T.A.R. Lazio Roma Sez. II, Sent., 30-06-2011, n. 5731

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. – Con il ricorso meglio indicato in epigrafe il Signor Giuseppe Fiore, dipendente dell’Amministrazione delle finanze ed in quiescenza dal 2 gennaio 2000 ha impugnato, in via principale, la nota n. 11799 del 15 aprile 1999 con la quale il Direttore reggente dell’Ufficio del territorio di Roma lo ha sollevato dall’incarico di gerente del II reparto della circoscrizione di Roma 2. Nello stesso tempo l’odierno ricorrente chiede il reintegro nelle mansioni svolte ovvero in mansioni equivalenti e comunque il riconoscimento, sia ai fini dell’inquadramento che della condanna al pagamento delle differenze retributive, delle superiori mansioni svolte nel corso della sua carriera lavorativa.

Egli riferisce i vari passaggi che hanno contraddistinto la sua attività lavorativa alle dipendenze dell’Amministrazione finanziaria, significando i numerosi incarichi affidati e le funzioni di rilievo esercitate anche con attribuzione del potere di firma e lamentando che l’Amministrazione non ha mai provveduto ad inquadrarlo nella posizione corrispondente all’attività effettivamente esercitata, soprattutto da quando, nel giugno 1997 fu nominato "secondo gerente" della Conservatoria dei registri di Roma III. Ritenendo illegittimo il provvedimento interno assunto nei suoi confronti nell’aprile 1999 dal responsabile dell’Ufficio che lo ha rimosso dall’incarico di secondo gerente, il Signor Fiore ne chiede ora il giudiziale annullamento con riconoscimento giuridico ed economico delle superiori mansioni svolte nel corso della carriera e con condanna dell’Amministrazione al risarcimento dei danni subiti per lesione della propria dignità e professionale.

2. – Si è costituita in giudizio l’Amministrazione finanziaria intimata eccependo, preliminarmente, l’inammissibilità del ricorso in quanto il richiesto annullamento dell’atto impugnato non avrebbe più potuto recare vantaggi al ricorrente che, precedentemente rispetto alla proposizione del ricorso è stato collocato a riposo per dimissioni. Nel merito la difesa erariale ha contestato analiticamente le avverse prospettazioni chiedendo la reiezione del gravame.

All’udienza pubblica del 13 aprile 2011 il ricorso è stato trattenuto per la decisione.

3. – Il Collegio, in via preliminare, registra che il giorno successivo allo svolgimento dell’udienza (cioè il 14 aprile 2011) la difesa della parte ricorrente ha depositato nella Segreteria del Tribunale documentazione relativa alla sorte del giudizio parallelamente avviato dalla medesima parte ricorrente nei confronti dell’odierna Amministrazione resistente dinanzi al Giudice del lavoro con l’identico oggetto e colà proponendo identiche domande rispetto a quelle avanzate nella presente sede. Trattandosi di documentazione che si compendia esclusivamente in sentenze giudiziali pubblicate il Collegio decide di acquisirle al solo scopo di riferimento rispetto allo scrutunio da svolgersi in sede di valutazione della fondatezza o meno del ricorso proposto, provvedendosi quindi a ricondurre ad una successiva Camera di consiglio (il 24 maggio 2011) l’assunzione della decisione.

Premesso quanto sopra emerge chiaramente da tutta la documentazione depositata e, soprattutto, dalla piana lettura dell’atto introduttivo del presente giudizio, che il Signor Fiore, nel dubbio circa la corretta individuazione del plesso giurisdizionale cui competesse la conoscenza della questione controversa, ha proposto l’identico giudizio dinanzi al giudice amministrativo ed a quello ordinario in funzione di giudice del lavoro.

In quest’ultima sede, il processo ha concluso tutti i gradi di giudizio, in particolare definendosi con le sentenze 27 settembre 2005 n. 4484 della Corte d’appello, Sezione lavoro, di Roma e 2 aprile 2008 n. 8457 delle Sezioni unite civili della Corte di Cassazione, con la dichiarazione di difetto di giurisdizione per quanto riguarda le richieste di riconoscimento delle mansioni superiori ai fini dell’inquadramento e delle differenze retributive e con la reiezione della domanda risarcitoria.

Residua dunque a questo giudice il compito di definire le questioni controverse sollevate dal ricorrente con riferimento alla illegittimità della rimozione dall’incarico di gerente e le richieste inerenti il riconoscimento delle mansioni superiori.

4. – Con riferimento alla richiesta di annullamento della nota n. 11799 del 15 aprile 1999 con la quale il Direttore reggente dell’Ufficio del territorio di Roma lo ha sollevato dall’incarico di gerente del II reparto della circoscrizione di Roma 2, in disparte dalla eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dalla difesa erariale, il Collegio deve rilevare il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo a conoscere la ridetta domanda di annullamento.

Essa, infatti, è chiaramente rivolta nei confronti di un atto intervenuto in costanza di rapporto di lavoro pubblico (contrattualizzato) in epoca successiva al 2 luglio 1998 e quindi oltre la "data fatale" che mutamento del plesso giurisdizionale dinanzi al quale il dipendente può rivolgere doglianze relative al rapporto di lavoro c.d. pubblico.

5. – Come è noto e ripetutamente ribadito dalla giurisprudenza sia civile che amministrativa (cfr., da ultimo, la sentenza T.A.R. Lazio, Sez. II, 5 gennaio 2011 n. 22 che, ricalcando una ipotesi giuridicamente simile a quella qui in esame, verrà riprodotta per ampi stralci e qui di seguito con riferimento ai richiami giurisprudenziali in essa contenuti), nel sistema di riparto della giurisdizione delineato dapprima dall’art. 68 del decreto legislativo 3 febbraio 1993 n. 29, nel testo sostituito dall’art. 29 del decreto 31 marzo 1998 n. 80 e ora dall’art. 63 del decreto legislativo 30 marzo 2001 n. 165, sono state devolute alla cognizione del giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle Pubbliche amministrazioni (salvo quelle relative alle procedure concorsuali per l’assunzione dei dipendenti nonché quelle concernenti il personale in regime di diritto pubblico) incluse le controversie concernenti le assunzioni, gli incarichi dirigenziali, e le indennità di fine rapporto, anche se vengono in questione atti presupposti, che qualora siano rilevanti vengono disapplicati se illegittimi.

La ratio della normativa si rinviene nell’intenzione del Legislatore di affermare – nel settore del pubblico impiego – la logica gestoria propria del datore di lavoro privato.

In particolare e per quel che è qui di interesse, all’art. 45 comma 17° del decreto legislativo n. 80 del 98 è stata disciplinata la fase transitoria del nuovo riparto di giurisdizione, prevedendo, che vanno devolute al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, le questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro successivo al 30 giugno 1998, mentre le controversie relative a questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro anteriore a tale data restano attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e debbono essere proposte, a pena di decadenza, entro il 15 settembre 2000.

La predetta disposizione, abrogata dal decreto legislativo n. 165 del 2001, risulta ora assorbita dall’art. 69 dell’appena citato decreto, che testualmente al comma 7° recita: "sono attribuite al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, le controversie di cui all’articolo 63 del presente decreto, relative a questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro successivo al 30 giugno 1998. Le controversie relative a questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro anteriore a tale data restano attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo solo qualora siano state proposte, a pena di decadenza, entro il 15 settembre 2000".

