Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 14-06-2011) 26-07-2011, n. 29907 Detenzione, spaccio, cessione, acquisto

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Svolgimento del processo

Con sentenza del 15 ottobre 2009, la Corte d’Appello di Trieste confermava la sentenza del G.U.P. del Tribunale di Udine con la quale G.C. era stato condannato, a seguito di giudizio abbreviato, per illecita detenzione di sostanze stupefacenti (ecstasy).

Avverso tale decisione il predetto presentava ricorso per cassazione.

Con il primo motivo di ricorso deduceva violazione di legge e vizio di motivazione, rilevando l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dai coimputati in quanto effettuate senza il preventivo avviso di cui all’art. 64 c.p.p., come novellato dalla L. n. 63 del 2001, ed escludendo che la scelta del rito alternativo possa aver determinato effetti sananti.

Con il secondo motivo di ricorso denunciava violazione di legge, sostenendo l’illegittimità della decisione, confermata dai giudici del gravame, con la quale il giudice di prime cure aveva ritenuto non revocabile la richiesta del rito alternativo condizionato all’esame di un coimputato dopo che questi, comparso all’udienza, si era avvalso della facoltà di non rispondere e ciò in quanto, trattandosi di soggetto minorenne, tale scelta non poteva essere prevedibile per la peculiare caratteristica del processo minorile che gli impediva di conoscere lo stato del procedimento.

Con il terzo motivo di ricorso lamentava la violazione di legge sostanziale e processuale nonchè il vizio di motivazione in ordine alla affermazione di responsabilità per il reato contestato fondata sulle sole dichiarazioni di un chiamante in correità che, per libera scelta, si era sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore e senza considerare che dette dichiarazioni risultavano smentite dal fratello dello stesso dichiarante e dalla documentazione relativa all’acquisto di un’autovettura prodotta in udienza.

Con il quarto motivo di ricorso deduceva il vizio di motivazione rilevando come non risultasse in alcun modo provato il concorso nel reato, in quanto non era stata rinvenuta sostanza stupefacente in suo possesso e la sua partecipazione all’attività delittuosa dei coimputati non era suffragata da prove.

Con il quinto motivo di ricorso denunciava, infine, la violazione di legge in relazione al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, in quanto, non essendo stata determinata con certezza la quantità di stupefacente detenuta, doveva ritenersi applicabile la circostanza contemplata dalla menzionata disposizione.

Insisteva, pertanto, per l’accoglimento del ricorso.

Motivi della decisione

Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.

Con riferimento alla dedotta inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dai coimputati in sede di interrogatorio, di cui tratta il primo motivo di ricorso, deve osservarsi che la Corte territoriale ha fornito ampia e motivata risposta, immune da vizi logici, alle doglianze della difesa richiamando e facendo buon uso dei principi di diritto affermati da questa Corte, puntualmente richiamati.

Si è infatti ripetutamente affermato, con riferimento alle dichiarazioni eteroaccusatorie rese dal coimputato nell’interrogatorio svoltosi prima dell’entrata in vigore della L. 1 marzo 2001, n. 63 e, pertanto, in assenza dell’avvertimento previsto dal nuovo testo dell’art. 64, comma 3, lett. c) che le stesse sono pienamente utilizzabili nel giudizio abbreviato, nel quale il concorrente nel medesimo reato non può mai assumere la veste di testimone, senza necessità di rinnovazione ai sensi dell’art. 26 della stessa legge (Sez. 2^ n. 21602, 25 maggio 2009; n. 10099, 6 marzo 2009; Sez. 1^ n. 1563,19 gennaio 2007).

Del tutto destituita di fondamento appare, inoltre, la doglianza relativa alla revocabilità della richiesta di giudizio abbreviato.

Va premesso, a tale proposito, che la giurisprudenza di questa Corte ha, in più occasioni, ritenuto l’irrevocabilità della richiesta di giudizio abbreviato dopo che la stessa sia stata formulata producendo i propri effetti, consistenti nell’emissione da parte del giudice del provvedimento dispositivo del rito (Sez. 1^ n. 27758, 15 luglio 2010;

n. 32905, 5 agosto 2008; Sez. 4^ n. 19528, 15 maggio 2008).

