Corte Cost. 11.03.2011 n. 83 filiazione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Fatto

Ritenuto in fatto

1.- La Corte di appello di Brescia, Sezione per i minorenni, con ordinanza depositata il 19 marzo 2010, ha sollevato, in riferimento agli articoli 2, 3, 24, 30, 31 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 250 del codice civile.

2. – La Corte territoriale riferisce che il Tribunale per i minorenni di Brescia, con sentenza del 21 aprile – 13 maggio 2009, ha autorizzato R. M. a riconoscere il figlio minore D. P. «anche nel dissenso della madre di questi, P. M. A.», sul rilievo che a carico di R. M. non erano emersi elementi negativi tali da giustificare il rigetto della domanda, essendo egli immune da precedenti penali o di polizia ed avendo lavorato fino al 2003. Il detto Tribunale ha aggiunto che in data 7 agosto 2003 R. M. era stato inviato a controllo sanitario per avere manifestato propositi auto lesivi, e in tale sede gli erano state riscontrate soltanto ansia ed instabilità emotiva per l’incerta situazione sentimentale in cui versava, con diagnosi di reazione depressiva lieve; ha osservato, inoltre, che da quell’epoca egli non aveva praticato terapie farmacologiche, essendo stato escluso che fosse portatore di patologie psichiche.

Pertanto, il Tribunale ha concluso per la sussistenza di un interesse del minore al riconoscimento, anche al fine di assicurargli la presenza dell’altro genitore, tenuto a farsi carico di lui, essendo altresì carente la prova che l’iniziativa di R. M. avesse carattere strumentale, in quanto diretta a consentirgli di ingerirsi di nuovo nella vita della donna.

La rimettente prosegue esponendo che M. A. P. ha impugnato la sentenza, chiedendone la riforma e il rigetto della domanda. L’appellante ha negato, tra l’altro, che sussistesse un interesse del figlio ad essere riconosciuto da R. M., in quanto il bambino (all’epoca di anni sei) considerava il marito di lei come padre; quest’ultimo si era sempre occupato del minore ed ella, al momento del parto, non aveva potuto indicarlo come padre a causa «del violento intervento oppositivo di R. M.».

L’appellato ha resistito al gravame, del quale ha chiesto il rigetto, deducendo la sussistenza dei presupposti per autorizzare il riconoscimento.

Il procuratore generale ha chiesto l’accoglimento dell’impugnazione, ravvisando «un fatto impeditivo di importanza proporzionale al valore del diritto genitoriale sacrificato», in considerazione della particolare situazione del minore, che mai aveva visto o sentito parlare del presunto padre e che viveva attualmente sereno con la madre e il marito di costei.

La Corte di appello deduce, ancora, di avere chiesto alle parti di valutare la necessità dell’intervento in causa di un curatore a tutela degli interessi del bambino, ma ha aggiunto che tale iniziativa ha incontrato l’opposizione della madre, la quale ha sostenuto che egli non aveva la qualità di parte processuale, in conformità alla giurisprudenza della Corte di cassazione.

In questo quadro la rimettente, richiamato il disposto dell’art. 250 cod. civ., espone che, per principio costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, nel giudizio instaurato, ai sensi del quarto comma della citata norma, il figlio naturale, non ancora sedicenne, non assume la qualità di parte, sicché la nomina di un curatore speciale non è necessaria. Tuttavia, a suo avviso, se non può essere messo in dubbio che il diritto al riconoscimento del figlio naturale già riconosciuto costituisca per l’altro genitore un diritto soggettivo garantito dall’art. 30 Cost., è del pari innegabile che anche al minore degli anni sedici sia necessario riconoscere piena tutela, che può essere in concreto attuata soltanto se l’interessato sia autonomamente rappresentato e difeso in giudizio.

Si tratta di una posizione giuridica garantita dai principi costituzionali di protezione dell’infanzia, nonché da quelli del giusto processo e del diritto di difesa (artt. 24, 30, terzo comma, 31 e 111 Cost.), e, altresì, affermata nella Convenzione sui diritti del fanciullo, stipulata a New York il 20 novembre 1989 (ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176) e nella Convenzione di Strasburgo del 25 gennaio 1996 (ratificata e resa esecutiva con legge 2 marzo 2003, n. 77).

Il giudice a quo, poi, richiama altre ipotesi normative nelle quali il legislatore riconosce a garanzia del minore specifiche forme di difesa in giudizio o prevede la nomina di particolari figure a sua tutela (artt. 264, 321, 334, 336 cod. civ.), e rileva che, nel caso di specie, pur in presenza del contrasto tra la madre del bambino e il presunto padre, non si è provveduto alla nomina di un curatore speciale a tutela del minore né ad assicurare al medesimo un’autonoma difesa processuale, in quanto non ritenuto "parte" nel processo.

Pertanto, ritenuta la rilevanza della questione sulla base delle considerazioni svolte, dubita della legittimità costituzionale del menzionato art. 250 cod. civ., in riferimento ai parametri sopra indicati, nella parte in cui non prevede, per il figlio di età inferiore a sedici anni, «adeguate forme di "tutela" dei suoi preminenti personalissimi diritti, nella specie di autonoma rappresentazione e difesa in giudizio, diritti costituzionalmente garantiti».

3. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio di legittimità costituzionale, eccependo in primo luogo la manifesta inammissibilità della questione, perché basata su una ricostruzione parziale del quadro normativo e per avere omesso di verificare la possibilità di un’interpretazione conforme a Costituzione.

