Cassazione, sez. III, 9 giugno 2011, n. 12685 Controversia avvocato vs cliente: applicabile il foro del consumatore?

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Fatto e diritto

1. L’avv. E..M. ha ottenuto dal Tribunale di Roma un decreto ingiuntivo nei confronti di Ma.Sa. per un credito di Euro. 14.473,88 a titolo di compenso per prestazioni professionali di avvocato in un giudizio promosso davanti al Tar Molise e davanti al Consiglio di Stato, relativo all’orario di insegnamento del Ma. , quale professore di scuola pubblica. Il Ma. proponeva opposizione, eccependo tra l’altro l’incompetenza territoriale del tribunale di Roma ed in via gradata, sollevando l’eccezione di incostituzionalità dell’art. 637, e. 3, c.p.c..

Il tribunale di Roma, con sentenza depositata il 19.2.2010, dichiarava la propria incompetenza per territorio, essendo competente il tribunale di Larino, quale foro del consumatore, avendo il Ma. la propria residenza in quel circondario.

Avverso tale sentenza, l’attore avv. E..M. proponeva regolamento di competenza adducendo che nel caso di specie non fosse applicabile la previsione sul foro del consumatore, in quanto nel rapporto tra avvocato e cliente non operava la normativa a tutela del consumatore che si riferiva solo alle attività commerciali; che il Ma.Sa. non poteva considerasi un consumatore, in quanto aveva conferito mandato all’avvocato riguardo ad una controversia che rientrava nel quadro della sua professione di insegnante; che in ogni caso avrebbe dovuto trovare applicazione l’art. 637, comma 3, c.p.c.. L’avv. M. ha presentato anche memoria. Resiste l’intimato con controricorso.

2. La decisione sulla competenza passa necessariamente attraverso la soluzione di tre questioni.

Il primo problema che si pone nella fattispecie attiene al rapporto tra il foro speciale alternativo di cui all’art. 637, c. 3, c.p.c. in favore degli avvocati (e dei notai), ed il foro esclusivo del consumatore di cui attualmente all’art. 33, c. 2 lett. n) del d.lgs. 6.9.2005 n. 206.

Il punto è oggetto di soluzioni contrastanti nella giurisprudenza di merito, mentre mancano sentenze di legittimità.

L’art. 63 7 c.p.c. statuisce che "Per l’ingiunzione è competente il giudice di pace o, in composizione monocratica, il tribunale che sarebbe competente per la domanda proposta in via ordinaria. Per i crediti previsti nel n. 2 dell’articolo 633 è competente anche l’ufficio giudiziario che ha deciso la causa alla quale il credito si riferisce.

Gli avvocati o i notai possono altresì proporre domanda d’ingiunzione contro i propri clienti al giudice competente per valore del luogo ove ha sede il consiglio dell’ordine al cui albo sono iscritti o il consiglio notarile dal quale dipendono". L’art. 33, c. 2, lett. u), del d.lgs. 6.9.2005, n. 206,statuisce in tema di contratti c.d. del consumatore che si presume vessatoria fino a prova contraria la clausola che ha per oggetto, o per effetto, di "stabilire come sede del foro competente sulle controversie località diversa da quella di residenza o domicilio elettivo del consumatore”.

3.Va anzitutto rilevato che l’art. 637, c. 3, c.p.c. ha superato indenne lo scrutinio di costituzionalità, a cui è stato sottoposto dal Giudice delle leggi con sentenza n. 50 del 2010, in relazione agli artt. 3 e 25 Cost.. La Corte costituzionale ha solo rilevato che lo scopo della norma è quello di agevolare il professionista, che sarebbe invece costretto a seguire le cause relative al recupero dei crediti professionali in luogo diverso (o addirittura in luoghi diversi) da quello in cui egli avesse attualmente stabilito l’organizzazione della propria attività professionale, ma che la censura di incostituzionalità non può ritenersi fondata sotto il profilo della disparità di trattamento in relazione ad altre categorie professionali, che non possono avvalersi della stessa norma. Infatti "si deve osservare che ogni professione presenta caratteri peculiari idonei a giustificarne una disciplina giuridica differenziata. Per la professione legale tali caratteri sono stati già posti in luce con la sentenza di questa Corte n. 137 del 1975. Infine, quanto al rapporto tra l’avvocato e il cliente, se è vero che la norma censurata attribuisce al primo una facoltà processuale ai fini del recupero dei suoi crediti per prestazioni professionali, mediante la possibilità di scegliere un foro che può non coincidere con la residenza o il domicilio del debitore convenuto, è anche vero che tale facoltà non contrasta con il principio di eguaglianza, essendo essa, come già si è notato, frutto di una scelta non irragionevole del legislatore”.

4.1. La giurisprudenza ha ritenuto in tema di c.d. contratti del consumatore, che il foro del consumatore è esclusivo e speciale sicché la clausola che stabilisca come sede del foro competente una località diversa da quella di residenza o di domicilio elettivo del consumatore, anche se il foro indicato come competente coincida con uno dei fori legali di cui agli artt. 18 e 20 c.c., è presuntivamente vessatoria e, pertanto, nulla (Cass. 26/09/2008, n. 24262).

Già sotto la vigenza dell’art. 1469 bis c.p.c. le S.U. di questa Corte hanno ritenuto che la norma contenuta nel comma 3, n. 19 nel presumere la vessatorietà della clausola che stabilisca come sede del foro competente una località diversa da quella di residenza o domicilio elettivo del consumatore, ha introdotto un foro esclusivo speciale, derogabile dalle parti solo con trattativa individuale. Ne consegue che è da presumere vessatoria anche la clausola che stabilisca un foro coincidente con uno dei fori legali di cui agli artt. 18 e 20 cod. proc. civ., se è diverso quello del consumatore, perché l’art. 1469-ter, terzo comma, cod. civ. – per il quale non sono vessatorie le clausole che riproducono disposizioni di legge – non può essere interpretato vanificando in modo surrettizio la tutela del consumatore, come nel caso in cui il "forum destinatae solutionis" coincida con la residenza del professionista (Cass. Sez. Unite, 01/10/2003, n. 14669; Cass. 20/08/2004, n. 16336).

