T.A.R. Piemonte Torino Sez. II, Sent., 22-01-2011, n. 86

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Svolgimento del processo

Con il ricorso in oggetto, parte ricorrente espone che la S. S.p.A. è società che, in data 23 dicembre 2002, si è fusa con la A.T.M. S.p.A. per dare vita al G.T.T. (G.T.T.) S.p.A.; e sia la S. S.p.A. che la A.T.M. S.p.A. erano concessionarie del servizio pubblico su strada urbana ed extraurbana e ferroviario in forza di convenzioni e, dal 2002 passate in capo a G.T.T., con le quali l’esercizio del servizio pubblico veniva svolto alle condizioni imposte dalla Regione, sia per quanto riguarda gli obblighi tariffari, sia per quanto riguarda gli obblighi di esercizio e di trasporto, comportando tale servizio degli oneri economici per gli operatori del settore che non possono essere coperti dagli introiti dei prezzi dei biglietti pagati dagli utenti.

Si espone ancora che S. ed A., nell’anno 1998, avevano svolto la loro attività di trasporto passeggeri con il rispetto degli obblighi di servizio pubblico imposti dalla Regione Piemonte, ente competente in materia di trasporto pubblico; proprio il rispetto degli obblighi imposti dalla Regione, ha comportato un disavanzo per entrambe le società; tali disavanzi sono stati prontamente comunicati alla Regione Piemonte che ha riconosciuto Euro 135.012.163 ad A. ed Euro 17.393.235 a S., lasciando il disavanzo residuo a carico delle Società.

Si espone ancora che il Regolamento della Commissione Europea n. 1191/1969, modificato successivamente dal Regolamento n. 1893/1991, al fine di tutelare la concorrenza, riconosce il diritto delle imprese esercitanti servizi pubblici di trasporto ad ottenere una compensazione effettiva e piena dei maggiori costi sostenuti in stretta correlazione con lo svolgimento del servizio pubblico che assicuri l’integrale copertura dei costi d’impresa; pertanto, in forza del Regolamento n. 1191/1969, con lettera prot. 28462 e 28464 del 14 dicembre 2007, la ricorrente ha messo in mora la Regione Piemonte.

Si espone, infine, che con lettere 12 febbraio 2008, la Regione ha negato la compensazione richiesta, sostenendo che la L. 151/1981 non riconosce l’integrale compensazione (come invece previsto dal Regolamento 1191/1969), ma soltanto un regime di erogazione di contributi regionali a copertura della differenza tra i costi ammissibili a seguito del raffronto con i costi economici standardizzati regionali ed i ricavi di esercizio.

Secondo parte ricorrente, il provvedimento in epigrafe indicato sarebbe illegittimo, per i seguenti motivi:

1.- Violazione Regolamento CEE n. 1191/69 modificato successivamente dal Regolamento CEE n. 1893/91. Violazione dell’art. 249, comma 2, Trattato CE. Violazione dei principi in materia di concorrenza.

2.- Violazione dell’art. 249, par. 2, Trattato CE sotto diverso profilo.

3.- Istanza di pronuncia in via pregiudiziale ex art. 234, lett. b) del Trattato CE.

Si chiede, inoltre, l’accertamento del diritto di ricevere la somma a titolo di compensazione come sopra specificato.

accertanda in corso di causa, a titolo di compensazione degli oneri economici sostenuti dalla S. S.p.A. e dalla A. S.p.A. nell’esercizio 1997 per l’adempimento di obblighi di servizio pubblico.

Si costituiva l’Amministrazione intimata chiedendo il rigetto del ricorso.

Alla pubblica udienza del 15 dicembre 2010, il ricorso veniva posto in decisione.

Motivi della decisione

Preliminarmente, occorre soffermarsi sulla giurisdizione del giudice adito.

Al riguardo rileva il Collegio che questa Sezione, con sentenza 10 giugno 2010, n. 2750, in un caso analogo, ha stabilito alcuni principi, ponendo, in primo luogo, attenzione alla natura giuridica del contratto di servizio concluso tra ricorrente e Amministrazione, sostanzialmente alla base della richiesta attorea.

I contratti di servizio, in quanto non negozi di diritto privato, ma cd. contratti ad oggetto pubblico e, in particolare, ricadenti nella categoria degli accordi sostitutivi di provvedimento, cioè sostitutivi del provvedimento concessorio precedentemente sussistente e regolante i rapporti gestoreAmministrazione, consentono l’operare della giurisdizione esclusiva del G.A. ai sensi dell’art. 11 della l. 241 del 1990 e, oggi, art. 1, comma 1, lett. a), n. 1 del D. Lgs. 2 luglio 2010, n. 104 (cd. Codice del processo amministrativo).

Analogamente, nel caso di specie, sia la S. S.p.A. che la A.T.M. S.p.A. erano concessionarie del servizio pubblico su strada urbana ed extraurbana e ferroviario in forza di convenzioni, convenzioni dal 2002 passate in capo a G.T.T., attuale ricorrente.

Anche tali convenzioni non sono altro che accordi sostitutivi di provvedimento, in quanto sostitutivi del provvedimento concessorio, regolante i rapporti gestoreAmministrazione, per cui opera pienamente la giurisdizione esclusiva del G.A. ai sensi dell’art. 11 della l. 241 del 1990 e, oggi, art. 1, comma 1, lett. a), n. 1 del D. Lgs. 2 luglio 2010, n. 104.

Solo per i provvedimenti di concessione (di servizio pubblico), provvedimento che, nella specie, non si riscontra, atteso che il rapporto è regolato esclusivamente dalle suddette convenzioni, opera pur sempre la giurisdizione esclusiva ex art. 33 D. Lgs. n. 80 del 1998 e, oggi, ex art. 1, comma 1, lett. b), del D. Lgs. 2 luglio 2010, n. 104, ma con un contenuto (incomprensibilmente) più ristretto, poiché esclude espressamente le controversie concernenti "indennità, canoni ed altri corrispettivi".

Poiché la controversia in oggetto è, invece, una controversia su accordi sostitutivi di provvedimento, non opera la limitazione della giurisdizione suddetta (corrispettivo), ma opera pienamente, come detto, la giurisdizione esclusiva del G.A. ai sensi dell’art. 11 della l. 241 del 1990 e, oggi, art. 1, comma 1, lett. a), n. 1 del D. Lgs. 2 luglio 2010, n. 104.

Anche per quanto riguarda il merito, il Collegio non può che riferirsi al precedente richiamato (citata sentenza 10 giugno 2010, n. 2750), di cui sinteticamente si richiamano gli snodi argomentativi.

In primo luogo, nelle convenzioni, così come nei "contratti di servizio", a fronte dell’imposizione degli obblighi di servizio pubblico, si prevede la corresponsione al concessionario di compensazioni economiche derivanti da contributi pubblici, non commisurati al principio di integrale copertura dei costi.

In secondo luogo, in tali convenzioni l’Amministrazione utilizza il suo potere autoritativo inteso come potere funzionalizzato, mai (almeno in linea di principio, e fatte salve eventuali situazioni speciali, o, meglio, eccezionali) un potere libero, qualificabile (a pieno titolo) come autonomia privata; si tratta sempre di potere (precettivo) soggetto allo statuto tipico dell’azione amministrativa, essendo un potere funzionalizzato; non essendo un potere libero, non è possibile confonderlo con l’autonomia privata; ed essendo sempre lo stesso, esso è disciplinato, almeno nelle linee fondamentali, sempre nello stesso modo: per esso vige un solo statuto giuridico.

Pertanto, il regime a statuto giuridico non si limita ad imprimere al potere precettivo il c.d. vincolo di scopo (finalizzandolo cioè alla soddisfazione dell’interesse pubblico), ma lo sottopone ad una serie di regole, formali e sostanziali; le quali possono essere riassunte, rispettivamente, nel principio del procedimento e nel principio del rispetto degli amministrati, includendo in questi ultimi sia gli interessati, sia i terzi. Al principio sostanziale fanno capo le regole della imparzialità, della proporzionalità, della trasparenza, e così via.

Tutto ciò con inevitabili ricadute di disciplina, in parte a vantaggio del privato, che potrà fare leva sui classici strumenti di controllo come l’impugnazione per eccesso di potere (da rivolgere contro l’accordo stesso, ovvero contro la determinazione preliminare dell’Amministrazione, che è alla base dell’accordo) che il privato, in ambito civilistico, non può esercitare; per contro, l’accordo e la relativa determinazione preliminare saranno sottoposti al regime dell’impugnabilità/annullabilità, con tutti i corollari riferibili, in primo luogo, ai termini di decadenza per far valere i vizi amministrativi dell’atto consensuale, in quanto esercizio di potere.

Resta, peraltro, inteso che l’accordo, in quanto atto consensuale, sarà altresì impugnabile in tutti i casi ammessi dal codice civile, di cui saranno applicabili tutti i relativi rimedi contrattuali, purché non incompatibili con l’applicazione delle regole tratte dal regime pubblicistico: tali rimedi civilistici, dunque, si aggiungeranno a quelli pubblicistici, come, ad es. per l’azione di annullamento ex art. 1441 c.c. o per l’azione di adempimento o di risoluzione; in altri casi, ove ci sarà incompatibilità, prevarrà, come è ovvio, la disciplina e il regime di rimedi pubblicistici, con tutti i vantaggi, e gli svantaggi che essi comportano.

Innanzitutto, in relazione alla violazione di norme imperative, non sarà possibile esercitare l’azione di nullità ex art. 1418 c.c., poiché tale azione è incompatibile con il regime di tutela pubblicistica approntato dall’ordinamento per reagire contro le violazioni di legge perpetrate dall’Amministrazione, in funzione di tutela del principio di legalità.

La violazione di norma imperativa è una violazione di legge e andrà trattata seconda la disciplina pubblicistica, con l’ovvia esigenza di impugnare l’atto, per tali motivi, entro 60 giorni e con la conseguenza che il vizio non può farsi valere senza esercitare tale azione finalizzata all’annullamento dell’atto stesso.

Infatti, se gli accordi sono integrativi o sostitutivi di provvedimenti, devono poter essere sindacati alla stregua di provvedimenti (così come sono assoggettati agli stessi controlli); altrimenti la conclusione di un accordo al posto della emanazione di un provvedimento danneggerebbe la posizione dei terzi, in violazione della raccomandazione espressa contenuta nella legge. Il che peraltro comporta che non vengano salvaguardati solo i diritti dei terzi, ma anche, e soprattutto, i loro interessi legittimi. In questo modo acquista un significato preciso la proposizione legislativa in esame; coordinandosi altresì con l’attribuzione della giurisdizione al giudice amministrativo e lo statuto e il regime di diritto pubblico cui soggiace l’atto consensuale.

Il problema della disciplina applicabile, infatti, assume rilievo allorché si prenda in considerazione nel suo insieme il regime della validità degli accordi, dato che, in astratto, esso può assimilarsi al regime proprio dei provvedimenti amministrativi ovvero al regime proprio dei contratti, l’uno avente a riferimento prevalente il profilo funzionale, l’altro il profilo strutturale della fattispecie.

In astratto, si può pensare che la validità degli accordi procedimentali vada sindacata insieme alla validità dei provvedimenti che necessariamente li seguono; che, invece, la validità degli accordi sostitutivi vada parametrata sui principi della validità dei contratti. Occorre peraltro tener conto della giurisdizione, attribuita al giudice amministrativo; il quale utilizza il canone della legittimità e non quello della validità strutturale.

Come si è già esposto, e si ribadisce, tali accordi, partecipando a pieno titolo alla natura pubblicistica, in quanto esercizio di potere, sono assoggettati ad un regime di rimedi parallelo per il privato contraente e per il terzo, ovvero l’azione di impugnazione prevista, nella versione normativa più recente, dall’art. 21octies, primo comma, l. 241 del 1990. In più, in quanto anche atti consensuali, come già detto, si consente, al solo contraente, l’esercizio dei rimedi disciplinati dal codice civile: in caso di sovrapposizione di rimedi, come per il caso della nullità per violazione di norme imperative, di cui si è detto, dovranno necessariamente prevalere i rimedi pubblicistici atteso il limite di compatibilità del richiamo al codice civile, peraltro esteso soltanto ai principi, in coerenza con la natura giuridica degli accordi.

Pertanto, e conclusivamente, si deve ritenere che la nullità dell’atto consensuale, nella specie, la convenzione o, più in generale, il "contratto di servizio" per violazione di norma imperativa possa essere fatto valere soltanto tramite l’azione di annullamento ex artt. 21octies l. 241 del 1990 e 26 r.d. 1054 del 1924.

Con l’ovvia conseguenza che non solo non potrà applicarsi il regime di cui all’art. 1339 c.c., relativamente alla sostituzione di clausole e prezzi imposti, norma che postula la nullità per violazione di norma imperativa e che, come visto, per gli atti dei pubblici poteri non può applicarsi, essendo un predicato tipico degli atti genuinamente privati; bensì che identica conclusione debba valere anche nell’ipotesi in cui l’atto amministrativo (in forma unilaterale o bilateraleconsensuale) si assuma in contrasto con una disposizione di rango comunitario che, come è noto, si risolve sul piano interno in un vizio di legittimità.

Pertanto, una volta che la convenzione abbia indicato un determinato criterio di compensazione degli oneri di servizio, come nella specie, in difformità rispetto alle norme comunitarie, anche soltanto tramite il richiamo a norme interne incompatibili con il diritto comunitario, valendo tale richiamo a rendere "pattizia" e, dunque, convenzionale, la regola tratta dalle disposizioni interne, non sarà possibile applicare criteri diversi se non impugnando l’accordo nei termini di decadenza, per violazione di legge.

