T.A.R. Lazio Roma Sez. II quater, Sent., 27-05-2011, n. 4807 Procedimento

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

con il ricorso in epigrafe il ricorrente ha impugnato il provvedimento con il quale la Questura di Roma gli ha negato il permesso di soggiorno;

Vista la nota della Questura di Roma depositata il 23 maggio 2011, dalla quale risulta che – in sede di riesame – è stato rilasciato al ricorrente il permesso di soggiorno per attesa occupazione;

Rilevato, pertanto, che l’avvenuto annullamento del provvedimento impugnato ed il successivo rilascio del permesso di soggiorno comporta la declaratoria della cessazione della materia del contendere;

Ritenuto, quanto alle spese di lite, che sussistono giusti motivi per disporne la compensazione tra le parti;
P.Q.M.

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto,

dichiara la cessazione della materia del contendere.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 12-09-2013, n. 20902 Misure di prevenzione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

D.C.L., nella qualità di amministratore giudiziario dei beni sequestrati a S.S., e successivamente confiscati con decreto del 25.5.1996, divenuto definitivo, propose opposizione all’esecuzione immobiliare n. 280/94 promossa dalla Banca Agricola Etnea nei confronti di S.F.P. e B. G..

A tale esecuzione fu, successivamente, riunita quella n. 942/1998 promossa nei soli confronti di S.F..

Sostenne l’improcedibilità della procedura espropriativa fino all’accertamento della buona fede dei creditori titolari di diritti reali di garanzia, alla quale sarebbe conseguita l’opponibilità del credito rispetto alla pretesa ablatoria dello Stato.

Affermò che l’accertamento dei diritti dei terzi estranei al procedimento disposto ai sensi della L. n. 576 del 1965, doveva essere svolta davanti al giudice dell’esecuzione penale ex art. 676 c.p.p..

I creditori opposti non si costituirono.

Il Tribunale di Palermo, con sentenza del 21.1.2009, accolse l’opposizione.

Ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi illustrati da due memorie Sicilcassa spa in liquidazione coatta amministrativa.

Si sono costituiti il Ministero dell’Economia e delle Finanza e l’Agenzia del Demanio.
Motivi della decisione

Il ricorso è stato proposto per impugnare una sentenza pubblicata una volta entrato in vigore il D.Lgs. 15 febbraio 2006, n. 40, recante modifiche al codice di procedura civile in materia di ricorso per cassazione; con l’applicazione, quindi, delle disposizioni dettate nello stesso decreto al Capo I. Secondo l’art. 366 bis c.p.c. – introdotto dall’art. 6 del decreto i motivi di ricorso debbono essere formulati, a pena di inammissibilità, nel modo lì descritto ed, in particolare, nei casi previsti dall’art. 360, nn. 1), 2), 3) e 4, l’illustrazione di ciascun motivo si deve concludere con la formulazione di un quesito di diritto, mentre, nel caso previsto dall’art. 360, comma 1, n. 5), l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione.

Segnatamente, nel caso previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 5, l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione; e la relativa censura deve contenere un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto), che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità (S.U. 1.10.2007 n. 20603; Cass. 18.7.2007 n. 16002). Il quesito, al quale si chiede che la Corte di cassazione risponda con l’enunciazione di un corrispondente principio di diritto che risolva il caso in esame, poi, deve essere formulato, sia per il vizio di motivazione, sia per la violazione di norme di diritto, in modo tale da collegare il vizio denunciato alla fattispecie concreta (v. S.U. 11.3.2008 n. 6420 che ha statuito l’inammissibilità – a norma dell’art. 366 bis c.p.c. – del motivo di ricorso per cassazione il cui quesito di diritto si risolva in un’enunciazione di carattere generale ed astratto, priva di qualunque indicazione sul tipo della controversia e sulla sua riconducibilità alla fattispecie in esame, tale da non consentire alcuna risposta utile a definire la causa nel senso voluto dal ricorrente, non potendosi desumere il quesito dal contenuto del motivo od integrare il primo con il secondo, pena la sostanziale abrogazione del suddetto articolo).

La funzione propria del quesito di diritto – quindi – è quella di far comprendere alla Corte di legittimità, dalla lettura del solo quesito, inteso come sintesi logico-giuridica della questione, l’errore di diritto asseritamente compiuto dal giudice di merito e quale sia, secondo la prospettazione del ricorrente, la regola da applicare (da ultimo Cass.7.4.2009 n. 8463; v, anche S.U. ord. 27.3.2009 n. 7433).

Inoltre, l’art. 366 bis c.p.c, nel prescrivere le modalità di formulazione dei motivi del ricorso in cassazione, comporta – ai fini della declaratoria di inammissibilità del ricorso stesso -, una diversa valutazione, da parte del giudice di legittimità, a seconda che si sia in presenza dei motivi previsti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1, 2, 3 e 4, ovvero del motivo previsto dal n. 5 della stessa disposizione.

Nel primo caso ciascuna censura – come già detto – deve, all’esito della sua illustrazione, tradursi in un quesito di diritto, la cui enunciazione (e formalità espressiva) va funzionalizzata, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., all’enunciazione i) del principio di diritto, ovvero a dieta giurisprudenziali su questioni di diritto di particolare importanza.

Nell’ipotesi, invece, in cui venga in rilievo il motivo di cui all’art. 360 c.p.c. c., n. 5, (il cui oggetto riguarda il solo iter argomentativo della decisione impugnata), è richiesta una illustrazione che, pur libera da rigidità formali, si deve concretizzare in una esposizione chiara e sintetica del fatto controverso (c.d. momento di sintesi) – in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria – ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza rende inidonea la motivazione a giustificare la decisione (v. da ultimo Cass. 25.2.2009 n. 4556; v.

anche Cass. 18.11.2011 n. 24255).

I motivi rispettano i requisiti richiesti dall’art. 366 bis c.p.c., applicabile ratione temporis nella specie.

Con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 615 e 619 c.p.c., in rapporto alla L. 31 maggio 1965, n. 575, artt. 2 ter, 2 quater, 2 sexies, 2 septies e 2 novies, nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, e comma 4).

Con il secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2808 c.c., art. 2878 c.c., e art. 24 Cost., in rapporto alla L. 31 maggio 1965, n. 575, artt. 2 ter, 2 quater, 2 sexies, 2 septies e 2 novies, nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, e comma 4).

