Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 13-06-2012, n. 9646 Indennità di anzianità e buonuscita

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1.- La sentenza attualmente impugnata – in accoglimento dell’appello dell’INPDAP avverso la sentenza del Tribunale dell’Aquila n. 60/2008 del 7 marzo 2008 e in riforma di tale ultima sentenza – rigetta la domanda di N.R. volta ad ottenere la riliquidazione dell’indennità di buonuscita, sulla base del trattamento economico principale e accessorio dei dirigenti di seconda fascia previsto per il personale dell’Area 1, in godimento al momento del collocamento a riposo, in conformità con quanto stabilito nella sentenza della Corte dei conti n. 602/06, che gli aveva riconosciuto il diritto alla riliquidazione del trattamento di quiescenza, nei suddetti termini.

La Corte d’appello dell’Aquila, per quel che qui interessa, precisa che:

a) preliminarmente va dichiarata l’infondatezza dell’eccezione di inammissibilità dell’appello proposta dal N., visto che l’atto di appello investe tutti gli aspetti della questione oggetto di causa e non è limitato al solo aspetto relativo al conferimento degli incarichi di reggenza;

b) nel merito l’appello va accolto, infatti i due incarichi dirigenziali di cui si tratta sono stati conferiti in via temporanea – e poi trasfusi in altrettanti contratti – per il tempo necessario alla copertura di posti vacanti, in base all’art. 24 del Regolamento di amministrazione dell’Agenzia delle Entrate (come ha riferito lo stesso ricorrente);

c) si è trattato, quindi, di incarichi sottoposti a precisi limiti temporali, rappresentati dal completamento delle procedure selettive di reclutamento del personale di livello dirigenziale;

d) lo stesso art. 24 cit. dispone che ai funzionari chiamati a ricoprire posti vacanti di dirigenti sia riconosciuto il trattamento economico previsto per i dirigenti, ma nulla dice in merito al trattamento previdenziale e quindi all’indennità di buonuscita, che ha natura previdenziale;

e) d’altra parte, non si può fare applicazione dell’art. 40 del c.c.n.l. Area dirigenti, invocato dal N., perchè esso si riferisce ai titolari della qualifica di dirigente, mentre il ricorrente è sempre rimasto estraneo all’Area dirigenziale, continuando a possedere la posizione economica C3 con qualifica di funzionario di 9 livello e questo conta per la liquidazione della buonuscita, ai sensi del D.P.R. n. 1032 del 1973, art. 38 come si desume anche da Cass. 11 giugno 2008, n. 15498, riguardante una fattispecie analoga a quella oggetto del presente giudizio.

2- Il ricorso di N.R. domanda la cassazione della sentenza per due motivi; resistono, con due diversi controricorsi, l’INPDAP e l’Agenzia delle Entrate.

Il N. deposita anche memoria ex art. 378 cod. proc. civ.

Motivi della decisione

1 – Profili preliminari.

1.- Preliminarmente deve essere precisato che, essendo la legittimazione, intesa come individuazione della parte capace processualmente, un presupposto necessario per la regolare costituzione del rapporto processuale in tutte le sue fasi, essa deve essere verificata ed è rilevabile di ufficio in ogni stato e grado del giudizio, compreso quello di cassazione, come questa Corte ha ripetutamente affermato (vedi per tutte: Cass. sentenze n. 914 del 1988; n. 5024 del 1995, nonchè Cass. 16 marzo 2009, n. 6348; Cass. 13 ottobre 2009, n. 21703; Cass. 2 dicembre 2011, n. 25813).

Ora, nella presente controversia risulta che nel giudizio di appello l’Agenzia delle Entrate ha chiesto la dichiarazione del passaggio in giudicato del capo della sentenza del Tribunale sul proprio difetto di legittimazione passiva o, in subordine, la conferma di tale capo della sentenza di primo grado.

Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, cui il Collegio intende dare continuità, il giudicato interno si determina allorchè la carenza di legittimazione sia stata appositamente denunciata e, quindi, sia stata espressamente negata dal giudice di merito ovvero sia rimasta senza esplicita risposta e tale omessa pronuncia non sia stata poi oggetto di appello (arg. ex Cass. 21 dicembre 2011. n. 28078; Cass. 17 luglio 2007, n. 15946).

Ne consegue che, nella specie, si deve ritenere che si sia formato il giudicato interno sul difetto di legittimazione passiva dell’Agenzia delle Entrate, non essendosi la Corte d’appello pronunciata sul capo della sentenza di primo grado che l’aveva dichiarata.

2- Sintesi dei motivi di ricorso.

2. Con il primo motivo di ricorso si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, nullità della sentenza per intervenuto passaggio in giudicato della sentenza di primo grado, in forza dell’art. 324 cod. proc. civ. Si rileva che nel ricorso introduttivo era stato precisato che: a) ai sensi del D.P.R. n. 1032 del 1973, art. 3 l’indennità di buonuscita del personale civile dello Stato va liquidata sulla base dell’ultimo stipendio o dell’ultima paga o retribuzione integralmente percepita;

b) nel caso di specie è stato stipulato un primo contratto in via provvisoria il 16 maggio 2001, nel quale è stato attribuito al ricorrente oltre allo stipendio di dirigente la retribuzione di posizione parte fissa e parte variabile del quarto livello dirigenziale; successivamente, con il contratto individuale di lavoro integrativo in data 6 marzo 2002, salve le restanti disposizioni, è stato conferito al N. l’incarico di direzione dell’Ufficio fiscalità della Direzione generale delle Entrate per l’Abruzzo corrispondente al terzo livello di posizione, con decorrenza dal 1 gennaio 2001 e fino alla individuazione del dirigente idoneo, con attribuzione del trattamento economico fondamentale ed accessorio in conformità delle vigenti disposizioni del c.c.n.l. per la dirigenza dell’area 1.

Conseguentemente nel ricorso suindicato è stato chiesto l’accertamento del diritto del ricorrente alla riliquidazione della indennità di buonuscita in considerazione del trattamento economico attribuito con il menzionato contratto integrativo e la condanna dell’INPDAP al pagamento della differenza tra quanto corrisposto e quanto dovuto a titolo di indennità di buonuscita.

Il Tribunale ha accolto il ricorso sulla base della giurisprudenza di legittimità, sottolineando che nella specie le componenti retributive in contestazione erano correlate alla professionalità del N., anche se non attribuite in via definitiva, visto che si trattava di un incarico di reggenza conferito con due contratti individuali, uno iniziale e uno integrativo.

Nell’atto di appello dell’INPDAP non è stato espressamente impugnato il capo della sentenza nel quale si fa espresso riferimento alla sopravvenuta contrattualizzazione dell’incarico dirigenziale, che rappresenta quello in base al quale è stato accolto il ricorso. Per tale ragione il N. ha sollevato un’eccezione di inammissibilità dell’appello sostenendo che su tale questione – assorbente – si era formato il giudicato interno. La Corte d’appello viceversa ha respinto l’eccezione ritenendo che l’appello fosse riferito a tutti gli aspetti della problematica in discussione.

Pertanto, si sostiene che la Corte aquilana sia pervenuta all’accoglimento di un appello che, invece, avrebbe dovuto dichiarare inammissibile. Quindi la sentenza attualmente impugnata dovrebbe essere dichiarata nulla perchè ha omesso di pronunciare sulla inappellabilità della sentenza per la preclusione derivante dal giudicato interno formatosi sul capo della sentenza di primo grado nel quale è stato posto in rilievo che la non precarietà della corresponsione delle voci stipendiali contestate dipendeva dalla sopravvenuta contrattualizzazione dell’incarico dirigenziale, che costituisce ragione da sola idonea a comportare l’attribuzione del trattamento economico richiesto e che non è stato espressamente contemplato nell’atto di appello.

3.- Con il secondo motivo di ricorso si denuncia: a) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione del D.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1032, artt. 3 e 38 con riferimento al D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 19; b) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, omessa o comunque insufficiente e contraddittoria motivazione circa fatti controversi e decisivi per il giudizio.

Si sostiene che la Corte territoriale ha applicato erroneamente il principio di diritto affermato da Cass. 11 giugno 2008, n. 15498 perchè la fattispecie esaminata in tale sentenza è quella dello svolgimento di mansioni superiori "in via di fatto", mentre nella presente controversia le mansioni dirigenziali sono state svolte dal ricorrente sulla base di formali atti di incarico, seguiti da la stipulazione di due contratti individuali con l’Agenzia delle Entrate, in base ai quali al N. è stato corrisposto il trattamento economico proprio dell’incarico dirigenziale conferito, sul quale sono state operate, in favore dell’INPDAP, le trattenute di legge finalizzate all’attribuzione della corrispondente indennità di buonuscita.

Infine, si sottolinea anche dal D.Lgs. n. 150 del 2009, art. 40 (non applicabile, ratione temporis) – secondo cui, ai fini della determinazione del trattamento pensionistico dei dipendenti statali titolari di incarichi di funzioni dirigenziali, resta fermo il D.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092, art. 43 in base al quale l’individuazione dell’ultimo stipendio corrisponde all’ultima retribuzione percepita in relazione all’incarico svolto – si può desumere che, in difetto di una specifica normativa di modifica, anche per la determinazione dell’indennità di buonuscita resta ferma la disposizione del D.P.R. n. 1032 del 1973, art. 38 che prevede, analogamente, che si debba fare riferimento all’ultimo stipendio, all’ultima paga o retribuzione.

3- Esame delle censure.

4.- Il primo motivo del ricorso deve essere respinto, per le ragioni di seguito precisate. 4.1,- In base a consolidati e condivisi orientamenti di questa Corte:

a) il giudicato interno si forma solo su capi autonomi della sentenza, che risolvano questioni aventi una propria individualità e autonomia, tali da integrare una decisione del tutto indipendente (Cass. 23 agosto 2007, n. 17935; Cass. 17 novembre 2008, n. 23747), non anche su quelli relativi ad affermazioni che costituiscano mera premessa logica della statuizione in concreto adottata (Cass. 30 ottobre 2007, n. 22863);

b) costituisce capo autonomo della sentenza, come tale suscettibile di formare oggetto di giudicato anche interno, quello che risolve una questione controversa, avente una propria individualità ed autonomia, sì da integrare astrattamente una decisione del tutto indipendente; la suddetta autonomia non solo manca nelle mere argomentazioni, ma anche quando si verte in tema di valutazione di un presupposto necessario di fatto che, unitamente ad altri, concorre a formare un capo unico della decisione (Cass. 17 novembre 2008, n. 23747; Cass. 30 ottobre 2007, n. 22863; Cass. 20 dicembre 2006, n. 27196);

c) ove non sia stata proposta impugnazione nei confronti di un capo della sentenza e sia stato, invece, impugnato un altro capo strettamente collegato al primo, è da escludere che sul capo non impugnato si possa formare il giudicato interno (vedi, per tutte:

Cass. 2 marzo 2010, n. 4934);

d) la violazione del giudicato interno si può verificare soltanto quando la sentenza di primo grado si sia pronunziata espressamente su una questione del tutto distinta dalle altre e tale specifica pronunzia non può considerarsi implicitamente impugnata allorchè il gravame sia proposto in riferimento a diverse statuizioni, rispetto alle quali la questione stessa non costituisca un antecedente logico e giuridico, così da ritenersi in esse necessariamente implicata, ma sia soltanto ulteriore ed eventuale e, comunque, assolutamente distinta (Cass. 3 dicembre 2008, n. 28739);

4.2- Nella specie, è del tutto evidente che il capo della sentenza – relativo alla sopravvenuta contrattualizzazione dell’incarico dirigenziale – sul quale si sarebbe formato il giudicato interno, non integra una decisione autonoma, ma piuttosto rappresenta un passaggio motivazionale della statuizione in concreto adottata.