Ad avviso della difesa dello Stato, la norma censurata avrebbe delineato un sistema idoneo a tutelare gli interessi del minore, sia quando abbia compiuto i sedici anni, sia quando non abbia ancora raggiunto tale età. In particolare, in questa seconda ipotesi è previsto che per il riconoscimento sia necessario il consenso dell’altro coniuge, che esso non possa essere rifiutato se il riconoscimento stesso risponda all’interesse del figlio e che, in caso di consenso negato, la parte interessata possa avviare un apposito giudizio davanti al tribunale. Quest’ultimo decide con sentenza che, in caso di accoglimento della domanda, tiene luogo del consenso mancante, dopo aver sentito il minore in contraddittorio con il genitore che si oppone e con l’intervento del pubblico ministero.

Sarebbe vero che la norma nulla dice sulla nomina di un curatore speciale, ma ciò per il semplice motivo che l’ordinamento, con l’art. 78 del codice di procedura civile, disciplina in via generale la possibilità di nomina di un curatore, nell’ipotesi di soggetto incapace o in situazione di conflitto d’interessi.

Pertanto, nella specie non sussisterebbe una assoluta impossibilità di nominare un curatore speciale bensì la "non necessità" di tale nomina, salvo che, di volta in volta, il giudice non ravvisi una delle ipotesi per le quali l’art. 78 citato prevede la nomina del detto curatore.

Dalla stessa giurisprudenza di legittimità, richiamata nell’ordinanza di rimessione, sarebbe desumibile che, pur essendo acquisito che il minore infrasedicenne (del cui riconoscimento si tratti), in genere non sia parte del giudizio, «tale diviene quando vi sia stata la nomina di un curatore speciale ai sensi dell’art. 78, secondo comma, c.p.c., essendosi ovviamente presupposto un conflitto d’interessi tra minore e legale rappresentante di esso» (cioè il genitore che si oppone al riconoscimento ad opera dell’altro genitore naturale).

Del resto, prosegue la difesa erariale, già la Corte costituzionale, con sentenza n. 1 del 2002, affermò che la posizione del minore si configura come quella di "parte" nei procedimenti riguardanti i suoi diritti, con la necessità d’instaurare il contraddittorio nei suoi confronti, previa nomina, se del caso, di un curatore speciale ai sensi dell’art. 78 cod. proc. civ.

L’Avvocatura dello Stato, in via del tutto subordinata, deduce che le considerazioni svolte varrebbero a dimostrare la manifesta infondatezza della questione, con riferimento a tutti i parametri evocati.

Diritto

Considerato in diritto

1. – La Corte di appello di Brescia, Sezione per i minorenni, con l’ordinanza indicata in epigrafe dubita della legittimità costituzionale dell’articolo 250 del codice civile (quarto comma), nella parte in cui non prevede, per il figlio che non abbia ancora raggiunto i sedici atti di età, «adeguate forme di "tutela" dei suoi preminenti personalissimi diritti, nella specie di autonoma rappresentazione e difesa in giudizio, diritti costituzionalmente garantiti», in riferimento agli articoli 2, 3, 24, 30, 31 e 111 della Costituzione.

2. – La Corte territoriale espone che, con sentenza depositata il 13 maggio 2009, il Tribunale per i minorenni di Brescia ha autorizzato R. M. a riconoscere come proprio figlio naturale un minore (all’epoca, di sei anni), nonostante il dissenso della madre del bambino, M. A. P., coniugata con altro uomo, che ella al momento del parto non aveva potuto indicare come padre per l’opposizione del detto R. M.

La donna ha impugnato la sentenza del Tribunale, chiedendone l’integrale riforma con il rigetto della domanda. Al gravame ha resistito il presunto padre, adducendo la sussistenza di tutti i presupposti per autorizzare il riconoscimento. Il procuratore generale ha chiesto l’accoglimento dell’impugnazione, ritenendo sussistente «un fatto impeditivo d’importanza proporzionale al valore del diritto genitoriale sacrificato», in considerazione della particolare situazione del minore che non aveva mai visto né sentito parlare del detto padre e che viveva sereno con la madre (della quale portava il cognome) e con il marito della stessa.

La Corte rimettente aggiunge di avere invitato le parti ad esprimersi sulla necessità dell’intervento in causa di un curatore, a tutela degli interessi del minore. A seguito di tale iniziativa R. M. ha espresso parere favorevole alla nomina di un curatore speciale, mentre la madre naturale si è pronunciata in senso contrario.

In questo quadro, la Corte di appello osserva che, nel giudizio instaurato ai sensi dell’art. 250, quarto comma, cod. civ. «è principio costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità che il figlio naturale, non ancora sedicenne, non assuma la qualità di parte», onde non sarebbe necessaria la nomina di un curatore speciale; ed aggiunge che, se il diritto al riconoscimento del figlio naturale, già riconosciuto da un genitore, costituisce per l’altro genitore un diritto soggettivo garantito dall’art. 30 Cost., è innegabile che anche il minore di età inferiore a sedici anni, in caso di opposizione dell’altro genitore, abbia piena tutela dei suoi diritti ed interessi, tutela che può essere in concreto attuata soltanto se l’interessato sia «autonomamente rappresentato e difeso in giudizio». Ne deriva, ad avviso del giudice a quo, il dubbio sulla legittimità costituzionale della norma censurata, per la mancata previsione di tale rappresentanza e difesa.

3. – L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito che la questione sarebbe manifestamente inammissibile, perché basata su una ricostruzione parziale del quadro normativo e perché la Corte territoriale avrebbe omesso di verificare la possibilità di una interpretazione conforme a Costituzione.

L’eccezione non è fondata.

