Cass. civ. Sez. II, Sent., 29-12-2011, n. 29755 Assemblea dei condomini

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. – Con ricorso al Tribunale di Tempio Pausania in data 26 febbraio 1996, B.P., F.R.G., R.E., M.E., Fr.Ca., V.M., G. A. ed altri impugnarono Z., Bi.Pi. e M. D. impugnarono l’atto costitutivo della Comunità del territorio "Costa Paradiso" e la deliberazione della sua assemblea in data 27 gennaio 1996, concernente, tra l’altro, spese straordinarie e l’approvazione del bilancio consuntivo del triennio precedente e del bilancio particolare della gestione fognatura per lo stesso triennio, oltre alla continuazione della gestione dei servizi, il rinnovo delle cariche sociali, e, in via straordinaria, l’approvazione del progetto modificato di ampliamento dell’impianto fognario e della spesa relativa. Gli attori chiesero che entrambi fossero dichiarati nulle e, in subordine, che la predetta delibera fosse annullata. Premesso di aver acquistato lotti edificabili dalla Cooperativa Costa Paradiso s.r.l. e di essere pertanto componenti della comunità convenuta, lamentarono gli attori che quest’ultima operasse senza fare riferimento ad una precisa disciplina giuridica, essendosi nel tempo diversamente autoqualificata, a seconda della contingente convenienza, supercondominio, associazione non riconosciuta, ovvero condominio. Osservarono che le norme contrattuali erano in buona parte nulle, e che tale era la Delib. 27 gennaio 1996 per violazione dell’art. 1346 cod. civ., per la mancata qualificazione della natura della comunità e inapplicabilità degli istituti richiamati, per carenza dei requisiti morfologici-edilizi, nonchè per violazione degli artt. 1100-1139 cod. civ., per essere risultata l’assemblea priva delle maggioranze richieste per materie ricadenti nella straordinaria amministrazione, e per essere stati esclusi dal voto soggetti titolati ma ritenuti ingiustificatamente morosi per aver rifiutato di corrispondere somme non dovute, richieste in forza di atti illegittimi; ed ancora per violazione della L. n. 1150 del 1942 e della L. n. 979 del 1976, per essere stata deliberata la continuazione a tempo indeterminato della gestione da parte della Comunità di servizi rientranti negli obblighi istituzionali del Comune; ed ancora per violazione degli artt. 1100 e segg., e, subordinatamente, dell’art. 1117 cod.civ., per avere la Comunità operato senza rispettare le norme dettate in tema di comunione o di supercondominio, e dell’art. 1136 cod. civ. per non essere state rispettate le disposizioni concernenti il numero legale, le maggioranze e le innovazioni.

2. – Il Tribunale adito dichiarò nulle le deliberazioni assembleari del 27 gennaio 1996.

La sentenza fu impugnata dalla comunità convenuta.

3. – La Corte d’appello di Cagliari-sez. dist. di Sassari, con sentenza depositata il 3 marzo 2005, in riforma della decisione di primo grado, dichiarò il difetto di legittimazione dei ricorrenti B., Z., Bi., e rigettò il ricorso proposto dagli altri.