6. – Per costante giurisprudenza della Corte di Cassazione, le sopra riportate espressioni (periodo del rapporto di lavoro successivo e anteriore al 30 giugno 1998) sono basate su locuzioni volutamente generiche e atecniche ed hanno attribuito rilievo al dato storico costituito dall’avverarsi delle circostanze poste a base della pretesa sollevata in sede giurisdizionale: esse non vanno interpretate attribuendo decisivo rilievo alla data dell’atto che abbia fatto sorgere la controversia, all’ambito temporale dei suo effetti o al momento in cui è sorta la controversia o è stata instaurata la lite in sede giurisdizionale (cfr. Cass., Sez. II, 20 novembre 1999 n. 808)

Tanto premesso, le Sezioni Unite della Cassazione hanno ripetutamente affermato, al fine del riparto della giurisdizione sulla base del discrimine temporale fissato dal suddetto art. 45, diciassettesimo comma del decreto legislativo n. 80 del 1998, che se la lesione del diritto del lavoratore è prodotta da un atto, provvedimentale o negoziale, deve farsi riferimento alla data di adozione di tale atto, mentre laddove la pretesa abbia origine da un comportamento illecito permanente del datore di lavoro, si deve fare riferimento al momento di realizzazione del fatto dannoso e, quindi, al momento della cessazione della permanenza (cfr. tra le altre: Cass. 4 marzo 2004 n. 4430, 18 ottobre 2002 n. 14835, 7 novembre 2000 n. 1154 e Cass. 24 febbraio 2000 n. 41).

Pertanto, per la verifica della giurisdizione in relazione a controversie concernenti un atto negoziale di gestione del rapporto posto in essere dall’amministrazione datrice di lavoro, occorre avere riguardo al momento in cui l’atto è stato posto in essere.

7. – Il Collegio, dunque, ritiene condivisibile l’oramai granitico approccio giurisprudenziale alla interpretazione delle norme disciplinanti il periodo transitorio di applicazione del passaggio della cognizione giurisdizionale delle controversie sul c.d. pubblico impiego contrattualizzato dal giudice amministrativo a quello ordinario in funzione di giudice del lavoro.

Peraltro il Tribunale ancora di recente ha ribadito che non vi è ragione per disattendere il consolidato orientamento della Corte di Cassazione in materia di rapporti di lavoro contrattualizzato alle dipendenze di Pubbliche amministrazioni secondo il quale deve essere dato rilievo, per la ripartizione della giurisdizione tra giudice ordinario (in qualità di giudice del lavoro) e giudice amministrativo, al dato storico costituito dall’avverarsi dei fatti materiali e delle circostanze – così come posti a base della pretesa avanzata con il ricorso – in relazione ai quali sia insorta la controversia (cfr. T.A.R. Lazio, Sez. III, 11 agosto 2010 n. 30692).

Deriva da quanto sopra che la domanda di annullamento proposta dal Signor Fiore avente ad oggetto la nota n. 11799 del 15 aprile 1999 e quindi l’impugnazione di un atto adottato in epoca successiva rispetto al 30 giugno 1998 (per come risulta evidente in atti) ed inerenti il rapporto di lavoro allora intercorrente tra l’odierno ricorrente e l’Amministrazione intimata, non può essere conosciuta dal giudice amministrativo sprovvisto, ratione temporis, del potere giurisdizionale di scrutinare tale contenzioso.

8. – Per quanto concerne la parte di ricorso proposto per il riconoscimento sia ai fini giuridici che economici dello svolgimento di mansioni superiori, evidentemente nella parte in cui sono riferite anche ad un periodo precedente il 30 giugno 1998, la decisione di questo giudice amministrativo non può che essere di inammissibilità similmente a quanto sopra statuito ma per ragioni diverse.

Come è noto, anche in questo caso per costante interpretazione giurisprudenziale delle disposizioni di cui all’art. 69 del citato decreto legislativo n. 165 del 2001, le controversie relative a questioni attinenti al periodo del rapporto di pubblico impiego anteriore al 30 giugno 1998 restano attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo se proposte con ricorso non solo notificato ma anche depositato entro il 15 settembre 2000, che è termine decadenziale comportante la perdita radicale del diritto e non mero limite temporale della persistenza della giurisdizione, posto che nel processo amministrativo la notificazione ha solo l’effetto di evitare la decadenza dal termine che la legge prevede per l’impugnazione degli atti amministrativi, mentre il deposito dell’atto di impugnazione già notificato costituisce l’adempimento integrante per il giudice il poteredovere di rendere la pronuncia richiesta Solo quest’ultima formalità quindi va ritenuta idonea a far considerare introdotta la lite, dovendosi considerare assolutamente minoritario l’orientamento secondo il quale andrebbe attribuito rilievo alla sola notificazione dell’atto di impugnazione, potendo lo stesso essere depositato anche dopo il 15 settembre 2000, purché nel rispetto di quanto previsto dall’art. 21, comma 2, legge 6 dicembre 1971 n. 1034, ovvero entro trenta giorni dall’ultima notificazione (cfr., da ultimo ed in tal senso, Cons. Stato, Sez. V, 11 agosto 2010 n. 5634 secondo cui va valorizzato il fondamentale rilievo che nel processo amministrativo la notificazione ha solo l’effetto di evitare la decadenza dal termine che la legge prevede per l’impugnazione degli atti amministrativi, mentre il deposito dell’atto di impugnazione già notificato costituisce l’adempimento integrante per il giudice il poteredovere di rendere la pronuncia richiesta, per cui quest’ultima formalità va ritenuta capace di far considerare introdotta la lite, anche per evitare la produzione dell’effetto decadenziale previsto dall’art. 45, comma 17, del decreto legislativo n. 80 del 1998).

Avendo l’odierno ricorrente notificato (tempestivamente) il ricorso in questione in data 6 settembre 2000 ma depositato lo stesso (tardivamente) in data 16 settembre 2000, andrebbe dichiarato inammissibile per difetto (assoluto) di giurisdizione.

9. – Tuttavia, volendo ritenere possibile ammettere l’errore scusabile nella fattispecie (tenendo conto della giurisprudenza ormai consolidata ed incline ad affermare come, ai fini del riconoscimento dell’errore scusabile, che consente la rimessione in termini per la proposizione del ricorso giurisdizionale, è necessario che l’errore tragga origine da incertezze e difficoltà obiettive di interpretazione della legge, dalla novità della questione, ovvero dall’oscillazione della giurisprudenza, circostanze tutte che devono essere accertate prudentemente dall’interprete per verificare la diligenza del ricorrente nel prendere conoscenza degli atti da impugnare, escludendosi che tale istituto processuale possa essere utilizzato per eludere il termine di decadenza per la proposizione del ricorso (cfr. per tutte Cons. Stato, Sez. V, 3 ottobre 2003 n. 5758) e ritenendo che nella specie si possa considerare, all’epoca della proposizione del ricorso, ancora sussistente una difficoltà interpretativa della norma circa la data fatale per la proposizione dei ricorsi dinanzi al giudice amministrativo in materia di c.d. pubblico impiego), la domanda di riconoscimento delle mansioni superiori svolte non può trovare accoglimento in nessuna delle due prospettive segnalate.

Quanto all’inquadramento, infatti, è consolidato il principio secondo il quale in difetto di espresse previsioni normative che consentano l’utilizzo del dipendente in posizione diversa da quella formalmente rivestita ed attribuiscano a questa destinazione effetti modificativi del suo status di dipendente, vige il principio di irrilevanza delle mansioni superiori svolte in via di fatto, agli effetti sia dell’inquadramento che della retribuzione; ostano alla attribuzione di effetti giuridici alla destinazione in via di mero fatto diversi elementi (cfr., da ultimo, Cons. Stato, Sez. VI, 3 febbraio 2011 n. 758):

a) il carattere rigido delle dotazioni di organico delle amministrazioni e i relativi flussi di spesa;

b) l’assenza di un potere del preposto al vertice dell’ufficio di gestire in via autonoma la posizione di status dei dipendenti e il relativo trattamento economico;

c) la garanzia della parità di trattamento di tutti i soggetti che operano nella struttura organizzativa e che possano aspirare di accedere alle mansioni di qualifica superiore in condizioni di parità, trasparenza e non discriminazione

Ciò posto, riguardo alla posizione del ricorrente non emergono elementi utili a considerare che gli incarichi attribuiti e le funzioni affidate siano riconducibili a posizioni che normativamente (ivi compresa la fonte contrattuale) possano consolidare nel destinatario di quei compiti una posizione giuridica o, anche solo, economica differenziata rispetto a quella di inquadramento, dovendosi conseguentemente, sotto lo stretto profilo giuridico, considerare tali mansioni svolte in via di fatto nonostante che il dipendente sia stato destinatario di atti organizzativi di attribuzione, sicuramente rilevanti nell’ambito della distribuzione del lavoro e delle funzioni tra i dipendenti, ma ininfluenti giuridicamente sulle condizioni del rapporti di impiego intercorrenti tra il dipendente e l’Amministrazione di appartenenza.