La rimettente ha richiamato un orientamento della giurisprudenza di legittimità, ritenuto consolidato, secondo cui il figlio naturale, non ancora sedicenne, non assumerebbe qualità di parte nel giudizio instaurato ai sensi dell’art. 250, quarto comma, cod. civ., sicché non sarebbe necessaria la nomina di un curatore speciale. Ciò, ad avviso della Corte bresciana, determinerebbe un deficit di tutela per i «suoi preminenti personalissimi diritti ed interessi», tutela attuabile soltanto se l’interessato sia autonomamente rappresentato e difeso in giudizio.

Così argomentando la Corte di appello, in modo implicito, ma chiaro, ha ritenuto non praticabile una interpretazione conforme a Costituzione e, quindi, è giunta alla conclusione che fosse necessario sollevare la presente questione di legittimità costituzionale. Ne deriva che l’eccepita inammissibilità resta esclusa.

4. – La questione non è fondata, nei sensi di seguito precisati.

È necessario prendere le mosse dal contesto normativo nel quale essa va collocata.

Al riguardo assume rilievo, in primo luogo, la Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 27 maggio 1991, n. 176.

In particolare, detta Convenzione, per quanto qui rileva, nell’art. 1 stabilisce che per fanciullo si deve intendere ogni essere umano avente un’età inferiore a diciotto anni, salvo che abbia raggiunto prima la maturità in virtù della legislazione applicabile; nell’art. 3 dispone (comma 1) che in tutte le decisioni ad essi relative, comprese quelle di competenza dei tribunali, «l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente»; nell’art. 4 prescrive che gli Stati parti «si impegnano ad adottare tutti i provvedimenti legislativi, amministrativi ed altri, necessari per attuare i diritti riconosciuti dalla presente Convenzione»; nell’art. 12, comma 1, fa obbligo agli Stati parti di garantire al fanciullo capace di discernimento il diritto di esprimere liberamente la sua opinione su ogni questione che lo interessa e, nel comma 2, aggiunge che «A tal fine, si darà in particolare al fanciullo la possibilità di essere ascoltato in ogni procedura giudiziaria o amministrativa che lo concerne, sia direttamente, sia tramite un rappresentante o un organo appropriato, in maniera compatibile con le regole di procedura della legislazione nazionale».

All’atto ora menzionato segue la Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, fatta a Strasburgo il 25 gennaio 1996, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 20 marzo 2003, n. 77. Essa, nell’art. 1, comma 2, chiarisce di essere diretta «a promuovere, nell’interesse superiore dei fanciulli, i diritti degli stessi, a concedere loro diritti procedurali ed agevolarne l’esercizio; vigilando affinché possano, direttamente o per il tramite di altre persone od organi, essere informati ed autorizzati a partecipare alle procedure che li riguardano dinnanzi ad una autorità giudiziaria»; con l’art. 4, comma 1, attribuisce al minore, quando il diritto interno priva i detentori delle responsabilità genitoriali della possibilità di rappresentarlo a causa di un conflitto d’interessi, il diritto di richiedere, personalmente o tramite altre persone od organi, la designazione di un rappresentante speciale nei procedimenti che lo riguardano dinanzi ad un’autorità giudiziaria; con l’art. 9, comma 1, stabilisce che, nei procedimenti riguardanti un minore, quando in virtù del diritto interno i detentori delle responsabilità genitoriali si vedono privati della facoltà di rappresentare il minore a causa di un conflitto d’interessi, l’autorità giudiziaria ha il potere di designare un rappresentante speciale che lo rappresenti in tali procedimenti.

Vanno, poi, citate le disposizioni di diritto interno (alcune delle quali richiamate anche nell’ordinanza di rimessione), che riconoscono al minore una diretta tutela per i suoi diritti.

In particolare: l’art. 155-sexies cod. civ., aggiunto dall’art. 1 della legge 8 febbraio 2006, n. 54 (Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli), stabilisce nel comma 1 che il giudice, prima dell’emanazione anche in via provvisoria dei provvedimenti di cui all’art. 155 cod. civ., dispone l’audizione del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore, ove capace di discernimento.

Al riguardo la Corte di cassazione a Sezioni unite, con sentenza n. 22238 del 2009, ha affermato che costituisce violazione del principio del contraddittorio quale connotato del giusto processo, il mancato ascolto del minore non sorretto da espressa motivazione sull’assenza di discernimento che può giustificarne l’omissione. Ciò in quanto il minore è portatore d’interessi contrapposti e diversi da quelli del genitore in sede di affidamento e diritto di visita, e, per tale profilo, è qualificabile come parte in senso sostanziale.

Inoltre: l’art. 244, comma quarto, cod. civ. concernente i termini per l’azione di disconoscimento della paternità, prevede che detta azione può essere promossa da un curatore speciale nominato dal giudice, su istanza del figlio minore che ha compiuto i sedici anni, o del pubblico ministero quando si tratta di minore di età inferiore (si veda anche l’art. 247, comma secondo, cod. civ); l’art. 264, comma secondo, cod. civ., in tema di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, stabilisce che il giudice, con provvedimento in camera di consiglio su istanza del pubblico ministero o del tutore o dell’altro genitore che abbia validamente riconosciuto il figlio o del figlio stesso che abbia compiuto il sedicesimo anno di età, può dare l’autorizzazione per impugnare il riconoscimento, nominando un curatore speciale.

Analogo potere di nomina è attribuito al giudice, ricorrendone le condizioni, in tema di dichiarazione giudiziale della paternità e della maternità naturale, dagli artt. 273, primo comma, e 279, terzo comma, cod. civ.; del pari, in materia di legittimazione di figli naturali, l’art. 284, primo comma, n. 4, cod. civ. prevede la nomina di un curatore speciale ed altri casi sono contemplati dalle disposizioni riguardanti l’esercizio della potestà genitoriale (artt. 320 – 321 cod. civ.) o l’esercizio della tutela (art. 360 cod. civ.).