Nella fattispecie, il rito alternativo condizionato era già stato ammesso e solo dopo l’escussione del chiamante in correità, quando questi si è avvalso della facoltà di non rispondere, il ricorrente ha formalizzato la revoca della richiesta.

Ciò posto, deve rilevarsi che anche sul punto la decisione impugnata appare del tutto immune da censure.

Correttamente la Corte territoriale ha ritenuto che la possibilità di una eventuale decisione di avvalersi della facoltà di non rispondere da parte del soggetto chiamato a deporre era del tutto prevedibile, indipendentemente dalla conoscenza o meno da parte dell’imputato dello stato del procedimento minorile cui lo stesso era sottoposto.

In ogni caso, è del tutto evidente che, alla luce del principio in precedenza richiamato, dopo che il giudice ha valutato i presupposti per l’ammissibilità del rito abbreviato emettendo il relativo provvedimento, la revoca dello stesso non può dipendere dalla mera volontà dell’imputato, determinata da strategie difensive o altre ragioni, che produrrebbe, peraltro, quale ulteriore conseguenza, anche una ingiustificata stasi del procedimento.

Altrettanto esaustive e prive di salti logici appaiono le conclusioni cui la Corte territoriale è pervenuta con riferimento alla affermazione di penale responsabilità del ricorrente di cui al terzo e quarto motivo di ricorso, fornendo ampia illustrazione dei riscontri obiettivi alle dichiarazioni accusatorie acquisite e della fallacia delle argomentazioni difensive, con la conseguenza che ciò che il ricorrente richiede è, in sostanza, una inammissibile rilettura del quadro probatorio e, con essa, il riesame nel merito della sentenza impugnata.

La consolidata giurisprudenza di questa Corte è orientata, infatti, nel senso di ritenere che il controllo sulla motivazione demandato al giudice di legittimità resta circoscritto, in ragione della espressa previsione normativa, al solo accertamento sulla congruità e coerenza dell’apparato argomentativo con riferimento a tutti gli elementi acquisiti nel corso del processo e non può risolversi in una diversa lettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma scelta di nuovi e diversi criteri di giudizio in ordine alla ricostruzione e valutazione dei fatti (si vedano ad esempio, limitatamente alla pronunce successive alle modifiche apportate all’art. 606 c.p.p., dalla Legge 46/2006, Sez. 6^ n. 10951, 29 marzo 2006; Sez. 6^ n. 14054, 20 aprile 2006; Sez. 6^ n. 23528, Sez. 3^ n. 12110, 19 marzo 2009).

Corretto appare, infine, il mancato riconoscimento della circostanza attenuante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5.

Il corretto inquadramento giuridico del fatto da parte dei giudici di merito trova infatti conferma nella giurisprudenza di questa Corte, recentemente ribadita anche delle Sezioni Unite, laddove si evidenzia che il riconoscimento dell’attenuante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, può essere riconosciuta solo in ipotesi di minima offensività penale della condotta deducibile sia dal dato qualitativo e quantitativo, sia dagli altri parametri richiamati dalla disposizione (mezzi, modalità, circostanze dell’azione), con la conseguenza che ove uno degli indici previsti dalla legge risulti negativamente assorbente, ogni altra considerazione resta priva di incidenza sul giudizio (SS. UU. n. 35737, 5 ottobre 2010).

Nella fattispecie, i giudici del gravame hanno dato compiutamente atto di alcune circostanze determinanti, quali le modalità di gestione del traffico di stupefacenti, la diffusione della sostanza presso soggetti di giovane età, le quantità di stupefacente trattate desumibili dal complesso delle prove raccolte, che giustificavano ampiamente la scelta di non concedere l’attenuante richiesta e ritenere la pena irrogata del tutto adeguata.

Il ricorso deve pertanto essere rigettato con le consequenziali statuizioni indicate in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 29-12-2011, n. 29739 Risarcimento del danno

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Svolgimento del processo

La madre ed i fratelli dell’ U., deceduto in un incidente stradale, ottennero in primo grado la condanna dell’investitore (il S.) e della compagnia assicuratrice (la Milano Ass.ni) al risarcimento del danno non patrimoniale.