Con il terzo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 115 e 116 c.p.c., nonchè art. 2697 c.c., ed omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, e comma 4).

I motivi, per l’intima connessione delle censure proposte, sono esaminati congiuntamente.

Essi sono fondati nei termini e per le ragioni indicate. La ricorrente ha censurato la sentenza impugnata per avere accolto l’opposizione all’esecuzione immobiliare (n. 280/1994) proposta dall’amministratore giudiziario dei beni sequestrati a S. S., e successivamente confiscati con decreto del 25.5.1996, divenuto definitivo.

A tale esecuzione, era stata successivamente riunita quella n. 942/1998 promossa nei soli confronti di S.F.. La soluzione dei temi posti dal presente ricorso ed oggetto della sentenza impugnata vanno risolti alla luce dei principi enunciati dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione con la sentenza del 7 maggio 2013 n. 10532, intervenuta nella pendenza del giudizio in corso.

La decisione – sulla base della L. 24 dicembre 2012, n. 228 (legge di stabilità 2013) che, all’art. 1, commi da 189 e 205, ha introdotto importanti novità in materia di sequestro, confisca, gestione ed alienazione dei beni nella disponibilità di appartenenti ad organizzazioni mafiose – ha risolto i temi relativi alla sorte dei diritti vantati dal creditore garantito da ipoteca su un bene colpito da una misura di prevenzione c.d. "antimafia", ed ai rapporti fra tra lo Stato confiscante di beni nella disponibilità della criminalità organizzata, da un lato, ed i creditori garantiti da ipoteca iscritta sui suddetti beni, i creditori pignoranti ed i creditori intervenuti nel giudizio di esecuzione forzata, dall’altra.

Così è stato sottolineato che L. n. 228 del 2012, ha dettato una disciplina tendenzialmente organica volta a regolare i rapporti tra creditori ipotecari e pignoranti e Stato, con riferimento alle procedure di confisca non soggette alla disciplina del "codice delle misure di prevenzione" – D.Lgs. n. 159 del 2011, entrato in vigore il 13 ottobre 2011.

La nuova disciplina si applica, quindi, alle misure di prevenzione disposte prima di tale data.

Con riferimento alle procedure di confisca soggette alla L. n. 575 del 1965, la nuova legge distingue, in primo luogo, due ipotesi: a seconda che il provvedimento di confisca sia stato emesso o no alla data del 1.1.2013.

Per le procedure nelle quali, alla data del 1.1.2013, sia già avvenuta la confisca, le legge distingue, poi, ulteriormente, i casi in cui il bene confiscato sia stato assoggettato a procedura esecutiva, ma non sia stato ancora aggiudicato o trasferito, e quelli in cui sia avvenuto, invece, il trasferimento o l’aggiudicazione, anche in via provvisoria.

Se alla data del 1.1.2013 i beni oggetto della procedura di prevenzione sono già stati confiscati, ma non ancora aggiudicati, la nuova legge stabilisce che:

1) nessuna azione esecutiva potrà essere iniziata o proseguita sui beni suddetti;

2) i pesi e gli oneri iscritti o trascritti prima della confisca si estinguono;

3) i creditori ipotecari, pignoranti od intervenuti nell’esecuzione potranno far valere le proprie ragioni nei confronti dell’Agenzia, ma solo a determinate condizioni, e cioè:

a) l’iscrizione dell’ipoteca, la trascrizione del pignoramento o l’intervento nel processo esecutivo devono essere avvenuti prima della trascrizione del sequestro di prevenzione;

b) per ottenere il pagamento dei propri crediti tali creditori debbono presentare una istanza entro il termine di decadenza del 30 giugno 2013;

c) l’istanza va proposta al "giudice dell’esecuzione presso il tribunale che ha disposto la confisca", il quale provvede su di essa con provvedimento impugnabile ai sensi dell’art. 666 c.p.p.;

d) l’Agenzia forma quindi il "piano di pagamento" dei creditori ammessi e procede ai pagamenti, che non potranno complessivamente eccedere la minor somma tra il ricavato della vendita ed il 70% del valore del bene;

e) contro il piano di riparto dell’Agenzia è ammessa opposizione al giudice civile, nelle forme di cui all’art. 737 c.p.c.;

f) Il tribunale provvede in composizione monocratica con decreto non reclamabile.

Nella seconda ipotesi, invece, vale a dire se alla data del 1.1.2013 è già avvenuto il trasferimento o l’aggiudicazione nell’ambito di una esecuzione forzata, ovvero se il bene da confiscare consiste in una quota di proprietà indivisa già pignorata, restano fermi gli effetti dell’esecuzione o dell’aggiudicazione.

Nel caso, infine, in cui alla data del 1 gennaio 2013, i beni ipotecati o sottoposti ad esecuzione forzata non siano ancora stati confiscati, si applicheranno le stesse misure previste per quelli che che alla data del 1.1.2013 siano già stati confiscati, ma non ancora aggiudicati, con l’unica differenza che il termine di decadenza di 180 giorni, entro il quale i creditori debbono presentare la domanda di ammissione del credito, decorrerà dal passaggio in giudicato del provvedimento che dispone la confisca.

I principi enunciati dalle Sezioni Unite, all’esito dell’esame della nuova normativa, sono quindi, i seguenti.

L’inibitoria delle azioni esecutive, ai sensi dell’art. 1, comma 194, riguarda esclusivamente i beni confiscati; con la conseguenza che i pignoramenti sul patrimonio sequestrato non possono essere sospesi e proseguono sino all’eventuale misura ablatoria definitiva.

La nuova disciplina, che si applica – come già detto – ai procedimenti di prevenzione ancora disciplinati dalla L. n. 575 del 1965, pone come spartiacque la data dell’1.1.2013, a seconda che il provvedimento di confisca sia stato emesso prima o dopo tale data.

Per i beni confiscati prima di tale data, la normativa compie una selezione ulteriore, a seconda che a tale data il bene confiscato sia stato assoggettato a procedura esecutiva, ma non sia stato ancora aggiudicato o trasferito, ovvero sia avvenuto, invece, il trasferimento o l’aggiudicazione, anche in via provvisoria.