Una menzione a parte merita, infine, l’art. 336 cod. civ., che disciplina la procedura per l’adozione dei provvedimenti in tema di potestà dei genitori e nel quarto comma prevede che i genitori stessi e i minori siano assistiti da un difensore. Come già notato da questa Corte (sentenze n. 179 del 2009 e n. 1 del 2002), dal coordinamento tra l’art. 12 della Convenzione di New York, e l’art. 336, comma quarto, cod. civ. si desume che, nelle procedure disciplinate da tale norma, sono parti non soltanto entrambi i genitori ma anche il minore, con la necessità del contraddittorio nei suoi confronti, previa nomina, se del caso, di un curatore speciale, ai sensi dell’art. 78 del codice di procedura civile.

5. – In questo quadro, l’interpretazione sistematica e coordinata delle norme richiamate nel paragrafo che precede impone di pervenire alla conclusione che, anche per la fattispecie prevista dall’art. 250, quarto comma, cod. civ., il giudice, nel suo prudente apprezzamento e previa adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, possa procedere alla nomina di un curatore speciale, avvalendosi della disposizione dettata dal citato art. 78 cod. proc. civ., che, come risulta dall’elencazione effettuata dianzi (peraltro, meramente esemplificativa), non ha carattere eccezionale, ma costituisce piuttosto un istituto che è espressione di un principio generale, destinato ad operare ogni qualvolta sia necessario nominare un rappresentante all’incapace.

Invero, già la norma in questa sede censurata stabilisce che debba essere sentito il minore in contraddittorio con il genitore che si oppone al riconoscimento (salvo che, per ragioni di età o per altre circostanze da indicare con specifica motivazione, il minore stesso non sia in grado di sostenere l’audizione). Tale adempimento, la cui importanza emerge dalla citata normativa convenzionale, dimostra che il minore infrasedicenne, nella vicenda sostanziale e processuale che lo riguarda, costituisce un centro autonomo di imputazione giuridica, essendo implicati nel procedimento suoi rilevanti diritti e interessi, in primo luogo quello all’accertamento del rapporto genitoriale con tutte le implicazioni connesse.

Ne deriva che al detto minore va riconosciuta la qualità di parte nel giudizio di opposizione di cui all’art. 250 cod. civ. E, se di regola la sua rappresentanza sostanziale e processuale è affidata al genitore che ha effettuato il riconoscimento (artt. 317-bis e 320 cod. civ.), qualora si prospettino situazioni di conflitto d’interessi, anche in via potenziale, spetta al giudice procedere alla nomina di un curatore speciale. Il che può avvenire su richiesta del pubblico ministero, o di qualunque parte che vi abbia interesse (art. 79 cod. proc. civ.), ma anche di ufficio, avuto riguardo allo specifico potere attribuito in proposito all’autorità giudiziaria dall’art. 9, primo comma, della citata Convenzione di Strasburgo.

In tali sensi interpretato, il citato art. 250, quarto comma, cod. civ. si sottrae alle censure sollevate con l’ordinanza di rimessione, in relazione a tutti i parametri evocati.

Da ciò consegue la dichiarazione di non fondatezza della questione.

P.Q.M.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 250 del codice civile, sollevata in riferimento agli articoli 2, 3, 24, 30, 31 e 111 della Costituzione dalla Corte di appello di Brescia, Sezione per i minorenni, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, palazzo della Consulta, il 7 marzo 2011.

DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 11 MAR. 2011.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. I, Sent., 11-02-2011, n. 3404 Dichiarazione di adottabilità

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con decreto emesso in data 10.06.2004, il Tribunale per i Minorenni di Catania dichiarava lo stato di adottabilità dei minori Z. F. (nato il (OMISSIS)), Z.A. (nato il (OMISSIS)) e Z.M. (nato il (OMISSIS)), figli legittimi di Z.G. e C.N., genitori anche di altri due figli, R. (nato nel (OMISSIS)) ed I. (nata nel (OMISSIS)).

Avverso tale decreto i coniugi Z. – C. proponevano opposizione, respinta dal Tribunale per i minorenni di Catania con sentenza del 2.12.2004, contro la quale gli stessi proponevano appello, respinto, con sentenza in data 22.02.2006-15.03.2006, dalla Corte di appello di Catania, sezione famiglia e minori, previa anche acquisizione di una relazione aggiornata da parte del tutore dei minori, come dalla medesima Corte disposto il 5.10.2005, e l’audizione dello stesso all’udienza del 7.12.2005.

La Corte territoriale, richiamati anche noti principi sul tema, osservava e riteneva tra l’altro:

– che la procedura di adottabilità di F., A. e Z.M. e degli altri loro due fratelli R. ed I., era stata già aperta nel 1997, sulla base di una segnalazione inerente alle loro gravi condizioni di trascuratezza materiale e morale da parte dei genitori;

– che erano stati segnalati maltrattamenti inferti ai figli dalla madre, affetta da disturbi mentali, senza alcun intervento a difesa della prole, da parte del padre, completamente indifferente;

– che in favore dei genitori era stato disposto un sostegno terapeutico di cui, però, non avevano inteso fruire;

– che allontanati dall’ambiente familiare, i minori avevano mostrato segni di miglioramento fisico e psichico, sicchè la procedura era stata archiviata nel 1998;

