Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 18-01-2011) 08-02-2011, n. 4578

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

M.E., assolto in primo grado dal Tribunale di Napoli, Sezione distaccata di Pozzuoli, con sentenza del 16 giugno 2006 dai reati di lesioni e minaccia in danno di G.G., veniva condannato per tali reati dalla Corte di Appello di Napoli con sentenza emessa in data 3 ottobre 2008.

Con il ricorso per cassazione M.E. deduceva:

1) la violazione di legge processuale ed il vizio di motivazione in ordine alla eccezione processuale dell’imputato, che aveva rilevato che l’impugnazione del Pubblico Ministero era stata presentata a mezzo fax, come da comunicazione della cancelleria all’imputato;

2) il vizio di motivazione in ordine alla deposizione della parte lesa G.G., contrastante con quella del teste Mo..

I fatti sono stati commessi il (OMISSIS) ed il termine prescrizionale di sette anni e sei mesi previsto per tali reati dall’art. 157 c.p. sarebbe dovuto decorrere il 6 maggio 2008.

Senonchè nel corso del processo si sono verificate sospensioni della prescrizione per complessivi anni uno, mesi otto e giorni tredici, cosicchè il suddetto termine è decorso il 20 febbraio 2010.

Il ricorso non è inammissibile, specialmente con riferimento al primo motivo di impugnazione.

Non ricorrono i presupposti per una sentenza assolutoria nel merito ex art. 129 c.p.p., comma 2, non ravvisandosi una prova evidente della insussistenza dei reati o della estraneità agli stessi del ricorrente, tenuto conto di quanto emerge a suo carico dalla sentenza di secondo grado.

La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata senza rinvio per essere i reati estinti per prescrizione.

Nonostante vi sia costituzione di parte civile non ricorre nel caso di specie l’applicazione dell’art. 578 c.p.p. perchè non vi è mai stata in favore della parte civile condanna, sia pure generica, al risarcimento dei danni.

Siffatta condanna non vi è stata in primo grado per essere stato l’imputato assolto dai reati contestatigli e non vi è stata in sede di appello perchè, ha osservato la Corte di merito, mancando una specifica impugnazione della parte civile non può procedersi anche alla liquidazione del danno.

Cosicchè mancando una condanna, anche generica, alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati dal reato, così come richiesto espressamente dalla prima parte dell’art. 578 c.p.p., manca un presupposto essenziale per una pronuncia di questa Corte sulle inesistenti statuizioni civili.

Per le ragioni indicate la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio per essere i reati estinti per intervenuta prescrizione.
P.Q.M.

La Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata per essere i reati estinti per intervenuta prescrizione.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. I, Sent., 11-04-2011, n. 8217 Arbitri

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Svolgimento del processo

Con sentenza n. 569 del 1.06.2004, il Tribunale di Udine, in accoglimento dell’opposizione proposta da P.S., P.F. e F.M., revocava il decreto ingiuntivo n. 289 del 2001, con cui agli opponenti (ed a V. F.) era stato intimato di pagare all’ingiungente M. S. la somma di L. 8.005.331, oltre interessi ed accessori, quale compenso per l’espletato incarico di Presidente del collegio arbitrale che aveva deciso il 25.01.2000, la controversia insorta tra gli opponenti da un lato e V.F. dall’altro.

Con sentenza del 6-21.02.2008, la Corte di appello di Trieste, in accoglimento parziale dell’appello principale proposto dal M., respingeva l’opposizione dei P. e della F. al provvedimento monitorio, con conseguente assorbimento anche dell’appello incidentale dei P. e della F. inerente alla statuizione di compensazione delle spese di primo grado. La Corte territoriale osservava e riteneva tra l’altro:

– che non fosse condivisibile l’interpretazione resa dal primo giudice della clausola n. 8 del contratto stipulato dalle parti con scrittura privata del 12.07.1995, la quale, rettamente intesa nel suo integrale contenuto, si rivelava inapplicabile anche alla clausola compromissoria per arbitrato irrituale, inserita all’art. 7 del medesimo contratto;