Per quanto ancora rileva nella presente sede, la Corte osservò che la Comunità, come era desumibile dai documenti prodotti e, in particolare, dal regolamento e dalle convenzioni con il Comune, era un consorzio di urbanizzazione, ossia un’organizzazione tra i proprietari di aree facenti parte di un comprensorio da lottizzare che si prefiggevano l’autogoverno del territorio, con lo scopo di creare e poi gestire opere di urbanizzazione primaria e secondaria, nonchè di determinare prescrizioni urbanistiche vincolanti per i singoli partecipanti e di istituire organi di amministrazione del comprensorio. Trattandosi di ente collettivo privo di esplicita previsione normativa, la Corte di merito rilevò, quanto alla sua qualificazione giuridica, presupposto della corretta individuazione della disciplina applicabile, che la natura della Comunità emergeva dalla lettura del suo regolamento, che dettava una precisa disciplina della destinazione urbanistica del territorio, con previsione di proprietà comune pro indiviso in proporzione delle singole quote, salvaguardia delle aree comuni con funzione di polmone verde, un rigoroso controllo delle dimensioni e caratteristiche costruttive dei nuovi manufatti, norme igienico-sanitarie in tema di smaltimento dei reflui e dei rifiuti solidi, individuazione degli organi della Comunità e dei relativi poteri e competenze. Ne conseguiva, secondo la Corte di merito, che nell’ente convenuto si riscontrava qualcosa di più che la semplice contitolarità di un diritto reale sui medesimi beni, essendo esso istituzionalmente destinato a costituire e gestire, attraverso la realizzazione e la fornitura di opere e servizi complessi ed onerosi, la generalità delle opere di urbanizzazione del comprensorio, in vista di uno scopo che andava oltre la mera comunione di godimento ai sensi dell’art. 2248 cod. civ., scopo non lucrativo nè imprenditoriale, costituito dall’interesse comune al miglior autogoverno del territorio. Era, dunque, inadeguato lo schema della comunione e del condominio o supercondominio, mentre appariva alla Corte pertinente il richiamo alla figura dell’associazione non riconosciuta, di cui il consorzio di urbanizzazione presentava tutti i requisiti, quali la pluralità di soggetti coordinati in stabile organizzazione, il patrimonio comune, la destinazione dello stesso alla realizzazione di uno scopo comune. Sicchè, anche se esisteva una stretta connessione strumentale tra rapporto associativo e rapporto di realità, e quindi tra qualità di associato e di proprietario, in quanto oggetto dell’attività del consorzio erano i beni immobili sui quali realizzare il programma negoziale di autogoverno del territorio, tali aspetti non incidevano in modo significativo sulla complessiva qualificazione della Comunità, così da determinare l’applicazione della disciplina della comunione. Nella specie, andavano quindi applicate anzitutto le norme di autonomia negoziale, quali risultanti dal regolamento, e, in caso di incompletezza, delle norme dettate dal codice civile. Al riguardo, la Corte di merito rilevò che il tribunale aveva risolto la controversia sull’assunto della nullità della delibera del 27 gennaio 1997 per mancata ammissione al voto dei partecipanti morosi, e per l’approvazione senza la necessaria maggioranza di atti di straordinaria amministrazione, ritenendo assorbiti gli altri motivi indicati nel ricorso introduttivo. Gli appellati avevano l’onere di riproporli in sede di gravame, e, non avendolo fatto, doveva ritenersi che essi fossero stati abbandonati.

Quanto alla questione della morosità, la Corte, rilevato che, ai sensi dell’art. 64 del regolamento, come modificato dall’assemblea straordinaria del 31 gennaio 1987, la cui delibera non risultava impugnata, dopo sei mesi di morosità il partecipante perdeva il diritto al voto, osservò che i ricorrenti si erano limitati a negare in termini assai generici la propria morosità, adducendo di essersi solo rifiutati di pagare spese non concernenti la comunità o discendenti da atti nulli: assunti ritenuti dalla Corte di merito privi di rilievo processuale, non avendo gli interessati impugnato nelle forme prescritte le relative delibere. Nè gli stessi avevano mai dedotto di non aver avuto comunicazione del verbale di assemblea relativo alla menzionata modifica regolamentare. Quindi, aveva errato il Tribunale nel ritenere per tali ragioni invalida la clausola regolamentare in questione.

Quanto alla pretesa violazione delle regole sulle necessarie maggioranze ex art. 1108 cod. civ. per materie eccedenti l’ordinaria amministrazione, osservò il giudice di secondo grado che tale norma, relativa alla disciplina della comunione, non risultava applicabile alla fattispecie in esame, nella quale occorreva piuttosto richiamare l’art. 55 reg., secondo cui in seconda convocazione l’assemblea è valida con qualsiasi presenza, e decide legittimamente a maggioranza semplice.

4. – Per la cassazione della sentenza ricorrono F.G. R., V.M. e Z.G. sulla base di tre motivi. Resiste con controricorso la Comunità del territorio di Costa Paradiso, che ha depositato anche memoria illustrativa.

Motivi della decisione

1. – Deve, preliminarmente, dichiararsi la inammissibilità del ricorso proposto da Z.G., del quale la Corte d’appello, con statuizione non impugnata, aveva dichiarato il difetto di legittimazione. 2. – I tre motivi di ricorso sono rubricati come segue: 1) Ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione e falsa disapplicazione degli artt. 1100-1116 c.c. e degli artt. 14 e 24 c.c.; 2) Ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione e falsa disapplicazione dell’art. 112 c.p.c.; 3) Ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, l’omissione, l’insufficienza e la contraddittorietà della motivazione. La illustrazione delle predette censure si svolge poi in modo contestuale. La Corte di merito, dopo aver qualificato la Comunità del territorio di Costa Paradiso un consorzio di urbanizzazione, ha però escluso che il relativo ordinamento interno detti un quadro riconducibile alla comunione o al condominio, ritenendo che esso si ricolleghi ad una forma di autogoverno del territorio, condotto tramite un’attività non lucrativa. Pertanto, rinvenendo uno scopo morale nell’autogoverno del territorio, la Corte avrebbe trascurato le norme incompatibili sotto il profilo della partecipazione ed il consenso dei proprietari alla partecipazione.