Ne consegue che la mancata specifica impugnazione del suddetto passaggio motivazionale non può certamente configurare una situazione di formazione di un giudicato interno e quindi non incide sull’ammissibilità del ricorso e ancor meno può essere configurata come causa della prospettata nullità della sentenza o di omessa pronuncia, tanto più che la relativa eccezione è stata esaminata dalla Corte territoriale (e respinta, con congrua motivazione) e, d’altra parte, dall’atto di appello (consultabile in questa sede, dato il tipo di censura in argomento) risulta che l’INPDAP ha inteso impugnare integralmente la sentenza di primo grado e ne ha contestato la complessiva impostazione, come ha rilevato anche la Corte aquilana.

5.- Il secondo motivo è, invece, da accogliere.

5.1.- L’argomento principale su cui si fonda la decisione della Corte territoriale è quello secondo cui quando si garantisce a chi svolge "temporaneamente" un incarico di funzione dirigenziale senza averne la qualifica il trattamento economico corrispondente all’incarico svolto non si ricomprende l’indennità di buonuscita che ha natura previdenziale e non retributiva.

Tale assunto non può essere condiviso per molteplici ragioni.

Com’è noto, da tempo, la Corte costituzionale ha sottolineato che, attraverso l’ampio processo di assimilazione tendente a permeare l’intero assetto del rapporto di lavoro dipendente iniziato con il D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, le indennità di fine rapporto, nonostante le diversità di regolamentazione, costituiscono ormai, una categoria unitaria connotata da identità di natura e funzione e dalla generale applicazione a qualunque tipo di rapporto di lavoro subordinato e a qualunque ipotesi di cessazione del medesimo, affermando, in particolare, che ad esse va riconosciuta l’essenziale natura di retribuzione differita, pur se legata ad una concorrente funzione previdenziale (Corte cost.: sentenze n. 458 del 2005; n. 91 del 2004; n. 243 e n. 99 del 1993; n. 439 e n. 63 del 1992; n. 319 del 1991 e n. 471 del 1989).

Peraltro, parallelamente, anche nella giurisprudenza di questa Corte si è affermato – e progressivamente consolidato – l’orientamento secondo cui nel pubblico impiego privatizzato la buonuscita dei dipendenti ha natura retributiva e la relativa determinazione deve essere effettuata tenendo conto di ogni elemento di natura retributiva che, avendo i caratteri dell’obbligatorietà, della continuità e della determinatezza (o determinabilità) rientri nella nozione di retribuzione normale o di fatto (arg. ex Cass. 18 febbraio 1992, n. 1979; Cass. 28 marzo 2007, n. 7596), pur specificandosi, con riguardo ai dipendenti statali, che deve escludersi che, ai fini del ragguaglio dell’indennità medesima, possano comprendersi emolumenti diversi da quelli tassativamente previsti dal combinato disposto del D.P.R. n. 1032 del 1973, artt. 3 e 38 o da leggi speciali, non potendo interpretarsi le locuzioni "stipendio", "paga" o "retribuzione", nel senso generico di retribuzione omnicomprensiva riferibile a tutto quanto ricevuto dal lavoratore in modo fisso o continuativo e con vincolo di corrispettività con la prestazione, attesa la specifica enumerazione degli assegni, computabili a tal fine, operata dal legislatore (vedi in tal senso, da ultimo: Cass. 16 febbraio 2012, n. 2259; Cass. 25 ottobre 2011, n. 22125).

Non va, del resto, dimenticato che, come già più volte sottolineato da questa Corte, il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 63 ha compreso tra le controversie devolute al giudice ordinario in funzione di giudice del lavoro riguardanti i rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, ad eccezione di quelle relative ai rapporti di lavoro di cui al comma 4 anche quelle concernenti le indennità di fine rapporto, comunque denominate e corrisposte (Cass. SU 2 luglio 2008, n. 18038; Cass. SU 24 dicembre 2009, n. 27305). Nè va omesso di considerare che, anche in precedenza, i giudizi relativi all’indennità di buonuscita non sono mai stati devoluti alla giurisdizione della Corte dei conti (che si occupa delle controversie nella materia pensionistica del settore pubblico), ma al Giudice amministrativo (arg. ex Corte dei Conti, sez. giur. Regione Lombardia, 1 aprile 1995, n. 314).

Ne risulta confermato che l’indennità di buonuscita – al pari delle alle indennità di fine rapporto, variamente denominate – dei dipendenti statali e del pubblico impiego privatizzato pur realizzando una funzione di tipo previdenziale ha natura retributiva ed è commisurata alla base contributiva dell’ultima retribuzione percepita (Cass. SU 30 ottobre 2008, n. 26019).

Il riferimento alla "percezione" del trattamento economico comporta, per gli statali, che, in base al principio ricavabile dal combinato disposto del D.P.R. n. 1032 del 1973, artt. 3, 37 e 38 è necessario, ai fini del computo della buonuscita, che vi sia corrispondenza fra corrispettivo utile all’effetto predetto ed assoggettamento dello stesso al contributo previdenziale obbligatorio (Cons. Stato, sez. 6, 4 giugno 2009, n. 3438; Cons. Stato 28 maggio 2009, n. 3305).

5.2.- Stabilita la natura retributiva dell’indennità di buonuscita, va precisato che, come ripetutamente affermato anche dalla giurisprudenza costituzionale, il principio di proporzionalità della retribuzione, di cui all’art. 36 Cost., richiede che il temporaneo svolgimento delle mansioni superiori sia sempre aggiuntivamente compensato rispetto alla retribuzione della qualifica di appartenenza (sentenze n. 101 del 1995, n. 296 del 1990 e n. 57 del 1989), ma non impone la piena corrispondenza al complessivo trattamento economico di chi sia titolare di quelle funzioni i appartenendo ad un ruolo diverso previo oggettivamente accertamento, con apposita selezione concorsuale, della relativa maggiore qualificazione professionale, significativa di una più elevata qualità del lavoro prestato (sentenze n. 115 del 2003 e n. 273 del 1997), perchè le prestazioni lavorative effettuate possono non risultare pienamente omogenee.

Da ciò si desume, a contrario, che nell’ipotesi di reggenza conferita per un posto vacante di dirigente per il periodo necessario all’espletamento delle procedure di selezione per la copertura del posto stesso con attribuzione del relativo trattamento economico se la reggenza prosegue per un periodo eccessivamente lungo e nel frattempo il dipendente matura i requisiti per il collocamento a riposo, nel computo dell’indennità di buonuscita non si può non tenere conto, come ultimo trattamento economico percepito, di quello corrisposto per il suddetto incarico dirigenziale, anche se a titolo di reggenza.

Va, infatti, ricordato che, in base ad altrettanto consolidati e condivisi indirizzi di questa Corte:

a) in materia di pubblico impiego contrattualizzato – come si evince anche dal D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 56, comma 6, nel testo, sostituito dal D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 25 e successivamente modificato dal D.Lgs. n. 387 del 1998, art. 15 ora riprodotto nel D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 32 l’impiegato cui sono state assegnate, al di fuori dei casi consentiti, mansioni superiori (anche se corrispondenti, in ipotesi, ad una qualifica di due livelli superiori a quella di inquadramento) ha diritto, in conformità alla giurisprudenza della Corte costituzionale (tra le altre, sentenze n. 908 del 1988; n. 57 del 1989; n. 236 del 1992; n. 296 del 1990), ad una retribuzione proporzionata e suffieiente ai sensi dell’art. 36 Cost.;

b) tale principio deve trovare integrale applicazione senza sbarramenti temporali di alcun genere, sempre che le mansioni superiori assegnate siano state svolte, sotto il profilo quantitativo e qualitativo, nella loro pienezza, e sempre che, in relazione all’attività spiegata, siano stati esercitati i poteri ed assunte le responsabilità correlate a dette superiori mansioni (Principio di diritto enunciato ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 1, per la particolare importanza della questione di diritto risolta, da Cass. SU 11 dicembre 2007. n. 25837, cui si sono uniformate: Cass. 11 giugno 2009, n. 13597; Cass. SU 23 aprile 2008, n. 10454; Cass. 30 dicembre 2009, n. 27887);

c) in particolare, in tema di reggenza da parte del personale appartenente alla qualifica C3 del pubblico ufficio sprovvisto temporaneamente del dirigente titolare, il D.P.R. n. 266 del 1987, art. 20 (contenente le norme risultanti dalla disciplina prevista dall’accordo del 26 marzo 1987 concernente il Comparto del personale dipendente dei Ministeri), deve essere interpretato, ai fini del rispetto del canone di ragionevolezza e dei principi generali di tutela del lavoro (artt. 35 e 36 Cost.; art. 2103 cod. civ. e D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52), nel senso che l’ipotesi della reggenza costituisce una specificazione dei compiti di sostituzione del titolare assente o impedito, contrassegnata dalla straordinarietà e temporaneità ("in attesa della destinazione del dirigente titolare"), con la conseguenza che a tale posizione può farsi luogo in virtù della suddetta specifica norma regolamentare, senza che si producano gli effetti collegati allo svolgimento di mansioni superiori, solo allorquando sia stato aperto il procedimento di copertura del posto vacante e nei limiti di tempo ordinariamente previsti per tale copertura, cosicchè, al di fuori di tale ipotesi, la reggenza dell’ufficio concreta svolgimento di mansioni dirigenziali. Nè, a tal fine, assume rilievo la disposizione di cui all’art. 24 del c.c.n.l. del 16 febbraio 1999 Comparto Ministeri- personale non dirigente che nel disciplinare il trattamento retributivo conseguente all’attribuzione di mansioni immediatamente superiori alla qualifica di appartenenza – riguarda la diversa ipotesi di sostituzione di dirigenti assenti temporaneamente (Cass. SU 16 febbraio 2011, n. 3814);

