Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 15-06-2011) 23-09-2011, n. 34661

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con ordinanza del 25 novembre 2010, il tribunale del riesame di Catania confermava l’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa il 22 ottobre 2010 dal GIP dello stesso tribunale nei confronti di F.C..

Il prevenuto risulta indagato quale membro dell’associazione di stampo mafioso denominata Santapaola-Ercolano, facente capo a L. R.F., finalizzata ad illecite attività nel settore dei delitti contro il patrimonio, contro la persona ovvero finalizzati al controllo delle attività economiche; il F. risulta altresì indagato per due episodi di estorsione e per il reato di intestazione fittizia ex L. n. 356 del 1992, art. 12 quinquies, reati tutti aggravati ex L. n. 203 del 1991, art. 7. Contro l’ordinanza del tribunale del riesame ha proposto ricorso per cassazione il difensore di F. indicando quattro motivi:

1. con il primo motivo si lamenta l’insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza anche in ordine al delitto di cui all’art. 416 bis c.p.;

lamenta il ricorrente la mancata indicazione del materiale dell’indagine preliminare da cui vengono tratti elementi indiziari sul rapporto stabile e sull’organica compenetrazione nel tessuto organizzativo del sodalizio da parte di F.C.;

2. con il secondo motivo si contesta la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di estorsione commessa in danno di P.S. e A.F., evidenziando alcuni aspetti di contraddittorietà della motivazione e la non sufficienza, da parte del tribunale, dell’indicazione delle fonti probatorie, essendo necessaria la specificazione del loro contenuto;

3. con il terzo motivo si lamenta mancanza di motivazione in ordine alla tentata estorsione contestata al capo d/5 in danno di Ar.

A.;

4. con il quarto ed ultimo motivo si lamenta l’illogicità e contraddittorietà della motivazione dell’ordinanza del tribunale del riesame nella parte in cui conferma la sussistenza degli indizi di colpevolezza in ordine al reato di fittizia intestazione di quote sociali.

Motivi della decisione

Tutti i motivi di ricorso attengono a questioni legate alla motivazione; anche il primo motivo, rubricato Sub art. 606 c.p.p., lett. B, in realtà contiene una contestazione sulla motivazione, laddove ritiene che il tribunale non abbia indicato gli elementi indiziari da cui emergerebbero gli elementi costitutivi del vincolo associativo. Dunque, tutti e quattro i motivi possono essere trattati unitariamente, dal momento che l’ordinanza del tribunale del riesame risulta corredata da una adeguata e specifica motivazione su tutti i punti evidenziati nel ricorso; deve qui ribadirsi che non è consentito in sede di legittimità valutare, o rivalutare, gli elementi probatori al fine di trame conclusioni in contrasto con quelle del giudice del merito, chiedendo a questa corte un giudizio di fatto che non le compete. Esula, infatti, dai poteri della corte di cassazione quello di una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Cass. SS.UU. 1.06.2011, est. Fiandanese).

Ed invero, nel controllo di legittimità la Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti, nè deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia logica e compatibile con il senso comune;

l’illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, dev’essere, inoltre, percepibile "ictu oculi", dovendo il sindacato di legittimità essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze. In secondo luogo, per la validità della decisione non è necessario che il giudice di merito sviluppi nella motivazione la specifica ed esplicita confutazione della tesi difensiva disattesa, essendo sufficiente, per escludere la ricorrenza del vizio di motivazione, che la sentenza evidenzi una ricostruzione dei fatti che conduca alla reiezione della deduzione difensiva implicitamente e senza lasciare spazio ad una valida alternativa (cfr. Cassazione penale, sez. 2, 05 maggio 2009, n. 24847). E ciò è tanto più vero per i provvedimenti di natura cautelare, che si fondano su indizi e che non contengono un accertamento definitivo di responsabilità, ma semplicemente un accertamento di probabile fondatezza dell’ipotesi accusatoria.

Vale la pena, ancora, di evidenziare che l’ordinanza impugnata dedica alcune pagine (precisamente le prime quattro) all’accertamento dei gravi indizi sull’esistenza dell’associazione mafiosa e sulla appartenenza alla stessa del F., citando in modo specifico le risultanze delle indagini e dunque le intercettazioni più rilevanti, sintetizzandone poi il contenuto. Deve poi essere rimarcato il fatto che il tribunale del riesame non solo conferma l’ordinanza cautelare, ma richiama integralmente anche la ben più dettagliata motivazione del GIP, per cui la congruità della motivazione deve essere valutata considerando il risultato organico e inscindibile derivante dalla fusione delle due motivazioni, che si integrano a vicenda e non possono essere interpretate individualmente ai fini della verifica di sussistenza di eventuali vizi logici. Anche sui reati di estorsione vi è specifica motivazione (cfr. pagg. 5, 6 e 7 dell’ordinanza impugnata), assolutamente congrua e sufficiente, specie se integrata con le altre considerazioni fornite dal giudice per le indagini preliminari e analogo discorso deve farsi anche per l’intestazione fittizia di quote sociali, per la quale vi è l’esplicito richiamo di due intercettazioni, particolarmente evocative (cfr. pag. 8 dell’ordinanza del riesame).

Il ricorso è dunque manifestamente infondato e deve essere pertanto dichiarato inammissibile.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 a favore della cassa delle ammende.

Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. V, Sent., 07-03-2012, n. 3539 Agevolazioni tributarie

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Svolgimento del processo

La società contribuente propose ricorso avverso comunicazione- ingiunzione notificata il 29.3.2007, con la quale l’Agenzia delle Entrate aveva provveduto al recupero delle imposte non versate, per l’anno d’imposta 1996, in forza del regime agevolativo, previsto, dalla L. n. 549 del 1995, art. 3, comma 70, e L. n. 427 del 1993, art. 66, comma 14, a favore delle società per azioni a capitale pubblico maggioritario istituite ai sensi della L. n. 142 del 1990, art. 22; regime dichiarato incompatibile con il diritto comunitario, in quanto configurante illegittimo "aiuto di Stato", con decisione 2003/193/Ce del 5 giugno 2002 della Commissione europea.

