T.A.R. Lazio Roma Sez. I bis, Sent., 19-09-2011, n. 7385 Carriera inquadramento

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con il ricorso in esame, il ricorrente chiede accertarsi il proprio diritto:

ad essere inquadrato nella qualifica funzionale VII, prof. professionale n. 2, come da sua richiesta del 7/4/1992;

al maggiore trattamento economico e giuridico corrispondente alle mansioni effettivamente svolte ed assegnate;

In punto di fatto, esso espone:

di essere dipendente del Ministero della Difesa;

di essere inquadrato ai sensi dell’art. 4, c. VIII della legge n. 312/1980 nel profilo professionale n. 16 della V qualifica funzionale;

di espletare sin dal 1977 le mansioni inerenti il superiore livello;

lo svolgimento di tali mansioni risulta da atti formali provenienti dalla P.A. quali la scheda relativa all’indagine conoscitiva e l’atto dispositivo n. 700 del 23/7/1990.

L’interessato fonda le proprie pretese sull’art. 4 della legge n. 312/1980 nonché sugli artt. 2103 e 2126 Cod. civ.. Eccepisce, altresì, l’incostituzionalità dell’art. 57 delD.Lvo n. 29/1993 in relazione all’art. 3 Cost..

Con memoria depositata il 18 aprile 2011, il ricorrente insiste per l’accoglimento delle domande, segnatamente per la retribuibilità delle mansioni espletate.

Il ricorso è infondato.

L’art. 4 della legge n. 312/1980 (Nuovo assetto retributivofunzionale del personale civile e militare dello Stato) così recita(va) al comma 10^ (comma abrogato dall’art. 74, D.Lvo 3 febbraio 1993, n. 29; abrogazione confermata dall’art. 72, D.Lvo 30 marzo 2001, n. 165:

"Il personale che ritenga di individuare in una qualifica funzionale superiore a quella in cui è stato inquadrato le attribuzioni effettivamente svolte da almeno cinque anni può essere sottoposto, a domanda da presentarsi entro 90 giorni dall’entrata in vigore della presente legge e previa favorevole valutazione del consiglio di amministrazione, ad una prova selettiva intesa ad accertare l’effettivo possesso della relativa professionalità".

La prescrizione del termine di 90 giorni era già stata abrogata dall’art. 4, L. 7 luglio 1988, n. 254.

Come si evince dal testo della norma in esame, l’avvio del procedimento di inquadramento in qualifica superiore era subordinato alla seguenti condizioni:

domanda da parte dell’impiegato;

valutazione favorevole da parte del consiglio di amministrazione dell’ente;

sottoposizione a prova selettiva.

A fronte di un così articolato iter procedimentale, l’amministrazione non aveva un preciso obbligo di provvedere sulle istanze di inquadramento, ciò in quanto l’inquadramento dei pubblici dipendenti corrispondeva, alla luce del quadro normativo di riferimento, ad un’attività discrezionale (ancorché di natura tecnica in ordine alla verifica di corrispondenza delle mansioni al profilo professionale o qualifica funzionale) rispetto alla quale non erano ravvisabili diritti soggettivi (al preteso inquadramento) bensì interessi legittimi tutelabili con l’impugnativa o degli atti di inquadramento ritenuti invalidi nel termine di decadenza oppure del rifiuto/silenzio dall’amministrazione opposto all’istanza di inquadramento.

Riprova della natura discrezionale (tecnica) del potere conferito all’amministrazione si ha ove si consideri, sotto altro profilo, che la deliberazione della Commissione paritetica, con la quale furono determinati i criteri concreti che perfezionavano i presupposti della fattispecie dell’inquadramento, venne adottata soltanto il successivo 28 settembre 1988; fu da questa data che l’attività amministrativa divenne priva, a quel punto, di connotati di discrezionalità ed autoritatività fino a quel momento non essendo in grado, l’amministrazione, di ascrivere i dipendenti al profilo professionale corrispondente alla qualifica precedentemente rivestita in base ad atto formale, adottando provvedimenti di inquadramento definitivo dei singoli dipendenti.