Pertanto con l’introduzione del foro speciale esclusivo in favore del consumatore (originariamente introdotto dall’art. 1469 bis c.c. e poi trasferito nell’art. 33 del d. lgs. n. 206/2005) risulta ridotto l’ambito di applicabilità dell’originario foro speciale alternativo di cui all’art. 637, c. 3, c.p.c., non regolando anche l’area attualmente coperta dal foro del consumatore, ma esclusivamente quella in cui il cliente ingiunto non rivesta tale qualità.

A rigore non si tratta propriamente di una abrogazione dell’art. 637 e. 3 c.p.c., sia pure parziale, per incompatibilità ai sensi dell’art. 15 delle preleggi, in quanto le due norme in esame convivono (e ciò non solo in relazione alle diverse delimitazioni suddette ma anche perché l’art. 34 d. lgs. n. 206/2005 non esclude in modo assoluto la deroga al foro del consumatore, e quindi anche l’applicabilità della norma codicistica, ma indica le ristrette condizioni alla quali può essere ammessa).

Tuttavia, allorché si versa in una fattispecie in cui, per la presenza sia dell’avvocato che del cliente-consumatore entrambe le norme sarebbero astrattamente applicabili ma necessariamente deve darsi la prevalenza o all’una o all’altra, tale prevalenza va accordata alla norma in tema di foro del consumatore per una duplice ragione.

Anzitutto perché la norma in tema di foro del consumatore individua una competenza esclusiva, che prevale su ogni altra, pur configurata da altra norma (così SU 14669/2003 cit.).

Inoltre detta prevalenza è conseguenza dell’applicazione dei principi che regolano la successione delle leggi nel tempo.

4.2.Né potrebbe sostenersi che tale disciplina prevista dall’art. 637, c. 3, c.p.c., per quanto anteriore rispetto al c.d. codice del consumo non sia stata influenzata dalla successiva disciplina in tema di foro del consumatore, costituendo la norma codicistica una disposizione speciale e, come tale non derogata dalla disposizione successiva generale (perché regolante organicamente l’intera materia della tutela del consumatore) secondo il principio lex specialis derogat legi generali e lex posterior generalis non derogat legi priori speciali.

Infatti l’art. 33, c. 2, lett. u), d. lgs. n. 206/2005 cit., per quanto posizionato in una normativa a carattere generale a tutela del consumatore, rappresenta pur sempre una disposizione speciale in tema di competenza territoriale, non diversamente dalla norma di cui all’art. 637, c. 3 c.p.c., che è posizionata nell’ambito del codice di rito e, quindi, della disciplina generale ed organica del procedimento civile.

4.3. In ogni caso, in merito alla qualità di lex specialis della norma attinente al foro esclusivo del consumatore, va osservato che tale foro era stato originariamente disposto dall’art. 1469 bis e. 3, n. 19 c.c. (introdotto con l’art. 25 della l. n. 52/1996). In quella sede tale l’individuazione del foro costituiva certamente una lex specialis a tutela del consumatore, con la conseguenza che per effetto del coordinamento di tale disposizione speciale sopravvenuta con quella antecedente di cui all’art. 637, c. 3, quest’ultima risultava delimitata ai soli casi in cui il cliente non fosse un consumatore.

La circostanza che la norma speciale in tema di foro esclusivo del consumatore sia poi stata trasferita nella più generale normativa a tutela del consumatore, di cui alla legge n. 206 del 2005, non priva la norma attinente al foro del consumatore del carattere di specialità né "riassorbe" gli effetti delimitativi già prodottisi sull’art. 637, c. 3 c.p.c..

Entrambe le norme (sia quella di cui all’art. 637, e. 3, che quella di cui all’art. 33 d. lgs. n. 205/2006) attengono infatti a categorie specifiche di soggetti.

Ne consegue che il loro concorso va regolato nei termini della prevalenza della norma di cui all’art. 33, c. 2, lett. u, d. lgs. n.2006/2005 su quella di cui all’art. 637, e. 3 c.p.c..

4.4. Di nessun rilievo, ai fini della questione in esame, è la sentenza 20.7.2010 n. 17049 di questa Corte, su cui si dilunga il ricorrente nella memoria. Essa infatti si è limitata a statuire che il Consiglio dell’Ordine in relazione al quale va determinato il giudice competente a norma dell’art. 637, c. 3, c.p.c. è quello relativo al momento della proposizione del ricorso. Nessun elemento da tanto si ricava in relazione alla diversa questione in esame della concorrenza tra il foro dell’avvocato e quello del consumatore.

5.1. La seconda questione che si pone è di esaminare se l’avvocato che conclude un contratto d’opera professionale intellettuale sia da ritenersi un professionista, ai sensi dell’art. 3 del d. lgs. n. 206/2005.

La risposta è affermativa.

Invero, appare innanzitutto infondato l’assunto del ricorrente con il quale, facendosi riferimento al preambolo della direttiva comunitaria 5 aprile 1993 n. 93/13 CEE, da cui ha tratto origine la normativa nazionale sul consumatore, si sostiene che il rapporto tra avvocato e cliente esulerebbe dalla normativa de qua, in quanto l’attività del legale non rientrerebbe tra le "attività commerciali", a cui soltanto la stessa normativa si riferirebbe, sostanziandosi in un’opera intellettuale basata sull’intuitu personae, di modo che l’avvocato non potrebbe essere annoverato tra i professionisti a cui si applica la normativa comunitaria.

5.2. Va, al contrario, rilevato che la direttiva comunitaria del 5.4.19 93, n. 93/13 CEE non limita il suo ambito di applicazione alle "attività commerciali", come comunemente intese. Anzi la predetta direttiva comunitaria, al suo decimo "considerando", afferma espressamente la sua applicabilità "a qualsiasi contratto stipulato tra un professionista e un consumatore", eccezion fatta per alcuni contratti espressamente enucleati.