In principalità, la ricorrente deduceva l’illegittimità degli atti impugnati e ne chiedeva l’annullamento. In particolare, negava che la somme conseguite potessero qualificarsi "aiuti di Stato", sostenendo di non aver mai svolto attività imprenditoriale sicchè il beneficio goduto non avrebbero, conseguentemente, mai potuto falsare la concorrenza e gli scambi tra Stati membri della Comunità. Lamentava, comunque, l’omessa applicazione della regola "de minimis". In via subordinata, chiedeva la rideterminazione dell’entità della somma complessivamente dovuta, contestandone l’importo imputato ad interessi.

Sull’opposizione dell’Agenzia, l’adita commissione tributaria accolse i ricorsi. Ritenne che le agevolazioni fiscali in oggetto non integravano "aiuti di Stato" incompatibili con le disposizioni del Trattato, poichè non comportavano "alterazione della concorrenza intracomunitaria".

In esito all’appello dell’Agenzia, le decisioni furono riformate dalla commissione regionale.

I giudici di appello riscontrarono, nella fattispecie, le condizioni d’incompatibilità sancita dalla decisione 2003/193/Ce della Commissione europea. Ciò, in particolare: perchè nell’anno d’imposta oggetto della controversia il patrimonio netto della società apparteneva a persone giuridiche private per il 25%, mentre la giurisprudenza comunitaria ha escluso l’operatività dell’in house providing (e la conseguente sottrazione al regime concorrenziale) per soggetti partecipati da privati, anche in via assolutamente minoritaria, e, perchè l’atto costitutivo prevedeva la possibilità di accettare commissioni anche da altri soggetti pubblici e privati;

perchè la fattispecie non rientrava nella disciplina del "de minimis", in quanto ne superavano il limite; c) che, anche alla luce di C. cost. 36/2009, non può parlarsi di illegittimità degli interessi applicati in quanto retroattivamente sanciti, perchè nella vicenda, riguardo a questi, non si verifica illegittima imposizione retroattiva ma recupero di esenzione fiscale indebitamente conseguita.

Avverso tale sentenza, la società contribuente ha proposto ricorso per cassazione in sette motivi, illustrati anche con memoria.

L’Agenzia ha resistito con controricorso.

La società contribuente propose ricorso anche avverso la cartella esattoriale emessa per la riscossione dell’importo oggetto del recupero di cui alla comunicazione-ingiunzione sopra indicata.

Il ricorso fu accolto dall’adita commissione tributaria, con decisione che, in esito all’appello dell’Agenzia, fu riformata dalla commissione regionale, che ribadì la legittimità degli atti impugnati.

I giudici di appello si richiamarono alla decisione, assunta in esito alla medesima udienza, sulla corrispondente comunicazione- ingiunzione.

Avverso tale sentenza, la società contribuente ha proposto ricorso per cassazione in quattro motivi, illustrati anche con memoria.

L’Agenzia ha resistito con controricorso.

Motivi della decisione

1) – Stanti le evidenti ragioni di connessione oggettiva e soggettiva, i ricorsi vanno riuniti ai sensi dall’art. 274 c.p.c. (applicabile anche in sede di legittimità: Cass. 18050/10, 18125/05).

2) – Tanto premesso, va osservato che, con i primi tre motivi del ricorso avverso la comunicazione-ingiunzione, la società contribuente propone altrettante censure di violazione di legge.

In particolare, con il primo motivo di ricorso, la società contribuente – deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 87 del Trattato C.e. e, comunque, della L. n. 62 del 2005, art. 27 – censura la decisione impugnata per non aver considerato che l’"aiuto di Stato" corrispondente alle imposte non versate in conseguenza di regime di esenzione fiscale, di cui è imposto il recupero ai sensi della decisione della Commissione 5.6.02 n. 2003/193/C.e., presuppone il carattere d’impresa del soggetto beneficiario dell’esenzione o, comunque, lo svolgimento da parte sua di un’attività di scambio di beni o di servizi economicamente rilevanti sul mercato; mentre essa ricorrente ha per oggetto statutario lo svolgimento di attività di studio, ricerca e sperimentazione e partecipa, peraltro, alla realizzazione di importante progetto di interesse europeo.

Con il secondo motivo di ricorso, la società contribuente – deducendo violazione e falsa applicazione della L. n. 62 del 2005, art. 27 e D.L. n. 10 del 2007, art. 1 – censura la decisione impugnata per non averla esclusa dal recupero in quanto rientrante nel regime "de minimis".

Con il terzo motivo di ricorso, la società contribuente – deducendo violazione e falsa applicazione del D.L. n. 10 del 2007, art. 1, comma 3, (conv. in L. n. 46 del 2007) nonchè del reg. U.e. n. 794/2004 e dell’art. 10 Cost. – censura la decisione impugnata in merito al calcolo degli interessi sull’aiuto recuperato.

Le riportate doglianze vanno disattese.

Posto che si verte in tema di ricorso per cassazione avverso sentenza di appello pubblicata dopo l’1.3.2006 e prima del 4.7.2009 (cfr.

Cass. 22578/09), occorre, prioritariamente rispetto ogni altra valutazione, rilevare l’inammissibilità delle censure proposte, per violazione delle prescrizioni di cui all’art. 366 bis c.p.c. in tema di "quesito di diritto".

Ai sensi della disposizione indicata, invero, il quesito inerente ad una censura in diritto – dovendo assolvere la funzione di integrare il punto di congiunzione tra la risoluzione del caso specifico e l’enunciazione del principio giuridico generale – non può essere meramente generico e teorico ma deve essere calato nella fattispecie concreta, per mettere la Corte in grado di comprendere dalla sua sola lettura, l’errore asseritamente compiuto dal giudice a quo e la regola applicabile; e, dovendosi risolvere in sintesi logico- giuridica della questione non avulsa dai rilevanti elementi fattuali della fattispecie concreta, non può, dunque, consistere in una semplice richiesta di accoglimento del motivo ovvero (come nel caso di specie) nel mero interpello della Corte in ordine alla fondatezza della propugnata petizione di principio o della censura così come illustrata nello svolgimento del motivo (v. Cass. s.u. 19444/09 e 3519/08, nonchè 7433/09, 15535/08, 19769/08).

