T.A.R. Lombardia Milano Sez. III, Sent., 15-07-2011, n. 1912 Ricorso per l’esecuzione del giudicato

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1) In punto di fatto il Tribunale rileva che a) con decreto ingiuntivo n. 331/09 – n. 546/09 r.g. emesso dal Tribunale di Busto Arsizio – Sezione Distaccata di Saronno il 28.05.2009, spedito in formula esecutiva il 16.10.2009, notificato in tale forma il 04.12.2009 e non oggetto di opposizione, il giudice ordinario ha ingiunto all’amministrazione resistente di pagare in favore della società ricorrente la somma di Euro 402.211,71 oltre gli accessori, come indicati nel decreto; b) con decreto ingiuntivo n. 585/09 – n. 966/09 r.g. emesso dal Tribunale di Busto Arsizio – Sezione Distaccata di Saronno il 13.10.2009, spedito in formula esecutiva il 01.02.2010, notificato in tale forma il 01.03.2010 e non oggetto di opposizione, il giudice ordinario ha ingiunto all’amministrazione resistente di pagare in favore della società ricorrente la somma di Euro 30.202,58 oltre gli accessori, come indicati nel decreto.

La società ricorrente lamenta che i decreti ingiuntivi non sono stati integralmente ottemperati dall’amministrazione ingiunta.

L’Azienda Ospedaliera Universitaria della Seconda Università degli Studi di Napoli, costituitasi in giudizio, eccepisce l’inammissibilità in applicazione dell’art. 1, comma 51, della legge 2010 n. 220, deducendo, inoltre, l’avvenuto pagamento parziale delle somme dovute.

2) L’eccezione proposta dall’amministrazione resistente non merita condivisione e il relativo esame richiede la ricostruzione del quadro normativo di riferimento.

L’art. 11, comma 2, del decretolegge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, dispone che "Per le regioni già sottoposte ai piani di rientro dai disavanzi sanitari, sottoscritti ai sensi dell’articolo 1, comma 180, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, e successive modificazioni, e già commissariate alla data di entrata in vigore del presente decretolegge, al fine di assicurare il conseguimento degli obiettivi dei medesimi Piani di rientro nella loro unitarietà, anche mediante il regolare svolgimento dei pagamenti dei debiti accertati in attuazione dei medesimi piani, i Commissari ad acta procedono, entro 15 giorni dall’entrata in vigore del presente decretolegge, alla conclusione della procedura di ricognizione di tali debiti, predisponendo un piano che individui modalità e tempi di pagamento. Al fine di agevolare quanto previsto dal presente comma ed in attuazione di quanto disposto nell’Intesa sancita dalla Conferenza StatoRegioni nella seduta del 3 dicembre 2009, all’art. 13, comma 15, fino al 31 dicembre 2010 non possono essere intraprese o proseguite azioni esecutive nei confronti delle aziende sanitarie locali e ospedaliere delle regioni medesime".

L’art. 11, comma 51 della legge 2010, n. 220 – recante disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2011) – dispone che "al fine di assicurare il regolare svolgimento dei pagamenti dei debiti oggetto della ricognizione di cui all’articolo 11, comma 2, del decretolegge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, per le regioni già sottoposte ai piani di rientro dai disavanzi sanitari, sottoscritti ai sensi dell’articolo 1, comma 180, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, e successive modificazioni, e già commissariate alla data di entrata in vigore della presente legge, non possono essere intraprese o proseguite azioni esecutive nei confronti delle aziende sanitarie locali e ospedaliere delle regioni medesime, fino al 31 dicembre 2011" (termine spostato al 31.12.2012 ex d.l. 2011 n. 98). "I pignoramenti e le prenotazioni a debito sulle rimesse finanziarie trasferite dalle regioni di cui al presente comma alle aziende sanitarie locali e ospedaliere delle regioni medesime, effettuati prima della data di entrata in vigore del decretolegge n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122 del 2010, non producono effetti dalla suddetta data fino al 31 dicembre 2011 e non vincolano gli enti del servizio sanitario regionale e i tesorieri, i quali possono disporre, per le finalità istituzionali dei predetti enti, delle somme agli stessi trasferite durante il suddetto periodo.

Le norme ora citate si collocano nel quadro della disciplina introdotta dall’art. 1, commi da 164 in avanti, della legge 2004 n. 311, recante disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2005).

In particolare, il comma 164 dell’art. 1 prevede, tra l’altro, che lo Stato concorra al ripiano dei disavanzi del servizio sanitario nazionale mediante un finanziamento integrativo, strumentalmente teso a garantire che l’obiettivo del raggiungimento dell’equilibrio economico finanziario da parte delle regioni sia conseguito nel rispetto della garanzia della tutela della salute (comma 169).

L’accesso al finanziamento integrativo a carico dello Stato, derivante da quanto disposto al comma 164, viene subordinato alla stipula di una specifica intesa tra Stato e regioni, che ai fini del contenimento della dinamica dei costi deve contemplare una serie di parametri individuati dal comma 173 del medesimo articolo 1.

Il successivo comma 174 impone alle regioni, in caso di sussistenza di una situazione di squilibrio e proprio al fine del rispetto dell’equilibrio economicofinanziario, di adottare i provvedimenti necessari, con la precisazione che, qualora la regione non provveda, si procede al commissariamento secondo la procedura di cui all’articolo 8, comma 1, della legge 5 giugno 2003, n. 131 e previa diffida del presidente del consiglio dei ministri. In tale caso spetta al presidente della regione, in qualità di commissario ad acta, di approvare il bilancio di esercizio consolidato del servizio sanitario regionale al fine di determinare il disavanzo di gestione e di adottare i necessari provvedimenti per il suo ripianamento.

Al verificarsi di queste condizioni, la regione interessata procede ad una ricognizione delle cause dello squilibrio ed elabora un programma operativo di riorganizzazione, di riqualificazione o di potenziamento del servizio sanitario regionale, di durata non superiore al triennio. I ministri della salute e dell’economia e delle finanze e la singola regione stipulano apposito accordo che individui gli interventi necessari per il perseguimento dell’equilibrio economico, nel rispetto dei livelli essenziali di assistenza e degli adempimenti di cui alla intesa prevista dal comma 173. La sottoscrizione dell’accordo è condizione necessaria per la riattribuzione alla regione interessata del maggiore finanziamento anche in maniera parziale e graduale, subordinatamente alla verifica della effettiva attuazione del programma (cfr. comma 180).