Il D.lgs. n. 206/2005 all’art. 3 lett. a), come modificato dall’art. 3, D.Lgs. 23 ottobre 2007, n. 221 definisce il consumatore come: "la persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta". Lo stesso art. 3 (mod. dal d.lgs. n. 221/2007), alla lett. c) definisce il professionista come: “la persona fisica o giuridica che agisce nell’esercizio della propria attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale, ovvero un suo intermediario". Questa definizione di professionista, così come quella di consumatore, fa riferimento all’esercizio dell’attività "imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale" che, nel nostro ordinamento, rispecchia la distinzione tra imprenditore, artigiano e prestatore d’opera professionale.

6.1. È evidente, quindi, che la disciplina del consumatore si applica anche al professionista prestatore d’opera intellettuale (art. 2229 c.c.), qual’è l’avvocato.

A tal fine, peraltro, a nulla rileva che il rapporto tra l’avvocato e il professionista sia caratterizzato dall’intuitu personae e sia, non di contrapposizione, ma di collaborazione (questo, tra l’altro, solo nei rapporti esterni con i terzi, ossia con le controparti del cliente), non rientrando tale circostanza nel paradigma normativo.

Nella fattispecie si versa nell’ipotesi di contratto (d’opera professionale) stipulato tra un professionista (l’avvocato), che tipicamente conclude quel tipo di contratto nella sua attività professionale, ed un cliente, il quale, a seconda delle circostanze, può esser un consumatore o meno (come si vedrà in seguito).

Invero, è evidente che un avvocato utilizza il contratto (di mandato per la rappresentanza e difesa giudiziale o extragiudiziale di un cliente) per agire nell’esercizio della propria attività professionale ed è, pertanto, da considerare un professionista, secondo la definizione data a tale figura dal legislatore nell’art. 3, lett. u) del citato D.lgs. n. 206/2005.

6.2. Ora, il professionista è colui che nell’esercizio della sua attività "utilizza" i contratti previsti dalla disciplina a tutela del consumatore. Il punto era espressamente dichiarato nel previgente art. 1469 bis c.c.; l’inciso non è stato poi riprodotto nel codice del consumo unicamente per il fatto che la definizione viene riferita, in apertura di codice, non solo alla disciplina dei contratti del consumatore ma del consumo in genere. Tuttavia non pare revocabile in dubbio che l’utilizzo del contratto da parte del professionista quale ordinario strumento per l’esercizio della propria attività sia uno dei presupposti sostanziali della normativa in esame.

6.3. Quanto alla prestazione professionale, lo stesso articolo 3 del cod. cons. alla lett. e) individua nel "prodotto" destinato al consumatore anche una "prestazione di servizi".

A questo fine va rilevato che già questa Corte aveva affermato con ordinanza 26/09/2008, n. 24257, l’applicabilità dell’art. 33 lett. u) del citato D.lgs 6.9.2005, n. 206, in tema di foro del consumatore nell’ambito di un giudizio instaurato dall’avvocato nei confronti del proprio cliente per competenze professionali, rilevando la prevalenza di detto foro esclusivo rispetto a quelli facoltativi di cui all’art. 20 c.p.c. (non si faceva questione -invece – del rapporto tra foro esclusivo del consumatore e quello alternativo speciale di cui all’art. 637, c. 3, c.p.c.) 6.4.Più in generale questa Corte ha già ritenuto che il prestatore di opera professionale intellettuale (nella fattispecie il medico) integra la figura del professionista di cui all’art. 1469 bis (abrogato) e. e. e quindi dell’attuale art. 3 cod. cons. (Cass. 20/03/2010, n. 6824; Cass. 27/02/2009, n. 4914, Cass. 2/01/2009, n. 20), con la conseguenza che opera per il cliente – consumatore – il foro esclusivo della propria residenza. In questi predetti arresti si è rilevato che è professionista – ai fini dell’applicazione della disciplina sui contratti del consumatore, – una persona che assume verso l’altra l’impegno di svolgere a suo favore un compito da professionista intellettuale, se l’impegno è assunto nel quadro di un’attività svolta in modo non occasionale.

6.5. Né la disciplina di protezione del consumatore è limitata al caso in cui il contratto sia concluso per iscritto con rinvio a condizioni generali di contratto o mediante moduli o formulari, come pure si evince sia dall’art. 35 del codice del consumo (e già dall’art. 1469 quater cod. civ.), sia dall’art. 34, comma 5 del citato codice e già dall’art. 1479 ter c.c., comma 5, che considerano tali ipotesi come eventuali e le elevano a presupposto della applicazione di ulteriori disposizioni di tutela del consumatore.

Il che è del resto conforme a quanto risulta in modo espresso da uno dei "considerando" che introducono alla direttiva 93/13/CEE del Consiglio del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati dal consumatore, dove è scritto che "il consumatore deve godere della medesima protezione nell’ambito di un contratto orale e di un contratto scritto".

Inoltre la giurisprudenza della Corte ha ritenuto che sia "professionista" il prestatore d’opera intellettuale anche quando si è discusso e risolto negativamente il quesito se della tutela del consumatore possa egli fruire per contratti conclusi nel quadro della sua attività professionale (Cass. 5 giugno 2 007 n. 13083; 9 novembre 2006 n. 23892, quest’ultima con specifico riferimento alla professione di avvocato).

7.Ne consegue che, per effetto dell’applicabilità dell’art. 33 lett. u) d.lgs. n. 2 05/2 006, il foro alternativo speciale di cui all’art. 637, e. 3 c.p.c. opera solo nell’ipotesi in cui il cliente, tenuto alla prestazione del corrispettivo all’avvocato, sia una persona giuridica oppure – nell’ipotesi in cui il cliente sia una persona fisica – che esso non rivesta la qualità di consumatore e, quindi, che abbia richiesto la prestazione professionale all’avvocato per uno scopo estraneo alla sua attività imprenditoriale,commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta (l’art. 15 del Reg. CE 44/2001 utilizza il sintagma X1scopo estraneo all’attività").

8.1-Si pone a questo punto la terza questione: Se, ai fini dell’individuazione del consumatore, con la locuzione "scopo estraneo all’attività professionale" ci si riferisca necessariamente ad "attività professionale" diversa da quella del lavoratore dipendente.