10. – In ragione delle suesposte considerazioni il ricorso va in parte dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione ed in parte respinto. Per la parte dichiarata inammissibile non si può far luogo all’istituto della traslatio iudicii stante la definizione, in tutti i gradi, del giudizio dinanzi al giudice del lavoro ed avente ad oggetto le stesse domande proposte dal ricorrente nella presente sede (come i suoi difensori hanno testualmente affermato a pag. 2 del ricorso introduttivo).

Le spese seguono il principio della soccombenza, ai sensi dell’art. 91 c.p.c. come richiamato dall’art. 26, comma 1, c.p.a., liquidandosi nella misura complessiva di Euro 3.000,00 (euro tremila/00), come da dispositivo.

P.Q.M.

pronunciando in via definitiva sul ricorso indicato in epigrafe, in parte lo dichiara inammissibile ed in parte lo respinge.

Condanna il Signor Giuseppe Fiore a rifondere le spese di giudizio in favore del Ministero dell’economia e delle finanze, in persona del Ministro pro tempore, che liquida in complessivi Euro 3.000,00 (euro tremila/00), oltre accessori come per legge.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Corte Costituzionale sentenza n. 314 SENTENZA 10 – 17 dicembre 2013

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SENTENZA

nel giudizio di legittimita’ costituzionale dell’art. 35, comma
3, del decreto-legge 9 febbraio 2012, n. 5 (Disposizioni urgenti in
materia di semplificazione e di sviluppo), convertito, con
modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 4 aprile 2012, n.
35, promosso dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio, nel
procedimento vertente tra Esposito Andrea Pietro e il Ministero della
giustizia ed altro, con ordinanza del 22 marzo 2013, iscritta al n.
134 del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 24, prima serie speciale, dell’anno 2013.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nella camera di consiglio del 6 novembre 2013 il Giudice
relatore Paolo Grossi.