A prescindere dall’indicato assorbente rilievo, la prima delle doglianze sopra riportate risulta da disattendere anche in diversa prospettiva.

Ed, invero, la natura imprenditoriale dell’attività espletata dalla società contribuente e la conseguente idoneità dell’esenzione conseguita ad alterare il regime di libera concorrenza risultano, invero, oggetto di accertamento del giudice a quo, fondato in particolare sull’interpretazione dell’atto costitutivo della società, che è accertamento in fatto non censurabile in sede di legittimità sul piano della violazione di legge (v. Cass. 12067/08, 26683/06).

Infatti – dopo aver evidenziato la condizioni che rendono indenni dal recupero d’imposta in rassegna – i giudici di appello ne escludono la ricorrenza in concreto, rilevando alle pagg. 4 e 5 della sentenza:

"Caratteristiche che, nel caso in esame, non risultano essere esistenti. E’ stato evidenziato dall’Ufficio, infatti, e non contrastato dalla società, che l’art. 2 dell’atto di trasformazione in società consortile per azioni, prevede operatività anche su commissione, con stipula di apposite convenzioni con università italiane e straniere, nonchè con soggetti pubblici o privati.

Nell’anno d’imposta oggetto di controversia, inoltre, il Patrimonio Netto della società appartiene per il 25% a persone giuridiche private e la Corte di Giustizia Europea, nel procedimento C-26/03, ha escluso l’operatività dell’in house per soggetti affidatari partecipati da un privato, anche in via assolutamente minoritaria ..".

Diversamente da quanto sostiene la società contribuente, nella fattispecie non può, d’altro canto, ravvisarsi la ricorrenza della condizione di compatibilita dell’"aiuto" di cui all’art. 87, (già 92), comma 3, lett. b, del Trattato. L’evocata partecipazione ad importante progetto di interesse europeo da parte di soggetto a tutt’altro titolo ammesso a regime di agevolazione fiscale è, infatti, di per sè inidonea a realizzare la condizione suddetta, che è normativamente prevista solo in relazione agli "aiuti destinati a promuovere la realizzazione di un importante progetto di comune interesse europeo".

Non diversamente da disattendere anche per ulteriori rilievi si rivelano il secondo ed il terzo motivo di ricorso.

Il secondo, perchè si basa su presupposto contrario all’accertamento in fatto della decisione impugnata, che assume che la fattispecie non rientra "nella disciplina del de minimis, in quanto il massimale risulta superato dalla somma delle esenzioni fruite dalla società".

Il terzo, perchè l’introdotta questione del calcolo degli interessi sull’aiuto recuperato, non risultando riproposta in appello, deve ritenersi preclusa D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 56 e art. 345 c.p.c.. Contrariamente a quanto prospetta la società contribuente nella memoria ex art. 378 c.p.c., infatti, la sentenza di appello da conto della proposizione, sul tema degli interessi, della sola questione della loro pretesa illegittimità in quanto retroattivamente applicati (questione che esamina e risolve in senso sfavorevole all’appellante), ma non fa cenno alcuno all’avvenuta proposizione in sede di gravame di questione sul relativo concreto computo (questione, del resto, nemmeno indicata come riproposta in appello nel ricorso della società ricorrente, con inevitabili negative ricadute sul piano dell’autosufficienza del ricorso).

3) – Con il quarto, il quinto, il sesto ed il settimo motivo di ricorso, la società contribuente deduce vizi di motivazione in merito, rispettivamente: alla natura di impresa del Centro Ricerche Marine; all’insussistenza dei presupposti per beneficiare del regime comunitario "de minimis"; alla determinazione degli interessi sull’aiuto di cui si pretende il recupero; al deconto dall’importo dell’esenzione recuperata delle ritenute subite.

In proposito occorre, prioritariamente, rilevare l’inammissibilità delle censure, per violazione delle prescrizioni di cui all’art. 366 bis c.p.c., in tema di "momento di sintesi".

Invero, in ipotesi di deduzione di vizio motivazionale, la disposizione indicata, è violata quando il fatto controverso coinvolto dal motivo, in relazione al quale si assuma omessa, contraddittoria od insufficiente la motivazione, e le ragioni, per cui la motivazione medesima sia reputata inidonea a sorreggere la decisione, s’identifichino (come nel ricorso in rassegna) solo in esito alla completa lettura del motivo e non in base alla specifica sintesi offertane dal ricorrente, al fine dell’osservanza del requisito sancito dall’art. 366 bis, (v. Cass. 4311/08, 4309/08, 20603/07, 16002/07).

In disparte tale assorbente rilievo, deve rilevarsi che il quarto motivo tende, altresì, a risolversi in inammissibile sindacato in fatto.

Invero – a fronte dell’articolata motivazione, con la quale il giudice a quo, ha dato conto, sulla scorta degli elementi acquisiti, dell’accertato riscontro della natura imprenditoriale dell’attività svolta dalla società contribuente e della conseguente idoneità dell’"aiuto" riscontrato ad alterare la concorrenza – con l’indicata doglianza, la società contribuente, pur apparentemente prospettando carenze motivazionali, tende, in realtà, a rimettere in discussione, contrapponendovene uno difforme, l’apprezzamento in fatto del giudice di merito, che, in quanto basato sull’analitica disamina degli elementi di valutazione disponibili ed espresso con motivazione immune da lacune o vizi logici, si sottrae al giudizio di legittimità. Nell’ambito di tale giudizio, non è, infatti, conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito, restando a questo riservate l’individuazione delle fonti del proprio convincimento e, all’uopo, la valutazione delle prove, il controllo della relativa attendibilità e concludenza nonchè la scelta, tra le risultanze probatorie, di quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (cfr. Cass. 22901/05, 15693/04, 11936/03).