Nello specifico, passando brevemente ad esaminare le disposizioni comunitarie rilevanti, si deve osservare che il Reg. 1191/69 CEE e s.m.i., relativo al settore dei trasporti per ferrovia, su strada e per via navigabile, consente agli Stati membri di imporre obblighi di servizio pubblico alle imprese pubbliche incaricate di assicurare il trasporto di passeggeri in un comune e di prevedere, per gli oneri che ne derivano, una compensazione determinata conformemente alle disposizioni del regolamento stesso: infatti, tale regolamento osta alla concessione di un’indennità di compensazione a favore di imprese incaricate del trasporto pubblico in un Comune, qualora non sia possibile determinare l’importo dei costi imputabili a quella parte di attività che costituisce esecuzione degli obblighi di servizio pubblico (Corte giustizia CE, sez. II, 7 maggio 2009, n. 504).

Secondo la disciplina comunitaria, per garantire servizi di trasporto sufficienti tenendo conto segnatamente dei fattori sociali, ambientali e di assetto del territorio o per offrire particolari condizioni tariffarie a favore di determinate categorie di passeggeri le competenti autorità degli Stati membri possono concludere contratti di servizio pubblico con un’impresa di trasporto. Le condizioni e le modalità di tali contratti sono definite nella sezione V del Regolamento.

In linea generale, infatti, secondo la normativa comunitaria, le competenti autorità degli Stati membri possono mantenere o imporre gli obblighi di servizio pubblico di cui all’art. 2 Reg. cit. per i servizi urbani, extraurbani e regionali di trasporto di passeggeri: le condizioni e le modalità, compresi i metodi di compensazione, sono definiti nelle sezioni II, III e IV.

Quando un’impresa di trasporto svolge contemporaneamente servizi soggetti ad obblighi di servizio pubblico ed altre attività, i servizi pubblici devono formare oggetto di sezioni distinte che rispondano come minimo ai seguenti requisiti:

a) separazione di conti corrispondenti a ciascuna attività di esercizio e ripartizione delle relative quote di patrimonio in base alle norme contabili vigenti;

b) spese bilanciate dalle entrate di esercizio e dai versamenti dei poteri pubblici, senza possibilità di trasferimento da o verso altri settori d’attività dell’impresa.

Ai termini dell’art. 2, nn. 1 e 2, del regolamento n. 1191/69 per obblighi di servizio pubblico si intendono gli obblighi che l’impresa di trasporto, ove considerasse il proprio interesse commerciale, non assumerebbe o non assumerebbe nella stessa misura né alle stesse condizioni. Gli obblighi di servizio pubblico ai sensi del paragrafo 1 comprendono l’obbligo di esercizio, l’obbligo di trasporto e l’obbligo tariffario.

L’art. 6, n. 2, del regolamento n. 1191/69 stabilisce che le decisioni di mantenere o di sopprimere a termine, totalmente o parzialmente, un obbligo di servizio pubblico, prevedono, per gli oneri che ne derivano, la concessione di una compensazione determinata secondo i metodi comuni di cui agli articolo 10, 11, 12 e 13.

L’art. 10 del regolamento, in specifico, prevede che per quanto riguarda l’obbligo d’esercizio o di trasporto, l’ammontare della compensazione prevista all’articolo 6 è pari alla differenza tra la diminuzione degli oneri e la diminuzione degli introiti dell’impresa che può derivare, per il periodo di tempo considerato, dalla soppressione totale o parziale corrispondente dell’obbligo in questione.

Tuttavia, se gli svantaggi economici sono stati calcolati suddividendo i costi complessivi sostenuti dall’impresa per la sua attività di trasporto fra le varie parti di questa attività di trasporto, l’ammontare della compensazione è pari alla differenza fra i costi imputabili alla parte dell’attività dell’impresa interessata dall’obbligo di servizio pubblico e l’introito corrispondente.

L’art. 17, n. 2, primo comma, del regolamento n. 1191/69 dispone ancora che le compensazioni risultanti dall’applicazione del presente regolamento sono dispensate dalla procedura di informazione preventiva di cui all’articolo 88, paragrafo 3, CE.

Infatti, pur avendo come obiettivo l’eliminazione degli obblighi inerenti alla nozione di servizio pubblico, come emerge sia dai primi due considerando, sia dall’art. 1, n. 3, del regolamento n. 1191/69, l’art. 1, n. 5, del medesimo prevede che le competenti autorità degli Stati membri possano mantenere o imporre gli obblighi di servizio pubblico di cui all’art. 2 di tale regolamento per i servizi urbani, extraurbani e regionali di trasporto di passeggeri. Le condizioni e le modalità, compresi i metodi di compensazione, sono definiti nelle sezioni II, III e IV del medesimo regolamento, come detto.

Dato che l’obbligo di compensazione, in virtù del regolamento n. 1191/69, è necessariamente legato all’esecuzione di obblighi di servizio pubblico, le imprese che sono considerate fornitrici di un servizio di trasporto pubblico di passeggeri senza che alcun obbligo di servizio pubblico sia loro imposto non potrebbero beneficiare di una tale compensazione.

Peraltro, la concessione da parte di uno Stato membro di indennità di compensazione a imprese di trasporto titolari di una concessione di servizio pubblico e che beneficiano, all’interno di determinati perimetri urbani, di un regime di esclusiva a causa degli obblighi di servizio pubblico a cui esse sono assoggettate non configura un aiuto di Stato vietato dall’art. 87, n. 1, CE nel caso in cui queste imprese esercitino, peraltro, questa attività anche in concorrenza con operatori privati al di fuori di detto perimetro e qualora sia possibile calcolare il costo aggiuntivo derivante dall’adempimento agli obblighi di servizio pubblico.

Infatti, l’art. 87 CE si colloca nelle disposizioni generali del Trattato relative agli aiuti di Stato, mentre l’art. 73 CE introduce nel settore dei trasporti una deroga alle norme generali applicabili agli aiuti di Stato, disponendo che gli aiuti che soddisfano le esigenze di coordinamento dei trasporti o che corrispondono al rimborso di talune servitù inerenti alla nozione di pubblico servizio sono compatibili con il Trattato. Il regolamento n. 1191/69 instaura un regime cui gli Stati membri sono tenuti ad attenersi quando prevedono di imporre obblighi di servizio pubblico alle imprese di trasporto terrestre (v. Corte di Giustizia sentenze Altmark, 24 luglio 2003, n. 280).

Il regolamento n. 1191/69 osta alla concessione di indennità di compensazione qualora non sia possibile determinare l’importo dei costi imputabili all’attività delle imprese interessate esercitata nell’ambito dell’esecuzione dei loro obblighi di servizio pubblico. Poiché le indennità di compensazione di cui trattasi rientrano nell’ambito di applicazione del regolamento n. 1191/69, la compatibilità delle medesime con il diritto comunitario deve essere valutata secondo le disposizioni previste da tale regolamento e non con riferimento alle disposizioni del Trattato relative agli aiuti di Stato.

Nel caso in cui il giudice giunga alla conclusione che dette indennità non sono state concesse in conformità con il regolamento n. 1191/69, spetta al medesimo, con riferimento all’applicabilità diretta di tale regolamento, trarne tutte le conseguenze, conformemente al diritto nazionale, per quanto riguarda la validità degli atti che comportano l’attuazione di dette indennità.

Alla luce delle suesposte considerazioni, il Giudice comunitario ha esplicitamente affermato che quando un giudice nazionale constata l’incompatibilità di talune misure di aiuto con il regolamento n. 1191/69, spetta al medesimo trarne tutte le conseguenze, conformemente al diritto nazionale, per quanto riguarda la validità degli atti che comportano l’attuazione di dette misure (Corte giustizia CE, sez. II, 7 maggio 2009, n. 504).

Pertanto, anche per il giudice comunitario si realizza, in caso di contrasto con la disciplina comunitaria di cui al Regolamento sui trasporti, un caso di invalidità, ma secondo il regime del singolo stato membro, che per il nostro ordinamento, come si è detto, è il regime dell’annullabilità/impugnabilità propria degli atti di esercizio (unilaterale o consensuale) del potere pubblico.

Pertanto, non avendo esercitato, in questo giudizio, l’azione di annullamento all’uopo prevista avverso l’accordo per violazione di legge (comunitaria), il ricorso non può trovare accoglimento.

Peraltro, anche a volere ritenere che, nello schema logico e giuridico del processo impugnatorio avanti al G.A., sia ammissibile la mera azione (atipica) di accertamento dell’illegittimità (prospettiva accolta dal Consiglio di Stato con le note sentenze, Sez. VI, 9 febbraio 2009, n. 717 e 15 aprile 2010, n. 2139), sia in quanto ciò corrisponderebbe all’effettività di tutela di cui all’art. 24 Cost., di cui l’art. 113 è rappresenta soltanto una species (sottoforma di tutela costitutivademolitoria), sia in quanto l’azione di accertamento è il passaggio logico necessario per l’annullamento, sia in quanto l’azione di accertamento non è prevista espressamente neppure nel processo civile ove la si ritiene implicitamente e pacificamente sussistente e anzi necessaria, sia in quanto si voglia ottenere un accertamento giurisdizionale al fine di sollecitare il successivo esercizio del potere amministrativo (es. sostituzione della clausola), sia, infine, in quanto anche la tradizionale configurazione del giudizio di annullamento come giudizio sull’atto (e non sul rapporto) non è più così pacifica come era in passato, la domanda di parte ricorrente non può trovare accoglimento.

In disparte le ovvie considerazioni in tema di violazione dei termini per proporre il ricorso, che devono comunque essere omogenei tra azione di annullamento e di accertamento, altrimenti eludendo la disciplina cogente della decadenza.

Infatti, come si evince a livello comunitario (sentenza cd. "Combus" 16 marzo 2004, Causa T157/01 del Tribunale di primo grado delle Comunità europee) si deve operare un’importante distinzione, all’interno del Reg. (CEE) 1191/69 e 1893/91, tra obblighi di servizio pubblico e contratti o convenzioni di servizio: gli obblighi di servizio pubblico sussistono solo in caso di mantenimento o imposizione di obblighi di servizio pubblico (prescindendo da una contrattazione con l’impresa) con la conseguenza che devono essere applicati i metodi comuni di compensazione previsti nel Regolamento (punto 77); nei contratti di servizio pubblico (come nelle convenzioni) vige un regime puramente contrattuale sotto il profilo contenutistico che, come tale, non prevede, ai sensi del regolamento, né un obbligo di servizio pubblico né una compensazione. Le prestazioni di trasporto fornite sono remunerate con il prezzo contrattuale concordato dalle parti (punti 7782). Nel sistema a regime del trasporto pubblico locale gli obblighi di servizio non sono imposti alle imprese, ma diverrebbero oggetto di un accordo contrattuale nel quale il prezzo deve essere determinato nel rispetto dei metodi comuni stabiliti nel Reg. (CEE) 1191/69 – 1893/91 di cui si è detto.

Ai sensi del reg. Cee n. 1191/69 del Consiglio, adottato il 26 giugno 1969, ma nel testo risultante dalle modifiche introdotte con il regolamento Cee n. 1893/91, adottato dal Consiglio il 20 giugno 1991, le imprese concessionarie di servizi pubblici di trasporto hanno diritto alla compensazione piena ed effettiva dei maggiori costi sostenuti in stretta correlazione con gli obblighi ad essi imposti dalle autorità concedenti (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 29 agosto 2006, n. 5043).

Infatti, il Regolamento CEE n. 1191/69 del Consiglio adottato il 26 giugno 1969, nel testo risultante dalle modificazioni introdotte con il Regolamento CEE n. 1893/91 adottato dal Consiglio in data 20 giugno 1991, nel prevedere che gli Stati membri possono escludere dal suo campo di applicazione le imprese la cui attività è limitata esclusivamente alla fornitura di servizi di trasporto urbani, extraurbani o regionali (attività svolta dalla ricorrente per quel che qui interessa) espressamente dispone che le condizioni modalità compresi i metodi di compensazione, sono definiti nelle sezioni II, III, e IV.

Nella sezione seconda del Regolamento CEE qui in esame, nel dettare le regole comuni per la soppressione o il mantenimento totale o parziale di un obbligo di servizio pubblico, il legislatore comunitario ha chiarito, in modo non equivoco, che le decisioni di mantenere o di sopprimere a termine, totalmente o parzialmente, un obbligo di servizio pubblico, prevedono, per gli oneri che ne derivano, la concessione di una compensazione determinata secondo i metodi comuni già ricordati (articoli 10, 11, 12, 13 e articolo 6, comma secondo).

La sostituzione, dunque, non potrebbe ritenersi automatica, poiché il Regolamento comunitario non prevede una clausola rigida e specifica, bensì soltanto un metodo di calcolo che, potendo presentare margini di negoziabilità da parte dei paciscenti, in quanto oggetto di un accordo, come si è detto, non è suscettibile di immediata applicazione.

In altre parole, cogente a livello comunitario è il metodo non il risultato, che può presentare margini, pur ristretti, di variabilità e che, molto opportunamente, il Regolamento comunitario lascia nella disponibilità delle parti e nell’ambito della negoziazione volta alla conclusione dell’anzidetto "contratto" (o nella convenzione, come nel caso di specie).

Pertanto, alla luce dell’insieme delle predette argomentazioni, il ricorso deve essere respinto, in quanto infondato.

Sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese del giudizio.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte (Sezione Seconda),

definitivamente pronunciandosi sul ricorso in epigrafe indicato, lo respinge.