– che per tale ragione detta clausola arbitrale non poteva ritenersi venuta meno alla scadenza del termine del 30.09.1995, previsto nell’accordo per la stipula del contratto definitivo, sicchè gli arbitri avevano mantenuto il potere a loro convenzionalmente attribuito e ben potevano decidere la controversia devoluta al loro giudizio, relativa all’accertamento dell’avveramento o meno della condizione sospensiva dedotta nel preliminare ed alle relative conseguenze, la quale non appariva lecito nè conforme alla volontà delle parti, escludere dall’ambito di quelle devolute al loro giudizio – che del resto in altra analoga controversia (avente ad oggetto la richiesta di compenso effettuata da altro componente del medesimo collegio arbitrale) la stessa Corte, pure richiamando ad abundantiam il principio di autonomia della clausola arbitrale rispetto al contratto preliminare cui essa accedeva, aveva già escluso l’inefficacia di tale clausola per il fatto che fosse inutilmente scaduto il termine del 30.09.1995, previsto nel contratto, e ciò anche basandosi sul tenore e sul significato dell’art. 7 dell’accordo che la contemplava per controversie che del tutto fisiologicamente sarebbero potute insorgere anche dopo la scadenza del suddetto termine;

– che non poteva nemmeno ritenersi che l’autoliquidazione del compenso integrasse eccesso di mandato, tale potere essendo stato dalle parti conferito agli arbitri e quindi anche al M., il quale aveva chiesto il compenso sulla base del lodo.

Avverso questa sentenza i P. e la F. hanno proposto ricorso per cassazione notificato il 30.06.2008. Il M. ha resistito con controricorso notificato il 19.09.2008. All’udienza pubblica dell’11.07.2010 è stato disposto il rinvio d’ufficio all’odierna udienza.
Motivi della decisione

A sostegno del ricorso i P. e la F. denunziano:

1. Primo argomento. "Motivazione contraddittoria e/o insufficiente ( art. 360 c.p.c., n. 5, in riferimento alla questione dell’estensibilità o meno anche alla clausola arbitrale, del contenuto della clausola n. 8 del contratto preliminare;

2. Secondo argomento. In relazione al rapporto tra il contratto preliminare, ritenuto soggetto a condizione sospensiva, e la clausola arbitrale:

a) "Violazione di norme di diritto – Inesistenza ab origine di qualsiasi vincolo contrattuale ( art. 1355 c.c.)", in presenza di condizione sospensiva meramente potestativa;

b) "Motivazione insufficiente ( art. 360 c.p.c., n. 5)", con riguardo all’individuazione in tesi erronea, della domanda arbitrale proposta dal V.;

c) "Motivazione contraddittoria ( art. 360 c.p.c., n. 5)", una volta negata l’autonomia della clausola per arbitrato irrituale;

3. Terzo argomento. Con riguardo al richiamo delle argomentazioni poste a fondamento della sentenza resa nel diverso giudizio:

a) "Motivazione contraddittoria ( art. 360 c.p.c., n. 5)" sulla questione dell’autonomia della clausola per arbitrato irrituale;

b) "Motivazione contraddittoria ( art. 360 c.p.c., n. 5)" sulla diversa interpretazione dell’art. 2 del contratto preliminare;

c) "Violazione o falsa applicazione di norme di diritto" con riguardo alla vigenza della clausola arbitrale una volta che il contratto sia divenuto inefficace. d) "Violazione o falsa applicazione di norme di diritto – Inesistenza ab origine di qualsiasi vincolo contrattuale (comb. disp. artt. 1185 e 1355 c.c.;

comb. disp. artt. 1321 e 1372 c.c.; comb. disp. artt. 1351-2932 c.c., comma 2)" 4. Quarto argomento. In ordine alla autoliquidazione del compenso da parte degli arbitri previsto nella clausola arbitrale:

a) "Violazione o falsa applicazione di norme di diritto (artt. 1346, 1348 e segg. c.c.)", sostenendo che non si poteva affidare agli arbitri il potere di determinare arbitrariamente il loro compenso e con conclusivamente formulando il seguente quesito di diritto, ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., applicabile ratione temporis "Dica codesta Suprema Corte se una parte può determinare arbitrariamente la prestazione a sè stessa dovuta e se la clausola che la preveda sia o meno nulla";

b) "Violazione o falsa applicazione di norme di diritto ( art. 634 c.p.c.)", con riguardo alla inidoneità dell’autoliquidazione effettuata dagli arbitri a costituire prova scritta idonea a legittimare l’emissione del decreto ingiuntivo.