Ulteriormente inammissibili si rivelano, altresì, gli ultimi tre motivi di ricorso.

Il quinto, per genericità e difetto di autosufficienza, non emergendo indicazione alcuna in merito all’effettiva entità degli "aiuti" dedotti in controversia ed alla loro inquadrabiltà, negata dal giudice a quo, nell’ambito del criterio "de minimis". Il sesto, perchè andava, semmai, prospettato in termini di omessa pronunzia.

Il settimo, perchè introduce una questione "nuova", almeno in prospettiva di autosufficienza, introducendo un tema di decisione (quello della detrazione, dalla somme oggetto di recupero, delle imposte versate) che, nè dalla sentenza impugnata nè dal ricorso per cassazione, risulta proposto e trattato davanti al giudice del merito (v. Cass. 14.590/05, 13.979/05, 6656/04 5561/04).

4) – Con il primo motivo del ricorso avverso la decisione di appello intervenuta nel giudizio concernente la cartella esattoriale, la società contribuente deduce nullità della sentenza impugnata per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, art. 112 c.p.c. e art. 132 c.p.c., n. 4, in relazione all’art. 111 Cost., per essere la stessa stata motivata a mezzo di acritico rinvio per relationem alla decisione emessa dagli stessi giudici.

Con il secondo ed il terzo motivo, la società contribuente lamenta il vizio di motivazione, rispettivamente, in merito al motivo d’appello dell’Agenzia teso all’affermazione dell’inammissibilità del ricorso introduttivo per inesistenza di vizi propri della cartella di pagamento nonchè alla ritenuta assenza di vizi propri dell’iscrizione a ruolo e dalla cartella.

Con il quarto motivo la società contribuente lamenta l’illegittimità della sentenza impugnata per omessa motivazione e per violazione di legge, riproponendo tutte le doglianze già proposte con il ricorso relativo al giudizio, concernente la comunicazione-ingiunzione, avente ad oggetto il merito della pretesa erariale.

Le doglianze vanno disattese.

La prima è infondata.

Invero, dallo stesso ricorso della società contribuente emerge che l’oggetto della controversia sulla cartella di pagamento, qui esaminata, è stato, sin dall’introduzione della lite, esclusivamente incentrato sul merito della pretesa erariale, nel contempo contrastato nella (appropriata) sede del giudizio instaurato con il ricorso avverso la comunicazione-ingiunzione. Tale circostanza e una lettura della decisione qui impugnata, che ne valuti complessivamente, ponendole in relazione, narrativa e motivazione in senso stretto, rivelano chiaramente che detta decisione ha richiamato la contestuale sentenza sulla comunicazione-ingiunzione, non in via di acritica relationem alla relativa motivazione, ma come dato storico comportante l’infondatezza dell’impugnativa contro la cartella; sicchè, consentendo compiuta ricostruzione e controllo della propria ratio decidendi, deve ritenersi sufficientemente motivata.

Il secondo motivo è inammissibile per carenza d’interesse, avendo per oggetto il mancato esame di un motivo dell’appello della controparte restato assorbito nella decisione.

Il terzo motivo è, a tacer d’altro, carente sul piano dell’autosufficienza, non risultando indicati, nè dalla sentenza impugnata nè dal ricorso per cassazione, i vizi propri della cartella di pagamento che sarebbero stati dedotti nel ricorso introduttivo.

Le doglianze prospettate con il quarto motivo (oltre che inammissibili, in quanto proposte nella controversia avverso la cartella di pagamento, ove possono aver ingresso solo i vizi propri della cartella medesima) sono infondate per i motivi già esposti in merito al ricorso concernente il giudizio sulla comunicazione- ingiunzione.

5) – Alla stregua delle considerazioni che precedono, s’impone i rigetto dei ricorsi.

Per la soccombenza, la società contribuente va condannata alla refusione delle spese del giudizio, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

la Corte: riunisce i ricorsi e li rigetta; condanna la società contribuente alla refusione delle spese di giudizio, liquidate in complessivi Euro 4.500,00 oltre spese prenotate a debito.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Lombardia Milano Sez. II, Sent., 22-11-2011, n. 2823

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

L’esponente è proprietaria di un edificio nel Comune di Vizzolo Predabissi (MI), via Togliatti 44, acquistato dagli eredi del sig. L.B., già titolare di un’azienda agricola, che aveva realizzato l’edificio stesso quale residenza dell’imprenditore agricolo, ai sensi dell’allora vigente legge regionale 93/1980 (oggi abrogata e sostituita dalla legge regionale 12/2005, articoli 5962).

L’area sulla quale insiste l’immobile, in base al Piano Regolatore Generale (PRG) del Comune, aveva infatti destinazione agricola.

In sede di approvazione del Piano di Governo del Territorio (PGT), la signora L. chiedeva all’Amministrazione comunale il mutamento di destinazione d’uso del proprio terreno, da agricola a residenziale.

L’osservazione era però respinta, sicché il PGT confermava la destinazione agricola del fondo: in particolare, a detta dell’Amministrazione, l’accoglimento dell’osservazione avrebbe determinato una sorta di sanatoria della condotta tenuta dalla ricorrente, la quale – in via di fatto – aveva trasformato una residenza a servizio dell’impresa agricola in una normale casa d’abitazione, totalmente svincolata dall’attività agricola.

Contro la deliberazione consiliare di approvazione del PGT era proposto di conseguenza il presente ricorso, per i motivi che possono così essere sintetizzati:

1) violazione e falsa applicazione dell’art. 36 del DPR 380/2001 e degli articoli 2 e 3 della legge regionale Lombardia n. 93 del 1980;

2) violazione e falsa applicazione della legge regionale della Lombardia n. 1 del 2001, art 5;

3) eccesso di potere per contraddittorietà;

4) violazione e falsa applicazione dell’art. 3, comma II, lett. a), della legge regionale Lombardia n. 93 del 1980;

5) eccesso di potere per errore di fatto e travisamento;

6) eccesso di potere per manifesta irragionevolezza e violazione dell’art. 36 del DPR 380/2001.