Compensa tra le parti le spese del giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Torino nella camera di consiglio del giorno 15 dicembre 2010 con l’intervento dei magistrati:

Vincenzo Salamone, Presidente

Paolo Giovanni Nicolò Lotti, Consigliere, Estensore

Manuela Sinigoi, Referendario
Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen., sez. V 23-12-2008 (18-12-2008), n. 47983 preventivo finalizzato alla confisca avente per oggetto il profitto del reato di manipolazione del mercato

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

MOTIVI DELLA DECISIONE
Con decreto del 27.7.2007 il g.i.p. del tribunale di Milano disponeva il sequestro preventivo dei capital gains realizzati da T. S., costituiti dalle somme di denaro ancora giacenti sul conto corrente intestato al medesimo T. (c.c. n. (OMISSIS)), dagli strumenti acquistati con l’impiego di tali somme e custoditi nei dossiers abbinati al detto conto corrente ovvero anche per equivalente di altre somme, titoli e beni nella titolarità del T. sino alla concorrenza di Euro 1.638.339,12, in relazione al reato di concorso in manipolazione del mercato (art. 110, art. 112, comma 1, nn. 1 e 2, art. 81 cpv. c.p., T.U.F., art. 185 come mod.to dalla L. n. 62 del 2005 e L. n. 262 del 2005), per cui il T. era indagato nell’ambito della nota vicenda della "scalata" alla Banca Antonveneta.
Il tribunale del riesame di Milano, con ordinanza del 22.10.2007, in parziale riforma del suaccennato decreto, riduceva il sequestro preventivo, anche per equivalente, sino alla concorrenza della plusvalenza realizzata dal T. al netto della imposta sostitutiva ex L. n. 461 del 1997 e confermava nel resto il medesimo decreto.
Il predetto tribunale riteneva che non potevano essere "scomputati" dal profitto del reato di manipolazione del mercato gli interessi versati dall’indagato alla Banca Popolare di Lodi per ottenere l’affidamento necessario per l’acquisizione dei titoli azionari oggetto di aggiotaggio: l’attività – i cui costi si sarebbe voluto scomputare dal profitto confiscabile -, pur essendo intrinsecamente lecita (sostanziandosi nella erogazione di un mutuo bancario nell’ambito dell’esercizio del credito da parte di un istituto autorizzato), ciò nondimeno risultava nella specie chiaramente ed inequivocabilmente orientata alla realizzazione dell’agire criminoso, in particolare, a creare le condizioni perchè la manipolazione di mercato avente ad oggetto il titolo "Antonveneta" potesse essere compiuta. Si trattava, dunque, di spese che riguardavano un’attività strumentale alla realizzazione dell’illecito ed in quanto tali, giusta la concreta finalizzazione ad uno scopo illecito, non erano meritevoli di alcuna tutela da parte dell’ordinamento, nè pertanto erano suscettibili di far discendere alcun vantaggio per il reo sul piano economico (sconto sui beni da confiscare).
Avverso la summenzionata ordinanza del tribunale del riesame di Milano il difensore del T. proponeva ricorso per Cassazione.
Con unico motivo, il predetto difensore deduceva – ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) – erronea applicazione della legge penale (T.U.F. art. 187 e art. 321 c.p.p.).
Invero, per giungere alla corretta individuazione del "profitto", realizzato dal T. attraverso la commissione dei fatti ritenuti penalmente rilevanti, sarebbe necessario abbandonare l’errato angolo di visuale in cui si sarebbero posti i giudici milanesi (evidentemente preoccupati di garantire alla confisca un’efficacia sanzionatoria che non le sarebbe propria), collocandosi nella pratica e corretta prospettiva di una misura di sicurezza.
In tale prospettiva, occorrerebbe stabilire quale fosse stato "l’utile economico" ricavato dall’indagato.
Nell’individuazione di concetto di "profitto del reato" non si potrebbe, perciò, non lenere conto di tutte le "componenti negative" (oltre alle imposte, le minusvalenze e gli interessi passivi versati alla banca), di guisa che solo all’esito dello scorporo di tali oneri dal totale delle plusvalenze sarebbe possibile determinare puntualmente e correttamente l’entità dell’"utile" derivato in concreto dalla condotta ritenuta illecita.
Il difensore del T. chiedeva, pertanto, l’annullamento dell’ordinanza impugnata, nella parte in cui non aveva escluso dall’ammontare da sottoporre a sequestro preventivo anche il totale degli oneri pagati a titolo di interessi passivi e le perdite accusate per effetto della minusvalenza registrata dal titolo "Antonveneta".
Il ricorso sottopone, sostanzialmente, all’esame di questa Suprema Corte la questione se il profitto del reato de quo, oggetto di sequestro preventivo finalizzato alla confisca, debba essere commisurato al lordo, cioè all’intero ricavo dell’illecito, ovvero ai netto, cioè all’effettivo guadagno tratto dal reo, determinato sottraendo i costi sostenuti dal medesimo reo per la commissione del reato.
Al riguardo, deve essere rilevato che non è rinvenibile in alcuna disposizione legislativa una definizione della nozione di "profitto" nè tanto meno una specificazione del tipo di "profitto lordo" o di "profitto netto", ma il termine è utilizzato, nelle varie fattispecie in cui è inserito, in maniera meramente enunciativa, assumendo, quindi, un’ampia "latitudine semantica" da colmare in via interpretativa.
Nel linguaggio penalistico il termine ha assunto sempre un significato oggettivamente più ampio rispetto a quello economico o aziendalistico, non è stato cioè mai inteso come espressione di una grandezza residuale o come reddito di esercizio, determinato attraverso il confronto tra componenti positive e negative del reddito.
Recentemente, le Sezioni Unite di questa Suprema Corte hanno affermato che "il profitto del reato…va inteso come complesso dei vantaggi economici tratti dall’illecito e a questo strettamente pertinenti, dovendosi escludere, per dare concreto significato a tale nozione, l’utilizzazione di parametri valutativi di tipo aziendalistico".
"Il crimine", invero, "non rappresenta, in alcun ordinamento, un legittimo titolo di acquisto della proprietà o di altro diritto su un bene e il reo non può, quindi, rifarsi dei costi affrontati per la realizzazione del reato. Il diverso criterio del "profitto netto" finirebbe per riversare sullo Stato…il rischio di esito negativo del reato ed il reo e, per lui, l’ente di riferimento si sottrarrebbero a qualunque rischio di perdita economica" (Cass. Pen. SS.UU. 27.3.2008 dep. 2.7.2008, n. 26654, Rv. 239924).
La suaccennata nozione generale del "profitto", adottata delle Sezioni Unite, è in linea con la strategia internazionale, particolarmente dell’Unione Europea, che affida alla confisca dei "proventi del reato", intesi in senso sempre più ampio ed omnicomprensivo, il ruolo di contrasto alla criminalità economica ed a quella organizzata e, a tal fine, elabora strumenti funzionali alla promozione dell’armonizzazione delle legislazioni nazionali in materia.
Si muove in questa direzione la recente L. 25 febbraio 2008, con cui si è conferita delega al Governo per l’attuazione della decisione quadro 24.2.2005 dell’Unione Europea relativa alla confisca di beni, strumenti e proventi di reato (2005/212/GAT). La citata legge, art. 31, comma 1, lett. b), n. 1, chiarisce che per "proventi del reato" dovranno intendersi il prodotto ed il prezzo del reato, nonchè "il profitto derivato direttamente o indirettamente dal reato" o il suo impiego; la stessa disposizione al n. 3 impone la previsione della confisca per equivalente dei beni costituenti il prodotto, il prezzo o il profitto del reato.
E’ agevole osservare che il legislatore, nel disciplinare la confisca del profitto del reato, non opera alcuna distinzione fondata sul margine di guadagno "netto" ricavato dal reato e, anzi, menzionando specificamente il "profitto indiretto", da rilievo, ai fini dell’applicazione della misura ablativa, anche ai vantaggi indotti dal profitto direttamente acquisito per effetto della consumazione dell’illecito.
Alla stregua delle illustrate considerazioni, deve concludersi che il tribunale del riesame di Milano ha correttamente escluso che dal profitto del reato in esame dovessero essere detratte le "competenze bancarie" versate dal T. e la minusvalenza registrata dal titolo "Antonveneta".
Le censure formulate dal T. sono, perciò, infondate, con la conseguenza che il ricorso dell’indagato deve essere rigettato.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

Corte Costituzionale, Sentenza 299 del 2010 Immigrati. Le regioni non hanno competenza sulle politiche dei flussi di ingresso e di soggiorno

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 1, commi 1, 2, lettera h), e 3; 2; 3; 4, comma 4; 5, comma 1, lettere a) e b); 6, comma 1, lettere b) e c), 10, commi 5 e 6; 13; 14 e 15, comma 3, della legge Regione Puglia 4 dicembre 2009, n. 32 (Norme per l’accoglienza, la convivenza civile e l’integrazione degli immigrati in Puglia), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 5/11 febbraio 2010, depositato in cancelleria l’11 febbraio 2010 ed iscritto al n. 20 del registro ricorsi 2010.

Visto l’atto di costituzione della Regione Puglia;

udito nell’udienza pubblica del 21 settembre 2010 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro;

uditi l’avvocato dello Stato Paola Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri e gli avvocati Giuseppe Tucci e Nicola Colaianni per la Regione Puglia.

Ritenuto in fatto

1.- Con ricorso notificato il 5/11 febbraio 2010, depositato l’11 febbraio 2010, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso, in riferimento all’articolo 117, secondo comma, lettere a), b), h) ed l), della Costituzione, ed in relazione agli articoli 4, 5, 10, 10-bis, 11, 13, 14, 19 e 35 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), questioni di legittimità costituzionale degli articoli 1, commi 1, 2, lettera h), e 3; 2; 3; 4, comma 4; 5, comma 1, lettere a) e b); 6, comma 1, lettere b) e c); 10, commi 5 e 6; 13; 14 e 15, comma 3, della legge della Regione Puglia 4 dicembre 2009, n. 32 (Norme per l’accoglienza, la convivenza civile e l’integrazione degli immigrati in Puglia), pubblicata nel Bollettino Ufficiale della Regione Puglia del 7 dicembre 2009, n. 196.

2.- Il ricorrente premette che la legge della Regione Puglia n. 32 del 2009 reca norme per l’accoglienza, la convivenza civile e l’integrazione degli immigrati e, all’art. 1, dispone che la Regione: «concorre alla tutela dei diritti dei cittadini immigrati presenti sul territorio regionale, attivandosi per l’effettiva realizzazione dell’uguaglianza formale e sostanziale di tutte le persone» (comma 1); realizza politiche regionali finalizzate a garantire i diritti inviolabili degli stranieri presenti a qualunque titolo sul territorio regionale e, tra l’altro, a «a) garantire i diritti umani inviolabili degli stranieri presenti a qualunque titolo sul territorio regionale», «c) garantire l’accoglienza e l’effettiva inclusione sociale delle cittadine e dei cittadini stranieri immigrati nel territorio regionale», «d) garantire pari opportunità di accesso e fruibilità dei servizi socio-assistenziali, socio-s anitari, di conciliazione e dell’istruzione, per la qualità della vita», «e) promuovere la partecipazione alla vita pubblica locale», «h) garantire la tutela legale, in particolare l’effettività del diritto di difesa, agli immigrati presenti a qualunque titolo sul territorio della Regione» (comma 3).

Il successivo art. 2 prevede, genericamente, gli «immigrati» quali destinatari degli interventi previsti dalla legge regionale; l’art. 3 stabilisce che, allo scopo di perseguire le finalità di cui all’art. 1, comma 3, la Regione promuove la realizzazione di un sistema integrato di interventi e servizi per la piena integrazione degli immigrati, orientato agli obiettivi prioritari indicati in detta norma.

L’art. 4, comma 4, attribuisce alla Giunta regionale le funzioni attinenti, tra l’altro, alla promozione di programmi in materia di protezione e inclusione sociale (lettera a), alla promozione di programmi di intervento per l’alfabetizzazione e l’accesso ai servizi educativi, per l’istruzione e la formazione professionale, per l’inserimento lavorativo e il sostegno ad attività autonome imprenditoriali, favorendo la piena integrazione istituzionale, programmatica, finanziaria e organizzativa per la realizzazione di tali interventi a livello regionale (lettera c), alla promozione di iniziative di sostegno alla realizzazione dei progetti di vita degli immigrati (lettera e).

L’art. 5, comma 1, della legge in esame disciplina i compiti delle Province, ai fini dell’inserimento sociale degli immigrati, disponendo che esse svolgono le seguenti funzioni: partecipare alla definizione e attuazione dei piani di zona previsti dalla legge Regione Puglia 10 luglio 2006, n. 19 (Disciplina del sistema integrato dei servizi sociali per la dignità e il benessere delle donne e degli uomini in Puglia), in materia di interventi sociali rivolti ai cittadini stranieri immigrati, con compiti di coordinamento, monitoraggio e supporto ai Comuni per la definizione di specifici interventi sovra-ambito di valenza provinciale per l’integrazione sociale dei cittadini stranieri (lettera a); favorire la consultazione e la partecipazione alla vita sociale e istituzionale e l’esercizio dei diritti politici da parte degli immigrati (lettera b). Analoghi obiettivi sono fissati quali compiti dei Comuni dall’art. 6, comma 1, lette re a) e b) (recte: lettere b e c), della legge regionale n. 32 del 2009.

Il citato art. 10 disciplina l’assistenza sanitaria disponendo, al comma 5, che «la Regione, con la presente legge, individua le modalità per garantire l’accesso alle cure essenziali e continuative ai cittadini stranieri temporaneamente presenti (STP) non in regola con le norme relative all’ingresso e al soggiorno».

L’art. 13 della legge in esame, concernente la formazione professionale, dispone che «gli immigrati, compresi i richiedenti asilo, hanno diritto alla formazione professionale in condizioni di parità con gli altri cittadini», mentre l’art. 14 prevedrebbe analogo diritto in riferimento all’inserimento lavorativo.

L’art. 15 della legge regionale n. 32 del 2009, avente ad oggetto le politiche di inclusione sociale, stabilisce che la Regione Puglia «si impegna a riservare, all’interno del piano regionale delle politiche sociali, specifica attenzione alle condizioni di vita e alle opportunità di integrazione e di inclusione sociale per gli immigrati».