Dal quadro normativo ora richiamato emerge che il divieto di intraprendere o proseguire azioni esecutive nei confronti delle aziende sanitarie locali e ospedaliere presuppone: a) che esse operino in regioni commissariate secondo la procedura di cui all’articolo 8, comma 1, della legge 5 giugno 2003, n. 131; b) che siano stati predisposti piani di rientro dai disavanzi sanitari, ai sensi dell’articolo 1, comma 180, della legge 30 dicembre 2004, n. 311 finalizzati alla riorganizzazione, riqualificazione o al potenziamento del servizio sanitario regionale; c) che sia stata effettuata la ricognizione dei debiti di cui all’articolo 11, comma 2, del decretolegge 31 maggio 2010, n. 78.

Sotto altro profilo va osservato che la disciplina di cui si tratta introduce un limite alla possibilità per i creditori di conseguire coattivamente una pretesa patrimoniale nei confronti delle A.S.L., ponendo così un problema di coordinamento e di compatibilità con la disciplina comunitaria in materia di lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali.

Il riferimento va alla Direttiva 29 giugno 2000, n. 2000/35/CE, pubblicata nella G.U.C.E. 8 agosto 2000, n. L 200, entrata in vigore in data 8 agosto 2000 e recepita dallo Stato italiano con la legge 1° marzo 2002, n. 39 (legge comunitaria 2001) e con D.Lvo. 9 ottobre 2002, n. 231; direttiva poi abrogata dall’articolo 13 della direttiva 2011/7/UE, a sua volta relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, ma entrata in vigore in data 15 marzo 2011 e, pertanto, non riferibile alla fattispecie in esame, che resta sottoposta alla precedente direttiva 2000 n. 35.

In particolare, vale evidenziare che la direttiva n. 35 è rivolta a realizzare "l’obiettivo della lotta contro i ritardi di pagamento nel mercato interno", obiettivo che non può essere sufficientemente realizzato dagli Stati membri separatamente e può, pertanto, essere meglio realizzato a livello comunitario (cfr. considerando n. 12), con la precisazione che "i periodi di pagamento eccessivi e i ritardi di pagamento impongono pesanti oneri amministrativi e finanziari alle imprese, ed in particolare a quelle di piccole e medie dimensioni. Inoltre tali problemi costituiscono una tra le principali cause d’insolvenza e determinano la perdita di numerosi posti di lavoro" (cfr considerando n. 7).

In relazione all’ambito applicativo, va osservato che la normativa comunitaria disciplina tutte le transazioni commerciali, a prescindere dal fatto che esse siano effettuate tra imprese pubbliche o private o tra imprese e autorità pubbliche, "tenendo conto del fatto che a queste ultime fa capo un volume considerevole di pagamenti alle imprese" (cfr. considerando n. 20 e art. 2).

Inoltre, sul piano della correlazione tra lotta contro i ritardi nei pagamenti e disciplina delle procedure di recupero del credito, la direttiva evidenzia che: a) i ritardi di pagamento costituiscono una violazione contrattuale resa finanziariamente attraente per i debitori nella maggior parte degli Stati membri per i bassi livelli dei tassi degli interessi di mora e/o dalla lentezza delle procedure di recupero (cfr. considerando n. 16); b) le conseguenze del pagamento tardivo possono risultare dissuasive soltanto se accompagnate da procedure di recupero rapide ed efficaci per il creditore (cfr. considerando n. 20); c) l’articolo 5 della direttiva prevede che la procedura di recupero dei crediti non contestati sia conclusa a breve termine, in conformità delle disposizioni legislative nazionali (cfr. considerando n. 23).

Quanto poi alle situazioni sottratte all’ambito di applicazione della normativa comunitaria, viene specificato che la "direttiva si limita a definire l’espressione "titolo esecutivo", ma non disciplina le varie procedure per l’esecuzione forzata di un siffatto titolo, né le condizioni in presenza delle quali può essere disposta la sospensione dell’esecuzione ovvero può essere dichiarata l’estinzione del relativo procedimento", così precisando che solo l’esecuzione forzata e le relative ipotesi di sospensione restano estranee a tale regolamentazione.

Sempre in relazione ai limiti di applicazione, l’art. 6 della direttiva consente agli Stati membri di escludere da tale disciplina: a) i debiti oggetto di procedure concorsuali aperte a carico del debitore; b) i contratti conclusi prima dell’8 agosto 2002; c) le richieste di interessi inferiori a 5 euro.

In sede di recepimento, lo Stato italiano ha esercitato tale potere di esclusione, ma limitatamente ai contratti conclusi prima dell’8 agosto 2002, che restano sottratti alla normativa in esame, ai sensi dell’art. 11, comma 1, del d.l.vo 2002, n. 231.

3) Il quadro normativo ora ricostruito non consente di comprendere l’ottemperanza ad un decreto ingiuntivo tra le azioni esecutive che non possono essere intraprese o proseguite nei confronti delle aziende sanitarie locali e ospedaliere delle regioni commissariate e sottoposte ai piani di rientro dai disavanzi sanitari.

3.1) In primo luogo occorre portare l’attenzione sulla ratio della disciplina nazionale preclusiva delle azioni esecutive; ratio emergente dai presupposti di applicazione della normativa nazionale di cui si tratta.

Il blocco delle azioni esecutive mira a consentire la realizzazione dei piani di rientro dai disavanzi sanitari predisposti dalle regioni commissariate e diretti, non solo a ripristinare l’equilibrio finanziario del settore sanitario, ma anche ad assicurare l’attuazione di un processo di riorganizzazione e risanamento del servizio sanitario, nel quale si colloca la previsione di un finanziamento integrativo a carico dello Stato (cfr. in particolare art. 11, comma 2, del d.l. 2010, n. 78, nonché art. 11, comma 51, della legge 2010, n. 220 e art. 1, commi 164, 169, 174, 180 della legge 2004, n. 311).

I piani di rientro e la loro attuazione devono assicurare che l’equilibrio economico e finanziario venga conseguito garantendo la tutela della salute, nonché il mantenimento di modalità di erogazione delle prestazioni sanitarie uniformi sul territorio nazionale e coerenti, sul piano qualitativo e quantitativo, con i livelli essenziali di assistenza in materia sanitaria (cfr. in particolare art. 1, comma 169, della legge 2004, n. 311).