Si costituiva in giudizio il Comune intimato, concludendo per la reiezione del ricorso.

Il successivo 16.7.2010, l’esponente notificava ricorso per motivi aggiunti, nel quale erano articolati altri quattro mezzi di ricorso contro la stessa delibera oggetto del gravame principale, alla luce della sentenza del TAR Lombardia, sez. II, n. 1526 del 2010, sentenza nella quale erano affrontate dal presente Tribunale una serie di questioni riguardanti la valutazione ambientale strategica (VAS), alla quale vanno sottoposti i PGT.

Il Comune si costituiva anche nel ricorso per motivi aggiunti, eccependone la tardività, oltre all’infondatezza nel merito.

Alla pubblica udienza del 3.11.2011, la causa era trattenuta in decisione.

Motivi della decisione

1.1 Al fine della migliore comprensione e valutazione dei motivi contenuti nel ricorso principale, appare necessario inquadrare correttamente, sul piano fattuale e giuridico, la presente fattispecie.

L’edificio di cui è causa, con l’annesso fondo, del quale l’esponente ha chiesto il mutamento di destinazione d’uso, fu realizzato dal sig. L.B., imprenditore agricolo, quale abitazione del conduttore dell’azienda agricola.

Di conseguenza, in applicazione dell’allora vigente legge regionale 93/1980, articoli 3 e 6, il sig. B. redasse in data 14.4.1989 un atto di impegno, debitamente autenticato, con il quale si obbligava al mantenimento della destinazione dell’opera realizzanda al servizio esclusivo dell’attività agricola.

Tale atto unilaterale di impegno era trascritto nei pubblici registri (cfr. il testo di tale atto d’obbligo, doc. 4 della ricorrente e doc.1 del resistente).

L’esistenza dell’atto d’obbligo era ribadita nei successivi atti aventi ad oggetto il compendio immobiliare di cui è causa e quindi anche nel contratto con il quale la signora L. acquistò il compendio medesimo dagli eredi del sig. B. in data 21.11.2001 (cfr. l’atto di acquisto, a rogito del notaio Toscani di Piacenza, doc. 3 del resistente e doc. 6 della ricorrente; nell’art. 4 del contratto viene fatto espresso riferimento all’atto di impegno del 14.4.1989, mentre al successivo art. 8 è scritto che: "la parte acquirente è a perfetta conoscenza che il fabbricato in oggetto ha e conserva tutt’ora destinazione rurale").

La signora L., pur pienamente consapevole della destinazione agricola del fondo e del vincolo gravante sul medesimo ai sensi della legge regionale 93/1980, realizzava però una sostanziale modificazione della destinazione del bene, che da residenza al servizio dell’impresa agricola diveniva – in via di fatto e senza alcun adeguamento delle previsioni urbanistiche – una normale abitazione, essendo ormai cessata l’attività agricola e non avendo l’esponente, circostanza questa pacifica, la qualifica di agricoltore.

Di fronte a tale cambio d’uso, il Comune avviava un procedimento sanzionatorio edilizio, che non era però portato a conclusione, senza peraltro che la signora L. chiedesse una eventuale sanatoria.

Soltanto al momento dell’adozione del Piano di Governo del Territorio (PGT), con un’osservazione presentata il 9.12.2009, la ricorrente chiedeva sostanzialmente che l’area di sua proprietà mutasse destinazione, da agricola a residenziale (cfr. 2 della ricorrente).

L’Amministrazione comunale respingeva l’osservazione, rilevando, nella propria controdeduzione, come l’esponente avesse modificato in via di fatto la destinazione, in violazione dell’impegno assunto ai sensi della legge regionale 93/1980 – oggi abrogata, le cui previsioni sono state però sostanzialmente riproposte nella legge regionale 12/2005 – sicché l’accoglimento dell’osservazione avrebbe realizzato di fatto una sorta di sanatoria dell’illecito edilizio (cfr. doc. 3 della ricorrente, per il testo della controdeduzione).

Ciò premesso, si rileva che nel primo motivo la decisione del Comune viene censurata per presunta violazione dell’art. 36 del DPR 380/2001 e degli articoli 2 e 3 della legge regionale 12/2005, in quanto – a detta dell’esponente – non vi sarebbe stato alcun cambio d’uso, giacché l’edificio già di proprietà del sig. B. avrebbe in ogni caso sempre mantenuto la propria destinazione residenziale.

Il mezzo è però privo di pregio, non potendosi accogliere l’interpretazione della legge regionale 93/1980 offerta dalla ricorrente: la finalità perseguita dal legislatore lombardo – confermata negli articoli da 59 a 62 della vigente legge regionale 12/2005 – è quella di mantenere e conservare le zone agricole o a destinazione agricola della Regione, attraverso la limitazione degli usi residenziali, ammessi soltanto se a servizio dell’impresa agricola, per impedire la definitiva ed irrimediabile perdita delle porzioni territoriali a vocazione rurale (su tale finalità, si veda TAR Lombardia, Milano, sez. II, 7.7.2011, n. 1843, oltre all’importante ordinanza della Corte Costituzionale n. 167/1995, di declaratoria della manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli articoli 2 e 3 della legge regionale 93/1980).

Tale scopo è reso evidente dal particolare procedimento previsto per gli interventi edificatori in zona agricola (ora disciplinato dall’art. 60 della LR 12/2005), caratterizzato dalla presentazione al Comune di un impegno al mantenimento della destinazione, da trascriversi nei pubblici registri e costituente un vero e proprio vincolo sull’immobile.

Tale vincolo non può venire meno se non in caso di variazione urbanistica dell’area interessata (così l’art. 60 della LR 12/2005 ma anche la pregressa LR 93/1980), essendo pertanto indifferenti, sul regime del vincolo, le eventuali vicende personali dell’imprenditore agricolo o dei suoi aventi causa.