Secondo il ricorrente, siffatte norme prevedono una serie di interventi volti, tra l’altro, a garantire l’accesso ai servizi, socio-assistenziali, socio-sanitari, all’abitazione, all’istruzione, alla formazione professionale, nonché il diritto di difesa, garantendo altresì la partecipazione alla vita pubblica locale, indicando i destinatari degli stessi, in modo generico, negli «immigrati» (art. 2 comma 1), ovvero nei «cittadini immigrati presenti sul territorio regionale» (art. 1 comma 1), oppure negli stranieri «presenti a qualunque titolo sul territorio della regione» (art. 1, comma 3, lettere a) ed h).

La lettera delle disposizioni, in considerazione della genericità delle locuzioni adottate e della circostanza che altre norme della legge regionale in esame (quali, ad esempio, gli artt. 10, commi 2 e 3; 14, comma 1; e 17, comma 1) si riferiscono espressamente ai «cittadini stranieri regolarmente soggiornanti nella regione», indurrebbe a ritenere che detti interventi riguardino anche gli immigrati privi di regolare permesso di soggiorno. Tuttavia, l’ingresso, la permanenza e l’espulsione dei cittadini stranieri sono stati compiutamente disciplinati dal d.lgs. n. 286 del 1998 e, quindi, le norme regionali impugnate si porrebbero in contrasto con i principi fondamentali da questo stabiliti, in particolare, negli artt. 4, 5, 10, 11, 13 e 14, concernenti l’illegittimità del soggiorno degli immigrati irregolari e la disciplina del respingimento, dell’espulsione e della detenzione nei centri di identificazione ed espulsione, nonch é con l’art. 10-bis (introdotto dall’art. 1, comma 16, della legge 15 luglio 2009, n. 94, recante «Disposizioni in materia di sicurezza pubblica»), il quale configura come reato la condotta dello straniero che faccia ingresso o si trattenga nel territorio dello Stato, in violazione delle norme di detto decreto legislativo.

Dunque, ad avviso del Presidente del Consiglio dei ministri, le norme regionali impugnate violerebbero l’art. 117, secondo comma, lettere a) e b), Cost., in relazione alle materie «diritto di asilo e condizione giuridica dei cittadini non appartenenti all’Unione Europea» e dell’«immigrazione», nonché lettere h) e l), Cost., poiché «disciplinano e in qualche modo agevolano la permanenza sul territorio nazionale di cittadini extracomunitari», i quali «non solo non avrebbero titolo a soggiornare ma, una volta sul territorio nazionale, dovrebbero essere perseguiti penalmente». Peraltro, gli artt. 19 e 35 del d.lgs. n. 286 del 1998 prevedono alcune deroghe a detta disciplina che, costituendo misure eccezionali, sarebbero tassative ed insuscettibili di applicazione per analogia.

Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, la Regione non potrebbe emanare norme in detti ambiti e, comunque, non potrebbe prevedere interventi diretti al riconoscimento, ovvero all’estensione di diritti in favore dell’immigrato irregolare o in attesa di regolarizzazione e neppure stabilire, mediante «regimi di deroga non previsti dalla normativa statale, casi diversi ed ulteriori di non operatività della regola generale ovvero la condizione di illegittimità e di autore di reato dell’immigrato irregolare». Il d.lgs. n. 286 del 1998 attribuisce, infatti, alcuni compiti alle Regioni, ferma la competenza esclusiva dello Stato per tutto quanto attiene al controllo dell’ingresso e del soggiorno degli stranieri sul territorio nazionale, con la conseguenza che la Regione non potrebbe emanare norme che, agevolando il soggiorno sul territorio nazionale da parte di immigrati irregolari, influiscono su detti profili.

2.1.- Il ricorrente deduce, inoltre, distintamente, l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, della legge regionale in esame, il quale, disponendo che le norme della stessa «si applicano, qualora più favorevoli, anche ai cittadini neocomunitari», disciplinerebbe una materia attribuita alla competenza dello Stato, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettere a) e b), Cost., concernente i «rapporti dello Stato con l’Unione europea».

La previsione della norma impugnata era, infatti, già contenuta nell’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 286 del 1998, sostituito dall’art. 37, comma 2, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, il quale ora dispone: «Il presente testo unico non si applica ai cittadini degli Stati membri dell’Unione europea, salvo quanto previsto dalle norme di attuazione dell’ordinamento comunitario».

2.2.- Il Presidente del Consiglio dei ministri impugna anche, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettere a), b), h) ed l), Cost., l’art. 10, commi 5 e 6, della legge regionale in esame, avente ad oggetto la disciplina dell’assistenza sanitaria, esponendo che il comma 5 dispone che «la Regione, con la presente legge, individua le modalità per garantire l’accesso alle cure essenziali e continuative ai cittadini stranieri temporaneamente presenti (STP) non in regola con le norme relative all’ingresso e al soggiorno»; il comma 6 stabilisce che «ai cittadini comunitari presenti sul territorio regionale che non risultano assistiti dallo Stato di provenienza, privi dei requisiti per l’iscrizione al SSR e che versino in condizioni di indigenza, sono garantite le cure urgenti, essenziali e continuative».

Ad avviso del ricorrente, siffatta norma si porrebbe in contrasto con il principio stabilito dall’art. 35, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998, in virtù del quale «ai cittadini stranieri presenti sul territorio nazionale, non in regola con le norme relative all’ingresso ed al soggiorno, sono assicurate» unicamente «le cure ambulatoriali ed ospedaliere urgenti o comunque essenziali, ancorché continuative, per malattia ed infortunio e sono estesi i programmi di medicina preventiva a salvaguardia della salute individuale e collettiva».

La disposizione in esame violerebbe, quindi, la competenza regionale in materia di tutela della salute, nella parte in cui fa riferimento a prestazioni sanitarie ulteriori rispetto a quelle strettamente essenziali, indicate dalla disciplina statale, quali, ad esempio, l’erogazione dell’assistenza farmaceutica con oneri a carico del Servizio sanitario nazionale (SSN) e la previsione della libera scelta del medico di base (art. 10, comma 5, lettere b e c).

2.3.- Il ricorrente censura, altresì, l’art. 15, comma 3, della legge regionale in esame, il quale stabilisce che, «d’intesa con il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, la Regione programma interventi diretti a rimuovere gli ostacoli che limitano l’accesso agli istituti previsti dall’ordinamento in alternativa o in sostituzione della pena detentiva, nonché ai permessi premio ex articolo 30-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), come inserito dall’articolo 9 della legge 10 ottobre 1986, n. 663 e da ultimo modificato dall’articolo 2, comma 27, lettera b), della legge 15 luglio 2009, n. 94».

Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, non sarebbe chiaro cosa debba intendersi per «interventi diretti alla rimozione degli ostacoli che limitano l’accesso agli istituti» sopra indicati e, comunque, la norma concernerebbe l’ordinamento penitenziario, riconducibile all’ordinamento penale, materia di competenza dello Stato, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera 1), Cost., disciplinata dalla legge n. 354 del 1975.

2.4.- Il Presidente del Consiglio dei ministri deduce, infine, l’illegittimità costituzionale del citato art. 1, comma 2, lettera h), il quale dispone che la Regione, nell’ambito delle proprie competenze, concorre all’attuazione, in particolare, dei principi espressi «dalla Convenzione internazionale per la protezione dei diritti di tutti i lavoratori migranti e delle loro famiglie, approvata il 18 dicembre 1990 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite ed entrata in vigore il 1° luglio 2003».

A suo avviso, poiché tale Convenzione non è stata ancora ratificata dallo Stato, detta norma violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera a), Cost., che attribuisce alla competenza esclusiva dello Stato la materia «politica estera e rapporti internazionali».

3.- Nel giudizio si è costituita la Regione Puglia, in persona del Presidente della Giunta Regionale pro-tempore, chiedendo, anche nella memoria depositata in prossimità dell’udienza pubblica, che le questioni siano dichiarate inammissibili ed infondate.

La Regione, dopo avere sintetizzato il contenuto delle norme impugnate e delle censure proposte dal ricorrente, sostiene che la legge regionale in esame non attribuirebbe agli stranieri, in particolare a quelli irregolarmente presenti nel nostro Paese, diritti incompatibili con la condizione giuridica fissata dal legislatore statale, ma sarebbe diretta ad agevolare la realizzazione dei diritti loro riconosciuti dalla Costituzione e dalle leggi statali, stabilendo finalità che concernono anche detti stranieri «solo se e nella misura in cui […] possono realizzarsi nel rispetto della vigente disciplina migratoria», come è reso chiaro dalla clausola di compatibilità recata dall’art. 2, comma 4, di detta legge. Le norme impugnate mirano, quindi, a coordinare interventi riconducibili a materie di competenza regionale (istruzione, tutela della salute, tutela e sicurezza del lavoro, promozione ed attività culturale), che possono riguar dare anche cittadini non italiani.

In riferimento ai richiedenti asilo, dopo avere sintetizzato la relativa disciplina, la Regione deduce che gli interventi che li riguardano concernerebbero esclusivamente quelli di essi che sono titolari di un permesso che permette lo svolgimento di attività lavorativa, mentre interventi in favore degli stranieri sono previsti anche dalla legge regionale n. 19 del 2006, che non ha costituito oggetto d’impugnazione.

Ad avviso della Regione, la competenza dello Stato nelle materie «condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea» ed «immigrazione» non escluderebbe il potere delle Regioni di emanare norme che, in ambiti riservati alla loro competenza, possono avere quali destinatari anche cittadini non italiani. D’altronde, l’art. 1, comma 4, del d.lgs. n. 286 del 1998, stabilendo che nelle materie attribuite alla competenza delle Regioni le disposizioni di detto decreto legislativo costituiscono «principi fondamentali», conforterebbe siffatta conclusione, peraltro affermata anche da questa Corte (sentenze n. 300 del 2005 e n. 379 del 2004).

3.1.- Secondo la resistente, l’esame delle singole censure deve tenere conto che la legge regionale di cui si tratta richiama i diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione (art. 1, comma 1), dispone che la Regione Puglia opera nell’osservanza delle proprie competenze (art. 1, comma 2), ed è stata emanata all’esito di una lunga ed articolata concertazione con le altre istituzioni, con le parti sociali e con le organizzazioni sindacali. A suo avviso, molte delle attività previste dalle norme impugnate, quali «quelle connesse alle prestazioni sanitarie, quelle connesse all’area penale esterna, quelle afferenti all’area della formazione professionale», sarebbero strumentali alle competenze regionali, tenuto conto anche che nei centri di permanenza e negli istituti penitenziari sono svolte attività non riconducibili soltanto all’ordine pubblico o alla sicurezza, in relazione alle quali sussis te almeno un «interesse regionale», riconosciuto dall’art. 118, terzo comma, Cost., che demanda ad una legge dello Stato la previsione di «forme di coordinamento» per queste materie.

La legge regionale in esame costituirebbe lo strumento per il recepimento delle modifiche introdotte nel d.lgs. n. 286 del 1998 e, appunto per questo, l’art. 2, comma 4, della medesima, dispone che «gli interventi regionali sono attuati in conformità al testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, emanato con decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286», con previsione rilevante nell’interpretazione delle disposizioni in essa contenute.

In riferimento alla denunciata violazione dell’art. 117, secondo comma, lettere h) ed l), Cost., l’infondatezza delle censure conseguirebbe alla circostanza che la tutela dei diritti fondamentali, sino a quando non siano attuati il respingimento o l’espulsione, non comporta un’agevolazione della permanenza irregolare.

La Regione Puglia si sofferma, poi, ad esaminare l’ipotesi di reato prevista dall’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998 e deduce che «l’obbligo di persecuzione penale non è affatto indefettibile» e che la norma prevedrebbe «una pena priva di effettività». In ogni caso, a suo avviso, le misure di tutela previste dalle disposizioni impugnate con il primo motivo «non esonerano dall’obbligo di denuncia dell’ipotesi di reato e quindi non sono incompatibili con la persecuzione penale». La resistente prospetta, infine, che l’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998 violerebbe gli artt. 3, 25 e 27 Cost., chiedendo che, qualora detta norma sia ritenuta rilevante ai fini della decisione delle censure, la Corte ne sollevi davanti a sé questione di legittimità costituzionale, nella parte in cui, in violazione di detti parametri costituzionali, prevede come reato l’ingresso ed il soggiorno illegale dello stranie ro nel territorio dello Stato.

3.2.- In riferimento alle censure concernenti specificamente il comma 1 dell’art. 2 della legge regionale in esame, la resistente deduce che detta norma avrebbe «inteso evitare “discriminazioni a rovescio”», e la diminuzione delle garanzie in favore dei cittadini comunitari, di cui questi godevano come cittadini extracomunitari, che sarebbe stata, invece, realizzata dall’art. 37, comma 2, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, che ha modificato l’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 286 del 1998, il quale ora stabilisce che «il presente testo unico non si applica ai cittadini degli Stati membri dell’Unione europea, salvo quanto previsto dalle norme di attuazione dell’ordinamento comunitario», ha abrogato quella che era «una vera e propria clausola di protezione».

La Regione Puglia, «in via incidentale e ad ulteriore supporto della legittimità costituzionale», della norma regionale in esame, «solleva questione di legittimità costituzionale» del citato art. 37, comma 2, in riferimento al principio di ragionevolezza» (art. 3 Cost.).

3.3.- La Regione, nell’esaminare le censure concernenti il citato art. 10, commi 5 e 6, svolge un’ampia esposizione relativa anche a norme non impugnate dal ricorrente.

In particolare, in relazione ai commi 1 e 2 di detta norma, la Regione deduce che gli artt. 34 e 35 del d.lgs. n. 286 del 1998 e gli artt. 42 e 43 del decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394 (Regolamento recante norme di attuazione del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, a norma dell’art. 1, comma 6, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286) disciplinano l’assistenza sanitaria in favore dei cittadini non italiani che soggiornano nel territorio dello Stato – prevista anche a garanzia della collettività e dell’incolumità dei cittadini italiani – distinguendo tra quelli iscritti e non iscritti al SSN, ovvero che fanno ingresso nel nostro Paese per ragioni di cura. In riferimento all’art. 10, comma 3, della legge regionale in esame, avente ad oggetto l’iscrizione volontaria al Servizio sanitario re gionale (SSR), ricorda che le norme statali prevedono che gli stranieri non obbligatoriamente iscritti al Servizio sanitario nazionale (SSN) sono tenuti ad assicurarsi contro il rischio di malattia ed infortunio e per la maternità (art. 34, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998, art. 42, comma 6, del d.P.R. n. 394 del 1999).