Secondo il ricorrente, infatti, poiché il Ma. gli aveva richiesto l’attività professionale di avvocato relativamente ad atti in merito all’orario di insegnamento, la prestazione richiesta non era estranea all’attività professionale di insegnante del Ma. , con la conseguenza che questi non era un consumatore, ma a sua volta un professionista, per cui non poteva invocare il foro del consumatore.

Secondo l’orientamento giurisprudenziale italiano prevalente (Cass. S.U. n. 7444 del 20/03/2008) deve essere considerato consumatore e beneficia della disciplina di cui all’art. 1469 bis c.c. e segg., ed attualmente D.Lgs. n. 2006 del 2005, artt. 3 e 33 e segg., la persona fisica che, anche se svolge attività imprenditoriale o professionale, conclude un qualche contratto per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all’esercizio di dette attività; mentre deve essere considerato "professionista" tanto la persona fisica quanto quella giuridica, sia pubblica che privata, che invece utilizza il contratto nel quadro della sua attività imprenditoriale e professionale, ricomprendendosi in tale nozione anche gli atti posti in essere per uno scopo connesso all’esercizio dell’impresa (cfr. anche Cass. 23/02/2007, n. 4208).

8.2.Non sono mancate critiche a tale orientamento, finalizzate ad un’interpretazione estensiva del concetto di consumatore, fondata sulla distinzione tra atti della professione e atti inerenti alla professione e con la tendenza ad escludere dall’ambito di applicazione della tutela dei consumatori solo quegli atti che presentino una pertinenza specifica con l’attività professionale svolta e non quelli in cui il collegamento sia riconducibile ad un rapporto di pertinenza generica, sul presupposto che in tali situazioni il soggetto vessato, pur agendo per finalità diverse dal puro consumo privato, è sostanzialmente un profano, sfornito di quelle competenze specifiche che possono farlo ritenere in posizione di parità con il contraente forte, con conseguente asimmetria informativa.

8.3. Sennonché non vi sono ragioni per discostarsi dall’orientamento già espresso da queste S.U. e sopra indicato. Va, anzi, osservato che la tesi è corroborata dalla definizione di consumatore fornita nell’ambito del commercio elettronico (art. 2, lett. e), D.lgs. 9.4.2003, n.70): questa normativa prevede che anche la mera riferibilità dell’atto all’attività professionale svolta dalla persona fisica impedisce che quest’ultima possa essere qualificata come consumatore.

8.4. Ne consegue che anche la persona fisica che abbia richiesto all’avvocato la sua prestazione professionale per una questione non estranea alla sua attività imprenditoriale o professionale, sia pure occasionale, non ha la qualità di consumatore e quindi non può beneficiare del foro di cui all’art. 33, c. 2 lett. u) d.lgs. n. 205/2006, mentre rimane soggetto al foro alternativo di cui all’art. 637, c. 3 c.p.c..

9.1. Sotto questo profilo non può essere condiviso l’argomento sotteso alla sentenza impugnata e fatto proprio dal resistente, secondo cui nella fattispecie il contratto di prestazione di opera professionale intervenuto tra l’avvocato ed il cliente non costituiva un atto finalizzato alla sua attività di professore di scuola pubblica statale, svolta dal cliente, per cui questi non era un consumatore.

Poiché nella fattispecie, invece, come emerge dalla sentenza impugnata, il mandato professionale era stato conferito, dall’opponente all’opposto per ottenere l’annullamento dal TAR del provvedimento di smembramento delle ore di insegnamento del Ma. , insegnante di topografia, costruzioni rurali e disegno presso istituti tecnici, tale prestazione difensiva richiesta, non era estranea all’attività del cliente, come rileva il ricorrente.

9.2.Osserva, quindi, questa Corte che se la questione della qualità di professionista (e quindi di non consumatore) dovesse essere impostata solo nei termini di inerenza della prestazione difensiva richiesta con l’attività svolta dall’opponente (cliente), nella fattispecie dovrebbe necessariamente concludersi che la prestazione richiesta all’avvocato non era "estranea" alla stessa, poiché atteneva espressamente a tale attività di insegnante del cliente.

Sennonché tale assunto si fonda su un presupposto errato e cioè che si possa predicare, ai fini che qui interessano, l’equazione tra "attività lavorativa" ed "attività professionale".

Invece nella fattispecie la disciplina dei c.d. contratti del consumatore trova applicazione non perché manchi l’inerenza tra il contratto concluso con l’avvocato e l’attività lavorativa di insegnante del cliente, ma perché tale attività lavorativa, trattandosi di lavoro subordinato, non è qualificabile come "attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale", come richiesto dalla legge e sostenuto dal ricorrente.

Solo se il soggetto persona fisica agisce per uno scopo relativo ad una di queste quattro "attività", è esclusa la qualità di consumatore, subentrando invece la qualità di professionista.

10.1.Ritiene questa Corte che il rapporto di lavoro subordinato (sia privato che pubblico), contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, non integri "attività professionale", idonea (ai sensi dell’art. 3 d. lgs. n. 206/2005) a far ritenere sussistente la qualità di professionista e, per converso, escludere quella di consumatore.

Infatti anzitutto la disciplina relativa alla tutela del consumatore individua nel professionista un soggetto che opera direttamente sul mercato per un’attività imprenditoriale artigianale, commerciale o professionale, svolgendo su tale mercato un’attività economica, tendenzialmente nei confronti di tutti i soggetti che possono richiederla.

A fronte di tale attività vi è il consumatore, quale persona fisica, che, se non ha egli stesso in relazione a quel contratto la qualità di professionista, rappresenta la parte debole. Nel rapporto di lavoro subordinato, invece, il lavoratore non svolge sul mercato la propria attività economica, ma effettua la sua prestazione lavorativa esclusivamente con l’inserimento nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa del datore di lavoro (Cass. civ., Sez. lavoro, 14/09/2009, n. 19770), e solo l’attività di quest’ ultimo è un’attività imprenditoriale, commerciale o artigianale o professionale (e non quella dei soggetti che all’interno svolgono per lui l’attività lavorativa dipendente).