d) il D.P.R. 8 maggio 1987, n. 266, art. 20 (contenente le norme risultanti dalla disciplina prevista dall’accordo del 26 marzo 1987 concernente il Comparto del personale dipendente dei Ministeri), in tema di reggenza da parte del personale appartenente alla nona qualifica funzionale del pubblico ufficio sprovvisto temporaneamente del dirigente titolare, deve essere interpretato, ai fini del rispetto del canone di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. e dei principi generali di tutela del lavoro (artt. 35 e 36 Cost.; art. 2103 cod. civ. e D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52), nel senso che l’ipotesi della reggenza costituisce una specificazione dei compiti di sostituzione del titolare assente o impedito, contrassegnata dalla straordinarietà e temporaneità ("in attesa della destinazione del dirigente titolare"), con la conseguenza che a tale posizione può farsi luogo in virtù della suddetta specifica norma regolamentare, senza che si producano gli effetti collegati allo svolgimento di mansioni superiori, solo allorquando sia stato aperto il procedimento di copertura del posto vacante e nei limiti di tempo ordinariamente previsti per tale copertura, cosicchè, al di fuori di tale ipotesi, la reggenza dell’ufficio concreta svolgimento di mansioni dirigenziali. Peraltro, l’art. 24, comma 4, del c.c.n.l. del Comparto Ministeri per il quadriennio 1998-2001 – che la Corte di cassazione può interpretare direttamente ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 63, comma 5, anche nelle clausole che non hanno costituito oggetto di censura da parte del ricorrente con il quale le parti hanno disciplinato il conferimento delle mansioni immediatamente superiori, non si riferisce all’ipotesi dell’assegnazione delle mansioni dirigenziali a dipendente non in possesso della relativa qualifica, atteso che la previsione pattizia si limita, al primo comma, a fornire una regolamentazione per la sola parte demandata alla contrattazione e, al sesto comma, richiama espressamente la disciplina legale per quanto non previsto. Il conferimento delle mansioni dirigenziali a dipendenti non in possesso della relativa qualifica resta, pertanto, regolato dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52, comma 5, con conseguente diritto del lavoratore alla differenza di trattamento economico (Principio affermato ai sensi dell’art. 360- bis c.p.c., comma 1, da Cass. 6 giugno 2011, n. 12193, nello stesso senso: Cass. 26 marzo 2010, n. 7342);

e) il medesimo principio è stato affermato con riguardo ad un incarico di reggenza di un ufficio dirigenziale sprovvisto di titolare svolto da un dipendente statale appartenente alla nona qualifica funzionale protrattosi per un quinquennio (dal 1995 al 2000), riconoscendosi il diritto del reggente alla retribuzione correlata alle mansioni superiori svolte nelle more del lungo intervallo temporale trascorso per la copertura del menzionato posto e soggiungendosi che la situazione non si poteva considerare mutata per effetto della nuova classificazione attuata dal c.c.n.l. del Comparto Ministeri del 16 febbraio 1999, non ricomprendendosi tra le mansioni proprie del profilo relativo alla posizione economica C3 le funzioni di reggenza del ruolo dirigenziale (Cass. 17 aprile 2007, n. 9130);

f) nello stesso senso, in una analoga situazione di reggenza, da parte del personale appartenente alla nona qualifica funzionale, del pubblico ufficio sprovvisto, temporaneamente, del dirigente titolare, si è stabilito che, nel caso concreto, non assumeva importanza determinare l’arco temporale congruo per l’espletamento della procedura concorsuale in quanto il posto era rimasto vacante dal 1992 al 2000, periodo sicuramente superiore ad ogni tollerabile spatium deliberandi (Cass. 9 settembre 2008, n. 22932);

g) lo svolgimento di mansioni rientranti in una qualifica superiore, pur non avendo effetto ai fini dell’inquadramento del lavoratore, rileva, alle condizioni stabilite dalla legge (da ultimo: D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 52), ai fini della maturazione del diritto alle relative differenze retributive, anche nel caso in cui le mansioni non rientrino nella qualifica immediatamente superiore ma in quelle ulteriori, dovendo essere corrisposta al lavoratore in ogni caso una retribuzione proporzionata al lavoro prestato ex art. 36 Cost. (Cass. 23 febbraio 2009, n. 4367);

h) il diritto al compenso per Io svolgimento di fatto di mansioni superiori, da riconoscere nella misura indicata nel D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52, comma 5, non è condizionato alla sussistenza dei presupposti di legittimità di assegnazione delle mansioni o alle previsioni dei contratti collettivi, nè all’operatività del nuovo sistema di classificazione del personale introdotto dalla contrattazione collettiva, posto che una diversa interpretazione sarebbe contraria all’intento del legislatore di assicurare comunque al lavoratore una retribuzione proporzionata alla qualità del lavoro prestato, in ossequio al principio di cui all’art. 36 Cost. (Cass. 18 giugno 2010, n. 14775);

i) nell’ambito del pubblico impiego contrattualizzato, il conferimento di mansioni dirigenziali a un funzionario è illegittimo, ma, ove tali mansioni vengano di fatto svolte con le caratteristiche richieste dalla legge, ovvero con l’attribuzione in modo prevalente sotto il profilo qualitativo, quantitativo e temporale, dei compiti propri di tali mansioni, il lavoratore ha comunque diritto al corrispondente trattamento economico (Cass. 12 aprile 2006, n. 8529; Cass. 27 aprile 2007, n. 10027; Cass. 6 luglio 2007, n. 16469);

j) nell’ambito del pubblico impiego contrattualizzato, la rilevanza delle specifiche caratteristiche delle posizioni organizzative a livello dirigenziale e delle relative attribuzioni regolate dal contratto di incarico non impedisce l’applicazione della disciplina relativa all’esercizio dell’espletamento di fatto di mansioni superiori da parte di un funzionario, con il corrispondente diritto al relativo trattamento economico, ma a tal fine non è sufficiente il provvedimento di incarico, occorrendo invece l’allegazione e la prova della pienezza delle mansioni assegnate, sotto il profilo qualitativo e quantitativo, in relazione alle concrete attività svolte e alle responsabilità attribuite (Cass. 19 aprile 2007, n. 9328).

5.3.- Dall’insieme dei richiamati principi si trae conferma del fatto che, nella specie, non può essere negato al N. il diritto azionato in quanto: 1) l’incarico di funzione dirigenziale non generale in oggetto è stato conferito con appositi contratti (quindi, in base alla disposizione omologa, ratione temporis, rispetto al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 19, comma 6, nonchè in base alla corrispondente disciplina di settore) nei quali è stata prevista l’attribuzione del "trattamento economico fondamentale e accessorio in conformità alle vigenti disposizioni del c.c.n.l. per la dirigenza dell’Area 1" (e non semplicemente la corresponsione della retribuzione di posizione relativa all’ufficio dirigenziale, in aggiunta allo stipendio tabellare della qualifica di appartenenza);

2) è pacifico e non contestato che il N. ha svolto pienamente le mansioni proprie dell’ufficio dirigenziale stesso, sotto il profilo qualitativo e quantitativo, con riguardo alle connesse e concrete attività poste in essere e alle responsabilità attribuite; 3) l’incarico è stato conferito con decorrenza 1 gennaio 2001 e "fino all’individuazione del dirigente idoneo" a ricoprire il posto vacante "temporaneamente" coperto dal N.; 4) N. è cessato dal servizio in data 5 luglio 2004, quando stava ancora svolgendo il suddetto incarico di funzione dirigenziale.

A ciò va aggiunto che l’Amministrazione finanziaria ha goduto, fin dal D.L. 28 marzo 1997, n. 79, art. 12 convertito con modificazioni dalla L. 28 maggio 1997, n. 140, di un regime di favore in ordine alla possibilità di attribuire, per motivate esigenze funzionali, reggenze di uffici di livello dirigenziale non generale a dipendenti appartenenti alla nona e all’ottava categoria.

Con l’avvento delle Agenzie fiscali tale regime non è mutato, ma, poichè il 1 gennaio 2001, le Agenzie sono diventate Amministrazioni autonome, per le suddette situazioni si deve fare riferimento anche alle specifiche regolamentazioni di cui ciascuna Agenzia si è dotata.

Nel regolamento di amministrazione dell’Agenzia delle Entrate, approvato con delibera del Comitato direttivo n. 4 del 30 novembre 2000 (pubblicato nella Gazzetta ufficiale n. 36 del 13 febbraio 2001) dal combinato disposto dell’art. 12, comma 6, e dell’art. 24 (intitolato: "Copertura provvisoria di posizioni dirigenziali") si desume che in caso di assenza di un dirigente per un periodo di tempo superiore ad un mese ovvero per la copertura dei posizioni dirigenziali vacanti all’atto del proprio avvio, l’Agenzia può stipulare, previa specifica valutazione di idoneità a ricoprire provvisoriamente l’incarico, contratti individuali di lavoro a termine con propri funzionari, con l’attribuzione dello stesso trattamento economico dei dirigenti, con l’obbligo di avviare nei sei mesi successivi" la procedura selettiva, salve eventuali vacanze sopravvenute.

Ne deriva che nella fattispecie in esame nella quale ricorrono tutti gli elementi in base ai quali nella giurisprudenza di questa Corte è stata affermata la sussistenza del diritto del "reggente" alla corresponsione del trattamento economico corrispondente alla mansioni superiori svolte, ivi compresa la durata dell’incarico per un periodo sicuramente superiore ad ogni tollerabile spatium deliberandi – a maggior ragione deve essere riconosciuta la fondatezza della pretesa del N., ove si consideri, da un lato, che egli, al momento della cessazione del servizio, si trovava nella posizione di incaricato di un ufficio dirigenziale sulla base di un contratto e, quindi, in applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 19, comma 6, – che gli conferiva il diritto di percepire il trattamento economico corrispondente all’incarico dirigenziale stesso e, dall’altro lato,i che l’incarico medesimo si è protratto per un periodo di tempo molto lungo e senz’altro maggiore rispetto a quello che la stessa Agenzia delle Entrate aveva previsto quando aveva assunto l’obbligo di avviare le procedure selettive per coprire le posizioni dirigenziali vacanti "nei sei mesi successivi" alla stipulazione dei contratti per la copertura provvisoria delle suddette posizioni.

Nè può essere messo in dubbio che la suddetta situazione si rifletta anche – per quanto si è osservato prima – sulle modalità di calcolo dell’indennità di buonuscita, per le quali non si può non tenere conto, come ultimo; trattamento economico percepito, di quello corrisposto per il suddetto incarico dirigenziale, anche se a titolo peraltro, solo nominalmente – temporaneo, tanto più che non è in contestazione che questo trattamento è stato assoggettato al corrispondente contributo previdenziale obbligatorio.

4 – Conclusioni.

6.- Per le suesposte ragioni il primo motivo di ricorso deve essere respinto e il secondo deve, invece, essere accolto.

La sentenza impugnata deve essere, pertanto, cassata, in relazione al motivo accolto. Trattandosi di cassazione della sentenza impugnata per violazione di norme di diritto e non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa, a norma dell’art. 384 c.p.c., comma 2, può essere decisa nel merito, con la dichiarazione del diritto di N.R. alla riliquidazione della indennità di buonuscita sulla base del trattamento economico di dirigente di seconda fascia, previsto per il personale dell’Area 1 c.c.n.l. dirigenti Comparto Ministeri (stipendio, r.i.a., retribuzione di posizione) applicabile ratione temporis alla data del collocamento a riposo e con la conseguente condanna dell’INPDAP al pagamento sia della differenza fra il suindicato importo dovuto e quello concretamente corrisposto sia dei corrispondenti interessi legali.

L’INPDAP va anche condannato al pagamento, in favore di N. R., delle spese processuali dell’intero processo, nella misura liquidata – rispettivamente per i vari gradi del giudizio – in dispositivo.

In considerazione del divario di decisioni registratosi in merito alla posizione assunta nel presente giudizio dall’Agenzia delle Entrate e alla globale complessità delle questioni trattate, si ritiene ricorrano giustificate ragioni per disporre la compensazione delle spese dell’intero processo nei confronti dell’Agenzia stessa.