La sentenza della Corte d’appello di Lecce ha, invece, ritenuto prescritto il diritto, così respingendo la domanda dei congiunti della vittima. In particolare, il giudice del gravame ha rilevato che (ai sensi dell’art. 2947 c.c., comma 3) alla fattispecie s’applica la prescrizione biennale, decorrente dalla data del passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna dell’investitore (2 dicembre 1992), mentre la citazione introduttiva era stata notificata in data 16 febbraio 1998, quando ormai il diritto era ampiamente prescritto.

Propongono ricorso per cassazione gli U. attraverso cinque motivi. Non si difendono con controricorso gli intimati. Il difensore della Milano Ass.ni spa ha partecipato alla discussione della causa in quanto munito di procura atta allo scopo.

Motivi della decisione

1) Il primo motivo censura per violazione di legge e vizio della motivazione il punto della sentenza che ha respinto l’eccezione svolta dagli U. di inammissibilità dell’appello conseguente alla nullità della procura rilasciata per la Milano Ass.ni da soggetto non legittimato. Il motivo è inammissibile sotto diversi profili. La sentenza risolve la questione sul rilievo che chi conferisce il mandato non ha l’onere di dimostrare la propria qualità, spettando invece alla parte che la contesta l’onere di fornire la relativa prova negativa. I ricorrenti non contestano specificamente il principio affermato dal giudice, ma sostengono che questo avrebbe dovuto rilevare la mancata precisazione, nella procura, della qualifica assunta nella società dal sottoscrittore della stessa e, dunque, affermarne l’invalidità.

A tal riguardo, bisogna osservare, in primo luogo, che il tipo di censura avanzata (violazione di legge e vizio della motivazione) non consente al giudice della legittimità la lettura degli atti processuali; sicchè, i ricorrenti, per ottenere la delibazione della loro doglianza, avrebbero dovuto trascrivere (in ossequio al principio di autosufficienza) la procura della quale si discute. In secondo luogo, la questione introdotta è affatto nuova, considerato che nel giudizio d’appello gli attuali ricorrenti avevano posto il problema dell’invalidità della procura per carenza di legittimazione al rilascio da parte del sottoscrittore, mentre in questa sede essi invocano la diversa ragione d’invalidità derivante dalla mancata specificazione dell’organo rivestito dal sottoscrittore.

2) Il secondo motivo concerne il punto in cui ha sentenza ha respinto l’eccezione degli U., i quali sostenevano che tra loro e la compagnia era intervenuta una transazione, traendo a sostegno della loro tesi la circostanza che sul modulo a stampa utilizzato come quietanza per le somme riscosse in esecuzione della sentenza di primo grado era inserito l’inciso "somma offerta, transattivamente concordata …". Sennonchè, il giudice ha fugato ogni dubbio a riguardo, rilevando che su quello stesso documento la compagnia aveva curato di apporre l’annotazione manoscritta secondo cui "la somma di cui sopra viene pagata dalla scrivente in esecuzione della sentenza n. 179/2000 ed al pedissequo precetto", così da escludere l’acquiescenza alla sentenza di primo grado.

In questa sede i ricorrenti sostengono: che dalla lettura del documento in questione emergerebbe l’esistenza di una vera e propria transazione; che, ad ogni buon conto, il pagamento effettuato senza riserva alcuna rappresenterebbe un atto incompatibile con la volontà di impugnare. Questo motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato.

E’ inammissibile perchè, anche in questo caso, i ricorrenti discorrono del tenore dell’atto in questione senza neppure trascriverne il contenuto. E’ infondato in quanto è consolidato ed incontrastato nella giurisprudenza il principio secondo cui il pagamento eseguito a seguito di sentenza provvisoriamente esecutiva non costituisce in alcun caso rinunzia ad avvalersi della facoltà di impugnazione (tra le tantissime e più recenti, cfr. Cass. n. 21010/10; n. 26156/06).

3) Il terzo motivo – che censura la sentenza per vizio della motivazione nel punto in cui, in ragione di quell’inciso manoscritto (del quale sopra s’è detto), ha escluso l’identificabilità di un’avvenuta transazione – è inammissibile anch’esso per difetto di autosufficienza, non essendo stato trascritto il testo del documento posto a fondamento della tesi dei ricorrenti.

4) Il quarto motivo – nel quale è sostenuta l’omessa motivazione rispetto al punto della sentenza in cui è esclusa l’acquiescenza della compagnia alla sentenza di primo grado è infondato, siccome in maniera sufficiente e logica il giudice perviene alla conclusione dal rilievo che la compagnia stessa aveva precisato nel documento che il suo pagamento veniva effettuato in esecuzione della sentenza di primo grado.