Il citato art. 10, comma 5, individua, invece, «le modalità per garantire l’accesso alle cure essenziali e continuative ai cittadini stranieri temporaneamente presenti (STP) non in regola con le norme relative all’ingresso e al soggiorno»; il comma 6, dispone che «ai cittadini comunitari presenti sul territorio regionale che non risultano assistiti dallo Stato di provenienza, privi dei requisiti per l’iscrizione al SSR e che versino in condizioni di indigenza, sono garantite le cure urgenti, essenziali e continuative attraverso l’attribuzione del codice ENI (europeo non in regola)», prevedendo che «le modalità per l’attribuzione del codice ENI e per l’accesso alle prestazioni, sono le medesime innanzi individuate per gli STP».

Gli artt. 35, commi 3, 4, 5 e 6, del d.lgs. n. 286 del 1998 e 43, commi 2, 3, 4, 5 ed 8 del d.P.R. n. 394 del 1999 disciplinano l’assistenza sanitaria in favore degli stranieri non in regola con le norme in materia di ingresso e soggiorno, ai quali sono, altresì, applicabili le disposizioni del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza).

Secondo la Regione Puglia, l’art. 43, comma 3, del d.P.R. n. 394 del 1999 dispone che, in sede di prima erogazione dell’assistenza, la prescrizione e la registrazione delle prestazioni sono effettuate, assegnando un codice regionale, identificato con la sigla STP (straniero temporaneamente presente), mentre l’art. 35, comma 5, del d.lgs. n. 286 del 1998, stabilisce che l’accesso alle strutture del SSN da parte dello straniero non in regola con la disciplina in materia di ingresso e soggiorno in Italia non deve comportare nessuna segnalazione all’autorità di pubblica sicurezza, salvo i casi nei quali sia obbligatorio il referto, a parità di condizioni con il cittadino italiano, divieto di segnalazione non abrogato a seguito dell’introduzione del reato dell’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998. Infine, a suo avviso, la disposizione relativa all’attribuzione del codice ENI (europeo non in regola) sareb be stata introdotta per ottemperare alle indicazioni fornite dal Ministero della salute con nota del 19 febbraio 2008, che richiedeva la definizione di idonee procedure dirette a garantire le «cure essenziali» anche ai cittadini europei presenti sul territorio.

3.4.- Secondo la resistente, le censure concernenti l’art. 15, comma 3, della legge regionale in esame, sarebbero infondate, poiché tale norma non interferirebbe nella materia «ordinamento penale», ma prevedrebbe soltanto «che la Regione, nell’ambito dei propri poteri d’indirizzo e nei limiti delle proprie competenze programmatorie, individua, d’intesa con le autorità competenti sul territorio, le modalità organizzative più idonee alla gestione di alcuni servizi sul territorio».

3.5.- La Regione Puglia deduce, infine, l’infondatezza delle censure riferite all’art. 1, comma 2, lettera h), della legge regionale n. 32 del 2009, osservando, in primo luogo, che tale norma fa «espresso riferimento al limite della competenza regionale»; in secondo luogo, che la Convenzione oggetto della medesima non è richiamata dettagliatamente, dato che la disposizione si limita a fare riferimento ai «principi» nella stessa contenuti, già recepiti nel nostro ordinamento, sia in quanto compresi nel diritto internazionale consuetudinario, oggetto di adattamento automatico, ai sensi dell’art. 10 Cost., sia in quanto coincidono «con altri obblighi internazionali convenzionali e, in particolare, con la Convenzione OIL» e con il protocollo addizionale della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale per combattere il traffico dei migranti, sottoscritta a Palermo il 12-15 dicembre 2000. In pa rticolare, l’art. 16 di detto protocollo obbliga gli Stati a fornire un’assistenza adeguata ai migranti la cui vita o incolumità è in pericolo, in quanto oggetto delle condotte dell’art. 6. In definitiva, l’obbligo di fornire tale assistenza sarebbe conforme all’art. 117, primo comma, Cost., che impone alle Regione di esercitare la potestà legislativa nel rispetto dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali, come sarebbe accaduto nel caso in esame.

3.6.- La Regione Puglia, nella memoria depositata in prossimità dell’udienza pubblica ha reiterato le argomentazioni svolte nell’atto di costituzione, deducendo, altresì, che questa Corte, con la sentenza n. 269 del 2010 ha dichiarato in parte inammissibili, in parte infondate, le censure aventi ad oggetto alcune norme della legge della Regione Toscana 9 giugno 2009, n. 29 (Norme per l’accoglienza, l’integrazione partecipe e la tutela dei cittadini stranieri nella Regione Toscana), sostanzialmente coincidenti con quelle in esame.

A suo avviso, la legge regionale in esame non attribuisce agli stranieri, tantomeno a quelli irregolari, diritti incompatibili con la condizione giuridica loro delineata dal legislatore statale, ma mira soltanto ad agevolare la realizzazione dei diritti loro riconosciuti dalla Costituzione e dalle altre norme statali. Le finalità stabilite dalle norme censurate sono, quindi, riferibili agli stranieri irregolari soltanto nella misura in cui i relativi interventi siano realizzabili nel rispetto della disciplina in materia di immigrazione, come risulta dall’art. 2, comma 4, della legge regionale, in esame, in virtù del quale «gli interventi regionali sono attuati in conformità al testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, emanato con decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e successive modifiche».

4.- All’udienza pubblica, il ricorrente e la resistente hanno insistito per l’accoglimento delle conclusioni svolte nelle difese scritte.

Considerato in diritto

1.- Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con ricorso notificato il 5/11 febbraio 2010, depositato l’11 febbraio 2010, ha promosso, in riferimento all’articolo 117, secondo comma, lettere a), b), h) ed l), della Costituzione, ed in relazione agli articoli 4, 5, 10, 10-bis, 11, 13, 14, 19 e 35 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), questioni di legittimità costituzionale degli articoli 1, commi 1, 2, lettera h), e 3; 2; 3; 4, comma 4; 5, comma 1, lettere a) e b); 6, comma 1, lettere b) e c); 10, commi 5 e 6; 13; 14 e 15, comma 3, della legge della Regione Puglia 4 dicembre 2009, n. 32 (Norme per l’accoglienza, la convivenza civile e l’integrazione degli immigrati in Puglia), pubblicata nel Bollettino Ufficiale della Regione Puglia del 7 dicembre 2009, n. 196.

2.- Il ricorrente, con un primo gruppo di censure, dubita della legittimità costituzionale degli artt. 1, commi 1 e 3; 2; 3; 4, comma 4; 5, comma 1, lettere a) e b); 6, comma 1, lettere b) e c); 10, comma 5; 13 e 14 della legge della Regione Puglia n. 32 del 2009 (benché siano menzionati anche l’art. 10, comma 5, e l’art. 15, tuttavia, la prima norma, unitamente al comma 6, è stata impugnata specificamente soltanto con le distinte censure sintetizzate di seguito nel paragrafo 2.1.; la seconda ha, invece, costituito oggetto di impugnazione limitatamente al comma 3, con le censure esaminate infra, nel paragrafo 4.1.).

In linea preliminare, il Presidente del Consiglio dei ministri sintetizza il contenuto delle norme e deduce che, in virtù del citato art. 1, la Regione: «concorre alla tutela dei diritti dei cittadini immigrati presenti sul territorio regionale, attivandosi per l’effettiva realizzazione dell’uguaglianza formale e sostanziale di tutte le persone» (comma 1); realizza politiche regionali finalizzate a garantire i diritti inviolabili degli stranieri presenti a qualunque titolo sul territorio regionale e, tra l’altro, a «a) garantire i diritti umani inviolabili degli stranieri presenti a qualunque titolo sul territorio regionale», «c) garantire l’accoglienza e l’effettiva inclusione sociale delle cittadine e dei cittadini stranieri immigrati nel territorio regionale», «d) garantire pari opportunità di accesso e fruibilità dei servizi socio-assistenziali, socio-sanitari, di conciliazione e dell’istruzione, per la qualità della vita», «e) promuovere la partecipazione alla vita pubblica locale», «h) garantire la tutela legale, in particolare l’effettività del diritto di difesa, agli immigrati presenti a qualunque titolo sul territorio della Regione» (comma 3).

A suo avviso, l’art. 2 indica genericamente gli «immigrati», quali destinatari degli interventi previsti dalla legge regionale, mentre l’art. 3 stabilisce che, allo scopo di perseguire le finalità di cui all’art. 1, comma 3, la Regione promuove «la realizzazione di un sistema integrato di interventi e servizi per la piena integrazione degli immigrati in Puglia». L’art. 4, comma 4, attribuisce, poi, alla Giunta Regionale le funzioni attinenti, tra l’altro: alla promozione di programmi in materia di protezione e inclusione sociale (lettera a); alla promozione di programmi di intervento per l’alfabetizzazione e l’accesso ai servizi educativi, per l’istruzione e la formazione professionale, per l’inserimento lavorativo e il sostegno ad attività autonome imprenditoriali, favorendo la piena integrazione istituzionale, programmatica, finanziaria e organizzativa per la realizzazione di tali interventi a livello regionale (lettera c); alla promozione di iniziative di sostegno alla realizzazione dei progetti di vita degli immigrati (lettera e).

Il citato art. 5, comma 1, lettere a) e b), disciplina i compiti delle Province, ai fini dell’inserimento sociale degli immigrati, disponendo che esse svolgono le seguenti funzioni: partecipare alla definizione e attuazione dei piani di zona previsti dalla legge Regione Puglia 10 luglio 2006, n. 19 (Disciplina del sistema integrato dei servizi sociali per la dignità e il benessere delle donne e degli uomini in Puglia), in materia di interventi sociali rivolti ai cittadini stranieri immigrati, con compiti di coordinamento, monitoraggio e supporto ai Comuni per la definizione di specifici interventi sovra-ambito di valenza provinciale per l’integrazione sociale dei cittadini stranieri (lettera a); favorire la consultazione e la partecipazione alla vita sociale e istituzionale e l’esercizio dei diritti politici da parte degli immigrati (lettera b).

L’art. 6, comma 1, lettere a) e b) (recte: art. 6, comma 1, lettere b) e c), giacché, nonostante il riferimento nella parte motiva del ricorso alle lettere a) e b), le prime sono indicate nella premessa di tale atto ed è a queste che il ricorrente ha chiaramente inteso fare riferimento, in armonia con l’indicazione contenuta in tal senso nella delibera del Consiglio dei ministri, che ha disposto l’impugnazione), della legge regionale in esame disciplina i compiti affidati ai Comuni al fine di favorire la consultazione e la partecipazione alla vita sociale e istituzionale e l’esercizio dei diritti politici, in ambito comunale o zonale, da parte degli immigrati, e di programmare e realizzare progetti di integrazione dei medesimi.

L’impugnato art. 10 disciplina l’assistenza sanitaria disponendo, al comma 5, che «la Regione, con la presente legge, individua le modalità per garantire l’accesso alle cure essenziali e continuative ai cittadini stranieri temporaneamente presenti (STP) non in regola con le norme relative all’ingresso e al soggiorno»; l’art. 13, concernente la formazione professionale, stabilisce, invece, che «gli immigrati, compresi i richiedenti asilo, hanno diritto alla formazione professionale in condizioni di parità con gli altri cittadini» e l’art. 14 prevedrebbe analogo diritto in riferimento all’inserimento lavorativo.

Il ricorrente deduce, infine, che l’art. 15 della legge regionale in esame, avente ad oggetto le politiche di inclusione sociale, dispone che la Regione si impegna a riservare, all’interno del piano regionale delle politiche sociali, specifica attenzione alle condizioni di vita e alle opportunità di integrazione e di inclusione sociale per gli immigrati.

Secondo il Presidente del Consiglio dei ministri, dette norme violerebbero l’art. 117, secondo comma, lettere a), b), h) ed l), Cost., nonché i principi fondamentali enunciati dagli artt. 4, 5, 10, 10-bis, 11, 13, 14, 19 e 35, del d.lgs. n. 286 del 1998. A suo avviso, la formula lessicale, in particolare, dei citati artt. 1, commi 1 e 3, lettere a) ed h), e 2, comma 1, indurrebbe, infatti, a ritenere che gli interventi ivi previsti riguardano anche gli immigrati privi di regolare permesso di soggiorno, poiché «disciplinano e in qualche modo agevolano la permanenza sul territorio nazionale di cittadini extracomunitari», i quali «non solo non avrebbero titolo a soggiornare ma, una volta sul territorio nazionale, dovrebbero essere perseguiti penalmente». Inoltre, la Regione non potrebbe predisporre «interventi volti al riconoscimento o all’estensione di diritti in favore dell’immigrato irregolare o in attesa di regolarizzazione» e ne ppure stabilire, mediante «regimi di deroga non previsti dalla normativa statale, casi diversi ed ulteriori di non operatività della regola generale ovvero la condizione di illegittimità e di autore di reato dell’immigrato irregolare».

2.1.- Il ricorrente impugna, poi, distintamente anche l’art. 10, commi 5 e 6, della legge regionale in esame, svolgendo censure che vanno esaminate congiuntamente con quelle dianzi sintetizzate.

Siffatta disposizione ha ad oggetto la disciplina dell’assistenza sanitaria e stabilisce: «la Regione, con la presente legge, individua le modalità per garantire l’accesso alle cure essenziali e continuative ai cittadini stranieri temporaneamente presenti (STP) non in regola con le norme relative all’ingresso e al soggiorno» (comma 5); «ai cittadini comunitari presenti sul territorio regionale che non risultano assistiti dallo Stato di provenienza, privi dei requisiti per l’iscrizione al SSR e che versino in condizioni di indigenza, sono garantite le cure urgenti, essenziali e continuative» (comma 6).

Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, la norma recherebbe vulnus all’art. 117, secondo comma, lettere a), b), h) ed l), Cost., ponendosi in contrasto con il principio fissato dall’art. 35, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998, in virtù del quale «ai cittadini stranieri presenti sul territorio nazionale, non in regola con le norme relative all’ingresso ed al soggiorno, sono assicurate» unicamente «le cure ambulatoriali ed ospedaliere urgenti o comunque essenziali, ancorché continuative, per malattia ed infortunio e sono estesi i programmi di medicina preventiva a salvaguardia della salute individuale e collettiva». Siffatta disposizione, in violazione della competenza regionale in materia di tutela della salute, farebbe, infatti, riferimento a prestazioni sanitarie ulteriori rispetto a quelle strettamente essenziali, indicate dalla disciplina statale, quali, ad esempio, l’erogazione dell’assistenza farmaceutica con oneri a carico del Servizio sanitario nazionale e la previsione della libera scelta del medico di base.

2.2.- In via preliminare, la sintesi del primo gruppo di censure rende palese che il ricorrente, dopo avere trascritto, in parte, le disposizioni regionali con esse impugnate, ne ha dedotto l’illegittimità costituzionale esclusivamente in quanto, a suo avviso, esse sarebbero applicabili (soprattutto in virtù della formula lessicale dei citati artt. 1, commi 1 e 3, lettere a ed h e 2, comma 1) «anche ai cittadini stranieri privi di regolare permesso di soggiorno», i quali «non solo non avrebbero titolo a soggiornare, ma, una volta sul territorio nazionale, dovrebbero essere perseguiti penalmente». Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, dette norme violerebbero i parametri evocati, poiché «incidono sulla disciplina dell’ingresso e del soggiorno degli immigrati» e prevedono «interventi volti al riconoscimento o all’estensione di diritti in favore dell’immigrato irregolare o in attesa di regolarizzazione».

Pertanto, benché tali norme regolino molteplici e non omogenei interventi – quali, tra gli altri, quelli diretti a «garantire l’accoglienza e l’inclusione sociale» degli immigrati e la loro «partecipazione alla vita pubblica locale (art. 1, comma 3, lettere c ed e) – riconducibili a differenti ambiti materiali, le uniche specifiche censure proposte riguardano dette disposizioni esclusivamente nella parte in cui sarebbero riferibili agli immigrati non in regola con il permesso di soggiorno, nonché l’art. 1, comma 3, lettera h), e ciò in virtù dell’ampio riferimento al parametro dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost.; conseguentemente, è soltanto entro questi termini e limiti che esse possono qui costituire oggetto di scrutinio.

2.2.1.- Identificato l’ambito del sindacato al quale vanno sottoposte le disposizioni impugnate, va ricordato che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, deve essere riconosciuta la possibilità di interventi legislativi delle Regioni con riguardo al fenomeno dell’immigrazione, per come previsto dall’art. 1, comma 4, del d.lgs. n. 286 del 1998, fermo restando che «tale potestà legislativa non può riguardare aspetti che attengono alle politiche di programmazione dei flussi di ingresso e di soggiorno nel territorio nazionale, ma altri ambiti, come il diritto allo studio o all’assistenza sociale, attribuiti alla competenza concorrente e residuale delle Regioni» (sentenza n. 134 del 2010). L’intervento pubblico concernente gli stranieri non può, infatti, limitarsi al controllo dell’ingresso e del soggiorno degli stessi sul territorio nazionale, ma deve necessariamente considerare altri ambiti – dall ’assistenza sociale all’istruzione, dalla salute all’abitazione – che coinvolgono molteplici competenze normative, alcune attribuite allo Stato, altre alle Regioni (sentenze n. 156 del 2006, n. 300 del 2005).

Lo straniero è «titolare di tutti i diritti fondamentali che la Costituzione riconosce spettanti alla persona» (sentenza n. 148 del 2008). Inoltre, esiste «un nucleo irriducibile del diritto alla salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana, il quale impone di impedire la costituzione di situazioni prive di tutela, che possano appunto pregiudicare l’attuazione di quel diritto». Quest’ultimo diritto deve perciò essere riconosciuto «anche agli stranieri, qualunque sia la loro posizione rispetto alle norme che regolano l’ingresso ed il soggiorno nello Stato, pur potendo il legislatore prevedere diverse modalità di esercizio dello stesso» (sentenza n. 252 del 2001).

Il legislatore statale, con il d.lgs. n. 286 del 1998, ha recepito tale impostazione, statuendo, in relazione all’assistenza sanitaria, soprattutto all’art. 35, comma 3, che «ai cittadini stranieri presenti sul territorio nazionale, non in regola con le norme relative all’ingresso ed al soggiorno, sono assicurate, nei presìdi pubblici ed accreditati, le cure ambulatoriali ed ospedaliere urgenti o comunque essenziali, ancorché continuative, per malattia ed infortunio e sono estesi i programmi di medicina preventiva a salvaguardia della salute individuale e collettiva», assicurando altresì la tutela sociale della gravidanza e della maternità, a parità di trattamento con le cittadine italiane, la tutela della salute del minore, le vaccinazioni, gli interventi di profilassi internazionale, la profilassi, la diagnosi e la cura delle malattie infettive ed eventualmente bonifica dei relativi focolai. L’art. 43, commi da 2 ad 8, del d.P.R. n. 394 del 1999, disciplina, in dettaglio, le modalità di erogazione delle prestazioni previste dal citato art. 35, comma 3, disponendo, al comma 8, che «le regioni individuano le modalità più opportune per garantire che le cure essenziali e continuative previste dall’articolo 35, comma 3, del testo unico, possono essere erogate nell’ambito delle strutture della medicina del territorio o nei presìdi sanitari, pubblici e privati accreditati, strutturati in forma poliambulatoriale od ospedaliera, eventualmente in collaborazione con organismi di volontariato aventi esperienza specifica».

Questa Corte, nello scrutinare le norme di una legge regionale che pure facevano riferimento alla tutela di diritti fondamentali degli immigrati, eventualmente non in regola con il permesso di soggiorno, ha, quindi, escluso che esse rechino vulnus alle competenze legislative dello Stato, poiché, «in attuazione dei principi fondamentali posti dal legislatore statale in tema di tutela della salute», esse provvedono «ad assicurare anche agli stranieri irregolari le fondamentali prestazioni sanitarie ed assistenziali atte a garantire il diritto all’assistenza sanitaria, nell’esercizio della propria competenza legislativa, nel pieno rispetto di quanto stabilito dal legislatore statale in tema di ingresso e soggiorno in Italia dello straniero, anche con riguardo allo straniero dimorante privo di un valido titolo di ingresso» (sentenza n. 269 del 2010).

2.2.2.- Nel quadro di tali principi, la questione concernente il citato art. 1, comma 3, lettera h), è fondata.

La norma stabilisce, infatti, che le politiche della Regione sono finalizzate, tra l’altro, «a garantire la tutela legale, in particolare l’effettività del diritto di difesa, agli immigrati presenti a qualunque titolo sul territorio della regione». Siffatta disposizione contempla, dunque, un intervento che, in considerazione dell’univoco riferimento allo scopo di «garantire la tutela legale» e «l’effettività del diritto di difesa», concerne, all’evidenza, aspetti entrambi riconducibili all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., parametro evocato in modo ampio, ma congruamente, dal ricorrente. Peraltro, questa conclusione si impone anche in riferimento alla disciplina del diritto di difesa dei non abbienti, che le norme statali contemplano in riferimento al processo penale, civile, amministrativo, contabile e tributario e negli affari di volontaria giurisdizione, garantendolo anche allo straniero e all’a polide residente nello Stato (artt. 74 e seguenti del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, recante il «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia»). Pertanto, neppure in relazione a questo profilo la norma è riconducibile ad un ambito materiale di competenza regionale (in particolare, a quello dei servizi e dell’assistenza sociale), con conseguente illegittimità costituzionale della medesima.

2.2.3.- Le questioni aventi ad oggetto il primo gruppo di censure e le altre norme indicate nel paragrafo 2 non sono fondate.

L’art. 1 della legge della Regione Puglia n. 32 del 2009 (senza, peraltro, considerare la lettera h), del comma 3, sopra esaminata) è, infatti, la sola di dette disposizioni che, unitamente all’art. 10, comma 5 (esaminato di seguito), contiene un generico richiamo alla «tutela dei diritti dei cittadini immigrati presenti sul territorio regionale» (comma 1) e menziona esplicitamente gli stranieri «presenti a qualunque titolo sul territorio regionale» (comma 3, lettera a), quindi, è univocamente riferibile anche a quelli di essi non in regola con il permesso di soggiorno. Tuttavia, la prima norma fa a questi riferimento allo scopo di stabilire che le politiche della Regione, evidentemente nell’ambito delle proprie competenze, devono «garantire i diritti umani inviolabili» (art. 1, comma 3, lettera a), i quali, come sopra precisato, spettano anche agli stranieri non in regola con il permesso di soggiorno, sino a quando nei loro confro nti non sia emesso ed eseguito un provvedimento di espulsione, senza che ciò valga a legittimarne la presenza nel territorio dello Stato, oppure ad incidere sull’eventuale esercizio dell’azione penale per il reato di cui all’art. 10-bis, del d.lgs. n. 286 del 1998, qualora ne sussistano i presupposti.

La circostanza che i citati artt. 1, commi 1 e 3, lettera a), e 10, comma 5, sono le uniche disposizioni impugnate a fare univoco riferimento agli immigrati non in regola con il permesso di soggiorno, permette, dunque, di escludere che la generica definizione di «immigrati» contenuta nelle altre norme impugnate le renda ad essi riferibili. Inoltre, la previsione contenuta nell’art. 2, comma 1, della legge regionale in esame, in virtù della quale i «destinatari» della medesima «sono di seguito indicati come immigrati», contrariamente alla deduzione del ricorrente, neppure può dare adito a dubbi. La norma, nello stesso comma, nel periodo immediatamente precedente, esplicita, infatti, quali siano i soggetti cui è riferibile detta accezione e tra questi non sono compresi gli immigrati non in regola con il permesso di soggiorno; i quali sono, invece, espressamente contemplati dalle disposizioni sopra richiamate. Pertanto, è chiara l̵ 7;infondatezza della sola specifica censura proposta dal ricorrente in relazione a dette norme, concernente l’asserita applicabilità degli interventi dalle stesse previsti anche agli immigrati non in regola con il permesso di soggiorno, oltre quanto eventualmente reso necessario per garantire la tutela dei diritti fondamentali.

2.2.4.- La questione avente ad oggetto l’art. 10, commi 5 e 6, della legge regionale in esame, proposta in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettere a) e b), Cost., non è fondata.

Il comma 5 garantisce, infatti, «l’accesso alle cure essenziali e continuative ai cittadini stranieri temporaneamente presenti (STP) non in regola con le norme relative all’ingresso e al soggiorno» nell’osservanza dei principi sopra indicati e delle norme statali di principio; peraltro, la disposizione ciò stabilisce, richiamando espressamente l’art. 48, comma 3, del d.P.R. n. 394 del 1999 (comma 5) e chiaramente prevedendo l’erogazione dell’assistenza farmaceutica in relazione appunto a tali prestazioni (lettera b). Inoltre, è immune dai vizi denunciati anche la lettera c) di tale comma, che contempla la facoltà di scelta del «medico di fiducia», poiché, indipendentemente dalla mancata indicazione da parte del ricorrente del principio fondamentale stabilito dalle norme statali in tema di «tutela della salute» che sarebbe leso dalla disposizione, essa, in coerenza con la previsione contenuta nella prima parte del comma 5, deve essere interpretata nel senso che una tale scelta, in ogni caso, non esclude la limitazione dell’accesso dello straniero alle sole cure essenziali e continuative.

Ad identica conclusione deve pervenirsi in ordine al comma 6 di detta norma regionale, il quale dispone: «ai cittadini comunitari presenti sul territorio regionale che non risultano assistiti dallo Stato di provenienza, privi dei requisiti per l’iscrizione al SSR e che versino in condizioni di indigenza, sono garantite le cure urgenti, essenziali e continuative attraverso l’attribuzione del codice ENI (europeo non in regola). Le modalità per l’attribuzione del codice ENI e per l’accesso alle prestazioni, sono le medesime innanzi individuate per gli STP» (comma 6). Al riguardo, va altresì aggiunto che la previsione risulta sostanzialmente conforme all’interpretazione offerta dal Ministero della Salute, il quale, a chiarificazione della disciplina concernente i cittadini comunitari, «che si trovano sul territorio dello Stato, [e] non risultano assistiti dagli Stati di provenienza e non hanno i requisiti per l’iscriz ione al SSN», ha indicato che l’armonizzazione delle norme del decreto legislativo 6 febbraio 2007, n. 30 (Attuazione della direttiva 2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri) «con le norme di principio dell’ordinamento italiano che sanciscono la tutela della salute e garantiscono cure gratuite agli indigenti (art. 32 Cost.)» comporta che «i cittadini comunitari hanno diritto alle prestazioni indifferibili ed urgenti» (nota del 19 febbraio 2008, avente ad oggetto «Precisazioni concernenti l’assistenza sanitaria ai cittadini comunitari dimoranti in Italia»).

In definitiva, la norma impugnata disciplina la materia della tutela della salute, per la parte di competenza della Regione, nel rispetto di quanto stabilito dal legislatore statale in ordine alla situazione dei soggetti sopra indicati.

Le censure riferite all’art. 117, secondo comma, lettere h) ed l), Cost., con riguardo alle materie «ordine pubblico e sicurezza» ed «ordinamento penale», sono, infine, inammissibili, in quanto l’impugnazione, in relazione a tali parametri, non è suffragata da alcuna argomentazione (tra le più recenti, sentenza n. 200 del 2010).