L’obiettivo dell’attuazione dei piani di rientro e del contemporaneo mantenimento dei livelli di assistenza, a tutela del fondamentale diritto alla salute, presuppone che l’amministrazione conservi integri e nel loro complesso i beni strumentali e funzionali all’erogazione delle prestazioni sanitarie, nonostante sia gravata da una situazione debitoria tale da pregiudicarne l’equilibrio economico e finanziario e da giustificare un finanziamento integrativo a carico dello Stato.

Tale esigenza si soddisfa escludendo che nei confronti delle aziende sanitarie, versanti nelle condizioni economiche e finanziarie suindicate, possano essere attivate o completate procedure esecutive che, al fine di soddisfare il creditore, consentano di aggredire i beni, mobili ed immobili, di cui l’amministrazione si avvale per l’erogazione delle prestazioni del servizio sanitario, sottraendoli alla loro destinazione funzionale.

Il riferimento attiene, pertanto, al processo di esecuzione in senso stretto, caratterizzato dal pignoramento, che, da un lato, produce l’effetto giuridico di vincolare determinati beni del debitore al soddisfacimento del creditore, dall’altro, è prodromico alla soddisfazione coattiva del credito mediante l’assegnazione o la vendita, secondo la disciplina posta dagli artt. 491 e seg. del c.p.c..

Insomma, il compimento di simili atti nei confronti delle A.S.L. versanti nelle condizioni suindicate avrebbe l’effetto di sottrarre alla loro destinazione determinati beni funzionali all’erogazione del servizio sanitario, con pregiudizio sia dell’obbiettivo del risanamento economico e finanziario, nonché delle esigenze di riorganizzazione e di risanamento del servizio sanitario, sia dell’esigenza di mantenere inalterati i livelli essenziali di assistenza.

Ecco, allora, che tanto l’art. 11, comma 2, del decretolegge 31 maggio 2010, n. 78, quanto l’art. 11, comma 51, della legge 2010, n. 220, nella parte in cui escludono la possibilità di intraprendere o proseguire azioni esecutive nei confronti delle aziende sanitarie locali e ospedaliere delle regioni commissariate e già sottoposte ai piani di rientro dai disavanzi sanitari, sottoscritti ai sensi dell’articolo 1, comma 180, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, vanno interpretati come preclusivi delle azioni esecutive in senso stretto, ossia delle procedure di esecuzione forzata per espropriazione, che consentono al creditore di soddisfarsi coattivamente sui beni del debitore mediante la vendita o l’assegnazione dei beni medesimi, in quanto simili procedure ostacolano l’attuazione dei complessivi obiettivi, di risanamento finanziario e di riorganizzazione, che connotano i piani di rientro e pregiudicano il mantenimento dei livelli essenziali di assistenza nel settore sanitario.

Il dato letterale conforta tale interpretazione, atteso che, proprio l’art. 11, comma 51, della legge 2010, n. 220, dopo avere precluso l’attivazione e la prosecuzione delle "azioni esecutive" nei confronti delle A.S.L., disciplina le azioni esecutive già intraprese, prevedendo che non producono effetti i "pignoramenti e le prenotazioni a debito sulle rimesse finanziarie trasferite dalle regioni" alle aziende sanitarie locali e ospedaliere delle regioni medesime, effettuati prima della data di entrata in vigore del d.l. n. 78 del 2010.

Certo, l’inciso da ultimo considerato riguarda solo i pignoramenti e le prenotazioni a debito sulle rimesse finanziarie effettuate dalla regione e non gli atti di esecuzione forzata per espropriazione compiuti su altri beni strumentali all’erogazione del servizio sanitario, ma resta fermo che, nel contesto complessivo della disposizione, la preclusione è riferita solo ad atti tipici del processo di esecuzione forzata (il pignoramento, in particolare), mentre la formula impiegata si spiega con l’esigenza, espressa dalla norma, di conservare al servizio sanitario le somme versate dalla regione per l’erogazione del servizio medesimo, in modo che gli enti del servizio sanitario regionale e i tesorieri possano continuare a "disporre, per le finalità istituzionali dei predetti enti, delle somme agli stessi trasferite durante il suddetto periodo".

In altre parole, con l’inciso in esame il legislatore ha dettato il regime di un particolare bene, qual é il denaro versato dalla regione e destinato all’erogazione del servizio, al fine di evitare che i pignoramenti e le prenotazioni a debito già effettuati ne ostacolino l’utilizzo per lo scopo prestabilito.

Nondimeno, resta fermo che la norma, riferendosi espressamente solo al pignoramento e alla prenotazione a debito, ha limitato la preclusione ai soli atti della procedura esecutiva in senso stretto e sul piano sistematico ciò induce a riferire l’espressione "azioni esecutive" proprio a questo tipo di procedura, atteso che, anche per i beni diversi dal denaro, ma comunque strumentali allo svolgimento del servizio sanitario, sussiste l’esigenza di preservarne la destinazione, sottraendoli alla soddisfazione coattiva del creditore, destinazione compromessa dagli atti della procedura esecutiva per espropriazione.

Analoga esigenza non sorge rispetto al giudizio di ottemperanza, che, pertanto, non è riconducibile alle "azioni esecutive" paralizzate dall’art. 11, comma 2, del decretolegge 31 maggio 2010, n. 78 e dall’art. 11, comma 51, della legge 2010, n. 220.

Invero, mediante l’azione di ottemperanza esperita a tutela di una situazione creditoria ed, in particolare, per la soddisfazione di una pretesa pecuniaria risultante da una sentenza passata in giudicato del giudice ordinario o da un provvedimento giurisdizionale ad essa equiparato, come il decreto ingiuntivo munito di formula esecutiva, il creditore non aggredisce esecutivamente singoli beni sottraendoli alla loro destinazione funzionale e vincolandoli alla soddisfazione della propria pretesa, ma ottiene che il giudice si sostituisca all’amministrazione, direttamente o indirettamente per il tramite di un commissario ad acta, nel compimento degli atti necessari per l’adempimento del debito.

Atti che consistono nel reperimento delle somme necessarie per la soddisfazione del credito, eventualmente anche mediante il ricorso a finanziamenti, nei limiti consentiti dalla legge, ma non nel pignoramento e nella successiva assegnazione o vendita di beni determinati, che sono atti diretti a realizzare la conversione in denaro di beni determinati a soddisfazione del creditore.