Inoltre, una tale associazione, che dovrebbe essere informata ai principi di autonomia negoziale e quindi di libertà associativa, non potrebbe possedere carattere necessario: ma il rapporto associativo non riconosciuto necessario è figura ignota al nostro ordinamento.

Non sembrano ai ricorrenti sussistere i presupposti perchè possa parlarsi di associazione non riconosciuta, tanto più in presenza di uno scopo che è evidentemente quello della valorizzazione e gestione di un patrimonio immobiliare. Sotto un diverso profilo, si lamenta l’errore della sentenza impugnata consistito nel considerare l’art. 346 c.p.c..

Si rileva ancora come la Corte di merito abbia ritenuto non impugnato un atto in realtà impugnato. Ulteriore frutto di valutazione erronea da parte della Corte di merito sarebbe stata la individuazione di carenza di legittimazione attiva in capo all’odierno ricorrente V.M., in quanto destituita di ogni fondamento. Infine, il giudice di secondo grado sarebbe incorso in vizio di extrapetizione allorchè, nella elaborazione della figura cui sarebbe stata riconducibile la Comunità, ha fatto ricorso all’atipico concetto di consorzio – associazione, non risultante dalle allegazioni dell’attuale resistente.

3.1. – Le censure, esaminate congiuntamente come sono state enunciate, risultano infondate.

3.2. – La questione della qualificazione della Comunità è stata correttamente affrontata dalla Corte di merito che, attraverso l’esame del Regolamento, è pervenuta, con motivazione ampia ed articolata, alla individuazione in essa di un consorzio di urbanizzazione, cioè di un’associazione di proprietari che ha la finalità di realizzare le opere di urbanizzazione nel quadro dell’autogoverno del territorio: una situazione, cioè, in cui lo scopo associativo prevale su quello di mero godimento dei beni, determinando, conseguentemente, l’applicazione delle norme sulla associazione non riconosciuta. Tale qualificazione non risulta contrastata se non in modo generico dai ricorrenti.

3.3. – Nè al riguardo è configurabile alcun vizio di extrapetizione, non rientrando la questione della natura giuridica della Comunità tra quelle in relazione alle quali fosse richiesta una specifica domanda, e comunque avendo sia gli attuali ricorrenti, sia la attuale controricorrente rilevato la questione medesima nelle diverse fasi del giudizio.

3.4. – Quanto alla doglianza relativa alla considerazione dell’art. 346 cod. proc. civ., essa è palesemente priva del requisito dell’autosufficienza, sol che si consideri che i ricorrenti non specificano la parte della sentenza impugnata alla quale la censura è rivolta, nè chiariscono in alcun modo il contenuto e la portata della censura medesima.

3.5. – Del tutto priva di autosufficienza, e, pertanto, inammissibile è, del pari, la censura relativa alla mancata impugnazione di atti che non vengono individuati.

3.6. – Palesemente destituita di fondamento risulta, infine, la censura del ritenuto difetto di legittimazione in capo al V., atteso che la sentenza non contiene alcuna statuizione in ordine alla legittimazione del predetto ricorrente.

4. – Conclusivamente, deve essere dichiarato inammissibile il ricorso proposto da Z.G., mentre, per il resto, il ricorso va rigettato. Le spese del giudizio, che vengono liquidate come da dispositivo, devono essere, in applicazione del principio della soccombenza, poste a carico dei ricorrenti in solido.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso proposto da Z. G.. Rigetta il ricorso per il resto. Condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese del giudizio, che liquida in complessivi Euro 2200,00, di cui Euro 2000,00 per onorari.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 26-05-2011) 23-09-2011, n. 34694 Reato continuato e concorso formale

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Svolgimento del processo

1. Con ordinanza del 19 ottobre 2010 il Tribunale di Ferrara, decidendo quale giudice dell’esecuzione, ha rigettato l’istanza avanzata da Z.M., alias B.M. (rectius M.), volta a ottenere l’applicazione della disciplina del reato continuato, ai sensi dell’art. 671 cod. proc. pen., tra i reati oggetto delle seguenti sentenze:

– con il nominativo di B.M., sentenza n. 612/05 del 15 settembre 2005 del Tribunale di Trapani, irrevocabile il 23 dicembre 2005, per il reato di cui al D.Lgs. n. 298 del 1998, art. 14, comma 5- ter, accertato in Trapani il 13 settembre 2005;

– con il nominativo di B.M., sentenza n. 66/08 del 13 febbraio 2008 del G.u.p. del Tribunale di Ferrara, confermata con sentenza n. 376/09 del 6 febbraio 2009 della Corte d’appello di Bologna, oggetto di ricorso per cassazione, e indicata in ricorso come divenuta irrevocabile il 20 novembre 2009, per il reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1-bis, commesso in Cento il 7 marzo 2007;

– con il nominativo di Z.M., sentenza n. 2042/09 del 22 settembre 2009 del Tribunale di Rimini, non risultante irrevocabile, per il reato di cui al D.Lgs. n. 298 del 1998, art. 14, comma 5-ter, accertato in Rimini il 5 dicembre 2005.

Il Tribunale, in particolare, premessi i principi di diritto che regolano l’applicazione della disciplina del reato continuato ex art. 671 cod. proc. pen., rilevava che non erano dimostrati elementi di fatto, oggettivamente sussistenti e concretamente valutabili, indicativi di un’unica progettualità tra i reati oggetto di plurime sentenze di condanna, piuttosto che di deliberazione criminosa autonoma e specifica in relazione alle circostanze di ogni singolo delitto, e della riconducibilità degli stessi al medesimo disegno criminoso, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 81 c.p., comma 2 e art. 671 cod. proc. pen..

2. Avverso detta ordinanza ha proposto due ricorsi per cassazione Z.M., uno personalmente e l’altro per mezzo del suo difensore.

2.1. Con il primo ricorso il ricorrente ha genericamente contestato l’erroneità del provvedimento, rilevando l’evidenza dei presupposti della richiesta "continuazione dei reati". 2.2. Con il secondo ricorso il ricorrente denuncia violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento al mancato riconoscimento del ne bis in idem con riguardo alle due sentenze pronunciate per la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 14, comma 5-ter, rilevando che il Tribunale avrebbe dovuto riconoscere, ai sensi dell’art. 669 cod. proc. pen., la sussistenza di più sentenze di condanna pronunciate per il medesimo fatto, rappresentato dall’Inottemperanza al medesimo provvedimento amministrativo.

In ogni caso, le due sentenze, irrevocabili, dovevano essere valutate come riferite al medesimo disegno criminoso, rappresentato dalla volontà decisa e ferma del condannato di rimanere in Italia anche in violazione di prescrizioni amministrative, mentre è contradeittorla la motivazione che ha ritenuto l’abitualità del medesimo nel reato e ha affermato che la sua determinazione al reato è avvenuta "di volta in volta". 3. Il Procuratore Generale presso questa Corte ha depositato requisitoria scritta, concludendo per la declaratoria d’inammissibilità di entrambi i ricorsi.

Motivi della decisione

1. I motivi di ricorso sono destituiti di fondamento.

2. Deve rilevarsi che il parametro dei poteri di cognizione di questa Corte è delineato dall’art. 609 c.p.p., comma 1, che ribadisce in forma esplicita un principio già enucleatale dal sistema, e cioè la commisurazione della detta cognizione al motivi di ricorso proposti, funzionali alla delimitazione dell’oggetto della decisione impugnata e all’indicazione delle relative questioni, con modalità specifiche al ricorso per cassazione.

Consegue a tale rilievo che, a fondamento dell’atto di impugnazione, devono esserci censure collegate alle ragioni argomentate dalla decisione impugnata, che non possono essere ignorate dal ricorrente (tra le altre, Sez. 6, n. 22445 del 08/05/2009, dep. 28/05/2009, P.M. in proc. Candita e altri, Rv. 244181; Sez. 3. n. 16851 del 02/03/2010, dep. 04/05/2010, Cecco e altro, Rv. 246980), e che non è proponibile in cassazione qualsiasi questione non prospettata in appello (Sez. U, n. 15 del 30/06/1999, dep. 15/09/1999, Piepoll, Rv.

213981; Sez. U, n. 24 del 24/11/1999, dep. 16/12/1999, Spina, Rv.