Peraltro sarebbe ben strano che il lavoratore dipendente, all’interno del rapporto di lavoro, sia considerato la parte debole (Cass. 12/02/2004, n. 2734), mentre quando poi "agisce nell’esercizio della propria attività", ai fini del codice del consumo sia considerato un "professionista", parte forte. Ulteriori elementi per escludere che nel concetto di "attività professionale" rientri anche l’attività lavorativa conseguente a rapporto di lavoro emergono dal decimo "considerando" alla direttiva 93/13/CEE, che ai contratti di lavoro ha attribuito una propria autonomia.

10.2.In definitiva con il sintagma "attività professionale", di cui all’art. 3 del d.lgs. n. 206/2005, come modificato dal D.Lgs. 23 ottobre 20 07, n. 221, ai fini della qualificazione del soggetto – persona fisica – come professionista, deve intendersi solo l’attività consistente nella prestazione autonoma d’opera professionale intellettuale (oltre all’attività imprenditoriale, commerciale ed artigianale, espressamente previste dalla norma), con esclusione quindi dell’attività di lavoro dipendente, sia pubblico che privato.

11. Nella fattispecie, poiché si versa in ipotesi di un contratto d’opera professionale intellettuale tra l’avvocato opposto ed il consumatore opponente, trova applicazione il foro esclusivo di quest’ultimo, a norma dell’art. 33, c. 2, lett. u) del d.lgs. 6.9.2005, n. 206, e non il foro di cui all’art. 637, c. 3, c.p.c. Quindi va affermata la competenza territoriale del tribunale di Larino, come correttamente statuito dalla sentenza impugnata. Stante la novità della questione in questa sede di legittimità ed il contrasto nella giurisprudenza di merito, esistono giusti motivi per compensare le spese di questo regolamento.

P.Q.M.

Dichiara la competenza per territorio del tribunale di Larino. Compensa tra le parti le spese di questo regolamento.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 06-10-2010) 20-01-2011, n. 1558

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo e motivi della decisione

1- Il Tribunale di Venezia, con ordinanza 19/3/2010, decidendo in sede di riesame ex art 309 c.p.p., annullava, per difetto dei gravi indizi di colpevolezza, la misura cautelare della custodia in carcere adottata, il 19 febbraio precedente, dal Gip dello stesso Tribunale nei confronti – tra gli altri – di O.K., C.E., M.A. e H.G.A., indagati in ordine al reato di cui all’art. 270 bis c.p., per avere partecipato, con incarichi dirigenziali e organizzativi, all’associazione politica denominata PKK e più esattamente alta frangia di tale associazione che si proponeva di compiere atti di violenza con finalità di terrorismo nei confronti della Turchia, reclutando adepti, dei quali veniva curata la formazione politica e militare in numerosi campi siti in varie zone d’Europa, allo scopo di inviarli – poi – in Turchia per lo svolgimento delle operazioni effettive; e il primo indagato anche in relazione al reato di cui all’art. 270 quater c.p., per avere, nello svolgimento dell’attività di promozione e direzione dell’associazione, arruolato varie persone, tra le quali G. G.R. e S.M., per lo svolgimento di atti di violenza per finalità di terrorismo contro lo Stato turco, addestrandole alla guerriglia.

Nell’ordinanza genetica si evidenziava che le indagini espletate avevano avuto una svolta decisiva il 13/3/2009: sottoposto a controllo l’ O., lo stesso era stato trovato in possesso di materiale vario che induceva a ritenere il suo coinvolgimento nel reclutamento di guerriglieri da inserire nei ranghi armati del partito curdo e nell’arruolamento di alcune giovani donne.

L’attività di intercettazione telefonica sulle utenze in uso al predetto aveva confermato tale ipotesi, essendo emerso che S. M. effettivamente era stata arruolata nelle file della guerriglia curda e che un ruolo fondamentale aveva avuto l’ O.. L’attività di controllo da parte degli organi di polizia aveva consentito di accertare i contatti del predetto con M.A., operante prevalentemente all’estero e impegnatosi nell’attività di formazione svolta in un campo del pisano, col C., quale referente del PKK nella zona di Modena e Venezia e molto attivo nella organizzazione del campo di Pisa, con la H., giunta appositamente in Italia per seguire i lavori del campo pisano.

Il Giudice del riesame, invece, sottolineava che l’ipotesi accusatoria non offriva dati concreti in ordine agli atti di violenza con finalità di terrorismo che l’organizzazione avrebbe inteso compiere, il che rendeva la vicenda molto opaca e indeterminata.

Gli elementi indiziali acquisiti presentavano profili di equivocità e si prestavano a letture alternative: l’allestimento e l’operatività dei campi di formazione non denunciavano con certezza che gli stessi erano finalizzati alla selezione e alla prima formazione delle nuove leve della guerriglia (mancato rinvenimento di armi, assenza di testimonianze "dall’interno" a conferma dell’ipotesi accusatoria, contrarie testimonianze acquisite nel corso delle indagini difensive), non potendosi escludere, anche alla luce delle espletate indagini difensive, l’impegno sul fronte della promozione dell’identità nazionale, della diffusione della storia e della cultura del popolo curdo, allo scopo di cementare la consapevolezza di una comune identità nazionale.

Pur dandosi atto che l’attività posta in essere dagli indagati sembrava orientata alla condivisione della lotta armata, come poteva desumersi dalla documentazione trovata in possesso dell’ O. e dall’effettivo arruolamento di giovani curdi nelle file delle formazioni armate, difettava la prova dello stretto collegamento tra i campi di formazione gestiti dagli indagati e la prospettiva di un impegno nella guerriglia. Pur non potendo essere posto in dubbio il collegamento tra gli indagati e il PKK, la pluralità dei piani di azione di tale organizzazione rendeva non agevole, dato l’equivoco significato degli elementi acquisiti, l’interpretazione della vicenda.