Con i trascritti primi tre punti del ricorso riferiti ad altrettanti argomenti dell’impugnata sentenza ed articolati in complessive 8 censure, si deducono doglianze relative alla inesistenza, alla nullità ed alla efficacia del contratto preliminare di cessione di quote del 12.07.1995, intercorso tra i ricorrenti e V. F. e, dunque, anche della clausola compromissoria per arbitrato irrituale in esso inserita.

L’inesistenza del contratto preliminare viene inammissibilmente prospettata nel Terzo argomento sub d) con formulazione conclusiva del seguente quesito di diritto "Dica codesta Suprema Corte se la scrittura privata con cui le parti promettono di compravendere un bene entro un certo termine, trascorso inutilmente il quale decade la stessa promessa, sia o meno un contratto (preliminare) produttivo di obblighi giuridici". Tale quesito e, dunque, la censura cui accede, è inammissibile, in quanto l’esistenza del contratto preliminare di cessione non è più ridiscutibile in questa sede, per essere stata definitivamente e positivamente risolta in primo grado, con accertamento non impugnato in appello, e che, quindi, è ormai coperto dal giudicato.

L’inesistenza del contratto preliminare è, inoltre, dai ricorrenti erroneamente predicata nel Secondo argomento sub a), con riferimento alla dedotta natura meramente potestativa della condizione sospensiva, a cui la Corte di merito ha ritenuto soggetto il contratto preliminare di cessione, e, dunque, con riguardo ad ipotesi di nullità ( art. 1355 c.c.) dell’accordo.

Tutte le censure inerenti allo stipulato contratto preliminare di cessione non hanno pregio, perchè non conferenti rispetto al diritto del M., quale presidente del collegio arbitrale, di percepire il compenso per l’opera da lui svolta ai fini della decisione finale, resa, unitamente agli altri arbitri, il 25.01.2000.

Qualora, infatti, sia pure in forma di clausola arbitrale, sia stata stipulata una convenzione compromissoria per la risoluzione in arbitrato irrituale delle liti insorte tra le parti del contratto e sia stata instaurata, espletata e definita la pattuita procedura arbitrale, l’arbitro o gli arbitri nominati direttamente dalle medesime parti o tramite il procedimento previsto dagli artt. 809 e 810 c.p.c, analogicamente applicabile all’arbitrato libero o irrituale (cfr cass SU 198903189 e da ultimo cass. 201017114), hanno diritto al pagamento del compenso ed alle spese per l’opera svolta (che integra debito ex mandato in base all’art. 1720 c.c.), nei confronti dei compromittenti da cui l’atto di nomina promana o a cui debba essere ricondotto all’esito del menzionato procedimento sostitutivo/integrativo. Il credito degli arbitri, infatti, insorge per effetto della ricevuta nomina e dell’espletamento dell’incarico loro conferito e non è sindacabile e disconoscibile in ragione della non rilevata nullità, inefficacia o risoluzione del contratto, ove pure recante la clausola compromissoria, sul quale la decisione arbitrale verta, se l’eventuale errore di giudizio da parte degli arbitri stessi non implichi anche loro responsabilità in rapporto al ricevuto mandato collettivo (in tema, cfr cass. 200904823; 200814799;

200213607; 199002800; 197302764), evenienza questa non controversa in questa sede.

Inammissibili si rivelano, infine, le due censure di cui al punto 4 del ricorso.

La prima censura di cui sub a), è inammissibile per genericità del quesito di diritto che la conclude, privo di riferimenti alle peculiarità del caso, regolato anche in punto di compenso dalla normativa in tema di mandato ( art. 1709 c.c.), mentre la seconda censura di cui sub b) si rivela del pari inammissibile, in quanto involge una questione nuova, non dibattuta nei pregressi gradi di merito.