214793), a meno che non si tratti di deduzioni di pura legittimità o di questioni di puro diritto insorte dopo il giudizio di secondo grado in forza di ius superveniens o di modificazione della disposizione normativa di riferimento conseguente all’intervento demolitorio o additivo della Corte costituzionale (Sez. 1, n. 2378 del 14/11/1983, dep. 17/03/1984, Guner Cuma, Rv. 163151; Sez. 4, n. 4853 del 03/12/2003, dep. 06/02/2004, Criscuolo e altri, Rv. 229373).

2.1. Alla stregua di tali rilievi, la doglianza svolta dal ricorrente con il ricorso presentato personalmente è priva di specificità in rapporto all’ordinanza impugnata, la cui fondatezza è solamente negata, trascurandosi la ratio legis espressa dalla stessa e facente capo alla mancanza di prova della unicità del disegno criminoso.

2.2. Destituita di fondamento è anche la censura sviluppata con il secondo ricorso, che attiene alla violazione del divieto del ne bis in idem con riguardo alle due sentenze pronunciate il 15 settembre 2005 e il 22 settembre 2009 per la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 14, comma 5-ter, trattandosi di questione non dedotta in precedenza, e non deducibile, in quanto questione di fatto, per la prima volta in questa sede di legittimità (Sez. 1, n. 31123 del 14/05/2004, dep. 15/07/2004, Cascella, Rv. 229838).

3. Nè è fondata la censura, formulata in via subordinata con il secondo ricorso, in merito al mancato riconoscimento del vincolo della continuazione tra i reati giudicati con le indicate sentenze del 15 settembre 2005 e del 22 settembre 2009.

Il Tribunale, correttamente interpretando il parametro normativo di cui all’art. 81 c.p., comma 2, e con motivazione logicamente articolata, ha evidenziato l’iter logico seguito per escludere nel caso concreto l’unitarietà del disegno criminoso tra i reati oggetto di separate contestazioni e di autonomi giudizi, congruo rispetto alla ratio dell’istituto della continuazione, anche evidenziando, quanto alla sentenza del 22 settembre 2009, la mancanza di certezza del suo passaggio in giudicato.

Tale ultimo dato, che il ricorrente non ha contestato, limitandosi a opporre, in via subordinata, obiezioni volte a prospettare, nel merito, un’alternativa interpretazione delle risultanze processuali e una diversa valutazione della loro rilevanza, ha carattere troncante ai fini della esclusione dell’applicabilità dell’art. 671 cod. proc. pen., che suppone "più sentenze o decreti penali irrevocabili pronunciati in procedimenti distinti contro la stessa persona". 4. Il ricorso va, pertanto, rigettato.

Consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. V, Sent., 07-03-2012, n. 3523 Accertamento

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Svolgimento del processo

1. Gli atti del giudizio di legittimità.

Il 11.4.2007 è stato notificato a "Investeditor srl" (in fallimento) un ricorso dell’Agenzia delle Entrate per la cassazione della sentenza della CTR di Milano descritta in epigrafe (depositata il 25.5.2006), che ha disatteso l’appello proposto dall’Agenzia contro la sentenza della CTP di Bergamo n. 166/07/2002 che aveva integralmente accolto il ricorso della parte contribuente contro avviso di accertamento relativo ad IRPEG-ILOR per l’anno 1993.

La società intimata si è difesa con controricorso.

La controversia è stata discussa alla pubblica udienza del 21.12.2011, in cui il PG ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

2. I fatti di causa.

Con il predetto avviso di accertamento l’Agenzia aveva determinato maggiori imposte (oltre a sanzioni) a carico della società qui intimata in considerazione dell’acclarata esistenza di corrispettivi per prestazioni di servizi non fatturati e di costi contabilizzati in relazione ad operazioni inesistenti. Il ricorso proposto dalla menzionata società era stato accolto dalla CTP di Bergamo in ragione del fatto che la ripresa si era fondata su dichiarazioni testimoniali, non ammissibili neppure nella fase di accertamento e, quanto alle detrazioni, perchè le stesse non avevano influito sulla determinazione del reddito concernente il periodo di imposta oggetto di accertamento.

L’appello interposto dall’agenzia in riferimento ad entrambe le ratio decidendi (quanto alla prima perchè le dichiarazioni rese in sede di verifica potevano avere rilevanza ai fini decisori e perchè altri e numerosi erano i riscontri oggettivi, analiticamente elencati nel PVC da cui aveva preso le mosse l’accertamento; quanto alla seconda, perchè la GdF aveva ampiamente illustrato le indagini svolte ed i risultati raggiunti nel PVC, dal quale si desumeva che le operazioni contestate non erano mai avvenute) è stato disatteso dall’adita Commissione Regionale.