5) Il quinto motivo – che censura (peraltro, in maniera assolutamente generica e senza neanche contraddire la ragione a riguardo affermata dal giudice) per violazione di legge il punto della sentenza che ha dichiarato prescritto il diritto dei ricorrenti – è infondato, siccome il giudice s’è correttamente adeguato al consolidato principio in ragione del quale, ai sensi dell’art. 2947 c.c., l’azione civile risarcitoria, se vi è stata sentenza penale, si prescrive nei termini indicati dai primi due commi dello stesso articolo, decorrenti dalla data in cui essa è divenuta irrevocabile, a prescindere dalla costituzione di parte civile del danneggiato (tra le più recenti, cfr. Cass. n. 16391/09).

In conclusione, il ricorso deve essere respinto, con condanna dei ricorrenti a rivalere la controparte delle spese sostenute nel giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 3200,00, di cui Euro 200,00 per spese, oltre spese generali ed accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 25-05-2011) 23-09-2011, n. 34640 Risarcimento in forma specifica

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con sentenza in data 15 giugno 2010 il Tribunale di Perugia in composizione monocratica, confermando la decisione assunta dal locale giudice di pace, ha riconosciuto G.F. responsabile del delitto di ingiuria in danno di N.M.G.; ha quindi tenuto ferma la sua condanna alla pena di legge e al risarcimento dei danni in favore della parte civile.

Ha ritenuto il giudicante che la prova del commesso reato risiedesse nelle deposizioni dei testi L., M. e P., confermative della descrizione dei fatti fornita dalla persona offesa.

Ha proposto ricorso per cassazione l’Imputato, per il tramite del difensore, affidandolo a due motivi.

Col primo motivo il ricorrente denuncia errata valutazione delle risultanze probatorie, che sottopone a dettagliata disamina per rilevarne la carenza di capacità dimostrativa.

Col secondo motivo lamenta come ingiustificato il diniego delle attenuanti generiche.

Il ricorso è privo di fondamento e va disatteso.

Il primo motivo attinge anzi la soglia dell’inammissibilità in quanto le censure con esso sollevate, dietro l’apparente denuncia di violazione dell’art. 530 c.p.p., comma 2, si traducono piuttosto nella sollecitazione di un riesame del merito – non consentito in sede di legittimità – attraverso la rinnovata valutazione degli elementi probatori acquisiti.

Il Tribunale ha dato pienamente conto delle ragioni che l’hanno indotto a ricostruire i fatti in modo conforme alla versione della persona offesa; ha valorizzato, a tal fine, le deposizioni delle testi L. e M., presenti nel negozio al momento in cui il G., alterato per una telefonata appena conclusa con l’apparecchio cellulare, aveva aggredito verbalmente la N. dandole della "morta di fame"; a ciò si era aggiunta la deposizione de relato del teste Pagnotta il quale, entrato nel negozio mentre il G. ne usciva, aveva avuto contezza dell’accaduto dalla narrazione dei presenti. Anche l’identità dell’autore della condotta offensiva è stata accertata con sicurezza, sia per le funzioni di amministratore condominiale, esercitate dall’imputato in via di fatto se non di diritto (per essere tale G.F. il legale rappresentante della società amministratrice AMCO s.a.s.), sia in virtù della sua frequentazione del negozio della N..

Della linea argomentativa così sviluppata il ricorrente non segnala alcuna caduta di consequenzialità, che emerga ictu oculi dal testo stesso del provvedimento; mentre il suo tentativo di screditare le deposizioni testimoniali si risolve nella prospettazione di una lettura alternativa del materiale probatorio, in contrasto con quella fatta motivatamente propria dal giudice di merito: il che non può trovare spazio nel giudizio di cassazione.

L’infondatezza del secondo motivo emerge in base al rilievo per cui la lacuna motivazionale della sentenza di primo grado, sul punto concernente l’invocata applicazione delle attenuanti genetiche, è stata colmata dal giudice di appello: il quale, prendendo in esame la relativa istanza della difesa, ne ha ravvisato l’inaccoglibilità "in relazione alle caratteristiche del fatto ed alla personalità espressa dal G. nell’occorso". Orbene, è principio unanimemente acquisito nella giurisprudenza di legittimità quello per cui il giudice di appello, quando gli venga denunciata la nullità del provvedimento impugnato per carenza di pronuncia o di motivazione su uno dei punti che hanno formato oggetto in primo grado di specifica domanda di decisione, è investito del potere-dovere di decidere sanando i difetti e le mancanze della sentenza di primo grado.