E’ con riferimento a questo dato temporale – che consente il permanere o meno degli effetti dell’esecuzione forzata (o dell’aggiudicazione) – che assume rilevanza determinante la nuova disciplina andando a comporre i temi che la giurisprudenza aveva diversamente risolto, e che il giudice dell’esecuzione sarà tenuto ad esaminare.

Infatti, sui beni oggetto della procedura di prevenzione che alla data del 1.1.2013 siano già stati confiscati, ma non ancora aggiudicati, "non possono essere iniziate o proseguite, a pena di nullità, azioni esecutive" (L. n. 228 del 2012, comma 194) e "gli oneri e pesi iscritti o trascritti (sui beni di cui al comma 194) anteriormente alla confisca sono estinti di diritto" (L. n. 228 del 2012, comma 197).

La misura di prevenzione patrimoniale, quindi, nei rapporti ipoteca- confisca, prevale indipendentemente dal dato temporale, con conseguente estinzione di diritto degli oneri e pesi iscritti o trascritti.

Lo Stato, a seguito dell’estinzione di diritto dei pesi e degli oneri iscritti o trascritti prima della misura di prevenzione della confisca acquista un bene non più a titolo derivativo, ma libero dai pesi e dagli oneri, pur iscritti o trascritti anteriormente alla misura di prevenzione. Il terzo di buona fede, titolare di un diritto reale di godimento o di garanzia, è ammesso ad una tutela di tipo risarcitorio, con la richiesta – attraverso l’apposito procedimento – del riconoscimento del suo credito.

Quanto ai presupposti per il riconoscimento del credito, sono quelli previsti dal D.Lgs. n. 159 del 1141, art. 52, con ciò trovando applicazione i principii della buona fede, ovvero della non strumentante del credito all’attività illecita.

1 limiti del riconoscimento del diritto sono fissati nel minor importo tra il 70 % del valore del bene ed il ricavato dall’eventuale liquidazione dello stesso bene (commi 203 e 206), in stretto parallelismo con il disposto del D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 57, che prevede un analogo limite.

I termini per agire sono fissati a pena di decadenza.

La competenza è attribuita – dal comma 199 – al "giudice dell’esecuzione presso il tribunale che ha disposto la confisca", intendendosi, quale giudice competente, il tribunale – misure di prevenzione.

Quanto al procedimento di ammissione del credito – di natura tipicamente concorsuale -, il richiamo alle norme del D.Lgs. n. 159 del 2011 (artt. 52 e 58) conferma l’intento legislativo di risolvere – almeno tendenzialmente – in modo complessivamente unitario le multiformi vicende normative relative alle misure di prevenzione patrimoniali.

L’ammissione è subordinata, unitamente all’accertamento della sussistenza e dell’ammontare del credito, alla ricorrenza della condizione di cui al D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 52, comma 1, lett. b), vale a dire che il credito non sia strumentale all’attività illecita o a quella che ne costituisce il frutto o il reimpiego, a meno che il creditore dimostri di avere ignorato in buona fede il nesso di strumentante.

Ed, ai sensi del terzo comma del medesimo articolo, nella valutazione della buona fede, il tribunale tiene conto delle condizioni delle parti, dei rapporti personali e patrimoniali tra le stesse e del tipo di attività svolta dal creditore, anche con riferimento al ramo di attività, alla sussistenza di particolari obblighi di diligenza nella fase precontrattuale nonchè, in caso di enti, alle dimensioni degli stessi.

Spetta al terzo creditore provare la sua buona fede e l’affidamento incolpevole; vale a dire la prova positiva delle condizioni per l’ammissione al passivo del suo credito.

Il diniego di ammissione del credito è impugnabile ex art. 666 c.p.p..

Si applicano le disposizioni di tale norma, ad eccezione del comma 7, che attribuisce al giudice la possibilità di sospendere l’esecuzione dell’ordinanza (v. comma 200).

E, sotto questo profilo, pur menzionando genericamente l’impugnazione, il richiamo all’art. 666 c.p.p., comma 6, individua nel solo ricorso per cassazione il mezzo per reagire alla mancata ammissione.

Competente a conoscere delle opposizioni – proposte dai creditori concorrenti – al piano di riparto (pagamento) predisposto dall’Agenzia sarà, invece, il giudice civile del luogo dove ha sede il tribunale che ha disposto la confisca.

E ciò per il richiamo che il comma 203 fa l’art. 737 c.p.c. e ss. in quanto compatibili.

Il tribunale provvede in composizione monocratica.

Contro il decreto del tribunale non è ammesso reclamo.

E’ questa la normativa applicabile nel caso in esame, sulla base del principio tempus regit actum, trattandosi di misura di prevenzione disposta prima del 13 ottobre 2012 (confisca disposta con decreto del tribunale del 13.7.1995, depositato il 25.5.1996, divenuto definitivo), soggetta, quindi, alla L. n. 575 del 1965. La sentenza impugnata con il ricorso per cassazione ha accolto l’opposizione di terzo all’esecuzione promossa, sostanzialmente dichiarando una sorta di improseguibilità temporanea dell’esecuzione immobiliare fino all’accertamento della buona fede dei creditori titolari dei diritti reali di garanzia. In questo senso, infatti, deve intendersi il riferimento alla "sospensione" dell’esecuzione, e non in senso tecnico con riferimento all’art. 624 c.p.c., come denunciato dall’odierna ricorrente.

Ma i principi, cui la sentenza si e ispirata, sono superati dalle norme sopravvenute, applicabili nella specie, alla luce delle quali la causa dovrà ora essere esaminata.

Da ultimo, anche il profilo denunciato con il terzo motivo secondo cui il giudice del merito, nell’accogliere l’opposizione all’esecuzione formulata dall’Amministratore Giudiziario, non ha tenuto conto dell’assenza di prova, da parte dello stesso, in ordine allo status del bene confiscato ex L. n. 575 del 1965, di uno dei due beni ipotecati in favore di Sicilcassa e da questa sottoposti a pignoramento – dovrà, in assenza di una qualsiasi motivazione sul punto, essere oggetto di nuovo esame da parte del giudice del rinvio, alla luce delle risultanze documentali prodotte ed in base alla normativa applicabile.