P.Q.M.

La Corte accoglie il secondo motivo del ricorso e rigetta il primo.

Cassa la sentenza impugnata, in relazione al motivo accolto, e decidendo nel merito: 1) dichiara il diritto di N.R. alla riliquidazione della indennità di buonuscita sulla base del trattamento economico di dirigente di seconda fascia, previsto per il personale dell’Area I c.c.n.l. dirigenti Comparto Ministeri (stipendio, r.i.a., retribuzione di posizione) applicabile ratione temporis alla data del collocamento a riposo; 2) condanna l’INPDAP al pagamento della differenza fra l’importo dovuto sub e quello corrisposto, oltre agli interessi legali; 3) condanna l’INPDAP al pagamento delle spese processuali in favore del ricorrente, liquidate, rispettivamente, in:

a) Euro 1800,00 (milleottocento/00), di cui Euro 1000,00 (mille/00) per onorari, oltre IVA e CPA per il giudizio di primo grado;

b) Euro 2000,00 (duemila/00), di cui Euro 1200,00 (milleduecento/00) per onorari, oltre IVA e CPA per il giudizio di secondo grado;

c) Euro 40,00 (quaranta/00) per esborsi, oltre Euro 2500,00 (duernilacinquecento/00) per onorari, oltre IVA, CPA e spese generali per il giudizio di cassazione. Compensa le spese dell’intero giudizio nei confronti della Agenzia delle Entrate.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione lavoro, il 15 marzo 2012.

Depositato in Cancelleria il 13 giugno 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. I, Sent., 11-07-2012, n. 11642

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Nel corso del 2000, l’istituto di credito italiano B. C. s.p.a. si determinò, con l’assistenza di R. s.p.a. quale advisor, alla acquisizione dell’istituto di credito tedesco E. A.G., il cui capitale sociale era posseduto, per oltre il 68%, dalla famiglia S., anche per mezzo della holding omonima. Avendo costoro preteso di effettuare la cessione delle proprie partecipazioni in contanti, si concordò che l’operazione sarebbe avvenuta mediante aumento di capitale della B. con esclusione del diritto di opzione, da coprire con conferimento in natura delle azioni E. da eseguirsi: i) da parte dell’azionista tedesco, il quale avrebbe immediatamente rivenduto le azioni B. di nuova emissione a soggetti che avevano già dichiarato la loro disponibilità all’acquisizione; ii) ovvero, a scelta dell’azionista tedesco, da parte dei predetti soggetti, che avrebbero dal medesimo acquistato le azioni E. per poi immediatamente conferirle nel capitale B. ricevendo le azioni di nuova emissione secondo il rapporto di concambio stabilito sulla base della valutazione del conferimento, eseguita da R. s.p.a. con l’intervento di K.P.M.G. s.p.a. quale società di revisione. Di tale gruppo di investitori privati faceva parte anche la E.I. s.a., società di diritto lussemburghese costituita ad hoc dalla famiglia F. di Reggio Emilia per l’operazione, la quale acquistò dalla S. B. azioni E. – che conferì immediatamente nel capitale B. – per un importo di Euro 20 milioni.
Nel maggio 2005, F.L. e E.I. s.a. convennero in giudizio, dinanzi al Tribunale di Milano, la R. s.p.a., la K.P.M.G. s.p.a. ed il revisore B.M.D. per sentire affermare la loro responsabilità, contrattuale o extracontrattuale, in via solidale o autonoma, in relazione ai danni ad essi attori derivati dalla operazione sopra descritta, per le minusvalenze sui titoli B. che assumevano derivate dalla operazione in questione. I convenuti si costituirono e chiesero tutti il rigetto delle domande proposte nei loro confronti; R. chiamò anche in causa i soggetti che erano succeduti a B. a seguito della scissione avvenuta nel 2002, cioè C. s.p.a. e F. s.p.a., per sentirsi da essi manlevare, in base ad apposita clausola del contratto con il quale B. le aveva conferito l’incarico in questione, dalle conseguenze negative e da tutti gli oneri che derivassero dall’eventuale accoglimento delle domande proposte nei suoi confronti. C. e F., costituitesi, sollevarono alcune eccezioni preliminari, e nel merito chiesero il rigetto della domanda. Il Tribunale di Milano, con sentenza del giugno 2006, respinse le domande proposte nei confronti di R., di K.P.M.G. e del B. dal F. e da E.I.. Interponevano appello questi ultimi, insistendo nelle domande proposte nei confronti degli originari convenuti. Si costituiva in giudizio R., chiedendo il rigetto del gravame e, in via di appello incidentale subordinato, la condanna di C., anche quale incorporante di F., alla manleva nei propri confronti. C., costituendosi in giudizio e resistendo al gravame, proponeva appello incidentale per la declaratoria di inammissibilità della chiamata in causa eseguita nei suoi confronti, dell’incompetenza del Tribunale di Milano e comunque per il rigetto, anche per carenza di legittimazione passiva, della domanda di manleva.
Con sentenza depositata il 24 febbraio 2010 e notificata in data 1 aprile 2010, la Corte d’appello di Milano ha integralmente confermato la sentenza del Tribunale, compensando parzialmente le spese del grado tra F. e E.I., da una parte, e R., KPMG e B. dall’altro, e compensando integralmente le spese tra R. e C.. La Corte milanese ha ritenuto che le censure mosse alla sentenza di primo grado siano ingiustificate, e che le valutazioni espresse in tale pronunzia meritino piena conferma. In particolare, ha condiviso le considerazioni del primo giudice sulla non configurabilità nella specie di una responsabilità contrattuale degli originari convenuti sotto i profili dedotti (per la mancanza di un rapporto di mandato con gli attori, e il difetto dei presupposti propri della responsabilità da contatto sociale), ed evidenziato comunque la infondatezza degli addebiti mossi dagli attori circa l’inadempimento di R. ai doveri di diligenza nell’espletamento dell’attività di consulenza e assistenza svolta su incarico di B., con riferimento sia alla valutazione della partecipazione da acquisire (che venne peraltro confermata dalla Pricewaterhouse nella relazione di stima dei conferimenti ex art. 2343 c.c. e dalla Banca d’Italia che autorizzò l’operazione di aumento), sia alla rilevazione e segnalazione di tutte le informazioni disponibili ed esigibili, rilevanti ai fini dell’investimento. Ha parimenti escluso che R. avesse svolto attività di intermediario nel collocamento delle azioni B. di nuova emissione presso gli investitori privati, in conflitto di interessi. Ed ha infine evidenziato come debba escludersi anche una responsabilità extracontrattuale per aver indotto gli attori all’investimento in questione, tenendo presente che il F., in virtù delle funzioni svolte (componente del Consiglio di amministrazione e del Comitato Esecutivo della B., della quale era socio) e della competenza in materia, era informato della operazione ben prima della sua approvazione da parte del Consiglio di Amministrazione, e d’altra parte E.I. (strumento operativo della famiglia F.) aveva già sottoscritto l’impegno di acquisto con il socio di riferimento tedesco prima della relazione effettuata sui contenuti dell’operazione stessa da R. al gruppo di investitori di Reggio Emilia, del quale il F. faceva parte. Avverso tale sentenza, F.C. e E.I., con atto notificato il 28 maggio 2010, hanno proposto ricorso a questa Corte, cui resistono con controricorso K.P.M.G. s.p.a.
unitamente a B.M.D., e R. s.p.a..
Quest’ultima in subordine, nel caso di accoglimento del ricorso e di decisione nel merito ex art. 384 c.p.c., insiste nella domanda, ritenuta assorbita dalla Corte di merito, di manleva nei confronti di U., quale incorporante di C., a sua volta incorporante di F. Group s.p.a. U. s.p.a. resiste al ricorso principale con controricorso e formula ricorso incidentale – cui a sua volta resiste con controricorso R. – in ordine alla disposta compensazione delle spese. F. e E.I., nonchè U., hanno depositato memorie difensive.