Ritenuto in fatto

1.- Nel corso di un giudizio amministrativo – proposto da un
magistrato ordinario, che ha impugnato la delibera del 7 febbraio
2013 (con cui il Consiglio superiore della magistratura ha pubblicato
le sedi vacanti ai fini della procedura di trasferimento),
chiedendone l’annullamento della lettera a), in cui e’ stabilito il
termine del decorso di un triennio di servizio nel posto ricoperto
quale requisito di legittimazione al trasferimento per tutti gli
aspiranti senza distinzioni – il Tribunale amministrativo regionale
del Lazio (sospeso l’atto impugnato, ma non esaurita la fase
cautelare), con ordinanza emessa il 22 marzo 2013, ha sollevato
questione di legittimita’ costituzionale dell’art. 35, comma 3, del
decreto-legge 9 febbraio 2012, n. 5 (Disposizioni urgenti in materia
di semplificazione e di sviluppo), convertito, con modificazioni,
dall’art. 1, comma 1, della legge 4 aprile 2012, n. 35, che dispone
che l’art. 194 del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 (Ordinamento
giudiziario), «si interpreta nel senso che il rispetto del termine
ivi previsto e’ richiesto per tutti i trasferimenti o conferimenti di
funzioni, anche superiori o comunque diverse da quelle ricoperte, dei
magistrati ordinari». Secondo il rimettente, il censurato art. 35 si
pone in contrasto con gli artt. 3, 102 e 111, primo comma, della
Costituzione, «nella parte in cui esso rende l’art. 194 del R.d. n.
12 del 1941 applicabile ai magistrati (tra cui il ricorrente)
trasferiti d’ufficio a sede disagiata, ai sensi della legge n. 133
del 1998, prima dell’entrata in vigore della norma impugnata».
Premette, in fatto, il Tar che il ricorrente ha prestato servizio
in una tale sede per un periodo superiore a due anni alla data di
deliberazione e pubblicazione del bando, e che ha percio’ maturato il
requisito della permanenza biennale nell’ufficio, in virtu’ di quanto
previsto (ove la legge non stabilisca diversamente), dal paragrafo V,
punto 20, della circolare del Consiglio superiore della magistratura,
terza commissione, 8 giugno 2009, n. 12046; e ritiene che il bando
impugnato (del 7 febbraio 2013), nello stabilire (alla lettera a) che
«il termine di legittimazione per tutti gli aspiranti e’ quello
triennale», escluda che il magistrato proveniente da sede disagiata
possa sottrarsi a tale previsione. E che quindi – nonostante che,
all’epoca della assegnazione a sede disagiata, al ricorrente si
potesse opporre, per tale profilo, esclusivamente il limite di
permanenza biennale discrezionalmente introdotto dal Consiglio per i
trasferimenti d’ufficio, con la menzionata circolare n. 12046 del
2009 – l’art. 194 dell’ordinamento giudiziario, come autenticamente
interpretato dalla norma censurata, impone oggi di affermare che il
requisito di permanenza triennale ivi indicato trovi applicazione
ogni qual volta il magistrato venga trasferito, e percio’ anche a chi
sia stato trasferito d’ufficio a seguito di consenso o
disponibilita’.
Il rimettente precisa che il dubbio di costituzionalita’ non
riguarda affatto la scelta "a regime" del legislatore di applicare
anche al magistrato in sede disagiata il limite indicato dal citato
art. 194, ma la investe per la sola parte in cui tale scelta pretende
di applicarsi anche a chi fosse stato assegnato d’ufficio a tale sede
prima dell’entrata in vigore della norma impugnata. Da cio’, la
rilevanza della questione giacche’, in applicazione della norma
censurata, la domanda giudiziale proposta dal ricorrente dovrebbe
essere rigettata, essendo egli soggetto all’art. 194 dell’ordinamento
giudiziario; al contrario, la domanda dovrebbe essere accolta,
qualora fosse dichiarata l’illegittimita’ costituzionale della norma
medesima in parte qua.
Quanto alla non manifesta infondatezza della questione – premesse
ampie ed articolate argomentazioni circa la natura, caratteri ed
effetti della normazione interpretativa, nonche’ circa la sua
coerenza con l’impianto costituzionale – il rimettente rileva che,
«quale che sia l’approccio piu’ convincente sul piano teorico, […]
in ogni caso la autoqualificazione in termini interpretativi della
legge non e’ priva di conseguenze normative», essendo «noto, infatti,
che un limite alla retroattivita’ della legge e’ stato enucleato
dalla giurisprudenza costituzionale con riferimento alla tutela
dell’affidamento che i consociati riponevano in un certo assetto
normativo, quando il legislatore pretenda invece di alterarlo anche
per il passato».
Il rimettente denuncia quindi la norma interpretativa,
innanzitutto, per violazione degli artt. 3, 102 e 111, primo comma,
Cost. dubitando, «in termini generali, che il legislatore possa
pretendere di dettare una norma per il passato, e nel contempo di
escludere che essa sia retroattiva in senso proprio, in forza della
natura interpretativa che le viene conferita (e cio’ a prescindere
dal fatto che l’intervento in oggetto sia davvero interpretativo, o
sia solo camuffato come tale)»; nonche’ dubitando che «la funzione
legislativa possa appropriarsi della funzione interpretativa, poiche’
essa e’ riservata dalla Costituzione al potere giudiziario (art. 102
Cost.), che la esercita in forma diffusa, recependo e conferendo
forma legale al dibattito aperto tra gli interpreti sul significato
da attribuire alle norme». Secondo il rimettente – mentre con la
legge retroattiva «il legislatore persegue gli obiettivi di certezza
del diritto e di uguaglianza innanzi alla legge, forte della propria
prerogativa di dettare norme per il passato, e con cio’ si assoggetta
ai limiti costituzionali imposti alle norme retroattive» – con la
legge interpretativa, invece, egli «cerca illegittimamente di
aggirare quei limiti, finendo non per rafforzare la certezza del
diritto, ma piuttosto per indebolirla», giacche’, «a processo in
corso, o comunque fino a che la fattispecie e’ potenzialmente
assoggettabile alla giurisdizione in caso di lite, i consociati sono
privati delle aspettative che ragionevolmente potevano riporre su di
un favorevole esito giudiziale, per venire invece assoggettati ad una
decisione prodotta secondo i ben diversi criteri di opportunita’
politica del legislatore, e dunque inevitabilmente imprevedibile, ma
ugualmente somministrata "in via interpretativa"», cosi’ assorbendo
la potestas iudicandi nella funzione legislativa.
Ove la Corte ritenesse che la Costituzione ammetta in termini
generali la figura della legge di interpretazione autentica, il
rimettente denuncia la medesima normativa anche per violazione
dell’art. 3 Cost., in quanto la norma censurata ha attribuito
all’art. 194 dell’ordinamento giudiziario una portata che esso non
poteva avere quando la disposizione impugnata e’ entrata in vigore,
non trovando essa applicazione nei confronti dei magistrati gia’
trasferiti d’ufficio a sede disagiata. Ricostruita l’evoluzione
normativa che ha fatto si’ che la norma interpretata fosse resa
compatibile con i soli trasferimenti a domanda, ovvero presso una
sede «chiesta» dal magistrato, il rimettente rileva che – quand’anche
si ritenesse che il legislatore fosse partito invece dall’intento di
uniformare la disciplina del trasferimento a domanda e del
trasferimento d’ufficio sotto la comune previsione dell’art. 194 – in
ogni caso andrebbe rilevato che tale operazione non si e’ sviluppata
adeguatamente sul piano normativo. A suo avviso, infatti, la sola
conclusione oggettivamente traibile da tale quadro normativo, e su
cui il magistrato poteva riporre affidamento quando aveva accettato
il trasferimento d’ufficio verso la sede disagiata, e’ che, venuta
meno un’espressa previsione di legge, trovasse applicazione solo la
disciplina suppletiva promanante dal CSM in tema di legittimazione a
seguito di trasferimento d’ufficio (il rimettente richiama la
precedente circolare sui tramutamenti del 30 novembre 1993, n. 15098,
il cui paragrafo V, punto 22, gia’ stabiliva quanto oggi e’ ribadito
dal vigente paragrafo V, punto 20, della indicata circolare n. 12046
del 2009, nonche’ la prassi seguita dal Consiglio nei precedenti
bandi di concorso.
Infine, in terzo luogo, il rimettente denuncia la violazione
dell’art. 3 Cost., poiche’ se, in linea di principio, negare che il
legislatore possa interpretare la legge non equivale a privarlo della
diversa prerogativa di disciplinare i rapporti giuridici con norme
retroattive – non potendosi escludere che si manifestino ragioni
imperative d’interesse generale in tal senso, il cui apprezzamento e’
affidato alla discrezionalita’ legislativa -tuttavia, vi sono
interessi di rilievo costituzionale che non possono venire
pretermessi, tra cui, in particolare, la tutela dell’affidamento
«quale principio connaturato allo Stato di diritto». E, secondo il
Tar, il periodo minimo di permanenza nella sede, assicurato
dall’ordinamento giuridico al tempo in cui essa viene accettata,
«costituisce una componente essenziale e costitutiva della
fattispecie legale alla quale si chiede adesione da parte del
pubblico dipendente», non essendo «negabile che l’estensione
dell’arco temporale di servizio presso quest’ultima sia fattore
determinante per la scelta, non meno degli incentivi economici e di
carriera».
2.- E’ intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato,
eccependo preliminarmente l’inammissibilita’ per irrilevanza della
sollevata questione: da un lato, in ragione del fatto che il
magistrato ricorrente nel giudizio a quo non ha maturato il termine
biennale di permanenza nella sede disagiata al momento della entrata
in vigore della normativa censurata; e, dall’altro lato, in quanto
l’interpretazione fornita dalla norma censurata e’ considerata, da
una parte della giurisprudenza amministrativa, l’unica corretta gia’
sotto il vigore dell’art. 194 dell’ordinamento giudiziario, tanto che
la richiesta "eliminazione" della norma interpretativa sarebbe
tamquam non esset.
Nel merito, l’Avvocatura deduce la manifesta infondatezza della
questione con riferimento a tutti i parametri evocati, affermando in
primo luogo che la norma censurata e’ sopravvenuta in un contesto in
cui la prassi del CSM era gia’ nel senso di affermare che il termine
triennale di permanenza nel posto (sancito dall’art. 194) costituisse
requisito generale per la mobilita’ di sede, ritenendolo applicabile
ad ogni genere di trasferimento, quale ne fosse l’origine e la causa,
senza distinguere tra trasferimenti volontari ed officiosi, cosi’
assegnando alla disposizione interpretata un significato
riconoscibile come una delle sue possibili letture. Ne’, in senso
contrario, vale il riferimento alla previsione vigente di cui al
paragrafo V, punto 20, della richiamata circolare n. 12046 del 2009,
non potendosi non considerare che, venuta meno la copertura di
legislazione primaria, la disposizione della circolare non potrebbe
da sola (stante la riserva di legge di cui all’art. 108 Cost.)
rappresentare la disciplina esclusiva dei limiti alla mobilita’ dei
magistrati.
Infine, con riferimento alla retroattivita’ della norma ed alla
connessa denunciata lesione dell’affidamento, la difesa dello Stato
esclude che la norma di interpretazione autentica, in quanto
retroattiva, non sia compatibile con l’assetto costituzionale, non
interferendo necessariamente con la sfera del potere giudiziario; ed
osserva che, nella specie, sono agevolmente rinvenibili motivi
imperativi di interesse generale (connessi alla gestione della
mobilita’ generale della magistratura, coerente con l’obiettivo di
una congrua stabilita’ funzionale minima dell’organizzazione degli
uffici giudiziari) ovvero principi di preminente interesse
costituzionale (posto che la continuita’ nell’esercizio della
funzione giudiziaria garantita dal generalizzato termine triennale
risponde alle esigenze di buona organizzazione della macchina
giudiziaria, ai sensi degli artt. 97 e 107 Cost.) sottesi al
censurato intervento normativo e giustificativi dello stesso.