In altre parole, tale procedura non incide sui beni, mobili o immobili, che l’A.S.L. utilizza per l’erogazione del servizio sanitario, né sulle somme che in base alla legge sono destinate all’erogazione di tale servizio, sicché in relazione ad essa non viene in rilevo la necessità di evitare che la tutela dei creditori dell’amministrazione possa pregiudicare l’attuazione degli obiettivi di risanamento finanziario, di riorganizzazione e di mantenimento dei livelli essenziali di assistenza nel settore sanitario che connotano i piani di rientro dai disavanzi sanitari, alla cui attuazione è funzionale il blocco delle azioni esecutive.

In simili casi spetta all’organo giurisdizionale, o al commissario ad acta nominato dal primo, il compimento degli atti necessari per la soddisfazione del credito azionato, senza intaccare necessariamente beni strumentali al servizio sanitario nei termini suesposti.

Resta fermo che, in relazione alle peculiarità del caso concreto, possono verificarsi delle fattispecie in cui l’ottemperanza risulta oggettivamente impossibile e ciò dipende dal fatto che ogni giudizio di ottemperanza incontra il limite dell’oggettiva impossibilità, da apprezzare caso per caso (cfr. in argomento a mero titolo esemplificativo Consiglio di Stato, Ad. Plen., 29 aprile 2005, n. 2), ma tale circostanza non incide sull’ammissibilità della relativa azione.

3.2) L’esclusione del giudizio di ottemperanza dal blocco delle azioni esecutive è coerente con la già richiamata disciplina comunitaria in materia di lotta ai ritardi dei pagamenti nelle transazioni commerciali.

In effetti, la direttiva 2000 n. 35 (in particolare considerando n. 15) specifica di limitarsi "a definire l’espressione titolo esecutivo", senza disciplinare le "procedure per l’esecuzione forzata di un siffatto titolo, né le condizioni in presenza delle quali può essere disposta la sospensione dell’esecuzione ovvero può essere dichiarata l’estinzione del relativo procedimento".

Il riferimento alla sola "esecuzione forzata" e non alla generalità delle procedure utilizzabili per la realizzazione di una pretesa pecuniaria induce a ritenere che restino estranee alla disciplina comunitaria solo le procedure di soddisfazione del credito caratterizzate dall’agire esecutivamente sui beni del debitore, vincolandoli alla soddisfazione del credito e così sottraendoli alla loro destinazione, mentre ne restano assoggettate quelle che, come il giudizio di ottemperanza, tendono alla realizzazione della pretesa pecuniaria senza espropriare forzatamente beni determinati dell’amministrazione.

Difatti, escludere qualsiasi forma di esecuzione dall’ambito di applicazione della direttiva equivarrebbe a vanificarne la finalità e l’esigenza di omogeneizzazione della disciplina dei ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali cui tende la normativa comunitaria.

Diversamente opinando, ciascuno Stato potrebbe, a proprio arbitrio, decidere di paralizzare ogni forma di esecuzione nel settore cui si riferisce la direttiva, impedendo al creditore di soddisfarsi concretamente e così precludendo la realizzazione degli obiettivi comunitari.

Ciò è ancora più evidente se si considera – come già evidenziato in sede di ricostruzione del quadro normativo – che proprio la direttiva stigmatizza la lentezza delle procedure di recupero e precisa che "le conseguenze del pagamento tardivo possono risultare dissuasive soltanto se accompagnate da procedure di recupero rapide ed efficaci per il creditore", aggiungendo che tale situazione si verifica, tra l’altro, nei rapporti tra imprese e autorità pubbliche, in quanto "a queste ultime fa capo un volume considerevole di pagamenti alle imprese" (cfr. considerando n. 16 e n. 20, nonché artt. 2 e 5 dell’articolato).

Il richiamo a procedure di recupero del credito rapide ed efficaci sottende la necessità di assicurare la realizzazione concreta della pretesa patrimoniale e si pone come un passaggio indefettibile per l’attuazione degli obiettivi propri della direttiva 2000 n. 35, sicché è del tutto coerente interpretare in modo restrittivo l’esclusione della "esecuzione forzata" dall’ambito della disciplina comunitaria in questione, limitandola alla sola esecuzione per espropriazione e non alle altre procedure che, come il giudizio di ottemperanza, sono rivolte a consentire la soddisfazione del creditore senza agire per espropriazione su beni determinati.

Ne deriva che lo Stato, intervenendo normativamente in materia di soddisfazione dei crediti derivanti da transazioni commerciali tra imprese ed amministrazioni, non può paralizzare procedure esecutive diverse dall’esecuzione forzata in senso stretto, in quanto così facendo si porrebbe in contrasto con la direttiva comunitaria 2000 n. 35, che non gli attribuisce tale potere in sede di recepimento della direttiva medesima.

In altre parole, l’interpretazione prospettata dall’amministrazione resistente volta a comprendere nel blocco delle azioni esecutive anche il giudizio di ottemperanza non è condivisibile, in quanto rende la normativa nazionale in esame incompatibile con i contenuti della direttiva 2000 n. 35.

3.3) Una volta precisato che il giudizio di ottemperanza non integra una forma di esecuzione forzata ai sensi della direttiva 2000 n. 35 e, pertanto, non si sottrae alla disciplina comunitaria in esame, vale rilevare, a fini di completezza sistematica, un profilo di incompatibilità tra la disciplina posta dall’art. 11, comma 2, del decretolegge 31 maggio 2010, n. 78 e dall’art. 11, comma 51, della legge 2010, n. 220 e la direttiva 2000 n. 35, qualora si riferisse il blocco delle esecuzioni anche al giudizio di ottemperanza, secondo la prospettazione dell’amministrazione resistente, con conseguente necessità di procedere, nel caso concreto, alla disapplicazione delle norme interne ora citate.

La direttiva consente a ciascuno Stato di introdurre deroghe alla disciplina comunitaria solo per i debiti oggetto di procedure concorsuali aperte a carico del debitore, nonché per i contratti conclusi prima dell’8 agosto 2002 e per le richieste di interessi inferiori a 5 euro.

Il legislatore nazionale, con l’art. 11, comma 1, del d.l.vo 2002, n. 231, ha esercitato tale potere di esclusione, sottraendo i contratti conclusi prima dell’8 agosto 2002 alla disciplina in materia di lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali.

Nondimeno, è evidente che anche il blocco delle azioni esecutive integra un limite all’operatività della disciplina ora citata, in quanto preclude l’efficacia delle procedure di recupero del credito, valorizzate dalla direttiva come strumento dissuasivo indefettibile contro i pagamenti tardivi.