Motivi della decisione

1. Deve, innanzitutto, disporsi la riunione a norma dell’art. 335 cod. proc. civ. dei ricorsi, proposti avverso la medesima sentenza.
2. Il ricorso proposto da F.L. e da E.I. s.a. è basato su otto motivi. Con il primo si censura, sotto il profilo della violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto (articoli 13 e 2331 cod. civ.) nonchè del vizio di motivazione, la statuita "assoluta assimibilabilità" della posizione di E.I. s.a. a quella di F.L., che trascurerebbe i principi fondamentali dell’autonomia giuridica e patrimoniale delle società di capitali (l’assetto proprietario della suddetta società anonima essendo peraltro riferibile non solo a F.L. ma alla intera famiglia), e non considererebbe che gli odierni ricorrenti hanno chiesto che la responsabilità di R., KPMG e B. venga accertata non solo nei confronti di F.L. ma anche – e forse soprattutto – nei confronti di E.I., e quindi nei confronti di tutti i soggetti che parteciparono all’investimento subendone rilevantissime perdite.
2.1 La censura è priva di fondamento, sotto entrambi i profili denunciati. Ritenere "assimilabili" due posizioni giuridiche non significa affatto negare che si tratti di posizioni distinte ed autonome, bensì al contrario presupporlo implicitamente. D’altra parte, le ragioni evidenziate dalla sentenza impugnata a supporto di tale assimilabitità di posizioni (è pacifico che si tratta di società costituita dalla famiglia F. al solo scopo di partecipare all’operazione in questione) non sono, a ben vedere, oggetto della critica esposta nel motivo, che in definitiva non supera la soglia di un’astratta (oltre che irrilevante, per quanto detto) affermazione di principio, priva di specifiche considerazioni in ordine ad eventuali elementi di prova, dei quali il giudice di merito non avrebbe tenuto conto, idonei a smentire quella assimilabilità di posizioni e quindi ad escludere la estensibilità ad E.I. delle considerazioni in base alle quali si è ritenuto che il F. non sia stato indotto all’investimento in questione da R..
3. Con il secondo motivo, si denuncia la violazione di norme di diritto (art. 112 cod. proc. civ., artt. 1173, 1218, 1326, 1350, 1730, 1710, 2028 e 2030 cod. civ.), nella quale la Corte di merito sarebbe incorsa verificando la configurabilità di una responsabilità contrattuale di R. nei confronti degli odierni ricorrenti solo sulla base del contratto di mandato concluso con B., così omettendo di esaminare se R. avesse concluso, di fatto, anche con essi un autonomo contratto di mandato, o se avesse assunto le obbligazioni che, a norma del codice civile, gravano su colui che scientemente, senza esservi obbligato, assume la gestione di un affare altrui.
L’omessa considerazione di tali fattispecie integrerebbe dunque, secondo i ricorrenti, sia violazione delle norme che le prevedono sia violazione del dovere di pronunciare su tutta la domanda. Con il terzo motivo, prospettano anche, sugli stessi punti, il vizio di omessa o insufficiente motivazione.
3.1. Entrambi i motivi – la cui stretta connessione ne consiglia l’esame congiunto – sono inammissibili, per novità delle questioni con essi proposte.
L’orientamento consolidato di questa Corte è nel senso che ove determinate questioni giuridiche o temi d’indagine, che implichino accertamenti di fatto non compiuti dal giudice del merito, non risultino trattate in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga tali questioni in sede di legittimità ha l’onere, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità delle censure, non solo di allegare l’avvenuta deduzione delle questioni innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di controllare in base agli atti la veridicità di tale asserzione prima di esaminare nel merito le questioni stesse (cfr., ex multis: Sez. L n. 20518/08; Sez. 1 n. 18440/07; Sez. 3 n. 14590/05). A tale orientamento il Collegio intende dare qui continuità, evidenziando come le censure in esame introducano per la prima volta temi di indagine relativi, da un lato, ad un contratto di mandato diverso da quello risultante dedotto in sede di merito e sul quale si è pronunciata la sentenza impugnata, dall’altro alla sussistenza nella specie delle condizioni di fatto richieste per il sorgere di una obbligazione di fonte legale, quale quella per gestione di affari altrui, che parimenti non risulta dedotta in sede di merito, essendo peraltro radicalmente distinta dalle obbligazioni di fonte volontaria la cui violazione costituisce la causa petendi della domanda proposta.
4. Con il quarto motivo si censura, sotto il profilo della violazione di norme di diritto (artt. 1173, 1218 e 1326 cod. civ.) nonchè del vizio di motivazione, la ritenuta esclusione della ricorrenza nella specie dei presupposti per il sorgere a carico di R. di una responsabilità da "contatto sociale" nei confronti dei ricorrenti.
Sostengono che, al contrario, dal mandato, ricevuto da R., di consulenza in operazioni riguardanti il pubblico risparmio deriverebbero a carico di quest’ultima obblighi di protezione, oltre che nei confronti della mandante B., anche nei confronti di coloro che sarebbero stati i coutilizzatori di tale attività, peraltro non equiparabili a qualunque terzo attesa la qualità, rivestita dal F., di consigliere di amministrazione e azionista di B.. 4.1. La doglianza è priva di fondamento, sotto entrambi i profili denunciati. Non è invero sufficiente, per l’affermazione di una responsabilità contrattuale da "contatto sociale", la sola circostanza di fatto di essere investiti – come gli odierni ricorrenti – da conseguenze riflesse di un’attività svolta su incarico conferito da altri (cfr. Sez. 3 n. 14934/02). L’applicazione del disposto dell’art. 1218 cod. civ. oltre i confini propri del contratto ad ogni altra ipotesi in cui un soggetto sia gravato da un’obbligazione preesistente, quale che ne sia la fonte, si giustifica considerando che quando l’ordinamento impone a determinati soggetti, in ragione della attività (o funzione) esercitata e della specifica professionalità richiesta a tal fine dall’ordinamento stesso, di tenere in determinate situazioni specifici comportamenti, sorgono a carico di quei soggetti, in quelle situazioni previste dalla legge, obblighi (essenzialmente di protezione) nei confronti di tutti coloro che siano titolari degli interessi la cui tutela costituisce la ragione della prescrizione di quelle specifiche condotte. Dire che, in tali situazioni, la responsabilità deriva dal mero "contatto" serve ad evidenziare la peculiarità della fattispecie distinguendola dai casi nei quali la responsabilità contrattuale deriva propriamente da contratto (cioè dall’assunzione volontaria di obblighi di prestazione nei confronti di determinati soggetti), ma non deve far dimenticare che essenziale per la configurabilità della responsabilità in esame è la violazione di obblighi preesistenti di comportamento posti a carico di un soggetto dalla legge per la tutela di specifici interessi di coloro che entrano in contatto con l’attività di quel soggetto, che la legge stessa regola, tanto più ove il fondamento normativo della responsabilità in esame si individui – come da taluni si ritiene – nel riferimento, contenuto nell’art. 1173 cod. civ., agli altri atti o fatti idonei a produrre obbligazioni in conformità dell’ordinamento giuridico. In tal senso appare orientata la ormai ultradecennale giurisprudenza di questa Corte, che ha ravvisato la sussistenza della responsabilità in esame in una varietà di casi accomunati dalla violazione di obblighi di comportamento, preesistenti alla condotta lesiva, posti dall’ordinamento a carico di determinati soggetti. Simili situazioni sono state ravvisate, in genere, nell’ambito dell’esercizio di attività professionali cd.
protette – cioè riservate dalla legge a determinati soggetti, previa verifica della loro specifica idoneità, e sottoposte a controllo nel loro svolgimento – quali quelle non solo di medico ospedaliero o di mediatore o di avvocato (cfr. rispettivamente: S.U. n. 577/08; Sez. 3 n. 16382/09; S.U. n. 6216/05) ma anche di banchiere (nel caso, esaminato dalla nota S.U. n. 14712/07, della responsabilità della banca negoziatrice di assegno bancario nei confronti di tutti gli interessati alla corretta circolazione del titolo). Sulla base del medesimo iter logico-giuridico, la sussistenza di un contatto sociale qualificato è stata ravvisata anche al di fuori di tali ambiti, come nel caso dell’insegnante dipendente di Istituto scolastico ritenuto contrattualmente responsabile, in solido con l’Istituto, dei danni prodotti a sè stesso dall’allievo, per violazione di specifici obblighi di protezione e vigilanza posti a suo carico nell’ambito della attività di istruzione (cfr. Sez. 3 n. 5067/10).
Nel caso in esame, difetta per l’appunto – come la Corte di merito ha, sia pure sinteticamente, affermato – il predetto elemento essenziale, non essendo stata neppure dedotta dagli odierni ricorrenti la violazione di specifici obblighi preesistenti posti dalla legge a carico di R. in ragione della attività da essa svolta nella specie. L’attività di advisor, cioè di consulente, da essa svolta in base all’incarico ricevuto da soggetto distinto dagli odierni ricorrenti non è riconducibile a quella regolata dalla legge – dell’intermediario finanziario (la Corte di merito ha peraltro escluso una intermediazione nel collocamento presso gli investitori senza che, sul punto, il ricorso abbia indicato precisi elementi di prova del contrario che non siano stati considerati nella sentenza);
e d’altra parte l’affermazione della pretesa sua responsabilità contrattuale richiederebbe l’individuazione – che nella specie non è dato riscontrare nella prospettazione dei ricorrenti – della violazione di uno o più specifici obblighi posti dall’ordinamento a suo carico in ragione della sua attività, non essendo a tal fine apprezzabile il generico riferimento alla tutela costituzionale del risparmio. Il rigetto della censura in esame ne deriva dunque di necessità.
5. Resta assorbito nelle considerazioni che precedono – che mantengono ferma la non configurabilità nella specie di una responsabilità contrattuale di R. nei confronti degli odierni ricorrenti – il sesto motivo di ricorso, con il quale vengono censurate, sotto il profilo della violazione di legge (artt. 1175, 1176 e 1375 cod. civ.) e del vizio di motivazione, le ulteriori ragioni indicate dalla Corte di Milano circa l’infondatezza, anche nel merito, della domanda di accertamento della suddetta responsabilità contrattuale per l’insussistenza delle dedotte violazioni dei doveri di correttezza, diligenza e buona fede nell’espletamento dell’attività di consulenza e assistenza svolta da R. su incarico di B.. 6. Il quinto ed il settimo motivo hanno ad oggetto la statuita esclusione di una responsabilità extra contrattuale di R. nei confronti dei ricorrenti.
6.1. Con il quinto, viene denunciata l’omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione in ordine alla questione, sollevata dagli odierni ricorrenti, della qualificazione della operazione di acquisizione in questione come fattispecie a formazione progressiva;
questione che, contrariamente a quanto si adduce nel ricorso, la Corte di Milano ha ritenuto non decisiva, tenendo presente che il F., in virtù delle funzioni svolte (componente del Consiglio di amministrazione e del Comitato Esecutivo della B., della quale era socio) e della competenza in materia, era informato della operazione ben prima della sua approvazione da parte del Consiglio di Amministrazione alla fine di giugno 2000, e d’altra parte E.I. (come detto strumento operativo della famiglia F. per l’operazione) aveva già, il 12 luglio 2000, sottoscritto l’impegno di acquisto per 20 milioni di Euro con il socio di riferimento tedesco quando, il 20 luglio 2000, R. presentò i contenuti dell’operazione stessa al gruppo di investitori di Reggio Emilia del quale il F. faceva parte. Lamentano i ricorrenti che, in tal modo, la Corte di merito avrebbe escluso il nesso causale tra la condotta della resistente ed i danni da essi subiti, trascurando l’evoluzione progressiva che l’operazione di acquisizione ha avuto.
6.2. Ritiene il Collegio che la motivazione in esame non meriti le censure esposte in ricorso, avendo il giudice di merito, nella valutazione discrezionale ad esso riservata, congruamente e coerentemente evidenziato – non solo ai fini del nesso causale, bensì della individuazione stessa di una condotta colposa rilevante ex art. 2043 c.c. – come la determinazione da parte dei ricorrenti all’acquisizione risulti, anche (ma non solo) sotto il profilo della successione temporale, indipendente dall’attività di R.. Non appaiono idonei a condurre a diverse conclusioni gli argomenti che i ricorrenti oppongono: che cioè l’impegno all’acquisto di azioni E. sia stato modificato da E.I. con altra scrittura sottoscritta il 27 luglio 2000 – ma non si contesta che fosse già stato assunto per iscritto il 12 -; o che comunque si trattasse di mero impegno preliminare e prodromico – ma non lo si dimostra con riferimento a specifici elementi di prova -; o che l’acquisto sia stato perfezionato solo nel gennaio 2001 – ma l’impegno era stato già consapevolmente assunto, e oltretutto la sua violazione avrebbe comportato rilevanti conseguenze patrimoniali negative a carico dei ricorrenti. La censura non può dunque trovare accoglimento.
6.3 Altrettanto vale per il settimo motivo, con i quale si torna a censurare, sotto i profili della erronea applicazione dell’art. 2043 cod. civ. e del vizio di motivazione, l’esclusione di una responsabilità extra contrattuale di R.. Da un lato, manca nella illustrazione del motivo ogni riferimento ad una erronea ricognizione, nella sentenza impugnata, del contenuto normativo dell’art. 2043; dall’altro, trattasi di censura in fatto, che si mostra priva di puntuali riferimenti alle fonti di prova, ed al relativo contenuto, che il giudice di merito non avrebbe considerato nell’escludere l’ipotesi della induzione dei ricorrenti all’investimento, e che invece sarebbero decisive per confermarla.
7. Infine con l’ottavo motivo i ricorrenti denunciano la violazione di norme di diritto (D.Lgs. n. 58 del 1998, artt. 158 e 164) e la omessa motivazione del rigetto della domanda di accertamento della responsabilità di KPMG s.p.a. e di B.M. per la loro condotta di sostanziale adesione – anche nei pareri rilasciati sulla congruità del prezzo di emissione delle azioni B. in sede di aumento di capitale – alle valutazioni espresse dall’advisor R. in relazione alla complessiva operazione E., condotta costituente, secondo la pospettazione esposta in ricorso, inadempimento agli obblighi di legge inerenti all’incarico di revisione della contabilità di B.. 7.1. Anche questa censura non merita accoglimento. In linea generale, la motivazione del rigetto appare implicitamente espressa con le considerazioni puntualmente esposte nella sentenza impugnata (pagg.12- 14) circa la genericità e l’infondatezza degli addebiti rivolti dagli odierni ricorrenti a R. in ordine ad una negligente esecuzione dell’incarico ricevuto, tanto sotto il profilo della valutazione di E. quanto sotto quello della complessiva valutazione dei rischi dell’operazione. Invero tali considerazioni appaiono logicamente idonee ad escludere anche una responsabilità del revisore sotto i profili esposti in ricorso. D’altra parte, con tale esposizione i ricorrenti non hanno adempiuto all’onere, su di essi incombente, di precisare il contenuto delle censure da essi proposte, in atto di appello, avverso la sentenza di primo grado con riguardo alla posizione di KPMG e del B., in tal modo precludendo a questa Corte di legittimità la verifica – senza procedere ad una non consentita indagine sugli atti di causa – in ordine alla ammissibilità della censura esposta in ricorso. Censura che quindi, così espressa, è inapprezzabile perchè generica.
8. Privo di fondamento è anche l’unico motivo di ricorso incidentale, con il quale U. s.p.a. censura, sotto il profilo della violazione di norma di diritto (art. 91 cod. proc. civ.) e del vizio di motivazione, la statuita compensazione delle spese di lite di primo grado tra C. s.p.a. (cui la ricorrente è succeduta) e R.. La scelta di avvalersi della facoltà di compensazione prevista dall’art. 92 cod. proc. civ. è rimessa (tanto più alla stregua del testo della norma applicabile nella specie ratione temporis, senza le modifiche introdotte dalla L. n. 69 del 2009) alla valutazione discrezionale del giudice del merito ed è quindi sindacabile in sede di legittimità solo ove le ragioni esposte a sostegno di tale scelta appaiano manifestamente il logiche o contraddittorie. Ciò che, nella specie, va senz’altro escluso, atteso che le ragioni indicate dalla Corte territoriale a sostegno della compensazione integrale delle spese tra C. e R. (le questioni da esse rispettivamente proposte non hanno formato oggetto di decisione, essendo la domanda di manleva rimasta assorbita) non appaiono nè prive di logica (non vi è una parte soccombente, e d’altra parte R. si è avvalsa di un proprio diritto, a fronte di una pretesa nei suoi confronti che la Corte ha giudicato non temeraria) nè in contrasto con la parziale compensazione delle spese disposta tra R. e gli attori (dalla quale non è dato desumere alcuna implicita statuizione di responsabilità della predetta per le spese di lite sostenute da C.).
9. Le spese di questo grado di giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo, con la compensazione tra U. e i ricorrenti principali, che non hanno formulato domande nei suoi confronti.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta. Condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese di questo giudizio di cassazione in favore di R. s.p.a., spese che liquida in Euro 50.000,00 per onorari e Euro 200,00 per esborsi oltre spese generali ed accessori di legge, e in eguale somma in favore di K.P.M.G. s.p.a. e B.. Compensa le spese tra i ricorrenti e U. s.p.a.
Condanna U. s.p.a. al pagamento delle spese in favore di R. s.p.a., in Euro 2.000,00 per onorari e Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Prima Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 31 gennaio 2012.
Depositato in Cancelleria il 11 luglio 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cons. Stato Sez. VI, Sent., 24-01-2011, n. 472