– che il procedimento era stato riaperto nel 2000 a seguito di una nuova segnalazione di maltrattamenti e, dopo alterne vicende, il Tribunale per i minorenni, con provvedimento del 21.02.2002, aveva disposto l’allontanamento dei figli dalla famiglia, con diritto di visite da parte dei genitori, cui veniva prescritto di seguire un trattamento presso il DSM;

– che A. e M. erano stati collocati dai servizi sociali in semiconvitto e F., invece, in convitto;

– che all’epoca l’ente affidatario aveva giudicato penalizzante il drastico allontanamento dei figli dai genitori;

– che nell’ottobre del 2002 la procedura di adottabilità dei minori era stata riaperta ed il 10.06.2004, il Tribunale per i minorenni, dopo avere anche disposto per un semestre il sostegno alla famiglia e compiuta la relativa sperimentazione, aveva dichiarato il loro stato di adottabilità;

– che la madre si era dimostrata soggetto incapace, inconsapevole del suo ruolo materno e delle sue responsabilità nonchè dei suoi disturbi mentali e della necessità di curarsi oltre che di cambiare l’atteggiamento verso i figli (nei cui confronti appariva sempre molto violenta), ai quali non somministrava medicinali;

– che le vicende vissute dai minori Z. nel corso di quasi un decennio non potevano non avere segnato in maniera indelebile la loro crescita fisica e psichica, tanto da averli portati ad alterazioni comportamentali aggiuntive rispetto alle patologie da loro sofferte e curate presso gli istituti in cui erano ospitati;

– che i minori erano vissuti in ambiente familiare di grave limitatezza culturale e ambientale, a cui si erano sommati i disturbi della personalità della madre ed il carattere debole del padre, affetto da deficit intellettivo e del linguaggio;

– che nel corso di sette anni di procedura si erano alternati tutti i tipi di sostegno previsti dalla legislazione in materia, senza che lo stato di disagio di tutti i soggetti coinvolti fosse mai stato del tutto superato, e con remissioni seguite da ulteriori aggravamenti;

– che la situazione ambientale, sociale e culturale della famiglia aveva creato una situazione tale da pregiudicare in maniera grave e non transeunte lo sviluppo psicofisico dei minori, situazione che ancora permaneva, senza possibilità di recupero;

– che lo stato di abbandono non era certamente attribuibile a condizioni transitorie di salute o economiche, ma all’inidoneità di entrambi gli appellanti a svolgere il loro ruolo di genitori e ad assumere consapevolezza delle esigenze dei figli, essendo il padre completamente assente e disinteressato alla famiglia, e la madre disturbata mentale, violenta, aggressiva, restia a seguire terapie;

– che in sostanza i minori Z. non avevano accanto alcuna figura idonea a prendersi cura di loro, anche considerando che con la crescita erano aumentate le loro esigenze e complesse problematiche, mentre, invece, doveva essere assicurato il loro diritto a crescere in ambiente idoneo alle loro necessità fisiche e psichiche;

– che il tutore aveva presentato una relazione aggiornata sulla condizione dei minori, dei quali F., affetto da epilessia e schizofrenia, ospite di una casa famiglia ed i fratelli da qualche mese collocati presso una famiglia affidataria;

– che le contestazioni alla relazione del tutore, svolte dai genitori nelle note depositate nel 2006, dovevano essere disattese, posto anche che le avversate conclusioni non si fondavano sulla loro mancanza di cultura o di lavoro (entrambi erano risultati svolgere attività lavorativa);

– che ricorrevano, pertanto, le condizioni di legge per la dichiarazione di abbandono, dato che, oltre all’assoluta inidoneità dei genitori, era stata anche dimostrata la gravità dei danni causati ai minori da tale inidoneità, danni che si sarebbero perpetuati ed aggravati, poichè nulla era cambiato nella famiglia Z. – C., rispetto all’epoca di allontanamento dei figli, che ormai adolescenti ed in fase di crescita particolarmente delicata, non avevano accanto soggetti capaci di rendersi conto delle loro esigenze, di soddisfarle e di affrontare problematiche destinate ad essere sempre più complesse.

Avverso questa sentenza lo Z. e la C. hanno proposto ricorso per cassazione nei confronti del tutore dei minori, T.R. e, il 18.10.2006, del curatore speciale, Ta.Si.. All’udienza pubblica dell’11.05.2010 la causa è stata rinviata a nuovo ruolo per la notificazione del ricorso anche al PM presso il giudice a qua e per l’acquisizione dell’A/R relativo alla notificazione nei confronti del tutore dei minori già attuata a mezzo posta, con invio in data 17.10.2006, ovvero per l’eventuale rinnovazione di tale notificazione. Le disposte notificazioni sono state eseguite il 5 ed il 17.06.2010. Gli intimati non hanno svolto attività difensiva.

Motivi della decisione

A sostegno del ricorso lo Z. e la C. denunziano:

1. "Violazione L. n. 184 del 1983, artt. 1 e 8 e falsa applicazione dell’art. 360 c.p.c." e conclusivamente formulano il seguente quesito di diritto, ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., applicabile ratione temporis:

"Può il giudice dichiarare adottabile un minore senza avere accertato, al momento dell’emissione e/o della conferma di un provvedimento di adottabilità, se sussistano i presupposti richiesti dalla legge a giustificazione di un simile provvedimento, e quindi senza avere accertato la reale ed attuale capacità della famiglia di origine di crescere ed educare il minore?" 2. "Insufficienza e contraddittorietà della motivazione art. 360 c.p.c., comma 5".

Si dolgono che i giudici d’appello non abbiano preso in considerazione i mezzi istruttori da loro indicati e vertenti su un fatto decisivo del giudizio, omettendo così di porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti, in ossequio ai principi fondamentali della difesa e del contraddittorio, Entrambi i motivi di ricorso sono inammissibili.