Conclusivamente il ricorso deve essere respinto, con condanna del soccombente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna in solido i ricorrenti a rimborsare al M. le spese del giudizio di cassazione, liquidate in complessivi Euro 1.700,00, di cui Euro 1.500,00 per onorari, oltre alle spese generali ed agli accessori come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 10-01-2011) 08-03-2011, n. 9074

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Svolgimento del processo

1. In data 11 giugno 2010 il Tribunale di Reggio Calabria, costituito ex art. 309 c.p.p., confermava l’ordinanza di custodia cautelare in carcere, emessa confronti di P.V. (n. (OMISSIS)) dal Gip dello stesso tribunale il 21.5.2010, ravvisando a carico dello stesso gravi indizi di colpevolezza in relazione al reato di cui all’art. 416 bis cod. pen. (capo 1), quale promotore ed organizzatore della ‘ndrina Pesce, operante in Rosarno e zone limitrofe, nonchè al reato di estorsione aggravata (capo 11).

Il tribunale – richiamata la motivazione dell’ordinanza emessa dal Gip – premetteva la già accertata esistenza dell’associazione di stampo mafioso, detta "ndrina Pesce, alla quale partecipavano numerosi componenti dell’omonima famiglia, alleata a quella dei Bellocco con la quale spartiva il controllo del territorio di Rosarno, a loro volta federate con i gruppi Piromallo e Molè.

Ripercorreva, quindi, gli elementi emersi dalle indagini posti a fondamento dell’affermata attuale operatività del sodalizio e della persistente direzione da parte dei capi anche nei periodi in cui erano detenuti, primo fra tutti P.A. che dal carcere continuava a mantenere I contatti con gli altri componenti della famiglia, dirimendo anche i contrasti tra coloro che ricoprivano un ruolo di vertice: il figlio di A., Fr. cl. (OMISSIS), ed i fratelli di A., G., detto "(OMISSIS)", e V., detto (OMISSIS).

Sottolineava il tribunale che la piena operatività del sodalizio nel periodo cui si riferiscono le indagini (2006-2007) emergeva, in specie, dalle azioni programmate dal gruppo al fine di reagire a due eventi rilevanti: la decisione di F.R., convivente, di altro fratello di A., S., di rendere dichiarazioni agli investigatori; l’omicidio di Sa.Do., killer del clan, ucciso l'(OMISSIS). Dalle conversazioni intercettate, soprattutto durante i colloqui in carcere tra i vari componenti della famiglia Pesce, emergevano circostanze rilevanti in ordine alle attività programmate dai sodali in quel periodo, alle dinamiche interne ed ai ruoli dei componenti del gruppo, soprattutto a seguito della scarcerazione i P.G. e P.V. (ricorrente), fratelli di A..

Il tribunale, quindi, riteneva la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza a carico di P.V. (cl. (OMISSIS)) in ordine ai reati in contestazione (e le conseguenti esigenze cautelari) sulla base di quanto emerso da alcune conversazioni captate tra vari componenti della famiglia il cui contenuto risultava univoco quanto alla ripresa dell’attività criminale all’interno del sodalizio da parte del predetto all’indomani della sua scarcerazione, avvenuta il 4.12.2006, determinando, peraltro, momenti di contrasto con altri componenti della famiglia, in specie con P.F., figlio di A..

Da dette conversazioni – in specie dal colloquio in carcere del 19.12.2006, tra P.F. cl. (OMISSIS) ed il cugino P. V. cl. (OMISSIS) – ad avviso del tribunale si rilevava il pieno coinvolgimento, con un ruolo decisionale, del ricorrente: nelle attività estorsive (specificamente indicate dai dialoganti), ivi compresa quella che vedeva vittima di pressioni G.G., legale rappresentante, della società CE.DI. SISA CALABRIA s.p.a. che gestiva il deposito e la distribuzione delle merci dei supermercati aderenti alla catena SISA; nella organizzazione dell’azione di reazione del gruppo all’omicidio del Sa..