Inoltre, l’art. 11, comma 2, del d.l. 2010, n. 78 e l’art. 11, comma 51, della legge 2010, n. 220 assumono a presupposto del blocco la circostanza che la regione, cui appartiene l’A.S.L. debitrice, sia commissariata e sottoposta a piani di rientro dai disavanzi economici.

Occorre allora verificare se – una volta chiarito che l’ottemperanza rientra nell’ambito di riferimento della direttiva 2000 n 35 e assumendo, secondo la tesi dell’amministrazione resistente, che il blocco delle azioni esecutive comprende anche il giudizio di ottemperanza – tale normativa nazionale riflette i presupposti in presenza dei quali la direttiva consente agli Stati di introdurre deroghe alla disciplina da essa dettata.

In particolare, alla luce delle già indicate ipotesi di deroga fatte salve dalla direttiva, occorre esaminare se la sottoposizione al commissariamento e ai piani di rientro dai disavanzi economici sia equiparabile alla sottoposizione del debitore ad una procedura, ossia all’ipotesi di derogabilità della normativa comunitaria prevista dall’art. 6, comma 3, della direttiva.

Tale equiparazione non è sostenibile.

Invero, le procedure concorsuali sono dirette a garantire la par condicio creditorum, ossia, in estrema sintesi, la possibilità per tutti i creditori, che siano tali al momento dell’apertura della procedura, di soddisfarsi in uguale misura percentuale sui beni del debitore, che vengono sottoposti a liquidazione.

Tale situazione non è ravvisabile nelle fattispecie cui si riferisce il blocco delle azioni esecutive.

In primo luogo, va osservato che il commissariamento non riguarda l’A.S.L. debitrice ma la Regione cui l’A.S.L. appartiene, sicché la fattispecie non è riconducibile ad una procedura concorsuale aperta a carico del debitore.

Inoltre, il commissariamento, unitamente all’esecuzione dei piani di rientro dal disavanzo finanziario, non sottende l’esigenza di garantire la soddisfazione almeno pro quota di tutti i creditori, ma risponde, in primo luogo e come già evidenziato, alla necessità di consentire la riorganizzazione e la riqualificazione del servizio sanitario regionale nel mantenimento dei livelli essenziali di assistenza e correlando a tale processo riorganizzativo anche il pagamento dei debiti oggetto di specifica ricognizione.

Va, pertanto, ribadito che, qualora il blocco delle esecuzioni fosse riferito anche al giudizio di ottemperanza, che non è escluso dall’ambito della direttiva 2000 n. 35 in quanto non integra una "esecuzione forzata" ai sensi della direttiva, la normativa nazionale dovrebbe essere disapplicata per contrasto con la direttiva citata, poiché introdurrebbe una deroga alla disciplina europea al di fuori dei casi da essa consentiti.

3.4) Le conclusioni raggiunte non sono superabili valorizzando il carattere più di esecuzione che di cognizione assunto dal giudizio di ottemperanza quando ha ad oggetto le sentenze, o atti equiparati, del giudice ordinario, che recano la condanna dell’amministrazione al pagamento di somme di denaro.

Tale circostanza è stata valorizzata da una parte della giurisprudenza per sostenere che anche il giudizio di ottemperanza rientra nel blocco delle procedure esecutive.

In particolare, si è considerato che "sia le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Cass. Sez. Un. 30 giugno 1999, n. 376) che l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (Ad. Plen. 15 marzo 1989 n. 7) hanno ritenuto che il giudice dell’ottemperanza, in caso di sentenze del giudice amministrativo – diversamente da quanto accade in caso di sentenze rese dal giudice di un altro ordine – ha il potere di integrare il giudicato, nel quadro degli ampi poteri, tipici della giurisdizione estesa al merito (e idonei a giustificare anche l’emanazione di provvedimenti discrezionali), che in tal caso egli può esercitare ai fini dell’adeguamento della situazione al comando rimasto inevaso (cfr. anche Consiglio di stato, sez. VI, 16 ottobre 2007, n. 5409). Per quanto poi concerne, in particolare, il giudizio di ottemperanza per l’esecuzione di un decreto ingiuntivo non opposto, secondo condivisibile giurisprudenza "il giudice amministrativo, accertato il mancato pagamento delle somme ingiunte, è investito solo della funzione di garantire gli adempimenti materiali per soddisfare tale precetto, senza poter valutare le ragioni della situazione debitoria e dell’imputabilità dell’inerzia riscontrata" (T.A.R. Lazio Roma, sez. III, 17 novembre 2008, n. 10251). Per tali rilievi la procedura in esame, qualificabile come "azione esecutiva" in senso proprio, peraltro alternativa all’esecuzione di cui al codice di rito, resta assoggettata al termine di sospensione previsto dalla legge 220/2010" (cfr. Tar Calabria Catanzaro, sez. I, 13 aprile 2011, n. 516).

Le considerazioni svolte dalla giurisprudenza indicata sono condivisibili nella parte in cui mettono in evidenza il carattere più di esecuzione che di cognizione del giudizio di ottemperanza avente ad oggetto un decreto ingiuntivo, mentre non lo sono nella parte in cui correlano a tale carattere dell’ottemperanza l’applicabilità del blocco delle esecuzioni.

In particolare, la natura esecutiva che il giudizio di ottemperanza assume in tali ipotesi – giudizio peraltro cumulabile con l’esecuzione forzata civilistica salva l’impossibilità di conseguire due volte quanto spettante (cfr. tra le altre, Tar Campania Napoli, sez. V, 13 novembre 2009, n. 7373) e comunque connotato da profili di cognizione anche in relazione all’interpretazione del giudicato ordinario (cfr. Cass. Civ., SS.UU., ordinanza 2 dicembre 2009 n. 25344) – evidenzia solo che il giudice amministrativo deve limitarsi ad accertare la permanenza dell’inadempimento e la presenza di un titolo esecutivo, interpretandone il contenuto, senza potere sviluppare altri profili di cognizione, ma non vale a trasformare il giudizio di ottemperanza in una procedura di esecuzione in senso stretto, atteso che non è diretto ad aggredire beni determinati, ma a sostituire l’amministrazione inadempiente nel compimento degli atti necessari a garantire la soddisfazione del credito.

Ne deriva che la prevalenza di profili esecutivi su quelli cognitori, nel giudizio di ottemperanza riferibile ai casi in esame, nulla dice in ordine alla estendibilità a tale giudizio del blocco delle esecuzioni.