D’altronde, se così non fosse, la disciplina regionale sulla conservazione e sul mantenimento delle aree agricole sarebbe facilmente elusa, ad esempio attraverso la cessione dell’immobile dall’imprenditore agricolo ad un soggetto privo di tale qualità, oppure mediante la cessazione dell’attività di impresa agricola.

Non può pertanto configurarsi, contrariamente a quanto sostenuto dall’esponente, una sostanziale assimilazione fra la ordinaria destinazione abitativa e la residenza a servizio dell’impresa agricola.

Sul punto preme ancora ribadire – e si perdoni l’ovvietà – che non è certamente vietata in senso assoluto la trasformazione di una zona da agricola a residenziale; nel caso di specie tuttavia, l’esponente giustifica la propria pretesa all’accoglimento della sua osservazione al PGT, sulla base dell’intervenuto mutamento di destinazione realizzato in via di fatto, dopo l’acquisto dell’immobile.

Non pare certo al Collegio che la signora L. possa reputarsi titolata ad esigere un simile cambio d’uso, visto anche l’orientamento della giurisprudenza amministrativa, che riconosce ai Comuni ampia discrezionalità nelle scelte urbanistiche – nel caso di specie si è trattato di confermare la destinazione agricola già esistente – scelte che richiedono una specifica motivazione solo in caso di affidamento qualificato del privato, rientrando in tale ultima ipotesi le situazioni di chi ha ottenuto un giudicato di annullamento di una precedente destinazione di zona ovvero di un diniego di titolo edilizio oppure ancora del silenziorifiuto formatosi su una domanda edilizia (si veda, sul punto, la ancora fondamentale decisione del Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 8.1.1986, n. 1).

Alle situazioni sopra indicate, viene inoltre equiparata la condizione del privato che ha stipulato accordi vincolanti con la Pubblica Amministrazione, quale ad esempio una convenzione di lottizzazione (cfr. sul punto, fra le tante, TAR Lombardia, Milano, sez. II, 24.2.2010, n. 452).

La posizione dell’esponente non rientra in nessuna di quelle sopra indicate, sicché la stessa non appare titolare di una particolare o qualificata posizione di affidamento nei confronti del Comune.

In conclusione, deve confermarsi il rigetto del primo motivo.

1.2 Nel secondo motivo, è denunciata la presunta violazione dell’art. 4 della legge regionale 1/2001 – oggi peraltro abrogato – che prevedeva che i requisiti soggettivi per il rilascio della concessione edilizia in zona agricola, di cui alla legge regionale 93/1980, non si applicassero alle opere di ristrutturazione edilizia ed agli ampliamenti consentiti dagli strumenti urbanistici.

Nel caso di specie, si continua in ricorso, il mutamento di destinazione d’uso sarebbe avvenuto senza opere, per cui dovrebbe ritenersi consentito ai sensi del citato art. 4.

Il mezzo non convince: l’art. 4 non pare infatti consentire il superamento delle disposizioni regionali di tutela e salvaguardia delle porzioni agricole del territorio, già sopra evidenziate, senza contare che gli interventi di cui all’articolo stesso sono quelli consentiti dagli strumenti urbanistici, mentre appare provato che la condotta della signora L. si sia posta in contrasto con questi ultimi.

1.3 Nel terzo motivo si denuncia la presunta contraddittorietà del comportamento comunale, che avrebbe avviato, senza concluderlo, un procedimento sanzionatorio nei confronti della ricorrente, salvo poi respingere l’osservazione al PGT, rimarcando un presunto illecito edilizio in capo alla ricorrente medesima.

La censura è infondata: la condotta inerte dell’Amministrazione non può certo essere equiparata all’ammissione della liceità del cambio d’uso, non essendovi stata alcuna esplicita manifestazione in tale senso della volontà del Comune; si ricordi poi che i poteri di vigilanza e repressione in materia edilizia e urbanistica (di cui all’art. 27 del DPR 380/2001), non sono soggetti a decadenza o prescrizione, per cui il decorso del tempo non può essere assimilato ad un implicito assenso all’attività costruttiva illecita del privato.

1.4 Nel quarto mezzo viene ribadita la presunta violazione dell’art. 3 della legge regionale 93/1980, sostenendosi che il Comune avrebbe potuto agevolmente, mediante lo strumento di pianificazione generale, rimuovere il vincolo di destinazione agricola, che del resto sarebbe decaduto in via di fatto per effetto della definitiva cessazione dell’attività di impresa agricola da parte del sig. B..

La censura è infondata, per le ragioni già sopra esposte al punto 1.1, che pare opportuno ribadire, seppure per sommi capi: il vincolo di asservimento della residenza a servizio dell’impresa agricola non è nella disponibilità di chi pone in essere l’atto di impegno, né sussiste decadenza del vincolo per cessazione dell’attività agricola o vendita dell’immobile; il vincolo appare necessario per la piena salvaguardia del patrimonio agricolo della Regione; gli strumenti urbanistici possono ovviamente disporre un motivato cambio d’uso ma la signora L., che ha realizzato di fatto tale mutamento in violazione dello strumento urbanistico, non ha alcuna pretesa tutelata a che il Comune, attraverso il PGT, adegui la situazione di diritto a quella di fatto illecitamente realizzata.

1.5 Nel quinto motivo, si lamenta il presunto eccesso di potere per errore di fatto o travisamento, per non avere l’Amministrazione considerato l’intervenuta scadenza del vincolo, all’atto di cessazione dell’attività agricola.

Anche tale motivo è privo di pregio e sul punto ci si permette di richiamare, per economia espositiva, quanto sopra esposto ai punti 1.1 e 1.4, ricordando altresì come la ricorrente fosse pienamente a conoscenza dell’esistenza del vincolo, richiamato espressamente nell’atto di acquisto dell’immobile di cui è causa.

1.6 Nel sesto ed ultimo motivo del gravame principale, viene denunciata la presunta violazione da parte del Comune dell’art. 36 del DPR 380/2001, in quanto, a detta dell’esponente, lo strumento urbanistico comunale potrebbe anche sanare un abuso edilizio.