Il ricorso va, quindi, accolto, e la causa di opposizione di terzo dovrà essere rinviata al giudice del merito il quale, sulla base della L. 24 dicembre 2012, art. 1, comma 194 e segg., dovrà esaminare la fattispecie, con gli opportuni accertamenti sullo stato della relativa procedura esecutiva, anche al fine di valutare l’eventuale permanere dell’interesse del terzo a coltivare l’opposizione proposta.

Conclusivamente, accolto il ricorso, la sentenza è cassata, e la causa è rinviata al tribunale di Palermo in persona di diverso magistrato.

Le spese sono rimesse al giudice del rinvio.
P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso. Cassa e rinvia, anche per le spese, al tribunale di Palermo in persona di diverso magistrato.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 9 luglio 2013.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. I, Sent., 11-11-2011, n. 23653

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. – Con citazione del 17 giugno 1998, M.I. convenne dinanzi al Tribunale di Milano la Banca popolare di Lodi soc. coop. a r.l. (di seguito: B.P.L.), esponendo che: a) a seguito di istanza del 9 giugno 1995, egli aveva ottenuto dalla B.P.L. un’apertura di credito in conto corrente di un miliardo di lire per la durata di un anno, garantita da pegno sulle quote pari all’ottanta per cento del capitale della s.r.l. Alma Due, appartenenti a lui ed alla moglie P.M.L.; b) egli aveva utilizzato detto finanziamento, nella misura di L. 700.000.000, per l’acquisto di n. 14.250 azioni e di n. 4.000 obbligazioni warrant della s.p.a.

Assicurazioni generali; c) egli, nonostante avesse ordinato alla B.P.L. la vendita di parte di tali titoli, si era visto opporre un rifiuto da parte della Banca, motivato dal fatto che anche su questi titoli era stato costituito il pegno a garanzia della predetta apertura di credito; d) successivamente, in data 15 novembre 1996, la B.P.L. aveva proceduto alla vendita coattiva di detti titoli, utilizzando il ricavato a decurtazione della sua esposizione debitoria.

Tanto esposto, il M. chiese: la dichiarazione di inefficacia della vendita coattiva; la condanna della B.P.L. a consegnargli titoli nella stessa quantità e qualità; la condanna della stessa Banca a risarcirgli i danni, da liquidarsi in separata sede, conseguenti all’ingiustificato impedimento alla movimentazione di detti titoli; la condanna della Banca medesima a risarcirgli i danni nella misura corrispondente alla differenza tra il controvalore dei titoli alla data della sentenza e quello alla data del 15 novembre 1995.

Costituitasi, la B.P.L. contestò la fondatezza di tali domande, sostenendo che il pegno irregolare dei titoli industriali, nella misura di L. 700.000.000, era previsto dagli accordi iniziali stipulati dalle parti con la scrittura del 17 maggio 1995 – sottoscritta dal M., nonchè dalla polizza di pegno del 6 luglio 1995, firmata in bianco dallo stesso M. e successivamente riempita dalla Banca, in conformità con gli accordi, con l’indicazione delle azioni e delle obbligazioni warrant della s.p.a. Assicurazioni generali.

A seguito di tali contestazioni, il M. propose querela di falso avverso la scrittura del 17 maggio 1995, denunciando: l’abusivo riempimento della scrittura, quanto all’indicazione anche dei titoli azionari per L. 700.000.000, quali beni costituiti in pegno; la falsità della data del 17 maggio 1995 e del numero della polizza – n. (OMISSIS) – sostenendo che egli aveva firmato un’unica richiesta di apertura di credito in data 9 giugno 1995 sul modulo n. 727840, con indicazione della costituzione di pegno soltanto sulle quote della s.r.l. Alma Due.

Il Tribunale adito, con la sentenza n. 15736/2003 del 13 maggio 2003, rigettò la querela e tutte le domande del M., ritenendo indimostrata la falsità dei documenti prodotti dalla B.P.L. con riferimento al pegno in contestazione.

2. – Avverso tale sentenza il M. propose appello dinanzi alla Corte d’Appello di Milano, riproponendo le domande e le difese di cui al giudizio di primo grado e chiedendo l’esibizione delle due copie della richiesta di apertura di credito richiamate dal teste N.A..

Nel resistere all’impugnazione, la B.P.L. propose appello incidentale, chiedendo la dichiarazione di inammissibilità della proposta querela di falso – in quanto il M. aveva dedotto l’abusivo riempimento del foglio firmato in bianco absque pactis e non centra pacta – e la reiezione dell’appello.

La Corte di Milano, con la sentenza n. 483/06 del 24 febbraio 2006, respinse l’appello.

In particolare, per quanto in questa sede ancora rileva, i Giudici a quibus: a) hanno accolto l’appello incidentale proposto dalla B.P.L. in quanto, nella specie, ricorreva l’ipotesi di riempimento di foglio firmato in bianco contra pacta e non absque pactis: infatti, lo stesso M. aveva dedotto che l’asserito riempimento abusivo della scrittura del 19 maggio 1995 si era realizzato con l’aggiunta, alla garanzia della costituzione in pegno delle quote della s.r.l.

Alma Due, della costituzione in pegno anche delle azioni e delle obbligazioni warrant della s.p.a. Assicurazioni generali; b) hanno affermato che, nell’ipotesi di riempimento di foglio firmato in bianco contra pacta e non absque pactis, non v’è materia di querela di falso e che la dimostrazione dell’assunto della non conformità del riempimento ai patti – il cui onere incombe su chi lo deduce – può essere data con qualsiasi mezzo probatorio (vengono richiamate le sentenze della Corte di cassazione nn. 16007 del 2003, 7975 del 2000 e 7664 del 1992); c) hanno affermato altresì che il M. non aveva provato detto assunto sulla base delle seguenti considerazioni: c1) dalle dichiarazioni del teste N. A. – ex dipendente della B.P.L. e, perciò, attendibile, anche perchè escusso molto tempo dopo la cessazione del suo rapporto di lavoro – "si desume che il pegno irregolare di azioni era stato pattuito dalle parti fin dall’inizio del rapporto e, comunque, la piena rispondenza del documento in data 19.5.1995 alle intese delle parti"; c2) la veridicità di tali dichiarazioni testimoniali si desume da rilevanti indizi: in primo luogo, il M. non aveva contestato gli estratti conto inviatigli della B.P.L. nei mesi di agosto e di settembre 1995, nei quali accanto ai titoli della Assicurazioni generali, v’era la dicitura "in garanzia"; in secondo luogo, se fosse vero che la garanzia del fido era costituita dalle sole quote della s.r.l. Alma Due, risulterebbe inspiegabile la sottoscrizione in bianco di un altro modulo di polizza, oltre quello relativo a dette quote, concernente appunto le azioni e le obbligazioni warrant; infine, con la comunicazione interna della B.P.L. nella stessa data del 19 maggio 1995 "si illustra l’operazione in discussione negli stessi termini e alle stesse condizioni di cui alla scrittura contestata"; d) hanno respinto l’istanza di esibizione delle altre due copie della richiesta di fido, formulata dal M., in quanto "La divergenza di numero di pratica è stata adeguatamente spiegata dal teste N. ed è comunque circostanza, nel quadro probatorio complessivo, assai trascurabile"; e) hanno aggiunto che "In ogni caso, eventuali dubbi sul denunciato abusivo riempimento, trattandosi del fatto costitutivo delle domande del M., gioverebbero alla B.P.L. e sarebbero perciò ininfluenti sulla decisione"; f) hanno infine affermato la legittimità del pegno in questione, qualificandolo come pegno di cosa futura e richiamando al riguardo la sentenza della Corte di cassazione n. 8517 del 1998. 3. – Avverso tale sentenza M.I. ha proposto ricorso per cassazione, deducendo cinque motivi di censura.