2.2.5.- L’infondatezza delle censure comporta, indipendentemente da ogni altra considerazione, l’irrilevanza nel presente giudizio della questione di legittimità costituzionale dell’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998 (e ciò anche in relazione alla questione che è stata accolta per la violazione di un parametro rispetto al quale tale norma non assume rilievo), proposta in linea subordinata dalla Regione, in riferimento agli artt. 3, 25 e 27 Cost.; quindi, difettano i presupposti, perché questa Corte possa eventualmente sollevarla davanti a se stessa.

3.- Il Presidente del Consiglio dei ministri dubita, inoltre, distintamente, della legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, della legge della Regione Puglia n. 32 del 2009, nella parte in cui stabilisce che le norme di detta legge «si applicano, qualora più favorevoli, anche ai cittadini neocomunitari». A suo avviso, la disposizione violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettere a), b), h) ed l), Cost., poiché la disciplina della condizione giuridica del cittadino comunitario sarebbe riconducibile alla materia «rapporti dello Stato con l’Unione europea», di competenza esclusiva dello Stato. Inoltre, essa si porrebbe in contrasto con il principio stabilito dall’art. 1, comma 2, del d.l.gs. n. 286 del 1998 che, nel testo modificato dall’art. 37 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pu bblica e la perequazione tributaria), convertito dalla legge 6 agosto 2008, n.133, stabilisce: «Il presente testo unico non si applica ai cittadini degli Stati membri dell’Unione europea, salvo quanto previsto dalle norme di attuazione dell’ordinamento comunitario».

3.1.- La questione proposta in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera a), Cost., non è fondata.

Il legislatore statale, con il d.lgs. n. 30 del 2007, ha dato attuazione alla direttiva comunitaria 29 aprile 2004, n. 2004/38/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, che modifica il regolamento CEE n. 1612/68 ed abroga le direttive 64/221/CEE, 68/360/CEE, 72/194/CEE, 73/148/CEE, 75/34/CEE, 75/35/CEE, 90/364/CEE, 90/365/CEE e 93/96/CEE), concernente il diritto di libera circolazione e di soggiorno dei cittadini dell’Unione europea e dei loro familiari, stabilendo i criteri relativi al diritto di soggiorno dei cittadini dell’Unione europea, relativi al riconoscimento in favore dei medesimi di una serie di prestazioni relative a diritti civili e sociali. Siffatti criteri devono essere armonizzati con le norme dell’ordinamento costituzionale italiano che garantiscono la tutela della s alute, assicurano cure gratuite agli indigenti, l’esercizio del diritto all’istruzione, ed attengono a prestazioni concernenti la tutela di diritti fondamentali, spettanti ai cittadini neocomunitari in base all’art. 18 del TFUE (già art. 12 del Trattato CE), che impone sia garantita, ai cittadini comunitari che si trovino in una situazione disciplinata dal diritto dell’Unione europea, la parità di trattamento rispetto ai cittadini dello Stato membro.

Alla luce di detto principio, questa Corte, nello scrutinare le censure mosse ad una norma regionale avente contenuto sostanzialmente identico a quella in esame, ha, quindi, escluso che essa violi la competenza legislativa statale in materia di rapporti con l’Unione europea (art. 117, secondo comma, lettera a, Cost.), in quanto si limita «ad assicurare anche ai cittadini neocomunitari quelle prestazioni ad essi dovute nell’osservanza di obblighi comunitari e riguardanti settori di propria competenza, concorrente o residuale, riconducibili al settore sanitario, dell’istruzione, dell’accesso al lavoro ed all’edilizia abitativa e della formazione professionale» (sentenza n. 269 del 2010).

La disposizione impugnata è, quindi, immune dai vizi denunciati, poiché si inserisce in un quadro normativo volto a favorire la piena integrazione anche dei cittadini neocomunitari, presupposto imprescindibile per l’attuazione delle disposizioni comunitarie in materia di cittadinanza europea.

Le censure riferite all’art. 117, secondo comma, lettere b), h) ed l), Cost., sono, infine, inammissibili, in quanto, in relazione a tali parametri, l’impugnazione non è suffragata da alcuna argomentazione.

L’infondatezza delle censure concernenti il citato art. 2, comma 1, comporta il difetto di rilevanza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 286 del 1998, nel testo modificato dal d.lgs. n. 112 del 1998, proposta in linea subordinata dalla Regione, in riferimento all’art. 3 Cost., con conseguente insussistenza dei presupposti affinché questa Corte possa eventualmente sollevarla davanti a se stessa.

4.- Il ricorrente impugna poi l’art. 15, comma 3, della legge regionale in esame, in virtù del quale, «d’intesa con il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, la Regione programma interventi diretti a rimuovere gli ostacoli che limitano l’accesso agli istituti previsti dall’ordinamento in alternativa o in sostituzione della pena detentiva, nonché ai permessi premio ex articolo 30-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), come inserito dall’articolo 9 della legge 10 ottobre 1986, n. 663 e da ultimo modificato dall’articolo 2, comma 27, lettera b), della legge 15 luglio 2009, n. 94».

Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, detta norma si porrebbe in contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera 1), Cost., in quanto non sarebbe chiaro cosa debba intendersi per «interventi diretti alla rimozione degli ostacoli che limitano l’accesso agli istituti» sopra indicati e, in ogni caso, la norma eccederebbe le competenze regionali, poiché concernerebbe l’ordinamento penitenziario, riconducibile all’ordinamento penale, materia di competenza dello Stato, disciplinata dalla legge n. 354 del 1975.

4.1.- La questione non è fondata.

Il ricorrente desume dall’asserita oscurità dell’inciso sopra riportato la possibile incidenza della norma regionale sulla materia «ordinamento penale». La formula lessicale del comma impugnato e la considerazione che il citato art. 15 ha ad oggetto, come espressamente indicato dalla rubrica, le «politiche di inclusione sociale», rendono, invece, palese che tale disposizione prevede – univocamente ed esclusivamente – che la Regione, nell’ambito dell’assistenza e dei servizi sociali, spettante alla competenza legislativa residuale della medesima (sentenza n. 10 del 2010), può approntare le misure assistenziali materiali, strumentali a garantire le condizioni necessarie (quali, esemplificativamente, la disponibilità di un alloggio), affinché gli immigrati possano accedere alle misure alternative alla detenzione che, a seguito della dichiarazione parziale di illegittimità costituzionale degli artt. 47, 48 e 50 della legge n. 354 del 1975 (sentenza n. 78 del 2007), possono, eventualmente, essere concesse anche agli stranieri extracomunitari entrati illegalmente nel territorio dello Stato, ovvero privi del permesso di soggiorno.

La norma non interviene in nessun punto e modo sulla disciplina e sui presupposti di dette misure. Inoltre, stabilisce che la stessa programmazione degli interventi necessari per rimuovere le condizioni che potrebbero impedire l’accesso alle medesime deve essere effettuata d’intesa con il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria e, quindi, dispone che la Regione debba conformarsi alle esigenze di tale organo, senza neppure prevedere alcun onere di collaborazione a carico di quest’ultimo.

5.- Il Presidente del Consiglio dei ministri dubita, infine, della illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 2, lettera h), della legge Regione Puglia n. 32 del 2009, il quale dispone che la «Regione concorre, nell’ambito delle proprie competenze, all’attuazione, in particolare, dei principi espressi», tra l’altro, «dalla Convenzione internazionale per la protezione dei diritti di tutti i lavoratori migranti e delle loro famiglie, approvata il 18 dicembre 1990 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite ed entrata in vigore il 1° luglio 2003». A suo avviso, poiché detta Convenzione non è stata ancora ratificata dall’Italia, la norma impugnata violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera a), Cost., il quale attribuisce la materia «politica estera e rapporti internazionali» alla competenza esclusiva dello Stato.

5.1.- La questione è fondata.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, l’attività delle Regioni volta all’attuazione ed all’esecuzione di accordi internazionali deve muoversi all’interno del quadro normativo contrassegnato dall’art. 117, quinto comma, Cost., e dalle norme della legge 5 giugno 2003, n. 131, recante «Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3» (sentenza n. 12 del 2006; siffatto parametro è stato implicitamente, ma chiaramente evocato dal ricorrente). I «rapporti internazionali» e la «politica estera» (art. 117, secondo comma, lettera a, Cost.) sono, poi, rispettivamente, «riferibili a singole relazioni, dotate di elementi di estraneità rispetto al nostro ordinamento» ed alla «attività internazionale dello Stato unitariamente considerata in rapporto alle sue finalità ed al suo indirizzo» (sentenze n. 258 e n. 131 del 2008; n. 211 del 2006 ). Inoltre, le Regioni, nelle materie di propria competenza, «provvedono direttamente all’attuazione ed all’esecuzione degli accordi internazionali», nel rispetto delle norme di procedura stabilite dall’art. 3 della legge n. 131 del 2003.

Questa Corte ha anche già affermato che le Regioni non possono dare esecuzione ad accordi internazionali indipendentemente dalla legge di ratifica, quando sia «necessaria ai sensi dell’art. 80 della Costituzione, anche perché in tal caso l’accordo internazionale è certamente privo di efficacia per l’ordinamento italiano», e nel caso in cui non siano riconducibili a quelli stipulati in forma semplificata e che intervengano in materia regionale (sentenza n. 379 del 2004), riguardando invece, come nella specie, molteplici profili eccedenti le competenze delle Regioni. Ed è questo quanto stabilisce la norma in esame, la quale, in violazione della competenza legislativa esclusiva dello Stato, prevede di dare esecuzione alla citata Convenzione, benché non sia stata ancora ratificata.

La lettera della disposizione impugnata e l’ampio – generico e sostanzialmente indefinito – riferimento all’attuazione dei principi espressi dalla Convenzione, «alla luce del generale canone ermeneutico del “legislatore non ridondante”» (sentenza n. 226 del 2010), rendono, infine, palese che, contrariamente alla deduzione della Regione, neppure è possibile offrirne un’interpretazione restrittiva, ritenendo che essa renderebbe applicabili esclusivamente le norme del diritto internazionale generalmente riconosciute (art. 10, primo comma, Cost.), con conseguente illegittimità costituzionale della medesima.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 1, commi 2, lettera h), e 3, lettera h), della legge della Regione Puglia 4 dicembre 2009, n. 32 (Norme per l’accoglienza, la convivenza civile e l’integrazione degli immigrati in Puglia);

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 2, comma 1, della legge della Regione Puglia n. 32 del 2009, proposta, in riferimento all’articolo 117, secondo comma, lettere b), h) ed l), della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe;

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 10, commi 5 e 6, della legge della Regione Puglia n. 32 del 2009, proposta, in riferimento all’articolo 117, secondo comma, lettere h) ed l), della Costituzione, con il ricorso indicato in epigrafe;

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli articoli 1, commi 1 e 3, lettere da a) a g) e da i) ad l); 2; 3; 4, comma 4; 5, comma 1, lettere a) e b); 6, comma 1, lettere b) e c); 13 e 14 della legge della Regione Puglia n. 32 del 2009, proposte, in riferimento all’articolo 117, secondo comma, lettere a), b), h) ed l), della Costituzione, ed in relazione agli articoli 4, 5, 10, 10-bis, 11, 13, 14, 19 e 35 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), con il ricorso indicato in epigrafe;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 2, comma 1, della legge della Regione Puglia n. 32 del 2009, proposta, in riferimento all’articolo 117, secondo comma, lettera a), della Costituzione, con il ricorso indicato in epigrafe;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 10, commi 5 e 6, della legge della Regione Puglia n. 32 del 2009, proposta, in riferimento all’articolo 117, secondo comma, lettere a) e b), della Costituzione, con il ricorso indicato in epigrafe;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 15, comma 3, della legge della Regione Puglia n. 32 del 2009, proposta, in riferimento all’articolo 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, con il ricorso indicato in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 ottobre 2010.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cons. Giust. Amm. Sic., Sent., 17-01-2011, n. 36 Beni di interesse storico, artistico e ambientale; Atti amministrativi discrezionali

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con ricorso principale al T.A.R. Palermo, la ricorrente sig.ra Grcar Cammarata Ruzica, allora proprietaria del complesso immobiliare adiacente alla Torre Roccella, impugnava i seguenti atti: – diffida soprintendentizia, prot. n. 5148/T.U. del 18.10.2005, a dare avvio ai lavori di ristrutturazione della Torre Roccella, ad eccezione del recupero conservativo della Torre;

– nota soprintendentizia, prot. n. 5105 del 21.10.2005, di sospensione dei lavori che non riguardino il recupero della Torre;

– nota soprintendentizia prot. 3360/T.U. del 15.6.2005;

con i quali la Soprintendenza ai BB.CC. ed AA. di Palermo le aveva impedito la realizzazione di opere diverse da quelle di mero recupero conservativo della Torre.

Premesso di avere conseguito nell’anno 2000 l’approvazione soprintendentizia di un progetto per il recupero e ripristino dell’antico borgo medievale – stante la preesistenza di un vincolo monumentale sulla Torre e di un vincolo paesaggistico-ambientale sulla zona – e nell’anno 2005 la concessione edilizia del Comune di Campofelice di Roccella per la realizzazione delle dette opere, deduceva avverso i suddetti provvedimenti censure di eccesso di potere sotto molteplici profili, violazione degli artt. 151 e 23 D.Lgs. n. 490/1999 e 16 del Regolamento n. 1357/1940, violazione degli artt. 169, co. 1, lett. A), e 28 del D.Lgs. n. 42/2004, incompetenza e violazione degli artt. 7 ed 8 L. n. 241/1990 e degli artt. 8 e segg. L.R. n. 10/1991.