Anche in ordine all’arruolamento con finalità di terrorismo delle due ragazze da parte dell’ O., gli indizi a carico di costui non potevano qualificarsi gravi. Con riferimento al reclutamento della giovane S.M., se – per un verso – nelle conversazioni intercettate si evocava, dopo la scomparsa della predetta, il prenome " K." dell’indagato, indicato come "colui che istruisce le persone in Europa" – per altro verso – la circostanza che l’indagato, in data 15/9/2009, si fosse esposto in pubblico in compagnia della ragazza, con la quale si era portato presso la Questura di Milano, induceva ad escludere, sul piano logico, un coinvolgimento del medesimo indagato, già destinatario di particolare attenzione da parte delle Forze dell’Ordine, nel reclutamento della giovane quale guerrigliera, anche in considerazione del fatto che, nel corso delle indagini espletate, si era fatto riferimento a soggetti diversi, quali possibili responsabili del reclutamento. Quanto al reclutamento di G. G.R., la disponibilità di foto e missive della predetta da parte dell’indagato ben poteva essere giustificata in ragione dell’affinità politica tra i due, ma non dimostrava il coinvolgimento del medesimo indagato nell’operazione di reclutamento.

2- Ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Venezia, deducendo il vizio di motivazione in ordine alla ritenuta insussistenza del quadro di gravità indiziaria e rilevando in particolare: 1) quanto al reato di cui all’art. 270 quater c.p. contestato al solo O., si era dato per certo l’inserimento della G. e della S. nella lotta armata, ma si era sottovalutata illogicamente la gravità del quadro indiziario a carico dell’indagato; 2) quanto al reato di cui all’art. 270 bis c.p. contestato a tutti gli indagati innanzi citati, si era illogicamente ipotizzato che il campo allestito nella zona di Pisa perseguisse mere finalità di indottrinamento politico e culturale, dandosi, però, contestualmente atto che le modalità di predisposizione, di organizzazione, di selezione dei partecipanti, di gestione del campo e le caratteristiche dell’insegnamento erano tali da essere incompatibili con una mera attività di tipo politico- culturale e conclamavano, invece, una chiara finalità terroristica, come agevolmente poteva desumersi dalla segretezza e clandestinità dell’evento, dalla limitata libertà di movimento dei partecipanti, dalla presenza di vedette per evitare di essere sorpresi da controlli della Polizia, dalla presenza di soggetti con esperienza militare, elementi tutti indicativi del fatto che il campo pisano era una "vera e propria retrovia logistica della frangia terroristica" del PKK. 3- La difesa degli indagati ha depositato in data 30/9/2010 memoria con la quale, ponendo in evidenza la carenza di concreti elementi a conforto della tesi accusatoria, ha sollecitato il rigetto del ricorso.

4- Il ricorso è inammissibile.

L’ordinanza impugnata riposa su un apparato argomentativo che, strettamente ancorato alle emergenze procedimentali, le apprezza e le valuta in maniera adeguata e logica, esplicitando le ragioni che giustificano, allo stato degli atti, la conclusione alla quale perviene. L’ordinanza in verifica, invero, dopo avere dato atto che l’organizzazione curda denominata PKK operava notoriamente su un doppio livello, nel senso che ad una attività di natura squisitamente politico-culturale si affiancava anche un’attività violenta, organizzata militarmente e diretta a conseguire con ogni mezzo l’indipendenza o, comunque, l’autonomia del Kurdistan, ritiene che gli elementi acquisiti diano conferma del primo aspetto ma siano insufficienti, per il loro significato equivoco, ad avallare l’ipotesi che i "campi di formazione" allestiti in Italia fossero "finalizzati alla selezione e alla prima formazione delle nuove leve della guerriglia"; ritiene, inoltre, come si evince da quanto innanzi sintetizzato, non dotati del richiesto requisito della gravità indiziaria, prestandosi a letture alternative, gli elementi addotti dall’Accusa a carico dell’ O. in relazione al reclutamento delle due giovani donne.

Il convincimento espresso dal Giudice del riesame, all’esito di una valutazione di merito delle risultanze acquisite, non sembra avere subito il condizionamento negativo di un procedimento induttivo contraddittorio o illogico, ovvero di un esame incompleto e impreciso dei dati di fatto a disposizione, sicchè si sottrae a qualunque rilievo di legittimità.

Le doglianze articolate in ricorso si risolvono in non consentite censure in punto di fatto al discorso giustificativo della pronuncia di riesame e sono, quindi, inidonee ad attivare il sollecitato sindacato di legittimità. Esula, infatti, dai poteri di questa Suprema Corte quello di una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la valutazione dei quali, se non contraddittoria o manifestamente illogica, deve rimanere prerogativa esclusiva del giudice a quo. Non può certo integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, anche se per il ricorrente più adeguata, valutazione del materiale d’indagine acquisito.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. I, Sent., 11-03-2011, n. 5872 Giurisdizione del giudice ordinario e del giudice amministrativo

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

M.V., con atto del 14 ottobre 1998, conveniva davanti ai Tribunale di Potenza il Comune di Guardia Perticara. Narrava di avere stipulato, quale titolare di una impresa edile, con il Comune convenuto alcuni contratti di appalto e precisamente relativi: a) variante e sistemazione del tracciato della strada (OMISSIS); b) rete fognante dell’abitato di Guardia Perticara; c) costruzione di un ambulatorio medico dell’abitato di (OMISSIS); d) costruzione dell’area attrezzata artigianale, in località (OMISSIS).

Precisava di essere creditore del Comune appaltante per una serie di importi per ciascuno dei lavori suindicati, a titolo di residuo corrispettivo ovvero di revisione prezzi. Resisteva il comune convenuto eccependo preliminarmente il difetto di giurisdizione del giudice ordinario in relazione alla domanda di condanna al pagamento della revisione prezzi. Chiedeva comunque il rigetto di tutte le domande. Il Tribunale di Potenza, con sentenza n. 598 del 2001, dichiarava il proprio difetto di giurisdizione relativamente alla domanda di pagamento del compenso per revisione e rigettava per intervenuta prescrizione ogni domanda intesa ad ottenere pagamenti di saldo lavori.

Proponeva appello M.V. e la corte di Potenza lo accoglieva in parte.