3.5) Vale evidenziare, infine, un ulteriore profilo proprio della fattispecie in esame comunque ostativo all’applicazione del blocco delle esecuzioni stabilito dagli artt. 11, comma 2, del d.l. 2010, n. 78 e 11, comma 51, della legge 2010, n. 220.

Si è già chiarito che l’operatività della disciplina dettata dalle norme citate presuppone che l’amministrazione regionale abbia proceduto alla ricognizione dei debiti prevista proprio dall’art. 11, comma 2, del d.l. 2010, n. 78.

Tale circostanza, siccome integra, nella prospettiva dedotta dall’amministrazione resistente, un fatto diretto ad applicare una normativa tesa a paralizzare la pretesa del ricorrente, deve essere dimostrata proprio dall’amministrazione resistente, ai sensi dell’art. 2697, comma 2, c.c..

Nondimeno, tale circostanza non è stata né allegata, né provata dall’Azienda Sanitaria resistente, la cui eccezione è anche priva della dimostrazione dei presupposti fattuali di applicazione della normativa invocata.

4) In definitiva, una volta respinta l’eccezione della parte resistente, al Tribunale non resta che prendere atto della mancata esecuzione dei decreti ingiuntivi indicati in epigrafe ed adottare le conseguenti misure ai sensi dell’art. 114 c.p.a..

In particolare, il Tribunale ritiene opportuno procedere alla nomina di un Commissario ad acta, individuandolo nel Prefetto di Napoli, affinché provveda all’esecuzione dei decreti ingiuntivi secondo i termini e le modalità stabilite in dispositivo e nei limiti degli importi che risulteranno non ancora versati alla società ricorrente.

A garanzia dell’effettività dell’adempimento, il Tribunale ritiene necessario disporre che il Commissario ad acta produca una dettagliata relazione sullo stato dell’esecuzione del decreto ingiuntivo almeno 10 giorni prima della camera di Consiglio fissata in dispositivo per il prosieguo della trattazione, con l’avviso che immotivati ritardi comporteranno l’adozione delle misure di legge.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Terza)

non definitivamente pronunciando, accoglie il ricorso e per l’effetto:

1) Nomina Commissario ad acta il Prefetto di Napoli, con facoltà di delega ad altri funzionari a lui gerarchicamente subordinati, affinché, previo accertamento della perdurante inottemperanza dell’amministrazione ingiunta, provveda entro 90 giorni dalla comunicazione della presente sentenza, o dalla notificazione se anteriore, all’esecuzione dei decreti ingiuntivi indicati in epigrafe, disponendo il pagamento delle somme in essi determinate, in favore della società ricorrente e previa decurtazione degli importi già corrisposti;

2) Il Commissario ad acta produrrà una dettagliata relazione sullo stato dell’esecuzione del decreto ingiuntivo almeno 10 giorni prima della Camera di Consiglio fissata per il prosieguo della trattazione.

3) Rinvia per il prosieguo alla Camera di Consiglio del 2 dicembre 2011, ad ore di rito;

Spese al definitivo.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Lazio Roma Sez. II quater, Sent., 04-08-2011, n. 6997 Lavoro subordinato

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con il ricorso in epigrafe, il ricorrente impugna il provvedimento con cui lo Sportello Unico per l’immigrazione di Roma ha rigettato l’istanza presentata dal proprio datore di lavoro di emersione e regolarizzazione dal lavoro irregolare, ai sensi della l. n. 102/2009.

Il diniego è motivato sulla scorta di un parere negativo della questura che fa riferimento alla sussistenza, a carico del ricorrente, di una o più condanne per uno dei reati previsti dagli artt. 380 e 381 c.p.p.

Il ricorso è articolato in varie censure di violazione di legge ed eccesso di potere.

L’avvocatura dello stato si è costituta con mero atto di stile.

L’istanza cautelare è stata respinta all’udienza del 28 luglio 2010.

All’odierna udienza è stato prodotto un rapporto circostanziato dello Sportello unico, il difensore del ricorrente ne ha eccepito la tardività. La causa, quindi, è stata trattenuta in decisone.

Il ricorso è fondato in relazione alla doglianza di difetto di motivazione dedotta con il primo motivo di ricorso e pertanto esso deve essere accolto.

Il provvedimento impugnato, limitandosi a recepire il parere negativo della questura, non specifica infatti né quali e quante condanne né per quali reati rientranti nel novero di quelli indicati dagli artt. 380 e 381 c.p.p. il ricorrente abbia riportato.

Si tratta di un grave deficit motivazionale che impedisce al ricorrente di comprendere a quali fatti l’amministrazione si riferisce e quindi di svolgere in modo proficuo le proprie difese.

Di contro, inconferenti paiono le ulteriori considerazioni, svolte sempre nel primo motivo di ricorso, circa l’irrilevanza di mere denunce penali non approdate ad una sentenza di condanna, posto che l’unico elemento chiaro nella motivazione del provvedimento è appunto la sussistenza di una o più sentenze di condanna penali ovvero di applicazione della pena su richiesta, ai sensi dell’art. 444 cp.p.

Le restanti censure possono essere assorbite.

Il ricorso, per tali motivi, deve essere accolto con annullamento del provvedimento impugnato e obbligo della amministrazione di ripronunciarsi sull’istanza.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda Quater), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l’effetto annulla il provvedimento impugnato.

Condanna l’amministrazione alla rifusione delle spese sostenute dal ricorrente, che liquida in euro 1500 oltre oneri di legge.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. feriale, Sent., (ud. 11-08-2011) 19-08-2011, n. 32500

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Provvedimento impugnato e motivi del ricorso – Con la sentenza qui impugnata, la Corte d’appello ha confermato la condanna inflitta agli odierni ricorrenti accusati di avere violato il D.P.R. n. 380 del 2001, artt. 44, 71, 72, 94 e 95, per avere realizzato abusivamente dei lavori edili.

Avverso tale decisione, gli imputati hanno proposto ricorso deducendo nullità della sentenza per omessa valutazione della prova. In particolare, si fa notare che, dalla testimonianza dell’ing. Pe., è emerso che l’immobile era stato realizzato tra la fine degli anni ’60 e 70. Conseguentemente, i lavori avrebbero necessitato solo di DIA e, comunque, sarebbero coperti da condono (la cui domanda è stata inoltrata nel 1986). In ogni caso, il reato edilizio sarebbe prescritto perchè non vi sarebbe prova che il quarto piano sia stato realizzato nell’agosto 2006.