In violazione dell’art. 366 bis cod. proc. civ., il quesito di diritto relativo al primo motivo di gravame si rivela assolutamente generico e privo di qualsiasi aderenza alle peculiarità del caso (cfr tra le altre, Cass. SU 2007/00036).

Il secondo motivo d’impugnazione, invece, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso, non risulta contenere la necessaria trascrizione delle prove che si assumono articolate e di cui si lamenta la mancata ammissione nel giudizio di merito (cfr, tra le altre, Cass. 2006/13556 e da ultimo cass. 2010/17915).

Conclusivamente il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

Non deve statuirsi sulle spese del giudizio di legittimità, stante il relativo esito ed il mancato svolgimento di attività difensiva da parte degli intimati.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Veneto Venezia Sez. II, Sent., 01-02-2011, n. 178 Ricorso giurisdizionale

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Svolgimento del processo

A. Con processo verbale di contestazione n. 16 dell’1.6.1999 il Nucleo regionale di vigilanza e controllo accertava la realizzazione abusiva dell’impianto viticolo, catastalmente identificato nella sezione di Verona nord, fg. 17, n. 68,69 e 138 della superficie netta di ha. 5.00.00., in quanto impiantato in assenza dell’autorizzazione dell’I.R.A. di Verona.

B. In forza del predetto accertamento la Regione Veneto, con decreto n. 1410 del 29.11.2002, non concedeva al ricorrente la deroga all’autorizzazione per produrre vino da commercializzare ottenuto da uve provenienti dalle superfici irregolarmente piantate per un’area di mq. 41.625,00 perché i vigneti risultavano impiantati dopo l’1.9.1998. Tale ultimo provvedimento veniva impugnato con ricorso recante il numero R.G. 399/2003, dichiarato perento con decreto n. 2673/2005.

C. Successivamente il Direttore dell’AVEPA, con ordinanza n. 21 del 27.10.2005, archiviava per ragioni di "economia amministrativa e giuridica " il detto verbale di accertamento.

D. Con il decreto n. 223 del 16.10.2009, oggetto di impugnazione, il Direttore dell’AVEPA annullava l’ordinanza di archiviazione del 27.10.2005 in considerazione della natura permanente dell’illecito contestato e dell’esistenza dei vigneti abusivamente realizzati, come accertato nel corso del sopralluogo del 10.9.2009, con conseguente impossibilità di erogare i contributi richiesti dal ricorrente in relazione a vigneti impiantati abusivamente.

E. Il ricorrente deduce l’illegittimità del provvedimento impugnato sotto più profili:

1) per assenza del presupposto dell’illegittimità dell’ordinanza di archiviazione, annullata dal provvedimento gravato;

2) per omessa specificazione delle ragioni di opportunità contrarie a quelle che avevano indotto ad archiviare il verbale di accertamento del 1999;

3) per omesso esercizio del potere di autotutela in un lasso di tempo ragionevole;

4) per mancata valutazione nel bilanciamento dei contrapposti interessi dell’affidamento del ricorrente in relazione al pregresso provvedimento di archiviazione;

5) per violazione del principio di correttezza processuale giacché l’AVEPA ha annullato l’archiviazione per non consentirne l’uso in altro procedimento pendente davanti al TAR;

6) per violazione del principio di unitarietà ed inscindibilità dell’atto amministrativo in forza del quale non si può annullare solo la sanzione senza annullare anche l’infrazione che ne è il presupposto.

F. La Regione Veneto, ritualmente costituita in giudizio, ha eccepito, in via preliminare di rito, l’inammissibilità del ricorso per difetto di legittimo contraddittorio in quanto il provvedimento è stato emesso da AVEPA, mentre il ricorso è stato notificato alla Regione Veneto, nonché per carenza di interesse giacché l’archiviazione della sanzione amministrativa non ha determinato la regolarizzazione dei vigneti realizzati in violazione di legge, come accertato dal provvedimento n. 1410/2002 del Dirigente dell’I.R.A., mai impugnato. Nel merito la Regione ha, quindi, concluso per la reiezione del ricorso in quanto infondato.

G. Con l’ordinanza n. 118 del 10.2.2010 il Tribunale rigettava la richiesta di misure cautelari ritenendo non sussistente il requisito del periculum. La detta ordinanza veniva riformata in appello con ordinanza del Consiglio di Stato n. 2496 del 28.5.2010.

H. Alla pubblica udienza del 18.11.2010 la causa è stata trattenuta in decisione.
Motivi della decisione

1. Occorre esaminare, in via preliminare, le eccezioni di inammissibilità del ricorso per difetto di legittimo contraddittorio e per carenza di interesse sollevate dall’Amministrazione regionale.

2. La Regione Veneto eccepisce, in via preliminare, che l’atto impugnato è stato emesso dall’Agenzia Veneta per i pagamenti in agricoltura, istituita con L.R. n. 31/2001 e dotata di propria personalità giuridica e di proprie competenze, e che, pertanto, il ricorso doveva essere notificato a quest’ultima e non alla Regione, soggetto estraneo ai rapporti amministrativi sottostanti.

3. Deve premettersi che il ricorso è stato notificato alla Regione Veneto, in persona del Presidente pro tempore, il 18.12.2009, come si evince dalla relata di notifica apposta in calce allo stesso, anziché ad AVEPA, nonostante il provvedimento impugnato sia stato emesso dal Direttore della detta Agenzia.