3. La motivazione della sentenza impugnata.

La sentenza della CTR, oggetto del ricorso per cassazione, è motivata nel senso che l’appello dell’Agenzia riproponeva le stesse argomentazioni svolte in primo grado, ma non evidenziava prova alcuna delle accertate violazioni, quella prova che compete all’Amministrazione fornire e che deve consistere nella dimostrazione che le operazioni in realtà non sono mai state poste in essere.

4. Il ricorso per cassazione.

Il ricorso per cassazione è sostenuto con quattro motivi d’impugnazione e – previa indicazione del valore della lite in Euro 209.060,71 – si conclude con la richiesta che sia cassata la sentenza impugnata, con ogni consequenziale pronuncia in ordine alle spese di lite.

Motivi della decisione

5. Il terzo motivo d’impugnazione. a) Il terzo motivo d’impugnazione (che appare di più pronto esame e che perciò assorbe e rende di inutile esame gli altri che lo precedono in ordine logico) è collocato sotto la seguente rubrica:

"Omessa motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5)".

La parte ricorrente ha censurato la decisione del giudice di appello per avere questi anche ove si volesse pretermettere la questione relativa alla utilizzabilità in giudizio delle dichiarazioni rese da terzi alla GdF nel corso degli accertamenti – omesso di considerare e valutare la portata degli altri documenti richiamati ed allegati al PVC e consistiti sia nella relazione del curatore fallimentare della Investeditor (in cui si fa riferimento alla omessa fatturazione delle prestazioni di servizio di cui qui si tratta); sia nelle indagini della GdF donde emerge che la società Investeditor ha omesso la fatturazione di prestazioni di servizi per gli anni 1993 e 1994; sia nelle operazioni di comparazione eseguite con l’ausilio di alcuni giornalisti che avevano permesso di riscontrare il numero delle pagine effettivamente fornite dalla medesima Investeditor (a mezzo delle quali ultime era stato determinato il maggior reddito, in proporzione al presumibile ricavo per ciascuna singola pagina, previa la loro distinzione in categorie).

L’omissione dell’esame di tutti questi dati aveva perciò costituito fonte dell’inadeguata articolazione degli argomenti che erano stati posti dal giudicante a sostegno della decisione.

Il motivo è fondato e da accogliersi.

Per quanto la censura formulata da parte della ricorrente agenzia rasenti la richiesta di rivisitazione del giudizio sul fatto, rimesso alla competenza esclusiva del giudice del merito, occorre evidenziare che questa Corte – per corrispondere all’esigenza di precisare i confini tra l’attività di controllo della adeguatezza della motivazione del giudizio di fatto e quella (non ammissibile) di controllo della bontà e giustizia della decisione – ha messo in chiara luce che – pur restando valido, in linea di principio, il criterio secondo cui la sentenza è valida allorchè la motivazione lascia comprendere le ragioni della decisione – ciò non esclude che è necessario che dalla motivazione risulti il rispetto dei canoni metodologici che l’ordinamento prescrive per la soluzione delle questioni di fatto (cfr. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 7635 del 16/05/2003).

Deve comunque rimanere fermo, però, che la verifica compiuta al riguardo può concernere la legittimità della base del convincimento espresso dal giudice di merito e non questo convincimento in sè stesso, come tale incensurabile. E’ in questione, cioè, non la giustizia o meno della decisione, ma la presenza di difetti sintomatici di una possibile decisione ingiusta, che tali possono ritenersi solo se sussiste un’adeguata incidenza causale dell’errore oggetto di possibile rilievo in cassazione (esigenza a cui la legge allude con il riferimento al "punto decisivo").

Orbene, poichè la parte ricorrente ha evidenziato (con modalità adeguate in termini di rispetto del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione) una pluralità di elementi di fatto non adeguatamente e specificamente considerati dal giudice del merito (quelli dianzi evidenziati nel riassumere il motivo di impugnazione), essi costituiscono senz’altro sufficienti difetti sintomatici di una possibile decisione ingiusta, siccome capaci di generare una difettosa ricostruzione del fatto dedotto in giudizio.