Considerato in diritto

1.- Il Tribunale amministrativo regionale del Lazio censura
l’art. 35, comma 3, del decreto-legge 9 febbraio 2012, n. 5
(Disposizioni urgenti in materia di semplificazione e di sviluppo),
convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 4
aprile 2012, n. 35. La disposizione prevede che l’art. 194 del regio
decreto 30 gennaio 1941, n. 12 (Ordinamento giudiziario) – secondo
cui «Il magistrato destinato, per trasferimento o per conferimento di
funzioni, ad una sede da lui chiesta, non puo’ essere trasferito ad
altre sedi o assegnato ad altre funzioni prima di tre anni dal giorno
in cui ha assunto effettivo possesso dell’ufficio, salvo che
ricorrano gravi motivi di salute ovvero gravi ragioni di servizio o
di famiglia» – «si interpreta nel senso che il rispetto del termine
ivi previsto e’ richiesto per tutti i trasferimenti o conferimenti di
funzioni, anche superiori o comunque diverse da quelle ricoperte, dei
magistrati ordinari».
A giudizio del rimettente, la denunciata disposizione di
interpretazione autentica – nella parte in cui rende il termine
triennale previsto dall’art. 194 dell’ordinamento giudiziario
applicabile (in luogo dei due anni previsti, in difetto di altra
statuizione di legge, dal paragrafo V, punto 20, della circolare del
Consiglio superiore della magistratura, terza commissione, 8 giugno
2009, n. 12046) anche ai magistrati (tra cui il ricorrente)
trasferiti d’ufficio a sede disagiata prima dell’entrata in vigore
della norma impugnata (ai sensi della legge 4 maggio 1998, n. 133,
recante «Incentivi ai magistrati trasferiti d’ufficio a sedi
disagiate e introduzione delle tabelle infradistrettuali») – si pone
in contrasto: a) con gli artt. 3, 102 e 111, primo comma, della
Costituzione, essendo dubbio, «in termini generali, che il
legislatore possa pretendere di dettare una norma per il passato, e
nel contempo di escludere che essa sia retroattiva in senso proprio,
in forza della natura interpretativa che le viene conferita (e cio’ a
prescindere dal fatto che l’intervento in oggetto sia davvero
interpretativo, o sia solo camuffato come tale)»; nonche’ che «la
funzione legislativa possa appropriarsi della funzione
interpretativa, poiche’ essa e’ riservata dalla Costituzione al
potere giudiziario (art. 102 Cost.), che la esercita in forma
diffusa, recependo e conferendo forma legale al dibattito aperto tra
gli interpreti sul significato da attribuire alle norme»; b) con
l’art. 3 Cost., in quanto la norma censurata ha attribuito all’art.
194 dell’ordinamento giudiziario una portata che esso non poteva
avere quando la disposizione impugnata e’ entrata in vigore, non
trovando essa applicazione nei confronti dei magistrati gia’
trasferiti d’ufficio a sede disagiata; c) con l’art. 3 Cost., poiche’
se, in linea di principio, negare che il legislatore possa
interpretare la legge che ha prodotto non equivale a privarlo della
diversa prerogativa di disciplinare i rapporti giuridici con norme
retroattive – non potendosi escludere che si manifestino ragioni
imperative d’interesse generale in tal senso, il cui apprezzamento e’
affidato alla discrezionalita’ legislativa -, tuttavia, vi sono
interessi di rilievo costituzionale che non possono venire
pretermessi, tra cui, in particolare, la tutela dell’affidamento
«quale principio connaturato allo Stato di diritto».
2.- Preliminarmente, vanno esaminate le eccezioni di
inammissibilita’, per irrilevanza, delle sollevate questioni, mosse
dalla difesa dello Stato sul duplice assunto: a) della mancata
maturazione da parte del ricorrente nel giudizio a quo del termine
biennale di permanenza nella sede disagiata al momento della entrata
in vigore della normativa censurata; b) della inutilita’ della
richiesta "eliminazione" della norma censurata, la quale fornirebbe
una interpretazione dell’art. 194 dell’ordinamento giudiziario gia’
in precedenza considerata, da una parte della giurisprudenza
amministrativa, come l’unica corretta.
Entrambe le eccezioni sono prive di fondamento.
Da un lato, infatti, il rimettente – chiamato ad annullare la
lettera a) della delibera del 7 febbraio 2013 (con cui il CSM ha
indicato le sedi vacanti, ai fini della procedura di trasferimento),
nella parte in cui impone, quale requisito di legittimazione al
trasferimento, la permanenza nel posto per un triennio, come previsto
dall’art. 194 del regio decreto n. 12 del 1941, a tutti gli
aspiranti, e quindi anche ai magistrati gia’ assegnati d’ufficio a
sede disagiata, ai sensi dell’art. 1 della legge n. 133 del 1998 –
rileva espressamente che il ricorrente (trasferito in detta sede con
delibera del 6 luglio 2010 e successiva presa di servizio in data 20
settembre 2010) ha prestato servizio a tale titolo per un periodo
superiore a due anni alla data di deliberazione e pubblicazione del
bando; e che egli ha, percio’, maturato il requisito della permanenza
biennale nell’ufficio, secondo quanto previsto (ove la legge non
stabilisca diversamente) dal paragrafo 5, punto 20, della richiamata
circolare n. 12046 del 2009 del Consiglio. E chiarisce altresi’ che,
viceversa, qualora egli fosse soggetto alla previsione dell’art. 194
dell’ordinamento giudiziario (cosi’ come interpretato), in difetto di
un effettivo esercizio della funzione presso la sede disagiata pari
ad almeno tre anni, gli verrebbe negata la legittimazione al
trasferimento.
Dall’altro lato, la dedotta inutilita’ di una pronuncia
caducatoria della disposizione censurata – in quanto attribuirebbe
alla disposizione autenticamente interpretata l’unico significato
corretto – costituisce profilo attinente al merito e non alla
ammissibilita’ delle sollevate questioni.
3.- Le quali sono, invece, inammissibili per i motivi che
seguono.
3.1.- Muovendo dal presupposto «che in ogni caso la
autoqualificazione in termini interpretativi della legge non e’ priva
di conseguenze normative», il rimettente formula la questione (da lui
ritenuta pregiudiziale rispetto alle altre) della compatibilita’ con
la Costituzione della efficacia retroattiva della censurata norma di
interpretazione. In particolare – nel contestare il contrario assunto
secondo cui la norma stessa (finalizzata a risolvere un dubbio
ermeneutico in ordine alla applicabilita’ dell’art. 194
dell’ordinamento giudiziario per il conferimento a domanda delle
funzioni direttive) non ne abbia mutato la portata di regola
destinata a disciplinare i soli trasferimenti a domanda e non anche
quelli disposti d’ufficio – il Tar osserva che la lettera della
disposizione impugnata e’ univoca nell’estendere il requisito della
permanenza triennale a «tutti i trasferimenti», per funzioni «anche»
superiori o comunque diverse da quelle ricoperte; giacche’ (a suo
dire), se il legislatore avesse voluto occuparsi delle sole
assegnazioni alle funzioni «superiori», non avrebbe avuto alcuna
necessita’ di regolare trasferimenti di altra natura, essendo
viceversa palese l’intenzione di accomunare sotto la medesima
previsione normativa ogni ipotesi di destinazione del magistrato, a
domanda o d’ufficio, per imporre in tutti i casi un periodo minimo di
permanenza pari a tre anni.
Nel contempo, peraltro, il rimettente da’ atto che, in effetti,
la posizione fatta valere dal ricorrente nel giudizio a quo trova,
allo stato, conforto in pronunce di altra sezione del medesimo Tar
(di cui cita la sentenza della sezione I, del 1° ottobre 2012, n.
8229) e del Consiglio di Stato (sezione IV, ordinanze 7 febbraio
2012, n. 528, e 22 gennaio 2013, n. 188), che negano l’applicabilita’
della norma censurata a casi simili, in ragione del fatto che «il
legislatore sarebbe intervenuto a risolvere un dubbio interpretativo
nato in giurisprudenza in ordine alla applicabilita’ dell’art. 194 ai
fini del conferimento, a domanda, delle funzioni direttive
propendendo per la soluzione positiva», per cui l’intervento
interpretativo non «potrebbe mutarne la natura di norma destinata a
disciplinare i soli trasferimenti a domanda, e giammai quelli
disposti d’ufficio».
3.2.- Questa Corte si e’ ripetutamente espressa nel senso che va
riconosciuto carattere interpretativo alle norme che hanno il fine
obiettivo di chiarire il senso di norme preesistenti ovvero di
escludere o di enucleare uno dei sensi fra quelli ritenuti
ragionevolmente riconducibili alla norma interpretata, allo scopo di
imporre a chi e’ tenuto ad applicare la disposizione considerata un
determinato significato normativo (sentenza n. 424 del 1993). Ed ha
chiarito che il legislatore puo’ adottare norme di interpretazione
autentica non soltanto in presenza di incertezze sull’applicazione di
una disposizione o di contrasti giurisprudenziali, ma anche quando la
scelta imposta dalla legge rientri tra le possibili varianti di senso
del testo originario, cosi’ rendendo vincolante un significato
ascrivibile ad una norma anteriore (ex plurimis: sentenze n. 15 del
2012, n. 271 del 2011, n. 209 del 2010).
Cio’ premesso, va rilevato che il testo originario dell’art. 194
dell’ordinamento giudiziario, secondo cui: «Il magistrato destinato,
per tramutamento o per promozione, ad una sede da lui chiesta od
accettata, non puo’ essere, di regola, trasferito in altre sedi prima
di due anni dal giorno in cui ha assunto effettivo possesso
dell’ufficio, salvo che ricorrano motivi di salute o ragioni di
servizio», e’ stato, dapprima, sostituito dall’art. 2 della legge 16
ottobre 1991, n. 321 (Interventi straordinari per la funzionalita’
degli uffici giudiziari e per il personale dell’Amministrazione della
giustizia), per il quale «Il magistrato destinato, per trasferimento
o per conferimento di funzioni, ad una sede da lui chiesta od
accettata, non puo’ essere trasferito ad altre sedi o assegnato ad
altre funzioni prima di quattro anni dal giorno in cui ha assunto
effettivo possesso dell’ufficio, salvo che ricorrano motivi di salute
ovvero gravi ragioni di servizio o di famiglia. […]», e, poi,
modificato dall’art. 2 della legge 8 novembre 1991, n. 356
(Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 9
settembre 1991, n. 292, recante disposizioni in materia di custodia
cautelare, di avocazione dei procedimenti penali per reati di
criminalita’ organizzata e di trasferimenti di ufficio di magistrati
per la copertura di uffici giudiziari non richiesti) con la
soppressione delle parole «od accettata». Il testo vigente del citato
art. 194 (introdotto dall’art. 4, comma 2, della legge n. 133 del
1998) prevede che «Il magistrato destinato, per trasferimento o per
conferimento di funzioni, ad una sede da lui chiesta, non puo’ essere
trasferito ad altre sedi o assegnato ad altre funzioni prima di tre
anni dal giorno in cui ha assunto effettivo possesso dell’ufficio,
salvo che ricorrano gravi motivi di salute ovvero gravi ragioni di
servizio o di famiglia».
A fronte di tale evoluzione normativa, il rimettente stesso
osserva che, fin dall’approvazione della legge n. 356 del 1991,
l’art. 194 dell’ordinamento giudiziario ha limitato la propria
portata applicativa ai soli trasferimenti a domanda. E sottolinea che
siffatto ambito di efficacia (conseguente alla limitazione della
sfera di operativita’ della norma, rimasta applicabile ai soli
trasferimenti verso una sede non soltanto «accettata», ma «chiesta»
dal magistrato) non e’ mutato neanche a seguito dell’abrogazione
dell’art. 4-bis della citata legge n. 321 del 1991 (in virtu’ del
quale «I magistrati trasferiti d’ufficio a norma della presente legge
[…] non possono essere trasferiti a domanda prima di tre anni dal
giorno in cui hanno assunto effettivo possesso dell’ufficio, salvo
che ricorrano specifici e gravi motivi di salute») ad opera del comma
2 dell’art. 1 del decreto-legge 16 settembre 2008, n. 143 (Interventi
urgenti in materia di funzionalita’ del sistema giudiziario),
convertito, con modificazioni, dalla legge 13 novembre 2008, n. 181.
Cio’ in quanto a detta abrogazione non si e’ accompagnata una
parallela riscrittura dell’art. 194, capace di renderlo compatibile
anche con la fattispecie del trasferimento d’ufficio, intendendosi
come tale «ogni tramutamento della sede di servizio per il quale non
sia stata proposta domanda dal magistrato, ancorche’ egli abbia
manifestato il consenso o la disponibilita’, e che determini lo
spostamento in una delle sedi disagiate […]» (art. 1 della legge n.
133 del 1998, quale sostituito dall’art. 1, lettera b, del d.l. n.
143 del 2008).
3.3. – In questo contesto di norme, va rilevato che, da parte del
rimettente, non risulta esperito il doveroso tentativo di
sperimentare la possibilita’ di dare alla norma censurata un
significato costituzionalmente conforme, tale da renderla compatibile
con gli evocati parametri costituzionali (ordinanza n. 102 del 2012).
Al riguardo occorre, in primo luogo, ribadire che le leggi
interpretative «vanno definite tali in relazione al loro contenuto
normativo, nel senso che la loro natura va desunta da un rapporto fra
norme – e non fra disposizioni – tale che il sopravvenire della norma
interpretante non fa venir meno la norma interpretata, ma l’una e
l’altra si saldano fra loro dando luogo a un precetto normativo
unitario» (sentenza n. 424 del 1993). In particolare, la norma
interpretativa, isolando uno dei possibili significati gia’ presenti
nella disposizione interpretata ed escludendone gli altri (che
avrebbero snaturato la sua essenza), non ne modifica il testo.
In secondo luogo, di conseguenza, va posto in rilievo che non
risulta esplicitata ne’ congruamente motivata (in relazione
all’indicato dato letterale della norma che si autoqualifica
interpretativa) l’idoneita’ della stessa ad espungere la locuzione
«ad una sede da lui chiesta», contenuta nella disposizione
interpretata. Motivazione tanto piu’ necessaria in quanto, in difetto
di un diritto vivente in senso contrario (e non essendo decisivo il
richiamo ad una diversa ratio legis che non sia ancorata ad idonei
termini formali), solo l’esplicita elisione del richiamo ai
trasferimenti a domanda potrebbe connotare diversamente la portata
della suddetta disposizione interpretata, in modo da cambiarne
radicalmente l’ambito di operativita’ – estendendone l’applicazione a
sedi a loro tempo assegnate d’ufficio – ed attribuirle un significato
non desumibile (per stessa affermazione del rimettente) dal suo
tenore letterale.
3.4.- Pertanto, la mancata esplorazione di diverse soluzioni
ermeneutiche, al fine di far fronte al dubbio di costituzionalita’
ipotizzato (che ridonda anche in termini di insufficiente motivazione
in ordine alla rilevanza della questione: ordinanze n. 198 del 2013 e
n. 240 del 2012) rende inammissibili, sotto tutti i profili, le
sollevate questioni.