Il mezzo non può però trovare accoglimento, in quanto – con specifico riferimento alla presente fattispecie – non appare né illogico né arbitrario che l’Amministrazione, nel confermare la vocazione agricola dell’area dell’esponente, abbia escluso di utilizzare lo strumento urbanistico quale improprio mezzo per realizzare una sorta di surrettizia sanatoria, che avrebbe finito così di fatto per eliminare l’abuso posto in essere dall’esponente.

E’ del resto escluso dallo stesso art. 36, citato dalla ricorrente, che la sola conformità dell’opera abusiva allo strumento urbanistico sopravvenuto consenta la sanatoria dell’abuso, essendo invece necessaria anche la conformità allo strumento vigente al momento di esecuzione dell’opera (c.d. doppia conformità).

Infine, in merito alla nota del legale del Comune dell’8.8.2001 (doc. 1 della ricorrente in data 1.9.2011), la stessa non avalla in alcun modo il comportamento dell’esponente, visto che il difensore dell’Amministrazione indica chiaramente a quest’ultima come appaia insuperabile il vincolo pattizio gravante sulla costruzione della ricorrente.

In conclusione, il ricorso principale deve interamente rigettarsi.

2. Il ricorso per motivi aggiunti deve reputarsi invece irricevibile, per tardività della notificazione del medesimo, ai sensi dell’art. 35 del D.Lgs. 104/2010 ("Codice del processo amministrativo"), come del resto rilevato dalla parte resistente nella propria memoria difensiva.

Con il suindicato ricorso, infatti, non sono stati impugnati nuovi atti amministrativi, ma sono state introdotte nuove censure contro i provvedimenti già gravati in via principale, secondo quanto previsto dall’art. 43, comma 1°, primo periodo, del D.Lgs. 104/2010 ("I ricorrenti… possono introdurre con motivi aggiunti nuove ragioni a sostegno delle domande già proposte…").

L’occasione per la proposizione dei suddetti motivi aggiunti è stato il deposito, da parte della scrivente Sezione, della sentenza n. 1526/2010, nella quale sono state affrontate talune complesse questioni in ordine al rapporto fra la pianificazione urbanistica comunale, realizzata attraverso il PGT, e la procedura di valutazione ambientale strategica (VAS).

Tuttavia, reputa il Collegio che le doglianze contro il PGT per l’eventuale inosservanza della disciplina sulla VAS avrebbero dovuto essere introdotte con il ricorso originario, trattandosi di motivi che potevano (e dovevano), essere individuati – e prospettati – a partire dal momento della rituale pubblicazione del PGT e dei connessi atti relativi alla procedura di VAS.

Il semplice deposito di una sentenza, ancorché innovativa, relativa alla procedura da ultimo indicata ed ai suoi rapporti con la pianificazione generale, non può considerarsi una circostanza sopravvenuta (quale potrebbe essere invece, ad esempio, la scoperta di atti amministrativi prima ignorati), che giustifichi la proposizione di motivi aggiunti.

La ragione storica dell’introduzione di questi ultimi nel giudizio amministrativo consiste proprio nel permettere al ricorrente di estendere le censure già svolte nel gravame principale, a fronte del sopravvenire di documenti non conoscibili originariamente oppure – secondo lo schema che fu adottato dalla legge 205/2000 – per impugnare nello stesso giudizio provvedimenti connessi con quello già impugnato.

Non pare – però – possibile introdurre con motivi aggiunti censure che attengono all’atto già gravato e che sono fondate su una nuova valutazione dei vizi di legittimità del medesimo, valutazione condotta però soltanto alla luce di sopravvenute decisioni giurisprudenziali.

In conclusione, i motivi aggiunti addotti nel presente giudizio appaiono irrimediabilmente tardivi, trattandosi di censure che dovevano essere proposte unitamente al ricorso principale, nell’ordinario termine di decadenza di sessanta giorni, decorrente dall’intervenuta pubblicazione della delibera consiliare (24 marzo 2010, cfr. doc. 1 della ricorrente), mentre gli stessi sono stati presentati alla notificazione il 16 luglio 2010.

3. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo a favore del Comune, mentre non occorre provvedere nei confronti della Provincia, non costituita in giudizio.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Seconda)

definitivamente pronunciando sul ricorso e sui motivi aggiunti, come in epigrafe proposti, respinge il ricorso principale e dichiara irricevibile il ricorso per motivi aggiunti.

Condanna la ricorrente al pagamento a favore del Comune delle spese di causa, che liquida in euro 2.000,00 (duemila/00), oltre accessori di legge (IVA e CPA).

Nulla sulle spese per il resto.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cons. Stato Sez. IV, Sent., 15-12-2011, n. 6604 Competenza e giurisdizione del giudice ordinario Indennità di espropriazione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con la sentenza in epigrafe impugnata il Tribunale amministrativo regionale del Lazio – Sede di Roma – ha dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione il ricorso proposto dalla odierna appellante Società A. C. S.r.l volto ad ottenere l’annullamento dei provvedimenti nn. 26253 e 26256 del 30 aprile 2004 resi dal Dirigente del Dipartimento IX – Ufficio espropri del Comune di Roma, con i quali si era avvertita la predetta della possibilità di accettare le indennità provvisorie di esproprio ovvero di convenire la cessione volontaria.

Il Tribunale amministrativo si è dichiarato carente di giurisdizione ed ha dichiarato inammissibile il ricorso sul rilievo che erano state impugnate esclusivamente le due note con cui era stata comunicata la determinazione delle indennità provvisorie di esproprio, e che dette determinazioni erano sottoposte dalla vigente normativa alla giurisdizione del Giudice ordinario.

La società originaria ricorrente, rimasta soccombente, ha impugnato la detta decisione chiedendone la riforma e sostenendo che doveva ammettersi la possibilità di far valere attraverso l’impugnazione di detti provvedimenti determinativi dell’indennità di esproprio vizi propri della procedura espropriativa in quanto già con la emissione di detti provvedimenti il bene di pertinenza del privato subisce un decremento economico.