I ricorrenti concludono invocando l’annullamento della sentenza impugnata.

2. Motivi della decisione – Il ricorso è manifestamente infondato.

Il tema della data di realizzazione dei lavori era stato oggetto di analogo motivo di appello che è stato compiutamente esaminato dalla Corte che vi ha replicato in modo argomentato e logico. Di per sè, quindi, la semplice ripetizione dei medesimi motivi rende questi ultimi soltanto apparenti, in quanto non assolvono la funzione tipica di critica puntuale avverso la sentenza oggetto di ricorso (sez. v, 27.1.05, Giagnorio, Rv, 231708).

Peraltro, la Corte, come detto, ha spiegato chiaramente ed in modo argomentato le ragioni del proprio convincimento a riguardo ricordando che, dagli accertamenti eseguiti dai Carabinieri di San Calogero, a seguito della denuncia sporta da P.P., è emerso che, "in data 12.8.06….al momento del sopralluogo…(gli odierni appellanti nd.r)… stavano eseguendo i lavori di realizzazione del quarto piano fuori terra dei loro rispettivi fabbricati (questi ultimi parimenti realizzati senza concessione edilizia – ora permesso di costruire – e costituenti oggetto di una pratica di condono risalente al 1986), in tal modo, modificando sagoma e prospetto dei preesistenti manufatti, intendendosi per sagoma la conformazione planovolumetrica della costruzione ed il suo perimetro, inteso sia in senso verticale sia orizzontale, e per prospetto la relativa superficie".

La Corte (che ha emesso la sentenza in data 19.4.11) ha, quindi, giustamente evidenziato che, all’epoca, non erano ancora decorsi i cinque anni di prescrizione dalla data dell’accertamento (non essendo, peraltro, neppure stati allegati elementi che inducessero ad individuare un diverso dies a quo).

Altrettanto deve constatarsi alla data odierna con il risultato che la censura è inammissibile e da tale declaratoria, segue, per legge ( art. 616 c.p.p.), la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e, ciascuno, al versamento, a favore della Cassa delle Ammende, della somma di Euro 1000.

P.Q.M.

Visto l’art. 637 c.p.p. e ss., dichiara inammissibile il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e, ciascuno, al versamento alla Cassa delle Ammende della somma di Euro 1.000.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Friuli-Venezia Giulia Trieste Sez. I, Sent., 13-10-2011, n. 451 Contratto di appalto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

La ricorrente ricorda di avere stipulato un contratto di affitto di azienda per la gestione della ristorazione per l’area di servizio di Calstorta Sud e per l’area di servizio di Gonars Nord.

Ciò premesso ha impugnato con il presente ricorso il bando relativo alla gara indetta da A.V. (che è concessionaria da A. spa dell’esercizio dell’autostrada Venezia Trieste) per l’affidamento della "gestione di strutture ed impianti destinati sia al servizio di distribuzione carbolubrificanti che al servizio di ristoro e attività accessorie (c. servizi oil e non oil) relativo all’area di servizio di Bazzera Nord e Calstorta.

Questi i motivi di ricorso:

1) illegittimità del bando nella parte in cui impone che l’offerta riguardi sia il servizio di distribuzione di prodotti carbolubrificanti sia il servizio di ristorazione: violazione e falsa applicazione degli artt. 3, 41, 97 cost., degli artt. 1 e 3 l. 241/1990, dell’ art. 1, comma 939, l. 266/2006, degli artt. 5662, 101109 e 173 trattato CE, dell’art. 2 reg. 139/2004/CE, degli artt. 2, 30, 41, 42, 81 e 83 del d.lgs. 163/2006, della direttiva 2004/18/CE; violazione dei principi di massima partecipazione, di proporzionalità; eccesso di potere per irragionevolezza, illogicità, contraddittorietà e carenza di motivazione; si sostiene che la gara integrata costringe le imprese di settori diversi e non omogenei ad una associazione necessitata e rappresenta una forte limitazione della concorrenza.

Il bando sarebbe così inidoneo all’identificazione della migliore offerta perché potrebbe premiare un’impresa che ha ottenuto un punteggio modesto ma che si è associata ad un’impresa molto forte nell’ambito della propria diversa categoria.

I requisiti richiesti sono esorbitanti e non proporzionati.

2) Illegittimità del bando quanto al criterio di aggiudicazione: violazione e falsa applicazione dell’art. 1 comma 939 l. 296/2006 e artt. 2 e 83 d.lgs 163/2006 e alleg. II DPR n. 554/99; si assume che, essendo il criterio prescelto per la valutazione delle offerte quello dell’interpolazione lineare tra l’offerta minima (punteggio 0) e quella massima (punteggio max) si perverrebbe ad una distorsione dell’aggiudicazione con l’annullamento del valore dell’offerta tecnica rispetto a quella economica, in contrasto con l’alleg. II al DPR 554/99.

3) Illegittimità del bando nella parte in cui prevede il divieto di aggiudicazione di oltre n. 2 lotti: violazione e falsa applicazione art. 2 e 11 d.lgs 163/2006, violazione dei principi di massima partecipazione, di proporzionalità; Eccesso di potere per irragionevolezza, illogicità e carenza di motivazione; nell’assunto che la previsione del punto VI.3 del bando e p. 10 del disciplinare, dove si prevede che "Qualora un marchio sia per il servizio di distribuzione carbolubrificanti che per il servizio di ristoro sia risultato presente nell’aggiudicazione in più di n.2 lotti e qualora la S.p.A. A.V. procederà alla pubblicazione di più tornate di gare, dovrà indicare a sua scelta a quale rinunciare, essendo prevista l’aggiudicazione per un massimo di n.2 lotti per il medesimo marchio. La rinuncia dovrà essere dichiarata entro 10 giorni dalla comunicazione dell’aggiudicazione definitiva" sarebbe illegittima perché lesiva della concorrenza in quanto precostituisce regole ostative di accesso o espansione nel mercato indipendenti dalla meritevolezza della qualità dell’offerta.

Si è costituita in giudizio A.V. controdeducendo per il rigetto del ricorso dopo averne previamente eccepito l’inammissibilità per mancanza di interesse attuale all’impugnazione del bando e perché il ricorso mira ad incidere sul merito delle scelte amministrative compiute da Autovie.

Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile per difetto di un interesse attuale della ricorrente all’impugnazione del bando che non conteneva clausole immediatamente escludenti e/o impeditive della sua partecipazione. Allo stato, pertanto, la libera scelta della ricorrente di non presentare offerta, associandosi in ATI ad impresa del settore oil, attiene alle scelte di strategia imprenditoriale della stessa e, oltre a non dimostrare la immediata lesività del bando, la rende carente di legittimazione all’impugnativa.

Infatti la giurisprudenza è fermissima nell’affermare l’inammissibilità – per carenza di legittimazione e/o di interesse – del ricorso volto all’impugnazione degli atti di indizione di una gara da parte di un soggetto che non vi abbia partecipato. La domanda giudiziale volta alla caducazione degli atti di una procedura concorsuale di cui si contesti la legittimità presuppone che il ricorrente "qualifichi e differenzi il proprio interesse in termini di attualità e concretezza, rispetto a quello della generalità dei consociati mediante la proposizione di una domanda di partecipazione alla gara o la formulazione della propria offerta; tanto comporta che l’interesse tutelato non può essere quello generico al rifacimento della gara, proprio di tutte le imprese rimaste estranee al procedimento, bensì quello specifico ad una partecipazione finalizzata all’ottenimento dell’aggiudicazione, cui possono aspirare soltanto i partecipanti alla gara medesima, anche attraverso l’eliminazione di clausole eventualmente lesive". Così, puntualmente, C.S. n. 102/09. Si vedano, inoltre, da ultimo: C.S. A.P. 4/11; id., n. 2033/11 e 4481/10; TAR Sicilia – Catania n. 2006/11 e Palermo n. 1003/11; TAR Lazio n. 38955/10).

E’ ben vero che la giurisprudenza ha talora ammesso la possibilità di proporre ricorso anche in assenza di domanda di partecipazione; ma nessuna delle situazioni esaminate dal Giudice Amministrativo si attaglia al caso di specie.

Infatti, si è ritenuto ammissibile il ricorso anche in assenza di domanda di partecipazione (al di là del caso della posizione legittimante derivante dall’esistenza di precedenti rapporti con l’Amministrazione, contrastanti con la possibilità stessa di indire la gara, che qui non rileva) nel caso in cui il bando contenga clausole o disposizioni che non consentono la partecipazione alla gara, nel senso che se le imprese suddette avessero partecipato alla gara, sarebbero state sicuramente escluse. Nel caso di specie ciò non è, in quanto le clausole del bando non sono impeditive della partecipazione e le censure si appuntano non su detta impossibilità, ma su altri elementi, in parte inerenti al merito delle scelte compiute dalla stazione appaltante (quale l’opportunità di accorpare in un’unica gara i servizi oil e non oil), in parte concernenti le modalità di svolgimento della gara stessa, in parte riferite alla difficoltà (ma non certo impossibilità) pratica di trovare adeguati partners per costituire un’ATI e presentare offerta.

In definitiva, l’impugnazione del bando indipendentemente dalla domanda di partecipazione (o, come nel presente caso, di presentazione dell’offerta) è consentita, "ricollegandosi l’onere di impugnazione ad una lesione immediata, diretta ed attuale e non solo potenziale dell’atto, solo allorquando il bando contenga clausole impeditive dell’ammissione dell’interessato alla selezione", ovvero "qualora la lex specialis contenga clausole discriminatorie e, comunque, ostative alla partecipazione alla selezione, tali che la presentazione della relativa domanda si risolverebbe in un adempimento formale, inevitabilmente seguito da un atto di esclusione" (TAR Lazio n. 3723/11; si vedano, ancora, sul principio, TAR Veneto n. 691/11 e TAR Lombardia – Milano n. 993/11). Allo stesso modo la giurisprudenza ammette la possibilità di impugnazione del bando a prescindere dalla domanda di partecipazione allorquando lo stesso presenti "oneri assolutamente incomprensibili o manifestamente sproporzionati ai caratteri della gara", che comportino comunque l’impossibilità, per l’interessato, di accedere alla procedura (C.S. A.P. n. 1/03)

E’ stato ancora precisato (TAR Campania – Napoli n. 1669/11) che "anche ai fini dell’interesse strumentale alla riedizione di una rinnovata procedura di gara, che è quello che (come nel presente caso) sembra muovere l’odierna ricorrente, l’onere di previa presentazione della domanda di partecipazione è da ritenere comunque sussistente, per la funzione "qualificante" che tale domanda svolge nei confronti della società interessata, facendole dismettere i panni del quisque de populo per acquisire quelli di soggetto concretamente inciso dalle prescrizioni del bando". La pronuncia da ultimo citata precisa, condivisibilmente, che l’onere di presentazione della domanda "è determinato dall’esigenza che l’interesse del soggetto ricorrente risulti munito dei necessari requisiti di differenziazione, concretezza e personalità, mediante l’individuazione, nell’ambito indistinto dei soggetti potenzialmente interessati a concorrere all’aggiudicazione di un appalto pubblico (ambito astrattamente coincidente con tutte le imprese operanti nel settore cui quest’ultimo, in relazione al suo oggetto specifico, si riferisce), di quelle posizioni di interesse correlate alla procedura di aggiudicazione da un nesso tangibile e concreto, nesso che la presentazione dell’istanza di partecipazione è appunto destinata a fare emergere, mediante il conferimento in capo al soggetto offerente dello status di partecipante alla gara".

Né può rilevare la circostanza che il termine per la presentazione delle offerte è ancora in corso, essendo stato prorogato al 31.12.11. Infatti, l’interesse all’impugnazione deve bensì sussistere al momento della domanda, ma anche perdurare sino a quello della decisione. Se la ricorrente ha scelto di spedire a sentenza il ricorso prima di presentare la propria offerta, pur essendo ancora in termini, ne sopporterà le inevitabili conseguenze.

Poiché, quindi, la ricorrente non ha presentato alcuna offerta e le clausole del bando non sono escludenti, né discriminatorie, né impongono requisiti impossibili da adempiere, il ricorso va dichiarato inammissibile per carenza di legittimazione e di un interesse giuridicamente apprezzabile.

Sussistono giuste ragioni, in specie per la complessità delle questioni proposte e l’esistenza di orientamenti giurisprudenziali non omogenei, per disporre la totale compensazione, tra le parti tutte, delle spese e competenze di causa.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Friuli Venezia Giulia (Sezione Prima)

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo dichiara inammissibile nei termini di cui in motivazione.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.