D’altronde, la stessa parte resistente – sia pur senza espressamente proporre ricorso incidentale – ha evidenziato che vi è ragione di paventare addirittura della nullità della decisione di merito per essere questa (siccome si evidenzia dalla narrativa del fatto, dove si fa riferimento a "l’avviso di rettifica per omessa fatturazione di operazioni imponibili per gli anni 1993 e 1994 e per indebite detrazioni per l’anno 1993") il frutto dell’erronea identificazione della questione controversa, per causa della contemporanea pendenza di due distinte liti, decise nella medesima udienza.

Questi rilievi non possono che corroborare le ragioni di accoglimento del predetto motivo di impugnazione, siccome concorrono a supportare il convincimento che la stringatezza del tessuto argomentativo della decisione è frutto di un frettoloso e de tutto inadeguato esame delle questioni controverse.

Consegue da ciò che le censure di ricorso debbano essere accolte e che, per conseguenza, la controversia debba essere rimessa al medesimo giudice di appello che – in diversa composizione – tornerà a pronunciarsi sulle questioni oggetto del gravame proposto dall’Agenzia e regolerà anche le spese del presente grado di giudizio.

P.Q.M.

la Corte accoglie il terzo motivo di ricorso dell’Agenzia. Cassa la sentenza impugnata e rinvia alla CTR Lombardia che provvederà, in diversa composizione, anche per le spese di questo grado.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Lombardia Milano Sez. IV, Sent., 22-11-2011, n. 2869 Lavoro subordinato

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Svolgimento del processo

Con il gravame in oggetto, ritualmente proposto, il ricorrente ha impugnato l’atto in epigrafe specificato, recante la revoca, in danno del cittadino extracomunitario R.T., di precedente provvedimento, a costui favorevole, di emersione dal lavoro irregolare per l’esistenza, a carico di detto cittadino extracomunitario, di una condanna ex art.14, comma 5 ter del D.Lgs. n.286 del 1998.

L’istante ha sostenuto che l’atto impugnato sarebbe inficiato dai vizi di violazione di legge e di eccesso di potere sotto alcuni profili ed ha concluso chiedendone l’annullamento, previa sospensione.

Si è costituita in giudizio l’intimata Amministrazione dell’Interno contestando la fondatezza del ricorso e chiedendone la reiezione.

Con ordinanza 6.10.2010 n.1070 questo T.A.R. ha accolto la formulata domanda cautelare, confermata poi dal Consiglio di Stato – Sezione VI^ – con ordinanza 20.7.2011, n.3092.

Alla pubblica udienza dell’8.11.2011, sentito il patrono della Pubblica Amministrazione, la causa è stata assunta in decisione dal Collegio.

Motivi della decisione

Il ricorso è fondato alla stregua della motivazione della sentenza n. 8 resa dal Consiglio di Stato in Adunanza Plenaria il 10 maggio 2011.

Nella pronuncia succitata, il giudice di appello ricorda, in primo luogo, che il decorso del termine (il 24 dicembre 2010) per il recepimento della Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio 16 dicembre 2008 n. 2008/115/CE (recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare) aveva già reso immediatamente applicabili le prescrizioni della stessa, trattandosi di una sopravvenienza normativa di matrice comunitaria nella materia de qua, le cui disposizioni risultavano sufficientemente precise e incondizionate, e, come tali, suscettibili di immediata applicazione negli Stati membri, secondo i principi ormai consolidati del diritto comunitario, potendone derivare il venir meno dell’efficacia dei precetti della corrispondente disciplina dettata dalla legge nazionale italiana sull’immigrazione, in quanto non compatibili con gli artt. 15 e 16 della Direttiva, e segnatamente dell’art. 14, comma 5ter del d.lgs. n. 286 del 25 luglio 1998.

Il Collegio richiama, poi, la pronuncia della Corte di Giustizia del 28 aprile 2011 in causa C61/11 PPU, la quale, premettendo la sussistenza delle condizioni per ritenere l’immediata applicabilità della Direttiva 2008/115, posto che è inutilmente decorso il termine fissato per il recepimento da parte dello Stato Italiano, e che le disposizioni di cui agli artt. 15 e 16 si presentano sufficientemente precise ed incondizionate, così conclude: "… la direttiva 2008/115, in particolare i suoi artt. 15 e 16, deve essere interpretata nel senso che essa osta ad una normativa di uno Stato membro, come quella in discussione nel procedimento principale, che preveda l’irrogazione della pena della reclusione al cittadino di un paese terzo il cui soggiorno sia irregolare per la sola ragione che questi, in violazione di un ordine di lasciare entro un determinato termine il territorio di tale Stato, permane in detto territorio senza giustificato motivo".