Resiste, con controricorso, la s.p.a. Bipielle-Società di gestione del credito, quale rappresentante processuale della Banca Popolare Italiana soc. coop. a r.l., già Banca popolare di Lodi soc. coop. a r.l..

MOTIVI DELLA DECISIONE 1. – Con il primo motivo (con cui deduce: "Omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5"), il ricorrente – premessa la propria ricostruzione dei rapporti intercorsi con la B.P.L. critica la sentenza impugnata, esclusivamente sotto il profilo dei vizi di motivazione, sostenendo, tra l’altro, che, contrariamente a quanto affermato dai Giudici a quibus: a) il teste N. non è attendibile, essendo caduto in contraddizione durante il suo esame sia quanto all’affermato smarrimento di una delle tre copie del modulo di pegno, sia quanto alla "correzione" del numero di polizza;

b) gli estratti conto dell’agosto e del settembre 1995 furono da lui stesso contestati energicamente; c) le comunicazioni interne tra uffici della B.P.L. non possono far prova nei suoi confronti.

Con il secondo (con cui deduce: "Violazione e falsa applicazione della clausola generale di buona fede ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 degli artt. 1358, 1315, 1366 e 1856 cod. civ.. Omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5"), con il terzo (con cui deduce: "Violazione e falsa applicazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 dell’art. 1849 cod. civ.. Omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5"), con il quarto (con cui deduce:

"Violazione e falsa applicazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 dell’art. 1851 cod. civ.. Omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia ai sensi dell’ art. 360 c.p.c., n. 5") e con il quinto motivo (con cui deduce: "Omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5") – i quali possono essere esaminati congiuntamente, avuto riguardo alla loro stretta connessione oggettiva – il ricorrente critica ancora la sentenza impugnata, sostenendo che i Giudici a quibus: a) hanno omesso di pronunciarsi o, comunque, di motivare sulla dedotta responsabilità della B.P.L. per contrasto con la clausola generale di buona fede, per aver rifiutato di vendere immediatamente – nonostante le istruzioni impartitele – e per aver invece venduto con un anno di ritardo i titoli azionari ed obbligazionari illegittimamente sottoposti a pegno, così provocandogli un danno da interessi passivi per circa L. 400.000.000; b) hanno omesso di considerare che il rifiuto di procedere alla ordinata vendita dei titoli predetti si pone in contrasto sia con l’art. 1849 cod. civ., il quale prevede che "il contraente, anche prima della scadenza del contratto, possa ritirare in parte i titoli o le merci date in pegno, previo rimborso proporzionale delle somme anticipate", sia con l’art. 1851 cod. civ.;

c) hanno infine omesso di considerare che, alla fattispecie, non è applicabile l’istituto del pegno di cosa futura, il quale presuppone – a differenza di quanto avvenuto nella specie – che la cosa oggetto di pegno sia stata già individuata nella sua natura, specie e quantità, mentre nella specie, al momento della costituzione della garanzia, il ricorrente non aveva ancora deciso quali e quanti titoli avrebbe acquistato.

2. – Il ricorso non merita accoglimento: il primo ed il quinto motivo sono inammissibili, mentre i motivi dal secondo al quarto sono infondati.

2.1. – Il primo motivo – con il quale si deducono esclusivamente vizi di motivazione della sentenza impugnata – è inammissibile, perchè con esso si prospettano, in realtà, una ricostruzione dei rapporti intercorsi tra il ricorrente e la B.P.L. ed una valutazione delle risultanze probatorie meramente difformi da quelle operate dai Giudici dell’appello, e volte a sostenere che, nella specie – contrariamente a quanto ritenuto dagli stessi Giudici – v’era materia deducibile con la querela di falso, in quanto il denunciato riempimento abusivo della scrittura firmata in bianco con l’aggiunta della costituzione in pegno anche dei titoli azionari della s.p.a.

Assicurazioni generali, era stato realizzato dalla B.P.L. in assenza di previe pattuizioni in tal senso.

E’ noto che, secondo il costante orientamento di questa Corte, condiviso dal Collegio, il vizio di omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia, non potendo invece consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, perchè la citata norma non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame dei fatti e la valutazione delle prove operati dal giudice del merito, al quale soltanto spetta di individuare le fonti del proprio convincimento e, a tale scopo, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, e scegliere tra le risultanze probatorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (cfr., ex plurimis e tra le ultime, le sentenze nn. 6288 del 2011 e 27162 del 2009).

Nella specie, i Giudici a quibus hanno affermato l’esistenza di patti conclusi dalle parti volti a comprendere nella garanzia pignoratizia, oltre alle quote della s.r.l. Alma Due, anche i predetti titoli azionari della s.p.a. Assicurazioni generali, strutturando la motivazione al riguardo sulla base dell’esame e della valutazione di una prova diretta – la deposizione del teste N.A., giudicato attendibile con motivazione espressa e specifica – e di specifici plurimi riscontri indiziari a supporto della ritenuta veridicità dei contenuti di tale deposizione.

