatamente lesive del suo diritto al riconoscimento della posizione di lavoro.

La condotta dell’ASL n. (OMISSIS) di Lamezia Terme, nei confronti di esso appellante, non era legata puramente e semplicemente a soli atti amministrativi – pur contenenti effetti permanenti – ma era caratterizzata da condotte omissive che parimenti concorrevano con gli atti formali a costituire il comportamento dell’azienda sanitaria, denunciato in ricorso, come complessivamente frutto di una strategia mobbizzante ed illecita, coscientemente posta in essere senza soluzione di continuità. Censurava, inoltre, la sentenza appellata anche con riguardo alla affermata irrilevanza dei mezzi di prova articolati, erroneamente considerati con esclusivo riferimento al periodo successivo al 30 giugno 1998, ed alla ritenuta insussistenza della condotta vessatoria, avendo egli analiticamente descritto, nel ricorso introduttivo, la sua personale vicenda.

Chiedeva, quindi, la totale riforma della sentenza appellata.

Costituitasi, l’Azienda Sanitaria Locale n. (OMISSIS) di Lamezia Terme, assumeva l’infondatezza delle censure dell’appellante ed invocava il rigetto dell’appello con conferma della sentenza di primo grado.

La corte d’appello di Catanzaro con sentenza del 14 febbraio 2008 – 14 luglio 2008 ha rigettato l’appello, così confermando la sentenza di primo grado, ed ha compensato le spese tra le parti.

3. Avverso questa pronuncia ricorre per cassazione il B. con tre motivi.

Resiste con controricorso la parte intimata.

Il ricorrente ha anche depositato memoria.

Motivi della decisione

1. Il ricorso è articolato in tre motivi.

Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 45 per non aver la corte d’appello considerato che nella specie si trattava di illecito permanente e che quindi sussisteva la giurisdizione del giudice ordinario per essere la permanenza ancora in corso al momento del passaggio della giurisdizione del giudice amministrativo al giudice ordinario.

Con il secondo motivo il ricorrente denuncia vizio di motivazione: la corte d’appello non ha considerato ulteriori delibere da cui pure risultava il mobbing subito.

Con un terzo motivo il ricorrente denuncia ancora vizio di motivazione in ordine alla mancata ammissione della prova richiesta.

2. Il ricorso è nel suo complesso inammissibile.

3. Tale è innanzitutto il primo motivo di ricorso che si conclude con il seguente quesito di diritto: "dica la corte se, in presenza di un comportamento illecito permanente dell’azienda nei confronti di un dipendente con rapporto di lavoro privatizzato, adottato prima e dopo il 30 giugno 1998, la giurisdizione debba essere attribuita al giudice ordinario unitariamente per i fatti intercorsi per l’intero periodo fino alla loro cessazione successiva al 30 giugno 1998".

Nella specie la corte d’appello ha ritenuto che non si trattasse di un illecito permanente, ma di singole, distinte e specifiche condotte, essenzialmente riconducibili a procedure concorsuali di attribuzione di incarichi o qualifiche, di cui il ricorrente ha lamentato il carattere ingiusto, discriminatorio e quindi illecito.

Pertanto il quesito di diritto non è concludente perchè è vero che in presenza di illecito permanente proseguito dopo il 30 giugno 1998 sussiste la giurisdizione del giudice ordinario sull’intera controversia, ma nella specie la corte d’appello non ha affatto affermato un diverso principio, ma ha escluso, in punto di fatto, il presupposto dell’illecito permanente ritenendo che dalle risultanze di causa emergessero essere invece plurime le condotte censurate dal ricorrente.

4. Il secondo motivo di ricorso, con cui il ricorrente denuncia vizio di motivazione della sentenza impugnata, è parimenti inammissibile per mancanza della sintesi degli elementi di fatto da cui dovrebbe desumersi l’insufficienza o la contraddittorietà della motivazione.

Il quesito infatti – del seguente tenore "dica la corte se sia viziata per omissione, insufficienza e contraddittorietà della motivazione una sentenza che adduce confusionarie indicazioni su dati cronologici che invece hanno carattere determinante, omette di considerare censure articolatamente dedotte nel ricorso e infine ignora precisi elementi di fatto addotti e documentati nel ricorso medesimo e confluenti nella dimostrazione del carattere permanente degli atti lesivi denunciati dal ricorrente tali da attribuire al giudice ordinano la giurisdizione per l’intero periodo anteriore successivo al 30 giugno 1998 – si sostanzia infatti in una generica critica della sentenza impugnata.

5. Infine inammissibile è anche il terzo motivo che si chiude con il seguente quesito di diritto: dica la corte se, in presenza di una specifica richiesta di ammissione di prova non solo orale, il giudice di merito possa ricusarne la ammissione adducendo motivazioni peraltro insufficienti riferite solo a una parte delle prove richieste. L’assoluta genericità della censura ridonda in inammissibilità della stessa.

6. Il ricorso va quindi dichiarato inammissibile.

Sussistono giustificati motivi (in considerazione dell’evoluzione giurisprudenziale sulla portata e l’incidenza del quesito di diritto di cui all’art. 366 bis c.p.c.) per compensare tra le parti le spese di questo giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte, a Sezioni Unite, dichiara inammissibile il ricorso;

compensa tra le parti le spese di questo giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, il 22 maggio 2012.