La suddetta Adunanza Plenaria, premettendo che il legislatore italiano, nell’esercizio di una facoltà espressamente stabilita dalla Direttiva n. 115 del 2008 (art. 4, comma 3, in tema di disposizioni più favorevoli), ha previsto il beneficio della emersione del lavoro irregolare, con effetto estintivo di ogni illecito penale e amministrativo (art. 1ter, comma 11, l. n. 102 del 2009), a favore di una limitata cerchia di lavoratori, ma anche dei rispettivi datori di lavoro, che li impiegano per esigenze di assistenza propria o di familiari non pienamente autosufficienti o per lavoro domestico e che tale misura non può, tuttavia, essere concretamente accordata dall’Amministrazione ove sia stata emessa condanna dello straniero interessato per il reato di cui all’art. 14, comma 5ter, del d.lgs. n. 286/98 – che punisce lo straniero che non abbia osservato l’ordine del questore di lasciare il territorio dello Stato – afferma, poi, che la previsione di tale fattispecie penale, e le conseguenti condanne, non sono più compatibili con la disciplina comunitaria delle procedure di rimpatrio.

In conformità all’orientamento costantemente seguito dalla Corte di Lussemburgo (a partire dalla sentenza Simmenthal in causa 106/77), e dalla stessa Corte costituzionale italiana (con la sent. n. 170 del 1984 e successive), anche la suddetta sentenza del giudice comunitario del 28 aprile 2011 afferma che è compito del giudice nazionale assicurare la "piena efficacia" del diritto dell’Unione, negando l’applicazione, nella specie, dell’art. 14, comma 5ter, in quanto contrario alla normativa dettata dalla Direttiva n. 115 del 2008, suscettibile di diretta applicazione.

"L’effetto di tale diretta applicazione- ha puntualizzato la Corte – non è quindi la caducazione della norma interna incompatibile, bensì la mancata applicazione di quest’ultima da parte del giudice nazionale al caso di specie, oggetto della sua cognizione, che pertanto sotto tale aspetto è attratto nel plesso normativo comunitario." (Corte Cost. n. 168 del 1991).

Il supremo consesso amministrativo conclude affermando che l’entrata in vigore della normativa comunitaria ha prodotto l’abolizione del reato previsto dalla disposizione sopra citata, e ciò, a norma dell’art. 2 del codice penale, ha effetto retroattivo, facendo cessare l’esecuzione della condanna e i relativi effetti penali, non potendo tale retroattività non riverberare i propri effetti sui provvedimenti amministrativi negativi dell’emersione del lavoro irregolare, adottati sul presupposto della condanna per un fatto che non è più previsto come reato.

Né, a parere del Collegio di secondo grado, tale conclusione sarebbe ostacolata in modo persuasivo dalla tesi, prospettata dall’ordinanza di rimessione, secondo cui, per il principio tempus regit actum, sarebbero da ritenere comunque legittimi gli atti amministrativi adottati antecedentemente al mutamento della normativa.

Il principio tempus regit actum esplica, infatti, la propria efficacia allorché il rapporto cui l’atto inerisce sia irretrattabilmente definito, e, conseguentemente, diventi insensibile ai successivi mutamenti della normativa di riferimento, mentre tale circostanza non si verifica ove, come nella specie, siano stati esperiti gli idonei rimedi giudiziari volti a contestare l’assetto prodotto dall’atto impugnato.

Si legge, infatti, nella pronuncia succitata che: "Non diversamente da quanto accade a seguito dell’accoglimento della questione incidentale di legittimità costituzionale, benché sulla base di una differente ricostruzione dei rapporti tra le diverse fonti coinvolte, è da ritenere che le disposizioni espunte dall’ordinamento per effetto della diretta applicabilità di norme comunitarie non possano più essere oggetto di applicazione, anche indiretta, nella definizione di rapporti ancora sub judice ".

Alla luce delle suesposte considerazioni, alle quali il Collegio si riporta integralmente, il ricorso deve essere accolto, disponendosi il conseguente annullamento del provvedimento impugnato.

Sussistono, tuttavia, in considerazione della peculiarità della controversia, giusti motivi per disporre l’integrale compensazione tra le parti delle spese di giudizio.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Quarta),

definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe, lo accoglie e, per l’effetto, annulla l’impugnato provvedimento.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità Amministrativa.

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