Il secondo giudice anzitutto rilevava, stante il pacifico principio enunciato anche dal Tribunale, secondo il quale la posizione dell’appaltatore acquista natura di diritto soggettivo tutelabile davanti al giudice ordinario soltanto quando il patto di revisione è stabilito in una convenzione antecedente la L. n. 37 del 1973, ovvero quando l’amministrazione ha adottato un esplicito provvedimento attributivo della revisione o abbia tenuto un comportamento concreto che presupponga, il riconoscimento di tale diritto, che talune circostanze di fatto erano idonee a dimostrare l’intervenuto riconoscimento dei compenso revisionale. in particolare individuava tale implicito riconoscimento da parte dell’amministrazione relativamente a tre dei quattro lavori, relativi alla rete fognante, all’ambulatorio comunale all’area artigianale.

Accoglieva il motivo di appello relativo alla giurisdizione ordinaria, negata dal primo giudice, con riferimento alle domande dei compensi revisionali per i lavori relativi alla rete fognante e all’area attrezzata. Respingeva invece i motivi di appello con i quali il M. aveva contestato la decisione del primo giudice nella parte in cui aveva ritenuto fondata l’eccezione di prescrizione proposta dai Comune osservando, tra l’altro, che il medesimo appellante, formulando una vera e propria controeccezione di interruzione della prescrizione stessa, aveva evidentemente preso atto della ritualità della eccezione.

Riteneva tuttavia che la contro eccezione di interruzione della prescrizione fosse stata tardiva rispetto ai termini di cui all’art. 183 c.p.c., n. 4.

Ricorre per cassazione contro questa sentenza M.V. con atto articolato su due motivi.

Resiste con controricorso il comune di Guardia Perticara e deposita memoria.
Motivi della decisione

1. Con il primo motivo di ricorso M.V. lamenta la violazione dell’art. 183 c.p.c., nonchè la motivazione insufficiente, illogica e contraddittoria su punti decisivi della controversia.

Afferma che il Comune oggi resistente, in primo grado non eccepì ritualmente la prescrizione del diritto fatto valere in giudizio, essendosi limitato a dedurre la mancata ricezione degli atti interruttivi della prescrizione. Sostiene quindi l’erroneità della conseguente argomentazione della sentenza impugnata secondo la quale la sua controeccezione di interruzione della prescrizione sarebbe stata tardiva,giacchè siffatto strumento processuale ben potrebbe essere utilizzato per tutta la durata della fase istruttoria.

Sostiene anche e parallelamente che in ogni caso a contrastare l’eccezione avanzata dal Comune sarebbe stata sufficiente anche una mera difesa, come tale non assoggettabile ad alcun termine ed in particolare a quelli indicati dall’art. 133 c.p.c., comma 4. 1.b. Il motivo è complessivamente infondato.

Anzitutto la sentenza impugnata individua , motivando in modo del tutto adeguato, la chiara volontà del Comune di eccepire la prescrizione. Detto Ente non si limitò ad allegare una documentazione astrattamente ritenuta in grado di far desumere l’avvenuta estinzione del diritto per inerzia del titolare, bensì formulò l’eccezione in modo esplicito. Sul punto la sentenza impugnata richiama brani degli atti processuali riportanti per l’appunto la volontà di cui si tratta.

Questo punto della doglianza pertanto è inammissibile laddove dietro lo schermo della censura alla motivazione, che a parere del collegio da pienamente conto dell’itinerario logico seguito dal giudice di merito, tende a riesaminare i fatti della causa.

1.c. Infondata è peraltro la questione sollevata relativamente alla, pretesa tempestività della controeccezione di interruzione della prescrizione. Questa, come la giurisprudenza della corte di Cassazione ha da tempo stabilito,dando luogo ad un indirizzo che il collegio pienamente condivide, è assimilabile alle eccezioni in senso stretto, e se pure non esige formule sacramentali e può essere formulata anche prima dell’eccezione di prescrizione, va proposta nel rispetto dei prescritti termini processuali. Dunque il superamento del termine di cui all’art. 183 c.p.c., comma 4 la rende tardiva (cass. N. 5945 del. 2000, n. 901.6 del 2002, n. 10904 del 1996, n. 5945 del 2000).

Da ciò consegue l’esattezza della dichiarata tardività della controeccezione di interruzione della prescrizione sollevata dall’attore nella memoria ex art. 183 c.p.c., e depositata dopo l’udienza da tale norma prevista, ovvero il 12 maggio del 1999. 1.d. Detta conclusione assorbe l’ulteriore argomento portato dal ricorrente secondo il quale a contrastare un’eccezione di prescrizione basterebbe una mera difesa e non sarebbe necessaria invece una contro eccezione. Sul punto, infatti il collegio, ancora una volta, non ritiene di discostarsi dalla stabile opinione della giurisprudenza della Corte di Cassazione che individua, si è detto, nella cosiddetta controeccezione di interruzione una sorta di eccezione in senso stretto (Vedi ancora Cass. N. 5945 del 2000).

2. Con il secondo motivo del suo ricorso M.V. lamenta la violazione o la falsa applicazione dell’art. 1335 c.c., nonchè l’erronea ed arbitraria interpretazione delle risultanze istruttorie da parte del giudice di secondo grado e, quindi, la motivazione sui punti decisivi di cui si tratta, omessa e contraddittoria. Afferma infatti che il primo giudice avrebbe dovuto rigettare l’eccezione di prescrizione proposta dal Comune dal momento che tale ente non aveva provato di non aver ricevuto le affermate intimazioni a pagare e non era stata fornita la prova, dell’avvenuto avvenuto recapito dei plichi all’indirizzo dello stesso.

2.a. Osserva il collegio che sostanzialmente con il motivo in esame si afferma l’errore del giudice di primo grado che avrebbe dichiarato il decorso della prescrizione decennale senza considerare che esso odierno ricorrente aveva provato con gli avvisi di ricevimento l’avvenuto recapito dei plichi all’indirizzo del Comune per cui, la posizione di quest’ultimo, fondato fondata sull’assunto della mancata ricezione di alcun atto di intimazione, non doveva essere condivisa.

Orbene,la tardività della predetta controeccezione di interruzione toglie ogni rilievo alla censura in esame.

3. Il ricorso deve essere respinto. Il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese di questa fase del giudizio.
P.Q.M.