Va soggiunto, che nessuna delle due condizioni sopra descritte (valutazione favorevole e sottoposizione a prova selettiva) si era, comunque, verificata perché il ricorrente potesse vantare, in punto di fatto e di diritto, l’azionata pretesa.

Quest’ultima, ad ogni modo, risulta definitivamente sbarrata sia dall’abrogazione dei commi 10 e 11 dell’art. 4, L. n. 312/1980 ad opera dell’art. 74, d.lg. 3 febbraio 1993, n. 29 – abrogazione confermata dall’art. 72, d.lg. 30 marzo 2001, n. 165 – che dal sopravvenuto art. 52 del d. lgs. n. 165/01 (applicabile, ratione temporis, anche alla fattispecie in esame non risultando in atti esaurito il dedotto rapporto) il quale, con disposizione di carattere imperativo ed a regime, stabilisce che "in nessun caso lo svolgimento di mansioni superiori rispetto alla qualifica di appartenenza, può comportare il diritto ad avanzamenti automatici nell’inquadramento professionale del lavoratore".

Per quanto sin qui argomentato, la domanda di riconoscimento del diritto al superiore inquadramento è destituita di giuridico fondamento e non può, pertanto, essere accolta.

Parte ricorrente chiede, altresì, ai sensi dell’art. 2103 c.c., il riconoscimento del diritto alla qualifica superiore anche in ragione del consolidamento dell’assegnazione, da parte dell’amministrazione, allo svolgimento di mansioni superiori; quest’ultime assertivamente comprovate, in punto di fatto, dalla scheda relativa all’indagine ricognitiva.

In via gradata, chiede il riconoscimento del maggior trattamento economico ai sensi dell’art. 2126 Cod. civ..

Anche queste domande sono infondate.

I presupposti per il riconoscimento del diritto del pubblico dipendente alla retribuzione per lo svolgimento delle funzioni superiori (Cfr Cons. Giust. Amm. n. 583, del 9/10/02) sono i seguenti:

1) la sostituzione del titolare dell’ufficio da parte dell’inferiore gerarchico deve avvenire in occasione di assenze non temporanee;

2) il posto cui le mansioni si riferiscono deve essere necessariamente vacante o disponibile in pianta organica;

3) l’adibizione a mansioni superiori deve avvenire con incarico promanante dagli organi dell’Amministrazione.

Nel caso in esame, nessuna delle tre condizioni si era verificata nei confronti del ricorrente.

Segnatamente, l’assenza nel caso di specie dei prefati presupposti e circostanze impedisce – per effetto del carattere formale che contrassegna l’organizzazione della p.a., in sintonia con i principi di legalità e di buon andamento – il riconoscimento a fini giuridici e retributivi di pretese fondate su iniziative libere (recte, su atti causalmente nulli per violazione di norme imperative), assunte da soggetti che, seppure interni all’apparato dell’amministrazione, risultano privi della potestà di immutazione dello status del dipendente anziché sulla base di provvedimenti adottati dagli organi istituzionalmente competenti, titolari della potestà organizzatoria dell’ente.

La Sezione, aderendo ad un ormai consolidato insegnamento della giurisprudenza amministrativo, non può che ribadire nell’ambito del pubblico impiego l’irrilevanza, sia ai fini economici che a quelli di progressione di carriera, dello svolgimento da parte del dipendente, ancorché con attribuzione per atto formale, di mansioni superiori rispetto a quelle proprie della qualifica funzionale posseduta in base al provvedimento di nomina o di inquadramento.

L’attribuzione delle mansioni ed il relativo trattamento economico trovano, infatti, il loro indefettibile presupposto nel provvedimento di nomina o di inquadramento ad eccezione del caso in cui una norma speciale non disponga altrimenti (C. Stato, Ad. Plen. 18.11.1999, n. 22; C. Stato, Ad. Plen. 28.1.2000, n. 10).