per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibili le questioni di legittimita’
costituzionale dell’art. 35, comma 3, del decreto-legge 9 febbraio
2012, n. 5 (Disposizioni urgenti in materia di semplificazione e di
sviluppo), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della
legge 4 aprile 2012, n. 35, sollevate – in riferimento agli artt. 3,
102 e 111, primo comma, della Costituzione – dal Tribunale
amministrativo regionale del Lazio, con l’ordinanza indicata in
epigrafe.

Cosi’ deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 10 dicembre 2013.

F.to:
Gaetano SILVESTRI, Presidente
Paolo GROSSI, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 17 dicembre 2013.

Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella MELATTI

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 20-12-2011, n. 27783 Improcedibilità

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con citazione regolarmente notificata B.A.M. conveniva in giudizio la sorella M. proponendo appello alla sentenza non definitiva 13458/1999 ed a quella definitiva 32948/2001 del Tribunale di Roma nell’ambito del giudizio di scioglimento della comunione ereditaria dei beni relitti da B.V. e S.G., ma la Corte di appello di Roma, con sentenza 4694/05, dichiarava improcedibili gli appelli e compensava le spese, rilevando che il giudizio, iniziato con citazione 25.11.1989, era assoggettato anche in grado di appello alla disciplina dell’art. 348 c.p.c., nella formulazione anteriore alla novella di cui alla L. 26 novembre 1990, n. 353 e l’appellante non aveva mai depositato copia della sentenza non definitiva nè questa era rinvenibile in atti. Era insufficiente il deposito della sentenza definitiva e nessun elemento utile era ricavabile dalla lettura di una ordinanza collegiale.

Ricorre B.A.M. con due motivi, resiste B. M..

Motivi della decisione

Col primo motivo si lamenta violazione degli artt. 174, 276, 158 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, per la nullità della sentenza, posto che la precisazione delle conclusioni è avvenuta il 4.12.2003 davanti alla Dott.ssa R., mentre dalla sentenza risulta relatore il Dott. P..