2. Avverso il citato provvedimento P.V., tramite i difensori di fiducia, ha proposto ricorso per cassazione nel quale con un unico motivo denuncia la violazione di legge in relazione all’artt. 416 bis cod. pen. e art. 629 cod. pen., con riferimento all’art. 273 cod. proc. pen., contestando che il contenuto delle intercettazioni, unica fonte a carico del ricorrente, è del tutto inidoneo ai fini della sussistenza dei gravi Indizi in ordine ad entrambi i reati contestati, atteso che: a) Il ricorrente non partecipa a nessuna delle conversazioni captate; b) il principio affermato dalla Corte di legittimità – secondo il quale il contenuto delle intercettazioni ambientali non richiede i riscontri di cui all’art. 192 cod. proc. pen. relative alla ed, chiamata di correo – si riferisce solo alle dichiarazioni confessorie e non anche a quella eteroaccusatorie; c) le circostanze affermate da terzi, prive del requisito dell’attendibilità, univocità e coerenza, non risultano confortate da alcun elemento ulteriore; d) dubbie sono le modalità ed i tempi in cui detti terzi hanno appreso le circostanze riferite;

e) è inverosimile che il P., scarcerato solo pochi giorni prima della data in cui si svolge la conversazione più rilevante sia riuscito a porre in essere tutte le condotte attribuitegli; f) nella conversazione i cugini del ricorrente parlano solo di richieste di somme di danaro e non dell’esito delle stesse; g) le presunte vittime delle estorsioni di cui si parla nella conversazione hanno negato i fatti nelle dichiarazioni rese ai difensori; h) vi è contraddizione tra le circostanze riferite dai cugini del ricorrente nelle diverse conversazioni in ordine ai componenti del gruppo che avrebbero dovuto occuparsi di vendicare l’omicidio del Sa.; i) quando sono state realizzate, ad (OMISSIS), le rappresaglie contro i componenti della famiglia Ascone, ritenuti responsabili dell’uccisione del Sa., il ricorrente era detenuto a far data dal 2 luglio 2007.
Motivi della decisione

Il ricorso non è fondato nei termini di cui ai motivi per le ragioni di seguito indicate.

1. Il vaglio di legittimità demandato a questa Corte non può non arrestarsi alla verifica del rispetto delle regole della logica e della conformità ai canoni legali che presiedono all’apprezzamento dei gravi indizi di colpevolezza, prescritti dall’art. 273 c.p.p. per l’emissione dei provvedimenti restrittivi della libertà personale, senza poter attingere l’intrinseca consistenza delle valutazioni riservate al giudice di merito.

All’evidenza, gli elementi di fatto significativi ai fini della ritenuta sussistenza della gravità indiziaria a carico di P. V., in specie in relazione ai reati di cui agli artt. 416-bis e 629 cod. pen., sono stati valutati nel contesto complessivo delle emergenze Investigative sintetizzato nel provvedimento impugnato, richiamando, altresì, l’ordinanza del Gip con la quale è stata applicata la misura cautelare al ricorrente ed altri soggetti.

Sul punto vengono richiamate: la già accertata esistenza della ‘ndrina Pesce, facente capo a P.A. ed ai suoi fratelli;

gli accertati contatti del predetto, ancorchè detenuto, con i familiari inseriti nel contesto associativo; le circostanze emerse dalle conversazioni intercettate dalle quali inequivocabilmente si traeva l’intensa attività attraverso la quale i sodali continuavano a gestire il controllo del territorio attraverso attività illecite (estorsioni) ed apparentemente lecite.

Diversamente da quanto afferma il ricorrente, il compendio indiziario posto a fondamento della ritenuta partecipazione del P.V. cl. (OMISSIS) al sodalizio è costituito da una pluralità di circostanze che emergono in maniera chiara ed univoca dalle conversazioni tra i familiari nelle quali il predetto, da poco tornato in libertà, viene chiamato in causa ripetutamente e con riferimento a tutte le vicende che occupano in quel periodo l’attività del sodalizio, anche in contrasto con il nipote F. figlio di A..