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo
La società "L.S. Impresa di Costruzioni" s.r.l. riferisce di aver partecipato (in qualità di capogruppo mandataria di un’A.T.I. costituenda con la ditta "D.P. Azienda Agricola" e con il Prof. R.M. – d’ora innanzi: "l’A.T.I. L." -) alla gara di appalto indetta nel luglio del 2006 dalla Soprintendenza per i beni archeologici delle province di Napoli e Caserta per l’affidamento dei lavori di valorizzazione dell’anfiteatro e di restauro di varie altre aree all’interno del Parco archeologico di C..
Risulta agli atti che in data 11 gennaio 2007 l’offerta presentata dall’A.T.I. L. risultò essere la migliore fra quelle in gara e che, pertanto, l’A.T.I. in questione fu dichiarata aggiudicataria in via provvisoria dell’appalto, fatte salve le verifiche di legge.
All’indomani dell’aggiudicazione provvisoria, l’Amministrazione procedente richiese all’A.T.I. prima classificata alcune informazioni ed integrazioni in ordine agli elementi costitutivi dell’offerta (in particolare, in relazione ai costi di utilizzazione e di manutenzione).
L’A.T.I. L. provvedeva a fornire le giustificazioni, ma l’Amministrazione aggiudicatrice con provvedimentto in data 30 marzo 2007 comunicava di averla esclusa dalla gara avendo ritenuto il carattere anomalo ed ingiustificato dell’offerta di gara, "in quanto i costi di manutenzione presentati appaiono notevolmente sottostimati e pertanto anomali" (art. 86 d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163).
Il provvedimento di esclusione veniva impugnato innanzi al Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania dall’A.T.I. L., la quale chiedeva l’annullamento della determinazione espulsiva adottata a proprio carico (ricorso n. 2363/07).
A seguito dell’esclusione dell’A.T.I. L. dalla gara, l’Amministrazione aggiudicatrice provvedeva ad individuare quale aggiudicataria dell’appalto l’A.T.I. costituita fra la società C.G. s.r.l. (capogruppo, mandataria), la soc. G.E.P. s.a.s. di M.C. & c., la soc. M.M. & c. s.a.s. e la soc. S. s.r.l. (d’ora innanzi: "l’A.T.I. C.’).
Il provvedimento di aggiudicazione della gara in favore dell’A.T.I. C. veniva impugnato dall’A.T.I. L. con motivi aggiunti nell’ambito del ricorso pendente innanzi al Tribunale amministrativo per la Campania e recante il n. 2363/07.
Con ricorso incidentale proposto nell’ambito del medesimo ricorso, l’A.T.I. C. impugnava sotto numerosi profili gli atti con i quali l’Amministrazione aggiudicatrice aveva omesso di escludere dalla gara l’A.T.I. L. anche per ragioni diverse dalla rilevata anomalia dell’offerta.
Con sentenza 11 gennaio 2008, n. 163 il Tribunale amministrativo adìto così decideva sul ricorso n. 2363/07:
– accoglieva il ricorso proposto in via principale dall’A.T.I. L. (e, conseguentemente, annullava il provvedimento di esclusione adottato in data 30 marzo 2007 per ragioni di anomalia);
– respingeva il ricorso incidentale proposto dall’A.T.I. C., ritenendo non fondati i motivi di impugnativa proposti avverso la mancata esclusione dalla gara dell’A.T.I. L..
La sentenza veniva appellata dal Ministero per i beni e le attività culturali (ricorso n. 4439/2008), il quale ne chiedeva l’integrale riforma articolando plurimi motivi di doglianza.
Si costituiva in giudizio la soc. L.S. (in proprio e nella qualità di capogruppo mandataria dell’omonima A.T.I. costituenda), la quale concludeva nel senso della reiezione del gravame.
Si costituiva, altresì, in giudizio la soc. C.G. s.r.l. (in proprio e nella qualità di capogruppo mandataria dell’A.T.I. C.), la quale concludeva nel senso dell’accoglimento del gravame.
All’indomani della sentenza n. 163 del 2008, la Commissione di gara, riunitasi il 4 marzo 2008, non procedeva sic et simpliciter all’aggiudicazione della gara in favore dell’A.T.I. L., ma deliberava di richiedere alla Commissione di prequalifca di procedere nuovamente alla verifica in ordine al possesso dei requisiti di partecipazione delle imprese (ivi compresa l’A.T.I. L.).
La determinazione veniva impugnata dall’ATI L. con un ricorso ai sensi dell’art. 33 l. 6 dicembre 1971, n. 1034. Nell’occasione, l’ATI ricorrente chiedeva:
a) che fosse ordinato all’Amministrazione di provvedere con atti espressi a dare attuazione agli obblighi conformativi rinvenienti dalla sentenza n. 163/2008;
b) che fosse dichiarata la nullità del richiamato verbale per la parte in cui veniva richiesta la rinnovazione della verifica in ordine ai requisiti di partecipazione (e non si procedeva direttamente all’aggiudicazione della gara in favore dell’A.T.I. L.);
c) che fosse assegnato un termine all’Amministrazione per provvedere ad adottare gli atti e le determinazioni dinanzi richiamati sub a) e b).
Con sentenza n. 3052 del 30 aprile 2008, il Tribunale amministrativo così decideva sul ricorso:
– lo accoglieva per la parte in cui si era chiesto all’Amministrazione di provvedere con atti espressi a dare esecuzione alla sentenza n. 163 del 2008;
– lo respingeva per la parte in cui era stata chiesta la declaratoria di nullità del verbale della Commissione, con cui si era statuito di provvedere ad una nuova verifica in ordine al possesso dei requisiti di partecipazione in capo alle partecipanti alla gara (e si era disattesa la pretesa dell’A.T.I. L. volta alla diretta aggiudicazione dell’appalto).
Al riguardo il giudice osservava che non potesse dirsi precluso all’Amministrazione di procedere in sede conformativa alla riconsiderazione di profili non incisi dalla sentenza di annullamento n. 163 del 2008 e comunque afferenti allo stesso procedimento, il quale – peraltro – non era ancora pervenuto alla sua naturale e fisiologica conclusione (attraverso l’aggiudicazione definitiva).
A seguito dell’ulteriore inerzia dell’Amministrazione, l’A.T.I. L. richiedeva la nomina di un Commissario ad acta il quale, sostituendosi all’Amministrazione inadempiente, adottasse in proprio favore l’invocato provvedimento di aggiudicazione definitiva.
Il Tribunale amministrativo provvedeva nel senso richiesto dall’A.T.I. L. e conseguentemente il Commissario ad acta (avendo ritenuto -inter alia – che il raggruppamento in questione fosse in possesso dei necessari requisiti di partecipazione) adottava in data 13 gennaio 2009 il provvedimento di aggiudicazione definitiva della gara in favore dell’A.T.I. L..
Il provvedimento veniva impugnato dall’A.T.I. C. con distinto ricorso innanzi al Tribunale amministrativo regionale per la Campania, recante il n. 3031/09. Nell’occasione la ricorrente contestò che, nel disporre l’aggiudicazione in favore dell’A.T.I. L., il Commissario ad acta non avesse tenuto in adeguata considerazione il fatto che l’aggiudicataria avrebbe dovuto essere esclusa dalla gara per non essere state indicate le quote di partecipazione delle singole società aderenti all’A.T.I. costituenda.
Con sentenza n. 1929 del 13 aprile 2010, il Tribunale amministrativo così accoglieva il ricorso n. 3031/09 e, conseguentemente, disponeva l’annullamento dell’aggiudicazione in favore dell’A.T.I. L. della gara per cui è causa.
Nell’occasione, il giudice – in via di estrema sintesi – osservava:
– che era fondato il motivo di esclusione fondato sulla circostanza per cui l’A.T.I. L. non aveva indicato in sede di domanda di partecipazione le quote delle singole partecipanti al raggruppamento (in tal modo violando le prescrizioni di cui all’art. 37 d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163);
– che il richiamato profilo di esclusione era ammissibile in quanto – per un verso – l’interesse a lamentare la mancata esclusione dell’A.T.I. L. si era radicato in capo all’ATI C. solo in seguito al’aggiudicazione della gara in favore della contro interessata ed in quanto – per altro verso – il motivo di esclusione relativo alla mancata indicazione delle quote di partecipazione nel raggruppamento era stato conosciuto dall’A.T.I. C. solo in data successiva all’adozione della sentenza n. 163 del 2008;
– che non era rilevante ai fini del decidere la circostanza per cui il richiamato motivo di esclusione non era stato rilevato nell’ambito del precedente giudizio (ricorso n. 2363/07), in quanto l’interesse concreto a dedurlo era sorto soltanto con il provvedimento di aggiudicazione definitiva disposto dal Commissario ad acta.
La sentenza veniva appellata dall’A.T.I. L., la quale ne chiedeva la riforma (ricorso n. 4869/2010), articolando i seguenti motivi:
1) Erroneità della sentenza appellata nella parte in cui ha ritenuto ammissibile il motivo di ricorso dedotto dall’ATI C. per far valere l’illegittimità dell’aggiudicazione definitiva disposta in favore dell’ATI L. derivante dalla mancata indicazione preventiva delle quote di partecipazione al raggruppamento da parte delle imprese costituenti lo stesso;
2) Erroneità della sentenza appellata nella parte in cui ha accolto, nel merito, il motivo di ricorso dedotto dall’ATI C. per far valere l’illegittimità dell’aggiudicazione definitiva disposta in favore dell’ATI L. derivante dalla mancata indicazione preventiva delle quote di partecipazione al raggruppamento da parte delle imprese costituenti lo stesso.
Si costituiva in giudizio la soc. C.G. s.r.l. (in proprio e nella qualità di capogruppo mandataria dell’A.T.I. C.), la quale concludeva nel senso della reiezione del gravame.
All’udienza pubblica del 5 novembre 2010 i procuratori costituiti in entrambi i giudizi (ricorso n. 4439/2008 e n. 4869/2010) rassegnavano le conclusioni e i ricorsi venivano trattenuti in decisione.
Motivi della decisione
1. Giunge alla decisione del Collegio il ricorso in appello n. 4439/2008, proposto dal Ministero per i beni e le attività culturali avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Campania con cui è stato accolto il ricorso n. 2363/07 proposto da un’A.T.I. costituenda la quale aveva partecipato alla gara di appalto indetta nel luglio del 2006 dalla Soprintendenza per i beni Archeologici delle Province di Napoli e Caserta per l’affidamento di alcuni lavori e, per l’effetto, sono stati annullati gli atti con cui era stata disposta l’esclusione di tale raggruppamento dalla gara per anomalia dell’offerta.
Giunge, altresì, alla decisione del Collegio il ricorso in appello n. 4869/2010 della capogruppo mandataria della richiamata A.T.I. costituenda avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Campania con cui, in accoglimento del ricorso proposto da un’altra partecipante alla medesima gara, è stato disposto l’annullamento del provvedimento di aggiudicazione adottato dal Commissario ad acta nominato a seguito della favorevole sentenza sul ricorso n. 2363/07.
2. In primo luogo si ritiene di disporre la riunione degli appelli per evidenti ragioni di connessione oggettiva e soggettiva (art. 70 C.p.a.).
3. Il Collegio riconosce priorità alla trattazione del ricorso in appello n. 4869/2010, in quanto il suo esame assume rilievo assorbente rispetto alla disamina delle questioni coinvolte dal ricorso n. 4439/2008.