La censura è infondata perchè la sentenza indica che all’udienza del 24.6.2005 la causa è stata discussa sulle conclusioni rassegnate come da verbale in atti, e la nullità può ravvisarsi solo nella ipotesi in cui la decisione sia stata assunta da un collegio diverso da quello davanti al quale è avvenuta la discussione.

Donde l’irrilevanza della censura come proposta.

Col secondo motivo si lamenta violazione dell’art. 348 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, perchè l’appello illustrava il contenuto della sentenza parziale e la ricorrente ha preciso ricordo che la sentenza non definitiva venne depositata in appello.

La censura non merita accoglimento sia perchè si riporta solo sommariamente il contenuto dell’atto di appello, in violazione del principio di autosufficienza, non mettendo questa Corte Suprema in grado di valutare resistenza degli elementi per definire il giudizio sia perchè non si svolge alcun argomento per superare l’affermazione della Corte circa la mancanza di detti elementi per decidere.

La deduzione che uno dei tanti relatori propose una nuova estrazione a sorte con lotti mutati non dimostra la possibilità di definire la lite nel merito, in mancanza di altre indicazioni rispetto a ben dieci punti oggetto del gravarne come riportalo in sentenza.

11 mero asserito ricordo del deposito della sentenza è irrilevante in quanto l’avvenuta produzione va provata unicamente mediante l’indice del fascicolo sottoscritto dal cancelliere ai sensi dell’art. 74 disp. att. c.p.c., non essendovi secondo il codice di rito altre attestazioni in grado di far fede (Cass. 15.6.1999 n. 5924. Cass. 7.8.1989 n. 3620), e la statuizione del giudice di appello che, sull’errato presupposto della mancanza della copia della sentenza impugnata, dichiari l’improcedibilità del gravame, derivando da una svista materiale – cioè dalla mancata percezione dell’esistenza negli atti del documento- va impugnata per revocazione ai sensi dell’art. 395 c.p.c., n. 4 (Cass. 13.4.1985 n. 2473). Donde il rigetto del ricorso e la condanna alle spese.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese, liquidale in Euro 2.600,00 di cui Euro 2.400,00 per onorari, oltre accessori.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Lazio Roma Sez. II, Sent., 19-09-2011, n. 7421 Sanzioni disciplinari

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Nell’ambito del procedimento penale iscritto al n.558/98 del R.G.N.R., instaurato presso la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Ravenna (successivamente confluito nel procedimento n.1056/98 del R.N.R. instaurato dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Venezia), emergevano fatti riconducibili alla persona del ricorrente.

In particolare veniva accertato che nelle date del 26 febbraio e del 4 marzo 1997 il ricorrente – che all’epoca era Comandante del Nucleo Provinciale di Polizia Tributaria di Padova, con il grado di capitano – aveva intrattenuto conversazioni telefoniche con un conoscente (successivamente risultate intercettate), nel corso delle quali gli aveva fornito informazioni riguardanti indagini di polizia giudiziaria a suo carico (indagini che stava svolgendo un altro reparto del Corpo).

Da tale condotta non scaturiva alcuna iniziativa da parte dell’Autorità giudiziaria.

Tuttavia alla conclusione della fase delle indagini preliminari, con nota n.20069/P del 22.2.2001 il Comando Regionale della Toscana trasmetteva gli atti al Comandante del Nucleo Regionale di Polizia Tributaria della Toscana dal quale il ricorrente dipendeva, perché valutasse se nella sua condotta fossero ravvisabili illeciti di natura disciplinare.

Con note n.4826 del 5.3.2001 e n.6386 del 20.3.2001, il predetto Comandante chiedeva dettagliati chiarimenti all’interessato, che forniva le sue giustificazioni con le note n.4775 dell’8.3.2001 e n.4987 del 22.3.2001.

Con nota n.6912 del 28.3.2001 il Comandante contestava formalmente al ricorrente:

di non aver rispettato l’obbligo del riserbo su questioni relative al servizio, avendo fornito dati e notizie riguardanti operazioni in corso da parte di altro Comando;

e di aver ottemperato inadeguatamente alla richiesta di chiarimenti sulla vicenda, avendo fornito risposte imprecise in ordine alla reale portata della sua condotta.

Infine, dopo aver vagliato le ulteriori giustificazioni addotte dal ricorrente con la nota n.5141/G.O.A. del 30.3.2001, l’Autorità disciplinare gli infliggeva la sanzione disciplinare del "rimprovero".

Avverso tale provvedimento disciplinare, con nota n.5346 del 15.5.2001 l’interessato proponeva ricorso gerarchico al Comandante Regionale della Toscana.

Ma con la determinazione n.76534 del 19.7.2001 quest’ultimo lo ha rigettato, non avendo rilevato nel provvedimento alcun vizio.

Con il ricorso in esame il ricorrente ha impugnato innanzi a questo TAR la predetta determinazione e gli atti ad essa presupposti e connessi, e ne chiede l’annullamento, con vittoria di spese, per le conseguenti statuizioni reintegratorie e di condanna.

Ritualmente costituitasi, l’Amministrazione ha eccepito l’infondatezza del gravame, chiedendone il rigetto con vittoria di spese.

Con successivi atti difensivi le parti hanno insistito nelle rispettive richieste ed eccezioni.

Infine, all’udienza dell’11.5.2011, udite le conclusioni dei Difensori presenti in udienza (indicati nell’apposito verbale), la causa è stata posta in decisione.

Motivi della decisione

1. Il ricorso è infondato.

Con unico articolato motivo di gravame il ricorrente lamenta violazione dell’art.3 della L. 7.8.1990 n.241, nonché degli artt.19, lett. b e 25 del Regolamento di disciplina militare approvato con DPR 18.7.1986 n.545 e della Circolare n.1/2000 del Comando Generale della Guardia di Finanza, ed eccesso di potere per difetto di istruttoria, travisamento dei fatti e disparità di trattamento, deducendo:

che illegittimamente l’Amministrazione non ha tenuto conto della circostanza che le competenti Procure della Repubblica hanno escluso che la sua condotta potesse integrare fattispecie di reato (nella specie: di quelle previsto e punito dall’art.326 del codice penale) ed hanno disposto l’archiviazione del procedimento;

che il procedimento disciplinare è stato avviato parimenti illegittimamente in quanto l’Amministrazione ha omesso di effettuare la formale contestazione degli addebiti e di acquisire le formali giustificazioni;

che erroneamente, ed a seguito di una istruttoria approssimativa e lacunosa, l’Amministrazione ha ritenuto che egli abbia diffuso notizie riservate ed informazioni concernenti indagini in corso;

che nei confronti di due colleghi (nominativamente indicati) ai quali erano stati contestati addebiti più gravi, non è stato adottato alcun provvedimento disciplinare.

Nessuno dei quattro profili di doglianza merita accoglimento.

1.1. La tesi secondo cui l’Amministrazione avrebbe dovuto tener conto dell’intervenuta archiviazione del procedimento penale – e, conseguentemente, non avviare il procedimento disciplinare o avviarlo e concluderlo con una "assoluzione" conforme e simmetrica a quella già intervenuta – non può essere condivisa.

Secondo un principio costituente ormai jus receptum nel nostro Ordinamento, vi sono condotte che pur non integrando fatti di reato possono essere considerate censurabili sotto il profilo disciplinare e costituire illeciti disciplinari.

Per questa ragione l’Amministrazione può valutare la condotta del dipendente ai fini dell’eventuale avvio del procedimento disciplinare (e dunque avviarlo ai fini della eventuale comminazione di sanzioni disciplinari), anche nel caso in cui l’azione penale si sia conclusa con un proscioglimento (istruttorio) o con un’assoluzione, e finanche se il procedimento sia stato archiviato dal PM (per accertata o ritenuta inconsistenza della c.d. "notizia criminis") prima del vero e proprio avvio dell’azione penale.