Ciò posto, le critiche mosse dal M. a tale motivazione sono – alla luce dei principi giurisprudenziali dianzi richiamati – inammissibili: in primo luogo, perchè il motivo manca di autosufficienza, nella parte in cui tali critiche sono indirizzate ai contenuti della deposizione testimoniale di N.A., delle dichiarazioni del quale vengono riprodotti soltanto alcuni stralci e non la verbalizzazione integrale, ciò tanto più in quanto la maggiore critica che viene mossa alla motivazione su tale deposizione sta nel rilievo che la Corte di Milano avrebbe ingiustamente ritenuto attendibile il teste nonostante le contraddizioni in cui sarebbe caduto durante il suo esame; in secondo luogo, perchè il motivo è stato strutturato mediante una premessa – che prospetta una ricostruzione dello svolgimento del rapporto M. – B.P.L. radicalmente difforme da quella operata dai Giudici a quibus – alla quale seguono le critiche alla sentenza impugnata, laddove la motivazione non collima con detta ricostruzione. E’, dunque, evidente che, con il motivo in esame, il ricorrente, lungi dal denunciare omissioni o insufficienze della motivazione della sentenza impugnata, opera una nuova e diversa valutazione degli elementi probatori in modo a se favorevole – favorevole cioè alla sussistenza dell’abusivo riempimento del foglio firmato in bianco -, pretendendone inammissibilmente l’avallo di questa Corte.

2.2. – Quanto al secondo, terzo e quarto motivo del ricorso, deve essere preliminarmente rigettata l’eccezione, sollevata dal contro ricorrente, di inammissibilità di tali motivi – per essere stati conclusi con la formulazione del quesito di diritto di cui all’art. 366-bis cod. proc. civ., inapplicabile alla specie ratione temporis, la sentenza impugnata essendo stata pubblicata in data 24 febbraio 2006, anteriore all’entrata in vigore (2 marzo 2006) del citato articolo -, in quanto detta formulazione, in presenza di una norma che non ancora la imponeva a pena di inammissibilità, deve considerarsi effettuata ad abundantiam e, perciò, tamquam non esset.

Tuttavia, gli stessi motivi sono infondati.

Dai nn. 2, 3 e 4 delle conclusioni definitive trascritte nell’epigrafe della sentenza impugnata, risulta che il M. ha chiesto: "2) Conseguentemente dichiarare in via principale la Banca Popolare di Lodi responsabile della vendita coatta di n. 14250 azioni e di n. 4000 warrant della Soc. Assicurazioni generali SpA di proprietà dell’attore condannando la convenuta alla restituzione del "tantundem eiusdem generis et qualitatis", in ragione della nullità della predetta vendita coatta; 3) Dichiararsi, sempre di conseguenza ed in via principale, tenuta e, quindi, condannarsi la Banca convenuta al risarcimento di tutti i danni patiti e patiendi dall’attore sia per fatto illecito ex art. 2043 c.c. per l’accertata falsità di cui sub 1, sia per inadempimento contrattuale consistente nell’aver impedito (lucro cessante) la movimentazione dei titoli in costanza del fido concesso ovverosia nell’impossibilità di utilizzo ex art. 1843 c.c., comma 1 etc. del fido concesso ai fini dell’operatività sul mercato mobiliare della borsa valori, unico scopo del finanziamento de quo, danni da determinarsi in separata sede, con gli interessi di legge e la rivalutazione monetaria; 4) In subordine, nel caso di mancata consegna dei titoli sopra specificati, condannare la convenuta a risarcire comunque il danno emergente da quantificare nel plusvalore verificatosi sul mercato mobiliare, con riferimento alle suddette azioni dal 15.11.1995 (vendita coatta) alla data della decisione Orbene, la ratio decidendi della sentenza impugnata sta in ciò, che la Corte di Milano ha innanzitutto affermato che, nella specie, trattandosi – secondo quanto dedotto dallo stesso odierno ricorrente – di ipotesi di riempimento di foglio firmato in bianco contra pacta e non absque pactis, manca l’oggetto della querela di falso ed ha perciò accolto l’appello incidentale della B.P.L. che aveva chiesto di dichiarare inammissibile la querela riproposta dal M. con la prima domanda delle conclusioni definitive – "1) Riconoscere e dichiarare come falso e pertanto nullo e di nessun giuridico effetto il contenuto del documento impugnato …" -, ed ha poi escluso, nel merito, che detto riempimento fosse stato effettuato contra pacta, aggiungendo che, "In ogni caso, eventuali dubbi sul denunciato abusivo riempimento, trattandosi del fatto costitutivo delle domande del M., gioverebbero alla B.P.L. e sarebbero perciò inlnfluenti sulla decisione".

Da ciò consegue che i Giudici a quibus – escluso il denunciato riempimento abusivo, ribadita la legittimità della garanzia qualificata come pegno di cosa futura, e sottolineato che il "denunciato riempimento abusivo" rappresenta il "fatto costitutivo delle domande del M." – hanno, implicitamente ma esattamente, ritenuto assorbite tutte le su riportate domande del M., in quanto proposte soltanto o in via consequenziale "alla dichiarata falsità e nullità del documento impugnato" e "per l’accertata falsità di cui sub 1" (domande sub 2 e sub 3) , o in via condizionata alla mancata riconsegna dei titoli (domanda sub 4). In altri termini, i giudici dell’appello, esclusa la responsabilità della B.P.L. quanto alla costituzione del pegno (anche) sui predetti titoli azionari e obbligazionari acquistati dal M., ne hanno fatto conseguire la legittimità sia del rifiuto opposto dalla Banca alla richiesta di quest’ultimo di vendita degli stessi titoli sia della successiva vendita coattiva.

2.3. – Quanto al quinto motivo – con il quale si deducono esclusivamente vizi della motivazione in ordine alla omessa considerazione che, alla fattispecie, non è applicabile l’istituto del pegno di cosa futura, il quale presuppone, a differenza di quanto avvenuto nella specie, che la cosa oggetto di pegno sia stata già individuata nella sua natura, specie e quantità, mentre nella specie, al momento della costituzione della garanzia, il ricorrente non aveva ancora deciso quali e quanti titoli avrebbe acquistato -, lo stesso è inammissibile, perchè esso denuncia, in realtà, la falsa applicazione dell’istituto del pegno di cosa futura ad una fattispecie concreta estranea a tale istituto, sicchè avrebbe dovuto essere dedotto come erronea applicazione di norme di diritto.