LA CORTE respinge il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, liquidate in Euro 1500,00 per onorari ed Euro 200,00 per esborsi. Nonchè alle spese generali ed accessori come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Lazio Roma Sez. II quater, Sent., 21-02-2011, n. 1603 Competenza e giurisdizione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Il ricorrente, cittadino marocchino, in data 17.2.2008 ha presentato istanza di concessione della cittadinanza italiana per matrimonio, ai sensi dell’art. 5 della legge n. 91 del 1992.

Nonostante il decorso del termine di 30 gg. prescritto dall’art. 3 del dpr. 352/1994, l’Amministrazione, dopo aver comunicato l’avvio del procedimento con nota del 19.3.2009, non si è a tutt’oggi pronunciata sull’istanza del ricorrente, in quanto, rilevato che l’interessato, tratto in stato di arresto in quanto sorpreso in flagranza nello spaccio di 20 grammi di cocaina, era stato condannato in data 6.4.2004 per il reato di cui all’art. 73 del DPR n. 309 del 9.10.1990, considerato ostativo ai sensi dell’art. 6, comma 1, lett. b, della predetta legge n. 91 del 1992, aveva interrotto l’iter procedimentale.

Avverso l’inerzia della PA, pertanto, l’interessato ha presentato il ricorso in esame chiedendo l’accertamento dell’illegittimità dell’operato dell’Amministrazione e la condanna alla conclusione del procedimento con un provvedimento espresso.

Si è costituita in giudizio l’Amministrazione intimata con memoria scritta a difesa del proprio operato, rappresentando che la sospensione del procedimento in esame costituiva un atto dovuto, stante l’espressa previsione in tal senso del comma 4 dell’art. 5 della legge n. 91 del 1992, il quale dispone che "4. L’acquisto della cittadinanza è sospeso fino a comunicazione della sentenza definitiva, se sia stata promossa azione penale per uno dei delitti di cui al comma 1, lettera a) e lettera b), primo periodo, nonchè per il tempo in cui è pendente il procedimento di riconoscimento della sentenza straniera, di cui al medesimo comma 1, lettera b), secondo periodo".

Con memoria di replica il ricorrente ha osservato che comunque, essendo scaduto il termine per la pronuncia e non sussistendo nei suoi confronti motivi interenti la sicurezza della Repubblica che possano precludere l’acquisto della cittadinanza italiana, come ammesso dalla Questura di Bergamo con nota del 25.5.2009, l’Amministrazione non potrebbe più opporre al ricorrente la valenza ostativa della condanna per il reato sopra richiamato.

All’udienza camerale odierna il ricorso è trattenuto in decisione.
Motivi della decisione

Deve preliminarmente essere rilevato d’ufficio il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo.

Come ripetutamente precisato da costante orientamento giurisprudenziale, cui questa Sezione ha da tempo aderito, la concessione della cittadinanza per matrimonio, disciplinata dall’art. 5 della legge n. 91 del 1992, attiene ad una situazione giuridica soggettiva avente la consistenza di diritto soggettivo, essendo l’unica causa preclusiva alla concessione della cittadinanza demandata alla valutazione discrezionale della competente amministrazione quella di cui all’art. 6, comma 1, lett. c, della legge n. 91 del 1992, ossia la sussistenza, nel caso specifico, di "comprovati motivi inerenti alla sicurezza della Repubblica" (cfr., tra le tante, di recente, TAR Lazio, Roma, sez. I, n. 945 del 2010; sez. II, n. 11019 del 2009 e n. 90 del 2010). Soltanto in tale evenienza la citata situazione di diritto soggettivo risulta affievolita in interesse legittimo, con conseguente radicamento della giurisdizione in capo al giudice amministrativo, mentre la sussistenza di altre cause preclusive, ivi compresa quella dei reati c.d. ostativi di cui alla lettera b) del comma 1 dell’art. 6, invece, non richiedendo alcuna valutazione discrezionale da parte dell’amministrazione, comporta l’attribuzione delle relative controversie alla giurisdizione in capo al giudice ordinario.

Tale conclusione è, a maggior ragione, valida nel caso in cui risulti scaduto (come nella specie) il termine di cui all’art. 8, comma 2, della legge n. 91 del 1992, senza che il decreto ministeriale di diniego risulti fondato su motivi inerenti la sicurezza dello Stato, non potendo tali fattori preclusivi essere fatti valere oltre il termine decadenziale sopra indicati neppure nel caso in cui sia stata disposta la sospensione del procedimento, come prescritto dal comma 4 dell’art. 5 della legge n. 91 del 1992, fino a comunicazione della sentenza di condanna definitiva.

La sospensione del procedimento, infatti, non opera una remissione in termini della PA per effettuare, oltre il termine decadenziale sopra richiamato, la discrezionale valutazione dei predetti motivi di sicurezza, ma determina solo la sospensione del termine per la conclusione del procedimento per il tempo necessario ad accertare, con sentenza definitiva, l’effettiva imputabilità all’interessato di una condotta criminosa ritenuta preclusiva dell’ammissione al beneficio in esame, con la conseguenza che le relative controversie rientrano, comunque, tra quelle attribuite al giudice ordinario in virtù delle considerazioni sopra svolte.

Conseguentemente, il ricorso in trattazione va dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, risultando le controversie relative alla materia in esame attribuite alla giurisdizione del giudice ordinario, sia in caso di impugnativa di un provvedimento espresso sull’istanza in argomento sia in caso di ricorso contro l’inerzia serbata sulla medesima in quanto rappresenta comunque un comportamento attinente a materia attribuita al predetto giudice.

Il ricorso deve, pertanto, essere dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione, sussistendo la giurisdizione del giudice ordinario, davanti al quale il giudizio dovrà essere riassunto, ai sensi dell’art. 59 della legge n. 69/2009 – art. 1 dlvo n. 104/2010, a pena di estinzione, entro il termine perentorio, fino alla scadenza del quale saranno salvi gli effetti sostanziali e processuali della domanda, di tre mesi decorrenti dal passaggio in giudicato della presente decisione.

Sussistono giusti motivi per l’integrale compensazione delle spese processuali.
P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda Quater) dichiara inammissibile il ricorso in epigrafe per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo in favore del giudice ordinario.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

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