Ciò è confermato (e non smentito) dall’art.653 del codice di procedura penale.

Tale norma stabilisce che "la sentenza penale irrevocabile di assoluzione ha efficacia nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o non costituisce illecito penale ovvero che l’imputato non lo ha commesso".

Il che significa che l’Ordinamento contempla la possibilità che una Pubblica Amministrazione avvii un procedimento disciplinare anche in caso di assoluzione; e conferma l’assunto secondo cui l’oggetto del predetto procedimento è differente da quello del procedimento penale (in quanto – lo si ribadisce – il primo è finalizzato all’accertamento della sussistenza di illeciti disciplinari mentre il secondo all’accertamento della sussistenza di illeciti penali).

Ciò che l’Amministrazione non può fare in sede di verifica della sussistenza di responsabilità disciplinari è smentire il contenuto di una sentenza irrevocabile del Giudice penale riguardante gli accertamenti di fatto esperiti nel corso del relativo giudizio o le valutazioni giuridiche (e cioè le cc.dd. "qualificazioni giuridiche" date ai fatti) in merito alla responsabilità penale dell’imputato.

La doglianza del ricorrente appare pertanto infondata per due ragioni.

Innanzitutto in quanto la tesi difensiva volta a valorizzare la presunta (o pretesa) illibatezza della sua condotta non è coperta da alcun formale giudicato, com’è agevolmente desumibile dal fatto che l’azione penale non è stata avviata (essendo stato chiuso il relativo procedimento con un decreto di archiviazione, atto che non ha la stessa valenza ed efficacia di una sentenza).

Ed in secondo luogo in quanto l’Amministrazione non ha comunque smentito:

né le qualificazioni giuridiche svolte dall’Autorità giudiziaria in sede penale, la quale ha valutato la condotta del ricorrente esclusivamente al fine di verificare la sussistenza di illeciti penali (e, nella specie, del reato previsto e punito dall’art.326 del codice penale);

né gli accertamenti di fatto effettuati dalla predetta Autorità, accertamenti che hanno acclarato che il ricorrente ha effettivamente divulgato alcune notizie riservate concernenti indagini in corso.

Ed è evidente, per quanto fin qui detto, che il fatto che tale condotta sia stata ritenuta penalmente irrilevante (e non integrante il reato di cui all’art.326 del codice penale, che vieta e punisce la rivelazione ed utilizzazione dei segreti di ufficio da parte del pubblico ufficiale) non esclude una diversa valutazione sotto il profilo disciplinare.

Ragioni, queste, per le quali l’azione dell’Amministrazione (la quale – lo si sottolinea ulteriormente – non ha contraddetto né smentito in alcun modo le risultanze del procedimento svolto dall’Autorità giudiziaria), ben resiste – sia dal punto di vista procedimentale che da quello sostanziale – alla dedotta censura.

1.2. Il secondo profilo di doglianza, con cui il ricorrente lamenta la mancata formale contestazione degli addebiti e la mancata acquisizione delle sue giustificazioni da parte dell’Ufficiale istruttore in sede di procedimento disciplinare, non può essere condivisa.

Con note n.4826 del 5.3.2001 e n.6386 del 20.3.2001, il Comandante del Nucleo Regionale di Polizia Tributaria della Toscana chiedeva dettagliati chiarimenti all’interessato che forniva le sue giustificazioni con le note n.4775 dell’8.3.2001 e n.4987 del 22.3.2001.

E successivamente, con nota n.6912 del 28.3.2001 il predetto Comandante contestava formalmente al ricorrente:

– di non aver rispettato l’obbligo del riserbo su questioni relative al servizio, avendo fornito dati e notizia riguardanti operazioni in corso da parte di altro Comando;

– e di aver ottemperato inadeguatamente alla richiesta di chiarimenti sulla vicenda, avendo fornito risposte imprecise in ordine alla reale portata della sua condotta.

Infine, dopo aver vagliato le ulteriori giustificazioni addotte dal ricorrente con la nota n.5141/G.O.A. del 30.3.2001, l’Autorità disciplinare gli infliggeva la sanzione disciplinare del "rimprovero".

La tesi secondo cui le note n.4826 del 5.3.2001 e n.6386 del 20.3.2001, nonché la nota n.6912 del 28.3.2001, sottoscritte dal Comandante del Nucleo Regionale di Polizia Tributaria non avrebbero costituito idonei mezzi di contestazione degli addebiti appare, pertanto, pretestuosa ed infondata, posto che il ricorrente ha fornito le proprie giustificazioni, dimostrando di aver ricevuto le note in questione e di aver ben compreso di cosa trattassero.

1.3. Del pari infondato si appalesa il terzo profilo di doglianza, con cui il ricorrente lamenta che l’Amministrazione avrebbe effettuato una istruttoria sommaria e lacunosa, a seguito della quale avrebbe erroneamente valutato la sua condotta.

Ed invero dagli atti relativi al procedimento emerge che l’istruttoria condotta nel corso del procedimento disciplinare è stata utile (quale mezzo al fine) ed efficace, avendo acclarato che il ricorrente ha effettivamente intrattenuto rapporti telefonici con il soggetto sottoposto alle indagini, assicurandogli che si sarebbe informato in ordine agli sviluppi delle stesse per poi riferirgli più dettagliatamente e rassicurandolo con toni amichevoli sullo stato attuale della vicenda.

Così agendo il ricorrente ha violato l’art.19 del Regolamento di disciplina, che vieta all’Ufficiale di divulgare informazioni acquisite per ragioni d’ufficio o in occasione dell’espletamento di funzioni o di attività connesse con obblighi d’ufficio, "anche se insignificanti".

Il che, evidentemente, è sufficiente per concludere che la sua condotta ben poteva (e può) essere considerata irregolare (id est: disciplinarmente scorretta) dalle competenti Autorità in sede di procedimento disciplinare, posto che appare (ictu oculi) contrario al precetto testè indicato (di cui al citato art.19 del Regolamento) siccome inopportuno e pregiudizievole per l’immagine del Corpo, oltreché tendenzialmente pregiudizievole per le indagini in corso, e certamente contrario al principio di imparzialità dell’azione amministrativa, il comportamento dell’Ufficiale che si intrometta occultamente nell’attività investigativa diretta dai colleghi al fine di acquisire (rectius: carpire) informazioni riservate allo scopo da estenderle al soggetto indagato per rendergli un favore, pur se ciò avvenga per ragioni squisitamente amicali (e cioè a titolo di pura cortesia e senza l’effetto né l’intento di alterare il normale corso delle investigazioni).

Ed essendo altresì evidente che nel caso in cui un Ufficiale ed un soggetto sottoposto ad indagini siano legati da rapporti di amicizia, il primo – pur potendo mantenere il suo rapporto amicale – ha il dovere di astenersi da qualsiasi atto che possa intralciare l’attività investigativa e/o agevolare indebitamente la persona conosciuta.

1.4. Anche l’ultimo profilo di doglianza – con cui il ricorrente lamenta eccesso di potere per disparità di trattamento – non può essere condiviso.

La giurisprudenza afferma costantemente che il vizio di disparità di trattamento è rilevabile solamente in presenza di situazioni soggettivamente ed obiettivamente identiche (CS, 12.12.1975 n.790).

E poiché le vicende giudiziarie dei colleghi del ricorrente hanno in comune con le sue esclusivamente il procedimento penale (trattandosi di vicende e di imputazioni collegate sotto il vincolo del concorso), mentre le singole posizioni processuali (e le accuse ed imputazioni) sono differenti, è agevole osservare che la lamentata disparità di trattamento non sussiste.

2. In considerazione delle superiori osservazioni, il ricorso va respinto.

Si ravvisano giuste ragioni per condannare il ricorrente al pagamento, in favore dell’Amministrazione, delle spese processuali che si liquidano in complessivi Euro.1000,00, oltre IVA e CPA.

P.Q.M.

definitivamente pronunciando, respinge il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali in favore dell’Amministrazione, nella misura indicata in motivazione.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.