4. Tanto premesso, occorre verificare se nel caso di specie possa dirsi o meno che il ricorso è stato notificato nel termine decadenziale di 60 giorni dalla intervenuta conoscenza del provvedimento lesivo all’ autorità emanante, non essendovi alcun controinteressato.

5. Il Collegio ritiene opportuno a tal fine richiamare le disposizioni regionali relative all’istituzione dell’AVEPA e al trasferimento delle relative competenze.

5.1. L’AVEPA è subentrata nell’esercizio delle funzioni già di competenza dell’Ispettorato Regionale per l’Agricoltura, in virtù della convenzione stipulata tra la stessa e la Regione Veneto in data 17.3.2003, in attuazione dell’art. 2 della L.R. n. 31/2001, dell’art. 5 della L.R. n. 5/2001 (con le quali è stata prevista la gestione di ogni attività connessa e funzionale agli aiuti in materia di agricoltura e sviluppo rurale e di fondi strutturali di provenienza comunitaria) e della D.G.R.V. n. 2275/2002.

5.2. La VI Sezione del Consiglio di Stato, nella sentenza n.6202 del 5.12.2007, occupandosi proprio di una vicenda attinente alle procedure per la deroga alla commercializzazione dei vini provenienti da vigneti impiantati in modo irregolare, ha statuito che, ai sensi degli artt. 1 e 2 della convenzione del 17.3.2003, l’AVEPA è subentrata "nella gestione dei procedimenti indicati dalla DGR 9 agosto 2002 n. 2275" e "il subentro da parte AVEPA nella titolarità dei procedimenti di cui ai punti 2 e 3 della DGR n. 2275/2002 ha effetto a decorrere dalle date di seguito indicate: Ispettorati regionali agricoltura: data di sottoscrizione della presente convenzione". L’Allegato 1 "Elenco dei procedimenti relativi alle funzioni assegnate ad AVEPA dalla Regione" menziona espressamente il settore vitivinicolo, disciplinato dal Regolamento (CE) n. 1493/1999.

5.2.1. Prosegue il Consiglio di Stato nella richiamata pronuncia che l’AVEPA, divenuta quindi titolare del potere di rilasciare l’autorizzazione in deroga (già di competenza degli Ispettorati regionali per l’Agricoltura), è legittimata a procedere al riesame di autorizzazioni in precedenza rilasciate, qualora si verifichi il presupposto in queste espressamente indicato, cioè che "i dati e le informazioni comunicate dal richiedente" non rispondano al vero.

5.2.3. Orbene, in base alla richiamata pronuncia deve, quindi, essere disattesa la tesi sostenuta dalla difesa del ricorrente secondo la quale l’AVEPA sarebbe solo l’organismo pagatore, per la Regione Veneto, di aiuti, contributi e premi comunitari, avendo quale compito esclusivo quello di erogare i predetti pagamenti e, dunque, che il Direttore dell’AVEPA avrebbe emanato il provvedimento impugnato quale funzionario di fatto, essendo privo del potere amministrativo con lo stesso esercitato.

5.2.4. In forza delle richiamate disposizioni di legge regionale e della rammentata convenzione intercorsa tra Regione Veneto e AVEPA, il Collegio, supportato anche dalla recente pronuncia emessa dal Consiglio di Stato, ritiene che l’AVEPA abbia competenza ad emanare il provvedimento oggetto del presente giudizio e che, quindi, alla stessa debba essere riconosciuta la legittimazione passiva nel presente giudizio. Ne discende, dunque, che il ricorso avrebbe dovuto essere notificato nel rispetto del termine decadenziale di 60 giorni a quest’ultima e non alla Regione Veneto, con quanto ne consegue in punto di ammissibilità dello stesso ricorso.

5.2.5. Né, va soggiunto,, nel caso di specie può farsi ricorso all’orientamento giurisprudenziale formatosi, peraltro, in relazione al controinteressato e non all’autorità emanante, in merito alla sanatoria della notifica nulla.

5.2.6. Secondo i principi giurisprudenziali consolidatisi sul punto deve essere ritenuta inesistente la notifica del ricorso giurisdizionale nel caso in cui essa manchi del tutto ovvero sia stata effettuata con riguardo a soggetto che non abbia alcun riferimento con il destinatario necessario della notificazione stessa, mentre è affetta da nullità, sanabile con effetto ex tunc, ai sensi dell’art. 156, comma 3, c.p.c., attraverso la costituzione della parte non intimata, quando, pur eseguita mediante consegna a persona o in luogo diversi da quelli stabiliti dalla legge, risulti tuttavia ravvisabile il collegamento sopramenzionato, tale da consentire che l’atto, pervenuto a persona non del tutto estranea al processo, giunga a conoscenza del destinatario (cfr. Cons. Stato, IV, 3.11.2008 n. 5478; Cons. Stato, VI, 2.11.2007 n. 5690; T.A.R. Lazio, Roma, I, 3.7.2007 n. 5910). E tutto ciò sempre nell’imprescindibile rispetto delle preclusioni derivanti dalle decadenze operanti nel processo amministrativo, ove vige la regola – opposta a quella processuale civilistica che consente al giudice di ordinare la rinnovazione della notificazione in caso di convenuto contumace e di vizio della notifica – secondo la quale, al fine della regolare instaurazione del rapporto processuale, il ricorso deve essere ritualmente notificato, entro il prescritto termine di decadenza, all’Amministrazione resistente e ad almeno un controinteressato,.