In particolare, sulla base della complessa vicenda fattuale, appare evidente che potrebbe residuare un interesse per il Ministero per i beni e le attività culturali alla decisione dell’appello n. 4439/2008 solo nell’ipotesi in cui venisse riformata la decisione del primo giudice (impugnata con il ricorso in appello n. 4869/2010) con cui è stata disposta l’esclusione dalla gara dell’A.T.I. L., vittoriosa nel giudizio sfociato nel giudizio di appello n. 4439/2008.
4. Con il primo motivo di appello nell’ambito del ricorso n. 4869/2010, l’A.T.I. L. lamenta che la sentenza n. 1929/2010 sia meritevole di riforma per non avere il primo giudice rilevato un profilo di inammissibilità del ricorso di primo grado proposto dall’A.T.I. C. (n. 3031/2009) avverso il provvedimento del Commissario ad acta che aveva disposto l’aggiudicazione della gara in favore dell’ATI L..
In particolare, l’appellante osserva che il ricorso n. 3031/2009 avrebbe dovuto essere dichiarato inammissibile in quanto l’A.T.I. C. aveva già avuto modo di articolare, nell’ambito di un precedente giudizio, le proprie ragioni nel senso del presunto obbligo di escludere dalla gara l’A.T.I. L. (in particolare, l’A.T.I. C. aveva già articolato alcune presunte ragioni di esclusione nella forma del ricorso incidentale nell’ambito del giudizio di primo grado recante il n. 2363/07 e definito dal Tribunale amministrativo con sentenza n. 163 del 2008, la quale aveva -inter alia – respinto il ricorso incidentale).
Al riguardo, l’A.T.I. L. osserva che i motivi di doglianza articolati dall’A.T.I. C. nell’ambito del ricorso al Tribunale amministrativo n. 3031/2009 avrebbero dovuto essere dichiarati inammissibili quanto meno per la parte in cui tendevano a contestare nuovamente l’ammissione alla gara dell’A.T.I. L. per motivi conosciuti o conoscibili già al momento dell’impugnazione incidentale proposta nell’ambito del giudizio principale n. 2363/2007.
Al riguardo, l’A.T.I. L. contesta la correttezza dei due argomenti della sentenza al fine di confermare l’ammissibilità del profilo di doglianza in seguito ritenuto fondato nel merito (si tratta: 1) del motivo relativo al fatto che l’interesse per l’A.T.I. C. a contestare l’ammissione alla gara della controinteressata di fosse radicato solo con l’aggiudicazione della gara in favore della contro interessata e 2) del motivo relativo al fatto che la ragione di esclusione ritenuta fondata dalla sentenza n. 1929 del 2010 fosse stata conosciuta dall’A.T.I. C. solo a seguito della sentenza n. 163 del 2008).
Quanto al primo aspetto, l’A.T.I. L. contesta che l’interesse ad impugnare la propria ammissione alla gara sia sorto in capo all’A.T.I. C. solo a seguito dell’aggiudicazione definitiva in proprio favore.
Quanto al secondo aspetto, l’A.T.I. L. sottolinea che l’intera documentazione di gara (e le ragioni relative alla propria ammissione) erano note alla controparte sin dal giudizio di primo grado recante il n. 2363/07 e che – pertanto – l’A.T.I. C. disponeva sin dal tempo del primo giudizio di ogni elemento necessario a contestare la propria ammissione alla gara, laddove ne sussistessero le ragioni.
4.1. Il motivo di appello non può trovare accoglimento.
In particolare, il Collegio ritiene che non sia condivisibile la tesi secondo cui l’A.T.I. C. non avrebbe potuto dedurre le ragioni di esclusione nell’ambito del ricorso al Tribunale amministrativo n. 3031/09 per essere stata già in condizione di addurre tali ragioni in sede di ricorso incidentale nell’ambito del ricorso n. 2363/07.
Al riguardo si osserva:
– che la sentenza n.. 163 del 2008 si era limitata (nella sua portata caducatoriocostitutiva) a stabilire l’illegittimità delle determinazioni con cui l’Amministrazione aveva statuito la sua esclusione dalla gara per profili relativi alla presunta anomalia dell’offerta;
– che, conseguentemente, il vincolo conformativo che ne derivava consisteva unicamente nella necessaria emenda del profilo di illegittimità e nel conseguente vincolo alla conclusione del procedimento, mentre – invece – non si poteva ritenere che il vincolo derivante da tale statuizione comportasse una preclusione all’esame di ulteriori e diversi profili di esclusione, eventualmente inficianti l’offerta dell’A.T.I. L. e non dedotti, né esaminati nell’ambito del giudizio conclusosi con la sentenza n. 163 del 2008;
– che (come correttamente statuito dal primo giudice con la sentenza n. 2661/2009, passata in giudicato), non si può ritenere che il vincolo conformativo derivante dalla sentenza n. 163 del 2008 comportasse una preclusione a carico dell’Amministrazione nel riconsiderare altri aspetti di ammissibilità dell’offerta "non toccat(i) dalla precedente decisione e comunque afferenti allo stesso procedimento, nel caso non pervenuto ala sua naturale e fisiologica conclusione (aggiudicazione definitiva)";
– che a conclusioni diverse non si può giungere neppure in relazione al fatto (sottolineato dalla difesa dell’A.T.I. L.) che l’A.T.I. C. avesse già dedotto nell’ambito del giudizio n. 2363/07 alcuni profili di esclusione dalla gara dell’odierna appellante e che tali profili (dedotti nella forma dell’appello incidentale) fossero stati disattesi dal primo giudice. Sotto tale aspetto, l’obiettiva diversità fra l’oggetto dei due giudizi e l’indubbia permanenza di un apprezzabile margine di discrezionalità in capo al Commissario ad acta nel procedere alla riedizione del potere amministrativo residuante all’indomani della sentenza di annullamento, rendono pacifica la possibilità di insorgere avverso i provvedimenti del Commissario anche per ragioni relative all’originaria carenza dei requisiti di partecipazione. Al contrario, non si può ritenere che, in relazione alla deducibilità di tali ragioni, fosse scattata una qualche forma di preclusione a seguito della definizione del giudizio n. 2363/07.
In definitiva, il motivo di appello relativo all’asserita inammissibilità che avrebbe viziato il ricorso proposto in primo grado dall’A.T.I. C. non può trovare accoglimento.
5. Pertanto, una volta respinto il motivo relativo all’erroneità della sentenza per non avere rilevato la presunta inammissibilità del ricorso al Tribunale amministrativo n. 3031/09, occorre esaminare nel merito la questione della fondatezza delle ragioni di esclusione dell’A.T.I. L. dalla gara all’origine dei fatti di causa.
Come si è detto, il primo giudice ha ritenuto fondato il profilo di esclusione derivante dal fatto che in sede di domanda di partecipazione l’A.T.I. L. non aveva indicato le quote di partecipazione al costituendo raggruppamento, in tal modo violando la previsione di cui all’art. 37 d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163.
Nella tesi dell’appellante, la decisione sarebbe in parte qua erronea per non avere il primo giudice rilevato che nessuna incertezza potesse sussistere in ordine al riparto di quote fra le partecipanti all’A.T.I. L., trattandosi di raggruppamento costituito da due sole partecipanti, ognuna delle quali caratterizzata da qualificazioni diverse e non possedute dall’altra
In definitiva, non vi sarebbe alcuna effettiva possibilità di "commistione nell’esecuzione dei lavori" tra le due partecipanti al raggruppamento, essendovi necessariamente – in ragione della diversa qualificazione posseduta – perfetta coincidenza fra quote di qualificazione e quote di partecipazione e tra queste ultime e quote di esecuzione.
5.1. Il motivo non può trovare accoglimento.
Come correttamente rilevato dal primo giudice (e come riconosciuto dalla appellante) un consolidato orientamento giurisprudenziale afferma che dal combinato disposto degli articoli 37, commi 6, e 13 del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 e 93, comma 4, d.P.R. n. 21 dicembre 1999, n. 554 si desume il principio di necessaria corrispondenza tra quote di qualificazione, quote di partecipazione all’A.T.I. e quote di esecuzione dei lavori, con la conseguenza che le quote di partecipazione al raggruppamento non possono essere evidenziate ex post, in sede di esecuzione del contratto, costituendo, quand’anche non esplicitato dalla lex specialis, un requisito di ammissione, la cui inosservanza determina l’esclusione dalla gara (es. Cons. Stato, VI, 21 maggio 2009, n. 3144;. 8 febbraio 2008, n. 416).
Vero è che la giurisprudenza ammette che l’indicazione della rispettiva quota di partecipazione dei membri del raggruppamento possa essere ritenuta non necessaria laddove la relativa struttura sia "tale da non determinare dubbio alcuno in merito al riparto dei lavori" (Cons. Stato, VI, 25 novembre 2008, n. 5787).
Tuttavia, il principio non può essere invocato a sostegno delle tesi dell’appellante, se solo si consideri che le modalità di formulazione dell’offerta dell’A.T.I. L. (in cui le categorie OG2, OG11 e OS6 erano riferibili alla sola società "L.S. Impresa di Costruzioni’, mentre la categoria OS24 era riferibile alla sola "Azienda Agricola D.P.’) consentivano, al più, di dedurre il riparto delle quote di partecipazione e delle quote di esecuzione, ma non consentivano di stabilire l’esatta e necessaria corrispondenza: a) fra le quote di qualificazione e le quote di partecipazione (che, infatti, non erano state indicate), né b) fra quote di partecipazione e quote di esecuzione.
Conseguentemente, la decisione n. 1929/2010 deve trovare conferma per la parte in cui ha affermato che l’offerta formulata dall’A.T.I. L. non avrebbe potuto essere ammessa alla gara per essere stata omessa in sede di domanda di partecipazione la necessaria indicazione delle quote di partecipazione delle singole imprese costituite in raggruppamento.
6. In base a quanto dinanzi esposto, il ricorso n. 4869/2010 deve essere respinto, con conseguente conferma della sentenza del Tribunale amministrativo per la Campania n. 1929/2010, che ha disposto l’esclusione dell’A.T.I. L. dalla gara all’origine dei fatti di causa.
Conseguentemente, il ricorso n. 4439/08 deve essere dichiarato improcedibile, non residuando in capo al Ministero per i beni e le attività culturali alcun interesse ulteriore alla coltivazione del gravame avverso la pronuncia con cui il Tribunale amministrativo aveva annullato il primo provvedimento di esclusione (ossia, il provvedimento in data 30 marzo 2007 con cui l’offerta formulata dall’A.T.I. L. era stata giudicata ingiustificatamente anomala)..
Sussistono giusti motivi onde disporre l’integrale compensazione delle spese di lite fra le parti in relazione a entrambi i giudizi.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sugli appelli come in epigrafe proposti, previa riunione, così decide:
– respinge il ricorso in appello n. 4869/2010 e, conseguentemente
– dichiara improcedibile il ricorso in appello n. 4439/2008.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 5 novembre 2010 con l’intervento dei magistrati:
Giuseppe Severini, Presidente
Luciano Barra Caracciolo, Consigliere
Roberto Garofoli, Consigliere
Bruno Rosario Polito, Consigliere
Claudio Contessa, Consigliere, Estensore