In particolare, per quanto concerne la scheda personale relativa all’indagine conoscitiva, si tratta di atto di natura meramente ricognitiva, non attributivo di status, come tale giuridicamente e fattualmente inidoneo, proprio alla luce di quanto sopra esposto, a precostituire il diritto al superiore inquadramento ovvero a percepire le differenze economiche di livello.

Per quanto concerne, invece, l’atto dispositivo n. 700/1990 il ricorrente è stato adibito alle funzioni di Capo Gestione del denaro per un brevissimo, limitato periodo (dal 24/7/1990 al 17/8/1990) a causa delle ferie del titolare. L’assegnazione – se anche relativa a mansioni superiori – non può avere fondato alcuna legittima pretesa al superiore inquadramento né al pagamento di differenze retributive rientrando nella normale fisiologia del rapporto di lavoro la sostituzione del titolare da parte di chi legittimamente è tenuto a sostituirlo.

Il Collegio, dunque, non ravvede motivi per cui discostarsi dal prevalente orientamento giurisprudenziale secondo il quale, prima della definitiva privatizzazione del pubblico impiego (ed escluso il campo sanitario), le mansioni superiori non erano di regola riconoscibili sotto il profilo giuridico ed economico (cfr. C.d.s. Sez. V – 21/1/02). Il principio dell’irrilevanza giuridica ed economica dello svolgimento, in tutte le sue forme, di mansioni superiori nell’ambito del pubblico impiego – salvo che tali effetti derivino da un’espressa previsione normativa – è un dato acquisito alla giurisprudenza amministrativa (cfr. C.d.s. IV Sez., 17 maggio 1997 n. 647; C.G.A.R.S. 27 maggio 1997 n. 197; C.d.s. V Sez., 30 aprile 1997 n. 429, 24 marzo 1997 n. 290, 28 gennaio 1997 n. 99; VI Sez., 26 giugno 1996 n. 860 e 10 febbraio 1996 n. 189).

Nessuna norma o principio generale desumibile dall’ordinamento, infatti, consente la retribuibilità, in via di principio, delle mansioni superiori comunque svolte nel campo dell’impiego alle dipendenze della pubblica amministrazione.

Anzi, dalla disciplina di settore si ricava esattamente un opposto principio: l’art. 33 del D.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3 stabilisce, infatti, che il dipendente dello Stato (rectius, impiegato pubblico) ha diritto allo stipendio ed agli assegni per carichi di famiglia " nella misura stabilita dalla legge ".

Neppure può trovare applicazione alla fattispecie l’invocato art. 2126 Cod. civ. in virtù del "principio della prestazione di fatto".

Ed invero, il prefato articolato disciplina l’ipotesi, affatto diversa, del rapporto di lavoro dichiarato "nullo" (poiché costituitosi in violazione dei divieti legali) attribuendo rilevanza alle prestazioni di fatto comunque effettuate in esecuzione dello stesso: la norma opera, dunque, in funzione di conservazione dei valori giuridici ed economici del negozio colpito da un giudizio di disvalore ordinamentale.

Le considerazioni che precedono privano in radice di ogni rilevanza la eccepita questione di legittimità costituzionale. Questa s’applesa, comunque, manifestamente infondata per le ragioni che seguono.

L’esercizio di mansioni superiori rispetto alla qualifica rivestita contrasta con il buon andamento e l’imparzialità dell’Amministrazione nonché con la rigida determinazione delle sfere di competenza, attribuzioni e responsabilità proprie dei funzionari. Ed invero, la posizione di chi svolge mansioni superiori non può essere assimilata (sotto il profilo giuridicoeconomico) a quella di colui che il medesimo incarico ricopre sulla base di una qualificazione professionale oggettivamente accertata all’esito di procedure selettive e/o concorsuali (art. 97, comma III, Cost.).