Ha poi riproposto le doglianze di merito contenute nel mezzo di primo grado e non esaminate dal primo giudice.

Con memoria depositata l’8 novembre 2011 l’appellante ha puntualizzato e ribadito le proprie censure facendo presente che essa poteva anche godere del beneficio della remissione in termini per impugnare il provvedimento di esproprio medio tempore emesso, in quanto ivi non erano stati indicati né il termine entro cui era possibile proporre impugnazione né l’autorità giurisdizionale competente.

L’appellata amministrazione comunale ha depositato una memoria chiedendo la reiezione dell’appello, richiamando il disposto di cui all’art. 53 comma 3 del dPR 8 giugno 2001 n. 327, e chiedendo altresì che gli ulteriori motivi venissero dichiarati inammissibili perché genericamente formulati.

All’adunanza camerale del 24 gennaio 2006 fissata per la delibazione sulla domanda di sospensione dell’esecutività dell’appellata decisione, la Sezione, con ordinanza n. 285/2006, ha respinto l’istanza di sospensione cautelare della sentenza ritenendo che "non ricorrono i presupposti per la sospensione della sentenza appellata, tenuto anche conto del contenuto degli atti originariamente impugnati nonché del profili del danno"

Alla pubblica udienza del 6 dicembre 2011 la causa è stata posta in decisione.

Motivi della decisione

1. L’appello è infondato e va respinto.

2. L’appellante ripropone in appello, e per di più in modo generico, censure avverso atti diversi da quelli originariamente gravati in primo grado, sostenendo che, stante l’unicità della procedura espropriativa l’impugnativa proposta avverso gli atti di determinazione provvisoria dell’indennità di esproprio si estenderebbero anche agli atti successivamente emessi (ovvero ad essi antecedenti), lamentando in questa sede, sostanzialmente, di non avere avuto notizia, in passato, degli atti dichiarativi della pubblica utilità dell’opera sottesi alla provvisoria determinazione dell’indennità.

3.Contrariamente a quanto dedotto, evidenzia il Collegio che la pacifica giurisprudenza amministrativa ("In tema di determinazione dell’indennità di esproprio, il giudizio di opposizione alla stima, avendo ad oggetto la quantificazione del debito dell’espropriante e del corrispondente credito dell’espropriato, inerisce a posizioni di diritto soggettivo ed è, quindi, devoluto alla giurisdizione del g.o., ancorché proposto come impugnazione del provvedimento di stima volto a contestare la sua legittimità o la ritualità dell’"iter" procedimentale in esito al quale esso è stato reso, giacché la stima costituisce espressione di mera valutazione tecnica nell’applicazione di criteri liquidatori direttamente fissati dalla legge, e non è, pertanto, atto suscettibile di degradare o di affievolire le posizioni soggettive che vengono in discussione nel giudizio di opposizione."

Consiglio Stato, sez. IV, 05 ottobre 2005, n. 5344) e la giurisprudenza della Corte regolatrice della giurisdizione (ex multis, Cassazione civile, sez. un., 14 dicembre 2004, n. 23235) ravvisano in tali ipotesi (e quale che siano i vizi dell’atto dedotti) la giurisdizione del giudice ordinario.

E’ pacifico, infatti, che il decreto di determinazione provvisoria dell’indennità d’espropriazione, concerne materia spettante alla cognizione del giudice ordinario, in quanto coinvolge questioni di diritto soggettivo.

3.1.Stabilisce infatti l’art. 53 (nel testo applicabile ratione temporis alla presente controversia) che "Sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi per oggetto gli atti, i provvedimenti, gli accordi e i comportamenti delle amministrazioni pubbliche e dei soggetti ad esse equiparati, conseguenti alla applicazione delle disposizioni del testo unico. Si applicano le disposizioni dell’articolo 23bis della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, come introdotto dall’articolo 4 della legge 21 luglio 2000, n. 205 per i giudizi aventi per oggetto i provvedimenti relativi alle procedure di occupazione e di espropriazione delle aree destinate all’esecuzione di opere pubbliche o di pubblica utilità. Resta ferma la giurisdizione del giudice ordinario per le controversie riguardanti la determinazione e la corresponsione delle indennità in conseguenza dell’adozione di atti di natura espropriativa o ablativa."

Sia la giurisprudenza del Consiglio di Stato ("in un giudizio diretto a contestare la legittimità del decreto di esproprio, il provvedimento di determinazione della entità della indennità dovuta all’espropriato non ha una sua autonomia, ma costituisce semplicemente uno degli atti necessariamente presupposti del decreto conclusivo del procedimento e, quindi, come atto in itinere non è impugnabile direttamente, a meno che se ne contesti la misura, che però è questione proponibile innanzi al giudice ordinario."Consiglio Stato, sez. IV, 23 marzo 2010, n. 1706)

che la giurisprudenza amministrativa di primo grado ("rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la controversia che ha ad oggetto l’impugnazione di un decreto che determina in via provvisoria l’ indennità di espropriazione. "T.A.R. Veneto Venezia, sez. I, 12 novembre 2003, n. 5685) escludono la scardinabilità del criterio di riparto fissato ex lege mercé la proposizione di censure che, seppur labialmente dirette contro gli atti determinativi dell’indennità di esproprio si pongono a monte, od a valle, del procedimento espropriativo e sono in realtà dirette ad avversare atti diversi.

4.Deve essere pertanto confermata la impugnata decisione declinatoria della giurisdizione e deve essere respinto l’odierno appello.

5. Le spese processuali seguono la soccombenza, e pertanto l’appellante società deve essere condannata al pagamento delle medesime in favore dell’appellata amministrazione, in misura che appare equo quantificare in Euro mille/00 (Euro 1000,00) oltre accessori di legge, se dovuti.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) definitivamente pronunciando sull’appello, numero di registro generale 8855 del 2005 come in epigrafe proposto, lo respinge.

Condanna l’appellante società al pagamento delle spese processuali in favore dell’appellata amministrazione, nella misura di Euro mille/00 (Euro 1000,00) oltre accessori di legge, se dovuti.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.