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. I CIVILE – SENTENZA 14 luglio 2010, n.16556 ASSEGNO BANCARIO

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Motivi della decisione

Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 22 e ss. Del R.D. 21 dicembre 1933 n. 1736, con riferimento all’art. 360 n. 3 c.p.c. Deduce il ricorrente che secondo il giudicante il M. non avrebbe potuto richiedere la prestazione contenuta negli assegni posti a base del decreto ingiuntivo, in quanto questi ultimi, non essendo girati dallo stesso, non lo legittimavano a richiedere il pagamento.

Tale motivazione sarebbe errata, perché determinata da una falsa applicazione dell’art. 22 e ss. della legge sugli assegni, in virtù dei quali il detentore dell’assegno bancario trasferibile per girata è considerato portatore legittimo se giustifica il suo diritto con una serie continua di girate, anche se l’ultima è in bianco.

Il giudice a quo non avrebbe considerato che la firma per girata, ai sensi delle predette disposizioni, serve esclusivamente nel caso specifico in cui l’assegno viene portato presso la banca per l’incasso, essendo tale adempimento necessario per individuare la persona che ne riceve la prestazione, onde esimere il trattario, che effettua il pagamento, da ogni responsabilità al riguardo.

Nel caso di specie la girata in pieno da parte del possessore del titolo non sarebbe necessaria in quanto la prestazione incorporata nello stesso non è stata richiesta all’istituto trattario, bensì al debitore traente. In tal caso sarebbe sufficiente il solo possesso del titolo; il possessore del titolo dovrebbe considerarsi portatore legittimo, sino a prova contraria senza dover fornire altra prova.

Il M., quindi, avrebbe provato la sua legittimazione a richiedere la prestazione con il possesso materiale dei titoli, mentre la L.si sarebbe limitata a sollevare delle eccezioni senza poter dare prova delle stesse.

Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 1988 c.c. con riferimento all’art. 360 n. 3 c.p.c.

La corte di merito avrebbe errato nell’affermare che nel caso di specie gli assegni non potessero valere quale promessa di pagamento, affermando che la promessa opera solo nei confronti di colui a cui la promessa sia stata effettivamente fatta.

La prova della promessa sarebbe stata data dal M. mediante il possesso materiale dei titoli e tale possesso deve ritenersi giuridicamente legittimo, in quanto la legittimità del possesso, che avrebbe potuto essere contestata o dal Palmieri (precedente portatore e giratario) o dalla L.M.R. Esperia (emittente), non era stata mai contestata.

Con il terzo motivo il ricorrente denuncia violazione di legge (art. 111 Cost.) per omessa o, comunque, carenza di motivazione su tutti i punti decisivi della sentenza, in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c.

La sentenza impugnata non consentirebbe di comprendere la ratio decidendi, non essendo possibile identificare il procedimento logico attraverso il quale il giudice è pervenuto alla sua decisione, essendosi la corte di merito limitata a riportare una sentenza della Cassazione senza dare ulteriori indicazioni.

Il primo motivo di ricorso è fondato.

La sentenza impugnata non indica dettagliatamente quale sia il contenuto degli assegni in questione. Dalle scarne indicazioni contenute nella stessa è dato comprendere che la L. ha delegato alla emissione degli assegni certo Palmieri, che questo ha emesso gli assegni, in qualità di delegato della L., a favore di sé stesso, che gli assegni sono stati poi girati da costui con girata in bianco, che il M., possessore dei titoli posti a base del decreto ingiuntivo, non figura sugli stessi né quale prenditore né quale giratario.

In tale situazione di fatto il principio di diritto, di cui alla sentenza n. 4801 del 1996, erroneamente richiamato dalla corte di merito per rigettare l’appello, non può trovare applicazione, essendo stato dettato da questa Suprema Corte in relazione ad una diversa fattispecie.

Se l’assegno bancario viene emesso senza indicazione del prenditore vale, in virtù del disposto dell’ultimo comma dell’art. 5 del R.D. n. 1736 del 1933 sull’assegno bancario, come assegno bancario al portatore.

Ciò comporta che il trasferimento del titolo si opera con la consegna del titolo stesso e che il possessore del titolo è legittimato all’esercizio del diritto in esso menzionato in base alla presentazione del titolo (artt. 1992 e 2003 cod. civ.).

Qualora l’assegno presenti la indicazione del prenditore e risulti da questo girato in bianco, vale a dire senza la indicazione del nome del giratario (come sembra avvenuto nel caso di specie), il portatore ha tre possibilità: 1) riempire la girata col proprio nome o con quello di altra persona; 2) girare l’assegno bancario di nuovo in bianco o a persona determinata; 3) trasmettere l’assegno bancario a un terzo, senza riempire la girata in bianco e senza girarlo (art. 20 del R.D. n. 1736 del 1933). Il possessore dell’assegno bancario trasferibile per girata è considerato portatore legittimo se giustifica il suo diritto con una serie continua di girate, anche se l’ultima è in bianco (art. 22 del succitato R.D.).

L’articolo 1992, primo comma, cod. civ. dispone che il possessore di un titolo di credito ha diritto alla prestazione in esso indicata verso presentazione del titolo, purché sia legittimato nelle forme prescritte dalla legge.

Alla stregua del su riportato quadro normativo il possessore di un assegno bancario in cui non figuri l’indicazione del prenditore (fattispecie in cui è applicabile la disciplina dei titoli al portatore) oppure che sia stato girato dal primo prenditore o da ulteriori giratari sia con girata piena che con girata in bianco, ha diritto al pagamento dello stesso in base alla sola presentazione del titolo, senza che, se presentato per il pagamento direttamente all’emittente, questo possa pretendere che il possessore sia tenuto ad apporre sull’assegno la firma di girata. Soltanto il trattario che paga l’assegno bancario può esigere che esso gli sia consegnato quietanzato dal portatore (art. 36, primo comma, R.D. n. 1736 del 1933) e se ne comprende la ragione, atteso che il trattario, che opera come mandatario del traente, può essere chiamato da questo a rispondere del pagamento a soggetto non legittimato. Se il pagamento viene chiesto direttamente al traente, detto pagamento viene richiesto direttamente all’obbligato principale e non sussiste, quindi, la esposta ragione perché l’assegno venga munito di girata dal possessore, girata che, quando il pagamento viene richiesto al trattario, non vale al fine del trasferimento del titolo, ma vale esclusivamente come quietanza (art. 18 ultimo comma, R.D. n. 1736 del 1933).

La sentenza impugnata, come detto, per respingere l’appello, si è limitata a richiamare la massima (non pertinente) relativa alla sentenza n. 4801 del 1996, senza indicare le ragioni giuridiche per le quali, in presenza di una girata in bianco del prenditore degli assegni, la surriportata disciplina, in virtù della quale il possessore degli assegni ha diritto a chiederne il pagamento alla emittente in base alla sola presentazione dei titoli, non sia applicabile nel caso di specie.

Pertanto in base alle suesposte considerazioni il motivo in esame deve essere accolto, il che comporta l’assorbimento degli altri due motivi di ricorso; conseguentemente la sentenza impugnata deve essere cassata e la causa rinviata, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’Appello di Catanzaro in diversa composizione, che per il giudizio si atterrà al seguente principio di diritto:

il possessore di un assegno bancario in cui non figuri l’indicazione del prenditore (fattispecie in cui è applicabile la disciplina dei titoli al portatore) oppure che sia stato girato dal primo prenditore o da ulteriori giratari sia con girata piena che con girata in bianco, ha diritto al pagamento dello stesso in base alla sola presentazione del titolo, senza che, se presentato per il pagamento direttamente all’emittente, questo possa pretendere che il titolo contenga anche la firma di girata di colui che ne chiede il pagamento.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo, assorbiti gli altri; cassa e rinvia, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di cassazione, alla Corte d’Appello di Catanzaro in diversa composizione.

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