3. – Le spese del presente grado di giudizio seguono la soccombenza e vengono liquidate nel dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese, che liquida in complessivi Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 03-05-2011) 13-07-2011, n. 27388

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Il (OMISSIS), all’interno dell’ufficio ubicato al piano superiore dell’autosalone gestito da L. S., veniva assassinato C.F.; due uomini, travisati da un passamontagna, entravano nel predetto locale e irrompevano nella stanza dove erano presenti C.F., C.M., L.S., G.D. e Ca.Pa.. Mentre gli altri astanti riuscivano a darsi alla fuga, lanciandosi dalla finestra, il C.F. veniva attinto al braccio da un primo colpo d’arma da fuoco e quindi da altri tre colpi, risultandone ucciso.

2. Di tale omicidio è stato ritenuto esecutore materiale, ai fini dell’emanazione della ordinanza di custodia cautelare in carcere, l’odierno ricorrente, P.A..

3. Contro l’ordinanza di custodia emessa dal GIP di Catanzaro, in data 29 ottobre 2010, è stata svolta istanza di riesame; il tribunale della libertà di Catanzaro, con ordinanza emessa in data 16 novembre 2010, ha confermato l’ordinanza impugnata e la misura applicata, rigettando il ricorso del P..

4. La sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, ai fini della misura cautelare, è stata ritenuta sulla base delle dichiarazioni rese da C.V., testimone oculare del fatto, riscontrate dalle dichiarazioni della B., segretaria nella concessionaria dove è avvenuto l’omicidio, nonchè dalle dichiarazioni dei collaboratori Ba. e L..

5. In particolare, il C. affermava, dopo un’iniziale reticenza, giustificata con l’ordine in tal senso proveniente dal L., di avere riconosciuto con certezza i due esecutori dell’omicidio, che, pur travisati, gli erano passati davanti sia all’ingresso dell’autosalone, sia all’uscita dopo avere commesso il reato; di tali affermazioni forniva ampia e specifica motivazione, con dovizia di particolari e precisione di dettagli.

6. Quanto ai citati riscontri esterni, la B. affermava che il C. era presente presso la concessionaria la mattina del giorno dell’omicidio, senza tuttavia precisare se vi fosse anche nel pomeriggio, in occasione della commissione del reato predetto; la Ba. affermava di avere appreso dalla cognata R.C., moglie di Fo.An., che l’omicidio era stato eseguito materialmente da P.A.; il L. infine affermava di avere riconosciuto l’odierno ricorrente, pur se travisato da passamontagna.

7. Contro l’ordinanza del tribunale della libertà di Catanzaro propone ricorso P.A. ex art. 606 c.p.p., comma, lett. c) ed e), in relazione agli artt. 63, 178, 179, 191, 192, 197 e 292 c.p.p. e art. 372 c.p.p., comma 2, lett. B, art. 546 c.p.p., lett. c), art. 125 c.p.p., comma 3; art. 111 Cost., commi 6 e 7. 8. In particolare, come si evince dalla motivazione del ricorso, non essendovi successiva specifica indicazione della violazione lamentata ai sensi dell’art. 606 c.p.c., il ricorrente sinteticamente lamenta:

– omessa valutazione di una prova decisiva, rappresentata dall’interrogatorio di persona indagata, tale C.M..

Tale soggetto riferiva di aver appreso da un certo Z. che gli esecutori dell’omicidio erano due zingari latitanti del clan abruzzese e che il P. era il mandante. Più precisamente (pagina nove del verbale d’interrogatorio, allegato al ricorso per cassazione) il C. dichiara, con riferimento all’esecuzione dell’omicidio: "Loro dicono che siano stati i due latitanti del clan abruzzese..".

– Illogicità manifesta in relazione all’alibi del ricorrente, per non avere il tribunale ritenuto attendibili le deposizioni dei testi difensivi D. e R. -che avevano dichiarato che il giorno dell’omicidio il P. era in cantiere insieme a loro – in relazione alla testimonianza del C., ritenuto invece perfettamente attendibile e indifferente, pur avendo inizialmente dichiarato di non essere stato presente in concessionaria al momento dell’omicidio.

– Ancora con riferimento all’attendibilità del C., si deduce la sua stretta amicizia e dipendenza dal L., nonchè le incongruenze della sua deposizione, con riferimento all’abbigliamento dei due sicari al momento del fatto. Dichiarazioni che sarebbero in contrasto con quelle di G.D..

– Si deduce poi violazione di norma processuale, laddove il ricorrente ritiene che il C. avrebbe dovuto essere sentito fin dall’inizio in qualità di indagato e non di teste, emergendo dalla sua seconda deposizione elementi a suo carico, con riferimento alle false dichiarazioni rese in precedenza. Se ne deduce la violazione dell’art. 63 c.p.p., con conseguente inutilizzabilità delle dichiarazioni, ai sensi del medesimo articolo, e pertanto la nullità dell’ordinanza che si fonda in via principale proprio suddette dichiarazioni.

– Infine, il ricorrente lamenta insufficiente motivazione in ordine all’attendibilità dei collaboratori L. e Ba., nonchè manifesta illogicità della motivazione, nella quale non si tiene conto in particolare delle dichiarazioni rese dalla testimone M.M.I., moglie del L..

9. Per i suddetti motivi P.A. chiede l’annullamento del provvedimento impugnato senza rinvio, con remissione in libertà dell’indagato; in subordine annullamento con rinvio al tribunale del riesame di Catanzaro.

Motivi della decisione

10. Con riferimento alle doglianze del ricorrente, questa corte osserva:

– Omessa valutazione di una prova decisiva, rappresentata dall’interrogatorio di C.M.. Questa Corte ritiene che le dichiarazioni rese dal C.M. nell’interrogatorio del 20 maggio 2010 non siano affatto determinanti, sia perchè la prova positiva della responsabilità del P. è ancorata su solide basi probatorie, riscontrate a vicenda, sia perchè il C. riferisce una circostanza non solo de relato, ma tutt’altro che certa, laddove a pagina nove del verbale dichiara:

"Loro dicono che siano stati i due latitanti del clan Abbruzzese". A fronte di questa deposizione, tutt’altro che determinante per scagionare il P., lo stesso C. riconosce che il P. era comunque al corrente, e anzi il mandante, di questo omicidio (pagine 5 e 7 del verbale d’interrogatorio. E’ più che evidente, dunque, che in virtù della loro parziale contraddittorietà, le dichiarazioni del C. non hanno certo efficacia decisiva per scagionare il P..