E, infatti, in coerenza con gli illustrati principi, l’inesistenza della notificazione si verifica quando la difformità dal modulo legale è tale da renderla, come sopra chiarito, del tutto inidonea ad inserirsi nello sviluppo del processo, il che accade quando la consegna dell’atto sia avvenuta a soggetti privi di legittimazione o a persona ed in luogo in nessun modo riferibili al destinatario, essendo in tali casi la notifica effettuata in modo assolutamente non conforme alla legge ed essendo, altresì, inidonea a realizzare lo schema tipico dell’istituto e lo scopo cui è preordinato.

5.2.7. In tali casi, gli effetti conseguenti all’inesistenza della notificazione non possono essere impediti, quindi, invocando la sanatoria della nullità, in quanto ciò è possibile solo con riferimento ad una notificazione irregolare, viziata o nulla, ma pur sempre esistente e realizzatasi come tale.

5.2.8. In coerente applicazione dei suesposti principi, difettando, nella fattispecie in esame, la legittimazione della Regione Veneto,all’emanazione del provvedimento oggetto di impugnazione, la notifica ad essa sola affettuata deve ritenersi integrante un’ipotesi di inesistenza (tamquam non esset), in quanto diretta a soggetto privo di un concreto collegamento con il legittimo destinatario dell’atto.

6. Né, infine, può trovare applicazione nel caso di specie l’istituto della rimessione in termini per effetto dell’errore scusabile, giacché tutti gli atti della procedura che ha condotto all’emanazione del provvedimento impugnato, ivi compreso quest’ultimo, recano l’intestazione dell’A.V.E.P.A. e, del resto, lo stesso ricorrente ha sempre interloquito in relazione agli stessi con l’Agenzia e non con uffici della Regione Veneto.

7. Alla luce delle suesposte considerazioni il ricorso deve, pertanto, essere dichiarato inammissibile per difetto del legittimo contradditorio.

8. Appaiono sussistere giustificati motivi, in considerazione dell’esistenza di una pronuncia cautelare favorevole, per compensare tra le parti le spese di lite.
P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto (Sezione Seconda),definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo dichiara inammissibile..

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 13-01-2011) 23-02-2011, n. 7075

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

I.N. è imputato per la violazione degli artt. 453 e 455 c.p. – attesa la detenzione di numerose banconote false, di cui alcune presentate in pagamento presso alcuni negozi e bar – ed è stato condannato dal Tribunale di Patti, decisione confermata dalla Corte d’Appello di Messina dell’1.5.2009.

Il ricorso del predetto si articola sui seguenti motivi:

– inosservanza della legge processuale poichè la ricevuta della notifica dell’udienza di appello fu ritirata dal padre del prevenuto che, tuttavia da parecchio tempo non era più convivente con lo stesso;

– inosservanza della legge processuale poichè fu rigettata eccezione di incompetenza del primo giudice per tardività della stessa, quando – invece – essa poteva essere dichiarata di ufficio, diversamente si viola il principio dettato dall’art. 35 Cost. sul rispetto del giudice naturale precostituito per legge;

– erronea applicazione della legge penale poichè le banconote erano contraffatte in guisa grossolana, sì che il reato doveva dichiararsi inesistente per l’inidoneità all’inganno, attesa la palese falsificazione.
Motivi della decisione

Il primo motivo è infondato.

Ai sensi della L. n. 890 del 1982, art. 8, comma 2, l’Ufficiale Postale è obbligato, alla consegna dei plichi raccomandati esclusivamente a persone abilitate alla ricezione, poichè – in caso di ovvero in caso di inidoneità della persona legittimata – egli è tenuto al compimento delle formalità descritte dalla norma, dando notizia del deposito del piego di cui è omessa la consegna al destinatario medesimo, con raccomandata con avviso di ricevimento (salvo che, ai sensi del comma 3 del medesimo articolo, il piego sia restituito al mittente, in caso di mancato ritiro da parte del destinatario, dopo dieci giorni dal deposito presso l’ufficio postale).

Il mancato adempimento di questi adempimenti esclude che chi ebbe a ritirare la notificazione fosse sprovvisto di documento o altro titolo di legittimazione al riguardo.

La declaratoria di incompetenza territoriale, nel corso del dibattimento di primo grado, presuppone che il giudice abbia omesso di decidere immediatamente sulla questione, che deve essere proposta o rilevata di ufficio subito dopo il compimento per la prima volta dell’accertamento della costituzione delle parti.

Al contempo, decorso inutilmente il termine di cui all’art. 491 c.p.p., le questioni concernenti la competenza per territorio sono precluse e non possono essere più rilevate, neppure di ufficio.

Anche questo mezzo è infondato poichè la decisione della Corte territoriale è del tutto aderente al dettato normativo degli artt. 21 e 23 c.p.p. il quale fornendo una previsione di ordine generale non consente in alcun modo la violazione del principio stabilito dall’art. 25 Cost. sulla precostituzione del giudice naturale.

Seguendo l’insegnamento di questa Corte in tema di falso nummario, la grossolanità idonea ad integrare gli estremi del reato impossibile ( art. 49 c.p.) ricorre solo quando il falso sia ricorribile "ictu oculi" dalla generalità dei consociati espressa dall’uomo qualunque di comune esperienza ed il relativo giudizio va riferito non solo alle caratteristiche oggettive della banconota, ma anche, in considerazione del normale uso delle stesse, alle modalità di scambio ed alle circostanze nelle quali esso avviene (Cass. Sez. 5^, 15.12.1993, Bonzi, CED Cass.197071).

Orbene, il solo fatto che taluno sia stato ingannato dalla spendita di queste banconote attesta la suscettibilità all’inganno escludendo che l’apparenza di per sè potesse indurre la generalità a diffidare della loro genuinità.

Anche questo motivo è privo di fondamento.

Al rigetto del ricorso segue la condanna al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.