Significativa sotto tale profilo è la conversazione del 19.12.2006 captata nel colloquio in carcere tra P.F. cl. (OMISSIS) ed il cugino Pe.Vi. cl. (OMISSIS) che parlano delle attività estorsive e ripetutamente fanno riferimento allo zio Ce. il quale ha rivendicato di essere stato "sempre uno ‘ndranghetista" e di aver "campato sempre di sgarro". E ancora, la conversazione tra i predetti nella quale si fa riferimento alla reazione dei Pesce contro gli Ascone per l’omicidio del Sa., per la quale P. F. cl. (OMISSIS) premeva particolarmente essendo legato da stretta amicizia con la vittima; alle richieste di F. il cugino afferma che lo zio C. ha dichiarato che "se la vedrà orbene, come viene ricordato nel ricorso, "gli indizi raccolti nel corso delle intercettazioni telefoniche possono costituire fonte diretta di prova della colpevolezza dell’imputato e non devono necessariamente trovare riscontro in altri elementi esterni, qualora siano: a) gravi, cioè consistenti e resistenti alle obiezioni e quindi attendibili e convincenti; b) precisi e non equivoci, cioè non generici e non suscettibili di diversa interpretazione altrettanto verosimile; c) concordanti, cioè non contrastanti tra loro e, più ancora, con altri dati o elementi certi". (Sez. 4, n. 22391, del 02/04/2003, Quehalliu Luan, rv. 224962).

All’evidenza, detto principio vale a maggior ragione con riguardo alla sussistenza del gravi indizi di cui all’art. 273 cod. proc. pen. per i quali non è richiesta la gravità, precisione e concordanza necessarie al fine di ritenere la ed. prova Indiziaria. Peraltro – diversamente da quanto si sostiene nel ricorso – le ragioni stesse poste a fondamento del suddetto principio rendono del tutto illogica la ipotizzata limitazione alle sole dichiarazioni "confessorie", ossia alle conversazioni cui partecipa l’indagato.

Di tal che, le circostanze riferite dai dialoganti nelle conversazioni intercettate devono essere valutate esclusivamente sulla base delle regole e dei criteri generali per lo scrutinio dei presupposti di gravità indiziaria di cui all’art. 273 cod. proc. pen..

Ed invero, il tribunale ha fatto corretta applicazione dei principi e dei criteri innanzi richiamati, traendo gli indizi da univoci passaggi di conversazioni intercettate ed operando una valutazione chiara della verosimiglianza delle circostanze riferite dai congiunti dell’indagato, anch’essi inseriti nel contesto criminale e, pertanto, a conoscenza diretta della dinamiche del gruppo; essi, peraltro, fanno riferimento a fatti specifici, molti dei quali appresi direttamente dal ricorrente, utilizzando forme di espressione palesi, compiute e consequenziali, quindi, di agevole comprensione.

Orbene, lo sviluppo argomentativo della motivazione è fondato su una coerente analisi critica degli elementi indizianti e sulla loro coordinazione in un organico quadro interpretativo, alla luce del quale appare dotata di adeguata plausibilità logica e giuridica l’attribuzione a detti elementi del requisito della gravità, nel senso che questi sono stati reputati conducenti, con un elevato grado di probabilità, rispetto al tema di indagine concernente la partecipazione ad associazione per delinquere di stampo mafioso contestata al P..

Nè il ricorrente ha rappresentato elementi se non generici, volti a contraddire tale valutazione.

Non è pertinente – per quanto si è detto la questione del dubbio su modalità e tempi in cui i cugini che dialogano hanno appreso le circostanze cui si riferiscono; generiche congetture sono quelle introdotte sulle "regole di esperienza" in ordine a ciò che accade nei colloqui tra familiari in carcere.

Del tutto priva di pregio è la asserita inverosimiglianza che deriverebbe dalla circostanza temporale della conversazione ritenuta più rilevante, avvenuta pochi giorni dopo la scarcerazione del ricorrente. Infatti, all’evidenza, il contenuto della conversazione è assolutamente coerente e logico rispetto al pregresso inserimento del P. nel sodalizio familiare, come peraltro evidenziato dal tribunale nella parte relativa alle vicende della "ndrina Pesce.