L’affidamento di mansioni superiori a pubblici dipendenti, invece, avviene spesso con criteri che non garantiscono l’imparzialità dell’Amministrazione (A.p. 22/99).

Nell’esercizio dei propri poteri d’organizzazione ( art. 97, comma I Cost.) l’amministrazione potrebbe, per esigenze particolari di buon andamento dei servizi, prevedere in sede regolamentare – anche – la possibilità d’assegnazione temporanea di dipendenti a mansioni superiori alla loro qualifica senza, però, diritto a variazioni del trattamento economico (cfr. Ap., dec. 4/9/97, n. 20).

Le considerazioni che precedono inducono a ritenere, concordemente a quanto sostenuto dall’Alto Consesso, che "nell’ambito del pubblico impiego è la qualifica e non le mansioni il parametro al quale la retribuzione è inderogabilmente riferita, considerato anche l’assetto rigido della Pubblica amministrazione sotto il profilo organizzatorio, collegato anch’esso, secondo il paradigma dell’art. 97, ad esigenze primarie di controllo e contenimento della spesa pubblica" (sentenza 22/99, citata).

Pertanto, l’Amministrazione è tenuta a corrispondere la retribuzione propria della qualifica superiore solo quando una norma speciale preveda tale assegnazione e consenta la relativa maggiorazione retributiva (come accade nel campo sanitario – cfr. D.P.R. n. 761/79): circostanza, quest’ultima, che non ricorre affatto nel caso di specie.

In conclusione, il ricorso in esame non è meritevole di accoglimento e va, pertanto, respinto mentre le spese di giudizio, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima Bis) definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali che si liquidano in Euro 2.000,00.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. Unite, Sent., 01-02-2012, n. 1417 Impugnazione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo

1. – Con ricorso depositato il 28 febbraio 2003, E.V. convenne in giudizio innanzi al Tribunale di Lecce l’Istituto tecnico agrario di Lecce (ora I.I.S.S. "L.G.M. Columella"), esponendo di aver intrattenuto dal 1971 un rapporto di lavoro subordinato dapprima come salariato, quindi, almeno dal 1983, come operaio agricolo specializzato addetto a varie mansioni, presso l’azienda agricola "Panareo", annessa all’istituto, cui si erano aggiunte, come da delibera del 18 marzo 1991, quelle di custode dell’azienda e dell’intero complesso scolastico, riscuotendo retribuzioni al di sotto di tali qualifiche. Chiese, pertanto, che, in applicazione delle tabelle retributive del CCNL del settore, l’istituto convenuto fosse condannato al pagamento delle somme spettantigli ed agli accantonamenti per il trattamento di fine rapporto.

L’istituto convenuto si costituì eccependo, oltre al difetto di giurisdizione del giudice ordinario per le pretese anteriori al 1 luglio 1998, la prescrizione quinquennale del diritto, ed inoltre lo svolgimento da parte dell’attore delle sole mansioni di operaio generico.

2. – Il Tribunale di Lecce rigettò la domanda dell’attore.

La relativa sentenza fu impugnata dall’ E.. L’istituto appellato si costituì replicando alle avverse argomentazioni.

3. – La Corte d’appello di Lecce, Sez. Lavoro, con sentenza depositata il 9 febbraio 2010, accolse parzialmente il gravame, ritenendo provato l’avvenuto espletamento da parte dell’ E. di mansioni di tipo misto, di operaio e di custode, e, pertanto, condannando l’istituto al pagamento in favore dell’appellante della somma di Euro 51.843,70, oltre rivalutazione e interessi, ed alla regolarizzazione in ambito assicurativo-contributivo.

4. – Per la cassazione di tale sentenza ricorre l’Istituto di istruzione S.S. "L.G.M. Columella", sulla base di due motivi. Resiste con controricorso E.V..