A tanto si è attenuto nel caso di specie il Tribunale di Perugia: il quale, esprimendo la propria valutazione in luogo di quella, mancante, del giudice di pace, ha negato l’applicazione delle attenuanti generiche non ravvisandone i presupposti; la motivazione così addotta, rispettosa dei canoni della logica e dei principi codificati negli artt. 62 bis e 133 c.p., resiste al controllo in sede di legittimità.

Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

la Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. VI, Sent., 08-03-2012, n. 3679 Diritti politici e civili

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Svolgimento del processo

I ricorrenti indicati in rubrica hanno proposto separati ricorsi per cassazione, sulla base di tre motivi illustrati con memoria, nei confronti del Ministero dell’Economia e delle Finanze avverso il decreto in data 26 novembre 2009, con il quale la Corte di appello di Trieste ha rigettato le domande di equa riparazione per violazione del termine ragionevole di durata di un giudizio da loro promosso davanti al Tar Lazio con ricorso del 19 dicembre 1995, definito con sentenza del 13 marzo 2003, appellata davanti al Consiglio di Stato con gravame ancora pendente alla data della domanda introduttiva del giudizio per equa riparazione (5 giugno 2009).

La Corte di merito ha fondato la propria decisione sul presupposto che i ricorrenti non potessero non avere consapevolezza dell’esito sfavorevole della lite, come si desume dalla parte motiva della sentenza del Tar Lazio, con conseguente esclusione di qualsiasi sofferenza o patema d’animo per la durata del processo.

Il Ministero intimato ha resistito con separati controricorsi.

All’odierna udienza è stata disposta, a norma dell’art. 335 c.p.c., la riunione dei ricorsi in quanto attinenti all’impugnazione del medesimo provvedimento.

Nella camera di consiglio il collegio ha deliberato che la motivazione della sentenza sia redatta in forma semplificata.

Motivi della decisione

Con i primi due motivi ciascuno dei ricorrenti, denunciando violazione di legge e vizio di motivazione, si duole che la Corte di appello abbia rigettato la domanda di equa riparazione, affermando che la consapevolezza, da parte dei ricorrenti medesimi, dell’esito sfavorevole della lite da loro promossa escludeva la sussistenza del patema d’animo di cui hanno chiesto il ristoro.

I motivi sono fondati.

Infatti, in caso di violazione del termine di durata ragionevole del processo, il diritto all’equa riparazione di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 2 spetta a tutte le parti del processo, indipendentemente dal fatto che esse siano risultate vittoriose o soccombenti e dalla consistenza economica ed importanza del giudizio, a meno che l’esito del processo presupposto non abbia un indiretto riflesso sull’identificazione, o sulla misura, del pregiudizio morale sofferto dalla parte in conseguenza dell’eccessiva durata della causa, come quando il soccombente abbia promosso una lite temeraria, o abbia artatamente resistito in giudizio al solo fine di perseguire proprio il perfezionamento della fattispecie di cui al richiamato art. 2, e dunque in difetto di una condizione soggettiva di incertezza, restando irrilevante l’asserita consapevolezza da parte dell’istante della scarsa probabilità di successo dell’iniziativa giudiziaria.

Dell’esistenza di queste situazioni, costituenti abuso del processo, deve dare prova puntuale l’Amministrazione, non essendo sufficiente, a tal fine, la deduzione che la domanda della parte sia stata dichiarata manifestamente infondata (Cass. 2006/7139; 2008/24269;

2010/9938).

La Corte di appello di Trieste – nel rigettare i ricorsi osservando che i ricorrenti non potevano non avere consapevolezza dell’esito sfavorevole della lite, come si desume dalla parte motiva della sentenza del Tar Lazio, con conseguente esclusione di qualsiasi sofferenza o patema d’animo per la durata del processo – non si è uniformata agli orientamenti sopra enunciati e il decreto impugnato deve essere conseguentemente annullato. Resta assorbito il terzo motivo di ricorso, con il quali i ricorrenti si dolgono dell’eccessivo importo delle spese processuali liquidate a loro carico, dovendosi comunque procedere, in conseguenza dell’annullamento del decreto impugnato, ad una nuova liquidazione delle spese del giudizio di merito.

Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2. Si deve, in primo luogo, osservare che non si rinvengono in atti elementi che, alla stregua del principio in precedenza richiamato, consentano di ritenere che i ricorrenti abbiano promosso, con abuso del processo, una lite temeraria in difetto di una condizione soggettiva di incertezza e che pertanto non si sia nella specie verificato il pregiudizio morale conseguente all’eccessiva durata della causa, tenuto conto che questo si verifica di regola come effetto della violazione medesima e non abbisogna di essere provato sia pure attraverso elementi presuntivi (Cass. 2005/21088;

2006/7139). Rilevato che il giudizio presupposto è stato promosso davanti al Tar Lazio con ricorso del 19 dicembre 1995, definito con sentenza del 13 marzo 2003, appellata davanti al Consiglio di Stato con gravame ancora pendente alla data della domanda introduttiva del giudizio per equa riparazione (5 giugno 2009), la durata complessiva di tale giudizio va stabilita in tredici anni e sei mesi, con conseguente superamento nella misura di otto anni e sei mesi del termine ragionevole di durata, determinato in tre anni per il giudizio di primo grado e in due anni per quello di appello, alla stregua dei parametri fissati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e della Corte di cassazione (Cass. 2008/14).

In ordine al criterio per indennizzare la parte del danno non patrimoniale subito nel processo presupposto va considerato che la CEDU, in due decisioni (Volta et autres c. Italia, del 16 marzo 2010;

Falco et autres c. Italia, del 6 aprile 2010) ha ritenuto che potessero essere liquidate, a titolo di indennizzo per il danno non patrimoniale da eccessiva durata del processo, in relazione ai singoli casi e alle loro peculiarità, somme complessive d’importo notevolmente inferiore a quella di mille/00 Euro annue normalmente liquidata, con valutazioni del danno non patrimoniale che consentono al giudice italiano di procedere, in relazione alle particolarità della fattispecie, a valutazioni più riduttive rispetto a quelle in precedenza ritenute congrue (v. Cass. 2010/14753; 2010/15130).

Nel caso di specie – considerati i margini di valutazione equitativa adottabili in conformità dei criteri ricavabili dalla sopra menzionata giurisprudenza della CEDU e valutate le specificità del caso in relazione al protrarsi della procedura dinanzi al Tar Lazio oltre i limiti ragionevoli di durata, tenuto conto, in particolare, che nè dal decreto impugnato nè dai ricorsi per cassazione risulta l’avvenuto deposito, nel giudizio presupposto, di istanze sollecitatorie di parte – a ciascuno dei ricorrenti va liquidata in via equitativa, per danno non patrimoniale, la somma di Euro 7.000,00 con gli interessi legali dalla domanda, al cui pagamento deve essere condannato il Ministero soccombente.

Le spese del giudizio di merito e quelle del giudizio di cassazione seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo, in base alle tariffe professionali previste dall’ordinamento italiano con riferimento al giudizio di natura contenziosa (Cass. 2008/23397;

2008/25352) e tenuto conto della pluralità di ricorrenti, che però nel giudizio presupposto e in quello di merito davanti alla Corte di appello di Trieste hanno agito unitariamente (cfr. Cass. 2010/10634).

P.Q.M.

La Corte accoglie i primi due motivi, assorbito il terzo. Cassa i decreti impugnati e, decidendo nel merito, condanna il Ministero dell’Economia e delle Finanze al pagamento in favore di ciascuno dei ricorrenti della somma di Euro 7.000,00, oltre agli interessi legali dalla domanda.

Condanna il Ministero soccombente al pagamento in favore dei ricorrenti delle spese del giudizio di merito, che si liquidano in Euro 2.850,00 di cui Euro 2.000,00 per competenze ed Euro 50,00 per esborsi, oltre a spese generali e accessori di legge.

Condanna inoltre il Ministero soccombente al pagamento in favore dei ricorrenti delle spese del giudizio di cassazione, che si liquidano in Euro 1.000,00, di cui Euro 900,00 per onorari, oltre a spese generali e accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.