Irrilevante è la circostanza che nella conversazione in cui si fa riferimento alle estorsioni si parla solo delle richieste di somme di danaro e non dell’esito delle stesse, tenuto conto, peraltro, che gli interlocutori affermano che alcune delle vittime sono state costrette ad andare via.

Nessuna contraddizione emerge – come valutato dal tribunale – nell’attribuzione a diversi soggetti della famiglia Pesce della programmazione dell’azione ritorsiva per reagire all’uccisione del Sa.. Non si tratta di versioni diverse e contrastanti, ma, al contrario, come il tribunale evidenzia, il contenuto delle conversazioni mette in risalto i contrasti Interni che si erano verificati in quel periodo in cui alcuni soggetti che rivestivano ruoli apicali erano in stato di detenzione.

Nè sotto il profilo logico, all’evidenza, può contraddire il coinvolgimento del P. nella scelta di predisporre le azioni di ritorsione suddette la circostanza che dette azioni si sarebbero poi realizzate in concreto soltanto nell’agosto del 2007, quando il ricorrente si trovava nuovamente detenuto perchè tratto in arresto il 2.7.2007.

Le dichiarazioni delle vittime delle estorsioni, raccolte dei difensori del ricorrente, non sono neppure valutabili atteso che sono state introdotte soltanto con il ricorso per cassazione.

5. In conclusione, risultando infondato in tutte le sue articolazioni, il ricorso deve essere rigettato e il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali.

La cancelleria dovrà provvedere all’adempimento prescritto dall’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Dispone trasmettersi a cura della cancelleria copia del provvedimento al Direttore dell’istituto penitenziario ai sensi dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

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Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 27-01-2011) 23-03-2011, n. 11516

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con sentenza del 27.5.2010 la Corte d’Appello di Venezia in parziale riforma della sentenza in data 26.3.2009 del GUP presso il Tribunale di Treviso riduceva la pena inflitta a P.F. per il reato di concorso in rapina pluriaggravata. Ricorre per Cassazione P. F. lamentando, come unico motivo, la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche e dell’attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 6 in termini di prevalenza sulle aggravanti contestate nonostante la sua immediata ammissione dei fatti, la sua collaborazione processuale con riguardo l’indicazione dei correi, il risarcimento del danno.

Il motivo riproduce pedissequamente il motivo d’appello. E’ giurisprudenza pacifica di questa Corte che se i motivi del ricorso per Cassazione riproducono integralmente ed esattamente i motivi d’appello senza alcuna censura specifica alla motivazione della sentenza di secondo grado, le relative deduzioni non rispondono al concetto stesso di "motivo", perchè non si raccordano a un determinato punto della sentenza impugnata ed appaiono, quindi, come prive del requisito della specificità richiesto, a pena di inammissibilità, dall’art. 581 c.p.p., lett. c). E’ evidente infatti che, a fronte di una sentenza di appello, come quella in argomento, che ha fornito una risposta specifica al motivo di gravame la ripresentazione dello stesso come motivo di ricorso in Cassazione non può essere considerata come critica argomentata rispetto a quanto affermato dalla Corte d’Appello.

E’ infatti inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che si risolvono nella pedissequa reiterazione di quelli già dedotti in appello e puntualmente disattesi dalla corte di merito, dovendosi gli stessi considerare non specifici ma soltanto apparenti, in quanto, come indicato, omettono di assolvere la tipica funzione di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso (cfr.

Cass. N. 20377/2009; N. 8443 del 1986 Rv. 173594, N. 12023 del 1988 Rv. 179874, N. 84 del 1991 Rv. 186143, N. 1561 del 1993 Rv. 193046, N. 12 del 1997 Rv. 206507, N. 11933 del 2005 Rv. 231708).

La Corte territoriale nel ridurre la pena inflitta al P. in primo grado ha infatti congruamente ed adeguatamente motivato il mantenimento del giudizio di bilanciamento delle circostanze in termini di equivalenza sulla scorta dell’oggettiva gravità del fatto e della personalità dell’imputato.

Il ricorso deve pertanto essere dichiarato inammissibile.

Ai sensi dell’art. 616 c.p.p. consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma, che si ritiene equo liquidare in Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento di Euro mille alla Cassa delle ammende.

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