Motivi della decisione

1. – Con il primo motivo di ricorso si lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 63 e art. 69, comma 7, in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., comma 1, n. 1. Si eccepisce il difetto di giurisdizione, rilevandosi che le pretese de quibus, per l’intero periodo anteriore al 30 giugno 1998, risultavano azionate innanzi ad un giudice sprovvisto di giurisdizione, ai sensi dell’invocato del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 69, comma 7. 2.1. – La doglianza non può trovare ingresso nel presente giudizio.

2.2. – Come già chiarito da queste Sezioni Unite, allorchè il giudice di primo grado abbia pronunciato nel merito, affermando, anche implicitamente, la propria giurisdizione, la parte che intende contestare tale riconoscimento è tenuta a proporre appello sul punto, eventualmente in via incidentale condizionata, trattandosi di parte vittoriosa; diversamente, l’esame della relativa questione è preclusa in sede di legittimità, essendosi formato il giudicato implicito sulla giurisdizione (v. , da ultimo, Cass., S.U., ordd. 13 giugno 2011, n. 12905 e 28 gennaio 2011, n. 2067).

2.3. – Nella specie, l’Istituto "L.G.M. Columella" aveva eccepito, nel giudizio di primo grado, il difetto di giurisdizione del giudice ordinario per le pretese ante 1 luglio 1998, ma il Tribunale di Lecce aveva rigettato nel merito la domanda dell’ E., senza che la questione di giurisdizione venisse riproposta in sede di appello incidentale dall’Istituto, con conseguente formazione del giudicato implicito.

3. – Con il secondo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 2948 cod. civ., n. 4, in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., comma 1, n. 3. Si lamenta che la Corte d’appello salentina, nell’accogliere la domanda dell’ E. condannando l’Istituto scolastico odierno ricorrente al pagamento delle differenze retributive fin dal 1991, ha disatteso l’eccezione, formulata dallo stesso in primo grado ed espressamente riprodotta nella memoria di appello, di prescrizione dell’avverso credito per il periodo fino al 28 febbraio 1998, risalendo la domanda introduttiva del giudizio, ed interruttiva della prescrizione, al 28 febbraio 2003. In tal modo, la sentenza impugnata si sarebbe posta in contrasto con la previsione di cui all’art. 2948 cod. civ., che stabilisce la prescrizione quinquennale per ogni prestazione che deve effettuarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi. Si chiede, pertanto, la declaratoria di intervenuta prescrizione per i crediti anteriori alla indicata data del 28 febbraio 1998. 4.1. – Anche tale censura è inammissibile.

4.2. – Deve, al riguardo, richiamarsi l’indirizzo di questa Corte secondo il quale, nel rito del lavoro, ove il giudice di primo grado abbia implicitamente disatteso l’eccezione di prescrizione rigettando la domanda per motivi di merito, l’eccezione stessa – che ha natura di eccezione in senso stretto, rilevabile soltanto ad istanza di parte – non si ha per riproposta in grado di appello se la parte interessata (appellata in sede di gravame) non l’abbia formalmente e tempestivamente dedotta nella memoria di costituzione, ai sensi dell’art. 436 cod. proc. civ. (Cass., sent. n. 18901 del 2007).

Nella specie, la costituzione nel giudizio di secondo grado dell’Istituto è avvenuta tardivamente, solo all’udienza di discussione: pertanto, come dedotto dall’attuale resistente, era preclusa all’Istituto medesimo la possibilità di riproporre l’eccezione.