L’attività provvedimentale posta in essere dalla Soprintendenza sarebbe risultata in evidente contraddizione con la precedente approvazione del progetto di recupero e ripristino del borgo medievale a suo tempo rilasciata. Parimenti illegittima sarebbe stata la pretesa della Soprintendenza di imporre al Comune di Campofelice l’adozione di provvedimenti di natura urbanistico-edilizio (zonizzazione) esulanti dalla propria competenza ed incidenti negativamente sulla realizzabilità del detto progetto.

L’Amministrazione regionale intimata si costituiva in giudizio.

Con ricorso per prosecuzione e motivi aggiunti, la soc. Di Vita ing. Pietro s.r.l., in qualità prima di comproprietaria e successivamente di proprietaria esclusiva del complesso immobiliare, si costituiva nel giudizio ed impugnava con motivi aggiunti il D.D.le 23.3.2007 n. 5455 con il quale il "Castello" ed il "Baglio", facenti parte del "Complesso della Roccella", venivano dichiarati di notevole interesse storico, artistico ed architettonico ed erano state dettate prescrizioni per le aree adiacenti a detti immobili.

Deduceva le seguenti censure:

1) Violazione e falsa applicazione degli artt. 10, 12 e 14 D.Lgs. n. 42/2004; eccesso di potere, per avere proceduto alla dichiarazione di notevole interesse storico, artistico ed architettonico di beni di nessun pregio, parzialmente diruti ed in condizioni tali da non potervi riscontrare alcuno dei pretesi pregi storici e qualità culturali.

2) Violazione sotto altro profilo degli artt. 10, 12 e 14 D.Lgs. n. 42/2004 e degli artt. 3 L. n. 241/1990 e L.R. n. 10/1991 per assenza di alcuna motivazione in ordine all’imposizione di vincolo indiretto su di un’area di 28.000 mq circostanti il complesso immobiliare sui quali era prevista la realizzazione del progetto di recupero e ripristino già assistito da autorizzazione soprintendentizia e concessione edilizia.

La società articolava, inoltre, domanda risarcitoria per un importo superiore agli undici milioni di euro.

Si costituiva in giudizio anche l’Amministrazione comunale di Campofelice.

Con sentenza n. 538/09, il T.A.R. adito ha dichiarato inammissibile il ricorso principale e respinto nel merito quello per motivi aggiunti.

Con l’appello in epigrafe, la società ricorrente, ribadendo quanto dedotto con il ricorso per motivi aggiunti proposto innanzi al T.A.R. Palermo, ha articolato, in particolare, le seguenti censure.

L’interesse della ricorrente all’annullamento del vincolo non riguarderebbe né la torre, peraltro non più di sua proprietà, e neppure il castello, relativamente ai quali non ha mai presentato alcun progetto volto a modificare lo stato dei luoghi, bensì il baglio ed i locali ad esso adiacenti.

Relativamente a questi ultimi beni, il vincolo imposto con i provvedimenti impugnati non risulterebbe adeguatamente motivato in ordine ai presupposti della dichiarazione di intereresse particolarmente importante.

Sarebbe altresì illogica e non motivata l’opposizione del vincolo indiretto su un territorio di 28.000 mq. di superficie, a fronte della descrizione contenuta nella relazione, concernente soli 7 ambienti.

Il provvedimento di vincolo risulterebbe illogicamente ed incongruamente motivato in quanto non v’è traccia del necessario contemperamento tra la tutela del bene culturale, da un lato, e gli altri interessi pubblici (iniziativa privata ed occupazione) nonché il sacrificio imposto al privato, dall’altro.

Non sarebbe stata tenuta in considerazione la circostanza che l’odierno appellante avrebbe presentato un progetto conforme alle prescrizioni della Soprintendenza impartite prima nel 1997 e poi nel 2000, da cui deriva la dedotta contraddittorietà dei provvedimenti impugnati.

Infine, non si sarebbe tenuto conto dell’affidamento riposto dal ricorrente nelle autorizzazioni della Soprintendenza del 1997 e del 2000 e nella concessione edilizia rilasciata dal Comune nel 2005.

Conclusivamente, l’appellante ha chiesto l’annullamento del provvedimento di vincolo, perché illegittimo, e dei provvedimenti impugnati con il ricorso originario, nonché la condanna dell’Amministrazione al risarcimento dei danni.

Si è costituito il Comune di Campofelice di Roccella per sostenere la legittimità dei provvedimenti ex adverso impugnati e per chiedere, conclusivamente, il rigetto dell’appello perché infondato.

Ha replicato la ricorrente per dedurre, preliminarmente, la mancanza di legittimazione da parte del Comune di Campofelice di Roccella in ordine al giudizio in argomento e per ribadire la richiesta di annullamento dei provvedimenti impugnati nonché la condanna dell’Amministrazione al risarcimento dei danni.

Si è costituito, a sua volta, l’Assessorato appellato con apposita memoria difensiva con la quale, a conferma della sentenza impugnata, ha chiesto il rigetto dell’appello in quanto infondato in fatto ed in diritto.

Alla pubblica udienza del 27 aprile 2010, la causa è stata trattenuta in decisione.

Motivi della decisione

Preliminarmente, va respinta l’eccezione, sollevata dalla ricorrente, sul presunto difetto di legittimazione in capo al Comune in ordine al presente giudizio.

Invero, il Comune effettivamente ebbe a rilasciare nel 2005 una concessione edilizia agli originari proprietari dell’immobile in questione e ciò fece legittimamente in quanto detta concessione riguardava un bene all’epoca sottoposto a vincolo paesaggistico ambientale, in relazione al quale la competente Soprintendenza, con nota prot. n. 7021/17, aveva rilasciato il proprio nulla osta condizionato all’osservanza di alcune prescrizioni. Tuttavia, poiché con successivo D.D.le n. 5455/07 il casamento, denominato "Baglio", ricadente nell’area interessata, venne dichiarato di notevole interesse storico artistico ed architettonico e sull’area circostante venne imposto un vincolo indiretto, ben si può riconoscere in capo all’Amministrazione comunale – posto che non era ancora mutato lo stato dei luoghi oggetto della precedente concessione – un interesse alla tutela e conservazione dei suddetti beni ricadenti sul suo territorio e, quindi, una legittimazione ad intervenire nel presente giudizio, a nulla rilevando la censura circa la mancata adozione di un provvedimento di revoca in autotutela della concessione precedentemente rilasciata.

L’appello è, altresì, infondato nel merito e, pertanto, va respinto.

La controversia in oggetto riguarda l’impugnativa proposta dalla Di Vita ing. Pietro s.r.l., proprietaria del casamento, denominato "Baglio", facente parte del "Complesso della Roccella", avverso gli atti che, in virtù di un vincolo di notevole interesse storico, artistico ed architettonico imposto sullo stesso e di un vincolo indiretto imposto sull’area ad esso circostante, risultano del tutto ostativi al rilascio di concessione edilizia volta alla realizzazione del progetto di recupero e ripristino del "Baglio" suddetto e degli immobili circostanti.

La ricorrente deduce che, relativamente a questi beni, il vincolo imposto con i provvedimenti impugnati non risulterebbe adeguatamente motivato in ordine ai presupposti della dichiarazione di intereresse particolarmente importante.

Inoltre, sarebbe illogica e non motivata l’opposizione del vincolo indiretto su un territorio di 28.000 mq. di superficie, a fronte dei soli 7 ambienti considerati nella relazione alla base dell’impugnato provvedimento di imposizione del vincolo. Il provvedimento di vincolo risulterebbe illogicamente ed incongruamente motivato in quanto in esso non v’è traccia del necessario contemperamento tra la tutela del bene culturale, da un lato, e gli altri interessi pubblici (iniziativa privata ed occupazione) nonché il sacrificio imposto al privato, dall’altro.

Non sarebbe stata in alcun modo considerata la circostanza che l’odierno appellante avrebbe presentato un progetto conforme alle prescrizioni della Soprintendenza impartite prima nel 1997 e poi nel 2000, da cui deriva la dedotta contraddittorietà dei provvedimenti impugnati.

Infine, non sarebbe stato opportunamente valutato l’affidamento che il ricorrente avrebbe riposto nelle autorizzazioni della Soprintendenza del 1997 e del 2000 e nella concessione edilizia rilasciata dal Comune nel 2005.

Le superiori doglianze non possono essere condivise.

Premesso che l’impugnato decreto del Dirigente generale del Dipartimento regionale dei Beni Culturali ed Ambientali, n. 5455/ 2007, si basa su un giudizio espresso dalla competente Soprintendenza BB.CC.AA. di Palermo, che attiene alla discrezionalità tecnica dell’Amministrazione ed è sindacabile in sede di legittimità solo per difetto di motivazione, illogicità manifesta ed errore di fatto (cfr. ex multis Cons. St., VI Sez., n. 1766/01), va osservato che nel caso di specie il contenuto della relazione storico-tecnica a corredo del provvedimento impugnato dà compiutamente ragione del valore storico, artistico ed architettonico dei beni in questione – valore che, in realtà, l’appellante non è in grado di mettere in discussione – e ne riporta le fonti scientifiche di riferimento. Ne consegue che, avendo il provvedimento compiutamente dato atto della situazione, ogni altra valutazione circa il rilievo storico-artistico ed architettonico degli immobili e dell’area su cui essi insistono, nella sua attuale consistenza, appartiene alla discrezionalità della competente Amministrazione, non spettando al giudice amministrativo (tranne i casi di macroscopica illogicità, che qui non ricorrono) il giudizio di merito circa il valore di detti beni e circa l’interesse pubblico conseguente alla tutela.

Inoltre, per quel che concerne l’area complessivamente vincolata, nella quale rientrano i beni di interesse della ricorrente e che, a parere della stessa risulterebbe, nella superficie considerata, sproporzionata rispetto al valore culturale che si vuole tutelare, si osserva che essa è stata vincolata secondo le indicazioni catastali contenute nel suddetto decreto n. 5455/07 e per i motivi illustrati nella relazione storico-tecnica allo stesso allegata, che escludono la rilevanza di distinzioni all’interno dell’area vincolata, atteso che il vincolo tende a valorizzare l’unitarietà dell’area stessa come momento di sintesi dello storico insediamento urbano che si intende tutelare. D’altro canto, l’individuazione e la determinazione dell’ampiezza della zona di rispetto sono, per un verso, frutto di apprezzamento discrezionale e, per altro verso, non possono essere valutati astrattamente, ma in rapporto all’ubicazione, alla natura e alle caratteristiche dei beni costituenti l’insieme da preservare, risolvendosi il giudizio di logicità della scelta in un giudizio di congruità e di proporzione in relazione ai presupposti oggettivi (Cons. St., VI Sez., n. 4762/03).

Altrettanto infondato si rivela il motivo di appello circa l’eccesso di potere per mancata comparazione fra l’interesse pubblico all’intangibilità dello stato dei luoghi e l’interesse privato al godimento e all’utilizzazione dei beni, atteso il vincolo imposto sull’area in questione.

Orbene, costituisce principio affermato in giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, VI sez. n. 4658/00) che l’imposizione di vincolo di notevole interesse storico-artistico ed architettonico non è condizionato ad una ponderazione dell’interesse culturale con altri interessi, pubblici e privati, dovendosi riconoscere al primo, in conformità all’art. 9 Cost., un valore assoluto e, quindi, una prevalenza istituzionale.

Neppure può essere condivisa la doglianza della ricorrente circa una presunta contraddittorietà dei provvedimenti impugnati, in quanto il progetto sarebbe stato proposto per l’approvazione avendo tenuto conto delle prescrizioni della Soprintendenza impartite prima nel 1997 e poi nel 2000.

Orbene, il fatto che in precedenza, sulla base di un preesistente vincolo paesaggistico ambientale, siano stati rilasciati alla ricorrente provvedimenti favorevoli, ma pur sempre condizionati, per la realizzazione di un progetto di recupero dei beni oggetto del presente giudizio, ciò non può costituire legittimo impedimento all’adozione di provvedimenti di segno opposto giustificati dalla dichiarazione, da parte dell’organo competente, di un interesse storico, artistico ed architettonico di notevole valore riconosciuto ai beni in argomento.

Invero, se è pur vero che il vincolo suddetto è stato imposto successivamente all’adozione dei suddetti provvedimenti favorevoli alla ricorrente, è altrettanto vero che detto vincolo è stato imposto allorché lo stato dei luoghi non aveva subito alcuna modifica.

Quest’ultima circostanza esclude, altresì, che in capo alla ricorrente possa legittimamente riconoscersi l’invocato affidamento dalla stessa riposto nelle autorizzazioni della Soprintendenza del 1997 e del 2000 e nella concessione edilizia rilasciata dal Comune nel 2005.

Tanto premesso, non si ravvisano motivi per prendere in considerazione l’istanza di risarcimento di danni proposta dalla ricorrente.

Conclusivamente l’appello va rigettato perché infondato e, per l’effetto, viene confermata la sentenza di primo grado.

Ritiene altresì il Collegio che ogni altro motivo od eccezione di rito e di merito possa essere assorbito in quanto ininfluente ed irrilevante ai fini della presente decisione.

Poiché soccombente, parte ricorrente viene condannata a rimborsare all’Amministrazione appellata ed al Comune controinteressato le spese della presente fase di giudizio, liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione siciliana, in sede giurisdizionale, definitivamente pronunciando, respinge l’appello in epigrafe.

Condanna la Di Vita ing. Pietro s.r.l., soccombente, al pagamento delle spese della presente fase di giudizio, determinate in complessivi Euro 8.000,00, in favore dell’Assessorato regionale Beni Culturali ed Ambientali e della P.I., appellato, e del Comune di Campofelice di Roccella, controinteressato, nella misura del 50% per ciascuno di essi.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Palermo, dal Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, in sede giurisdizionale, nella camera di consiglio del 27 aprile 2010, con l’intervento dei signori: Riccardo Virgilio, Presidente, Chiarenza Millemaggi Cogliani, Gabriele Carlotti, Filippo Salvia, Pietro Ciani, estensore, componenti.

Depositata in Segreteria il 17 gennaio 2011.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.