Depositato in Cancelleria il 12 giugno 2012
Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 11-01-2013) 25-01-2013, n. 4087 Reato continuato e concorso formale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con ordinanza del 27.9.2011 il Tribunale di Palmi, in funzione di giudice dell’esecuzione, accoglieva parzialmente la richiesta presentata da C.I. di applicazione della disciplina della continuazione sui fatti giudicati con le seguenti sentenze: 1) Tribunale di La Spezia di condanna alla pena di anni 1 e mesi 5 di reclusione per i reati previsti dagli artt. 474 e 648 c.p., commessi il (OMISSIS); 2) Corte di appello di Reggio Calabria di condanna alla pena di mesi 6 di reclusione per i reati previsti dall’art. 483 c.p. e D.P.R. n. 43 del 1973, art. 292 commessi il (OMISSIS); 3) Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Ancona di condanna alla pena di 1 anno di reclusione per i reati previsti dagli artt. 474 e 479 c.p. commessi in (OMISSIS); 4) Corte di appello di Reggio Calabria di conferma della sentenza del Tribunale di Palmi di condanna alla pena di anni 1 e mesi 6 di reclusione per i reati previsti dagli artt. 648 e 474 c.p., commessi il (OMISSIS). In particolare il giudice dell’esecuzione riteneva la sussistenza del vincolo della continuazione limitatamente ai fatti giudicati con le sentenze indicate ai n. 1, 2 e 4, con esclusione dei fatti giudicati con la sentenza indicata al n. 3, e considerato più grave il reato di ricettazione di cui al capo A della sentenza indicata al n.4 per il quale era stata applicata la pena base di 1 anno e 6 mesi di reclusione ed Euro 2000 di multa, rideterminava la pena per i reati unificati nel vincolo della continuazione in complessivi anni 2 e mesi 3 di reclusione e Euro 2.800 di multa.

Avverso l’ordinanza il difensore ricorre per deducendo: violazione dell’art. 187 disp. att. c.p.p., poichè la pena inflitta per il reato di ricettazione di cui al capo A della sentenza n. 4 non è di anni 1 e mesi 6 di reclusione bensì di 1 anno di reclusione ed Euro 1.333,335; 2) violazione dell’art. 671 c.p.p., comma 2 poichè in relazione ai fatti giudicati con la sentenza n. 4 il giudice dell’esecuzione ha applicato una pena complessiva di anni 1 mesi 8 di reclusione superiore a quella inflitta dal giudice della cognizione di anni 1 e mesi 6 di reclusione; nell’applicazione degli aumenti di pena di 1 mese per ciascuno dei reati giudicati con la sentenza indicata al n. 2 il giudice dell’esecuzione non ha tenuto conto della diminuente per il rito abbreviato; 3) illogicità e contraddittorietà della motivazione con la quale è stata respinta la richiesta di applicazione della continuazione anche con riguardo al fatto giudicato con la sentenza sub 3.
Motivi della decisione

Il ricorso deve essere parzialmente accolto.

1. Il primo motivo di ricorso è fondato. Il giudice dell’esecuzione ha erroneamente ritenuto che la pena irrogata per il capo A della sentenza di condanna del Tribunale di Palmi, confermata da Corte di appello di Reggio Calabria, (indicata sub 4) sia stata di anni 1 mesi 6 di reclusione ed Euro 2000 di multa, corrispondente invece alla pena complessivamente irrogata per entrambi i reati ritenuti in continuazione (capi A e B), mentre per il solo capo A il giudice della cognizione ha irrogata la pena la pena di anni 1 e mesi 6 di reclusione ed Euro 2.000 di multa ridotta di un terzo per la diminuente del rito abbreviato.

2. La censura relativa agli aumenti di pena applicati per i reati satellite è infondata. Questa Corte ha più volte affermato che in tema di continuazione, attesa l’ampiezza dei poteri cognitivi riconosciuti in via eccezionale al giudice dell’esecuzione, è legittimo che, nel determinare la pena complessiva conseguente all’applicazione della continuazione, il giudice possa, una volta individuata la violazione più grave, quantificare l’aumento per ciascun reato satellite anche in misura superiore alla pena originariamente inflitta per quel reato, sempre che non venga superata la somma delle pene inflitte con ciascuna sentenza o decreto. (Sez. 1, n. 31429 del 08/06/2006, Serio, Rv. 234887).

3. Il giudice dell’esecuzione non ha incluso nel vincolo della continuazione i fatti di importazione di merce contraffatta accertati in (OMISSIS) sul rilievo che "la circostanza che C. abbia importato un altro carico di oggetti di pelletteria contraffatti dopo un anno (dalle precedenti importazioni di merce contraffatta sottoposta a sequestro) è significativo del fatto che si fosse rideterminato a versare nuovamente in re illicita".

L’argomentazione è immune da vizi logici.

L’ordinanza impugnata deve essere annullata limitatamente al trattamento sanzionatorio, con rinvio al giudice dell’esecuzione perchè, in osservanza dell’art. 187 disp. att. c.p.p., proceda alla determinazione della pena complessiva per i fatti ritenuti in continuazione assumendo come violazione più grave quella per la quale il giudice della cognizione ha applicato, in relazione al singolo reato, la pena più grave, tenendo conto della diminuente applicata per il rito.
P.Q.M.

Annulla l’ordinanza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio e rinvia per nuovo esame al Tribunale di Palmi.

Rigetta nel resto il ricorso.

Così deciso in Roma, il 11 gennaio 2012.

Depositato in Cancelleria il 25 gennaio 2013

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.