– Illogicità manifesta in relazione all’alibi del ricorrente, per non avere il tribunale ritenuto attendibili le deposizioni dei testi difensivi D. e R.. La censura è non solo infondata, ma anche inammissibile, in quanto il ricorrente chiede alla corte di cassazione una nuova valutazione di merito, che le è preclusa. Il tribunale di Catanzaro motiva in modo più che adeguato in ordine ai motivi per cui non ha ritenuto attendibili i testi R. e D., evidenziando altresì che, anche a tener fede alle loro dichiarazioni, sarebbe stato per loro impossibile tenere sotto controllo e sotto la diretta percezione visiva il P., al punto da escludere con certezza che egli si sia, anche momentaneamente, allontanato dal cantiere (si veda quanto espresso, con giudizio logico ineccepibile, alla pagina 16 della ordinanza).

– Attendibilità del C.. Per sostenere la censura di illogicità della motivazione relativa all’attendibilità del C., il ricorrente evidenzia che la teste B., chiamata a riscontro esterno, aveva affermato che il C. era presente in concessionaria solo alla mattina; inoltre vi sarebbero incongruenze nella sua deposizione, con riferimento all’abbigliamento dei due sicari al momento del fatto (dichiarazioni che sarebbero in contrasto con quelle di G.D.). Infine si cerca di minare l’attendibilità del C. evidenziando la sua stretta amicizia e dipendenza dal L.. Le censure svolte dal ricorrente sono infondate; ancora una volta si cerca di ottenere da questa corte una diversa valutazione della prova, ai fini di ricostruire diversamente l’episodio delittuoso, senza che vi siano però i vizi lamentati nel ricorso. Anche con riferimento a queste presunte contraddizioni il tribunale ha motivato adeguatamente; con riferimento alle dichiarazioni della B., sia sufficiente rilevare che la stessa, sentita a sommarie informazioni il 27 luglio 2009, affermava sì che il C. era presente la mattina, ma non ha mai escluso che il C. potesse essere presente anche il pomeriggio. D’altronde, la B. ha affermato di essere rientrata nel proprio ufficio, posto al primo piano, dove si trovava anche al momento del delitto;

pertanto, non si può assolutamente escludere che, anche ove la teste non abbia visto il C. al pomeriggio, questi fosse invece passato presso la concessionaria, avendo egli dichiarato di trovarsi, all’arrivo dei sicari, all’ingresso della concessionaria stessa.

Analoghe considerazioni si devono fare con riferimento alle dichiarazioni di G.M. e G.D., anch’essi saliti subito al piano superiore, nell’ufficio del L., i quali non escludono comunque espressamente la presenza del C. presso altre zone della concessionaria. Ed anche le dichiarazioni della M.M.I. non sono determinanti, in quanto la stessa indica i nomi delle persone che il pomeriggio del delitto erano state a casa sua, affermando comunque che lei al momento del delitto non era in concessionaria, ma nella propria casa. In relazione ai presunti rapporti di amicizia e dipendenza del C. dal L., questi da un lato rafforzano la convinzione che in effetti il C. fosse presente in concessionaria, suo luogo di lavoro, al momento del delitto, e per il resto costituiscono aspetti sicuramente rilevanti nella valutazione di attendibilità che, peraltro, se correttamente effettuata, come nel caso di specie, è sottratta ad ogni controllo di questa corte, in quanto riservata al giudice di merito. Infine, in relazione all’abbigliamento dei sicari non vi è nessuna contraddittorietà od illogicità della motivazione, – piuttosto approfondita sul punto, in quanto il tribunale di Catanzaro chiarisce adeguatamente e con percorso logico ineccepibile i motivi per cui ritiene di privilegiare il racconto del C. rispetto a quello del G. (pagina 10 dell’ordinanza). Inutilizzabilità delle dichiarazioni rese da C.V. ai sensi dell’art. 63 c.p.p..

Secondo la difesa, il C. avrebbe dovuto essere sentito fin dall’inizio in qualità di indagato e non di teste, emergendo dalla sua seconda deposizione elementi a suo carico, con riferimento alle false dichiarazioni rese in precedenza; la censura è priva di fondamento. Secondo l’insegnamento delle sezioni unite di questa corte (Cassazione penale, sez. un., 23 aprile 2009, n. 23868) "la sanzione di inutilizzabilità "erga omnes" delle dichiarazioni assunte senza garanzie difensive da un soggetto che avrebbe dovuto fin dall’inizio essere sentito in qualità di imputato o persona soggetta alle indagini, postula che a carico dell’interessato siano già acquisiti, prima dell’escussione, indizi non equivoci di reità, come tali conosciuti dall’autorità procedente, non rilevando a tale proposito eventuali sospetti od intuizioni personali dell’interrogante". Nel caso di specie ci si trova piuttosto nell’ipotesi di cui all’art. 63, comma 1, in quanto una persona non sottoposta alle indagini ha reso dichiarazioni dalle quali sono emersi indizi di reità a suo carico (per avere in precedenza fatto dichiarazioni non vere all’autorità procedente).

– Insufficiente motivazione in ordine all’attendibilità dei collaboratori L. e Ba., anche in relazione alle dichiarazioni rese dalla testimone M.M.I., moglie del L.. Anche questa censura è priva di fondamento; la corte territoriale ha ritenuto, con valutazione insindacabile in questa sede in quanto correttamente motivata, l’attendibilità dei collaboratori L. e Ba. (cfr. pag. 15 dell’ordinanza); nè si può affermare che le dichiarazioni della M., riportate a pagina 16 del ricorso, in quanto relative a circostanze non direttamente collegate con il delitto, da cui la difesa deduce conseguenze puramente ipotetiche, siano idonee a scalfire la ritenuta attendibilità del L. sulle circostanze determinanti ai fini della ricostruzione del fatto di reato.

Per i motivi esposti, il ricorso deve essere respinto; al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.