5. – In definitiva, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

Le spese del giudizio, che vengono liquidate come da dispositivo, devono, in applicazione del principio della soccombenza, essere poste a carico del ricorrente.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, che liquida in complessivi Euro 3200,00, di cui Euro 3000,00 per onorari, oltre alle spese generali ed accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Lazio Roma Sez. I quater, Sent., 07-11-2011, n. 8504

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Ritenuto di potere definire il giudizio con sentenza in forma semplificata;

Considerato, in fatto, che

D.A.N. e G.E., quest’ultimo in qualità di invitante, impugnano il provvedimento del 4 febbraio 2011 con cui il Consolato Generale d’Italia in Nairobi ha respinto la richiesta di visto d’ingresso per cure mediche presentato dal primo;

Considerato, in diritto, che il ricorso, a prescindere da ogni valutazione in ordine all’ammissibilità dello stesso, è, nel merito, infondato e deve essere respinto;

Considerato che con un’unica articolata censura i ricorrenti prospettano il difetto di motivazione dell’atto impugnato ed il vizio di eccesso di potere sotto vari profili in relazione all’asserito possesso dei requisiti richiesti dalla normativa vigente per il rilascio del visto d’ingresso;

Considerato che il motivo in esame è infondato e deve essere respinto;

Considerato che dall’esame dell’atto impugnato risulta che il visto è stato negato in quanto l’interessato non avrebbe comprovato in maniera idonea le finalità del viaggio, l’intenzione di lasciare il territorio nazionale e il possesso dei necessari mezzi di sussistenza;

Considerato, pertanto, che, contrariamente a quanto dedotto nell’atto introduttivo, il provvedimento impugnato risulta assistito da congrua motivazione in quanto palesa, in maniera idonea, le circostanze di fatto e di diritto poste a fondamento della decisione;

Considerato, poi, nel merito, che dalla relazione trasmessa dall’Ambasciata con nota prot. n. 1724 del 19/08/11 emerge che l’interessato non ha comprovato il possesso dei requisiti richiesti dall’art. 36 d. lgs. n. 286/98 per l’ingresso in Italia per cure mediche non avendo prodotto la dichiarazione della struttura sanitaria italiana attestante il tipo di cura, la data d’inizio e la durata del ricovero ed i costi dello stesso, la prenotazione aerea di andata e ritorno e la documentazione relativa al possesso delle risorse per fare fronte alle spese sanitarie, di vitto e di soggiorno. Inoltre, il passaporto utilizzato dal richiedente non è più riconosciuto dalla comunità internazionale quale valido documento di viaggio;

Considerato che per questi motivi il ricorso è infondato e deve essere respinto;

Considerato che i ricorrenti, in quanto soccombenti, debbono essere condannati al pagamento delle spese del presente giudizio il cui importo viene liquidato come da dispositivo;

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima Quater)

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto:

1) respinge il ricorso;

2) condanna i ricorrenti a pagare, in favore del Ministero degli Esteri, le spese del presente giudizio il cui importo si liquida in complessivi euro mille/00, per diritti ed onorari, oltre IVA e CPA come per legge.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 21-06-2011) 24-10-2011, n. 38324

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con l’impugnata sentenza è stato dichiarato inammissibile, perchè generico, l’appello proposto da A.I., volto ad ottenere la concessione delle circostanze attenuanti generiche con ulteriore diminuzione della pena inflittagli in ordine al reato di tentato furto pluriaggravato.

Ricorre per cassazione l’imputato deducendo erronea applicazione della legge penale e mancanza o manifesta illogicità della motivazione.

– Il ricorso è inammissibile ai sensi dell’art. 591 c.p.p., comma 2, siccome pur esso, assolutamente privo dei requisiti di specificità richiesti dall’art. 581 c.p.p., lett. c).

Il motivo dedotto a sostegno, infatti, si limita a riproporre le censure mosse con l’atto di appello, in punto diniego delle attenuanti generiche, ma non svolge alcuna critica avverso l’iter argomentativo esibito dal giudice a quo a giustificazione della ritenuta inammissibilità del gravame, basato sulla osservazione che l’appellante non si era dato cura di esplicitare in che sarebbe consistito "l’ottimo comportamento processuale" (che il primo giudice avrebbe omesso di valutarcene l’atteggiamento collaborativo (disconosciuto dal Tribunale), nè tanto meno le modalità del fatto che denoterebbero "una scarsissima capacità criminale".

P.Q.M.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Dichiara inammissibile il ricorso.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.