T.A.R. Lazio Roma Sez. III quater, Sent., 07-11-2011, n. 8538 Pensioni, stipendi e salari

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1 – Con il ricorso indicato in epigrafe, l’istante, premesso di aver prestato servizio presso la ex USL FR/10 di Cassino dal 1° ottobre 1980 con qualifica di collaboratore amministrativo di 7° livello funzionale, chiedeva il riconoscimento delle mansioni superiori svolte.

Deduceva la ricorrente che con deliberazione n. 146 del 1990 del comitato di gestione dell’ex USL di Cassino le era riconosciuto lo svolgimento di fatto di mansioni ascrivibili alla qualifica di collaboratore amministrativo.

La ricorrente precisava che anche successivamente all’istituzione della Azienda Sanitaria Locale di Frosinone aveva continuato a svolgere le mansioni superiori consistenti nella formulazione degli atti deliberativi inerenti l’approvazione/variazione di bilanci di previsione, sottoscrivendo gli stessi. A conforto di ciò l’istante produceva, peraltro, per il periodo dal 1996 in poi i documenti distinti con i numeri 14 e 16 degli allegati al ricorso, concernenti l’organizzazione provvisoria dei servizi amministrativi del Polo ospedaliero D a firma del dirigente amministrativo e la lettera indirizzata al Rag. Petrilli in qualità di responsabile dell’Unità operativa contabilità e bilancio di Pontecorvo.

Con riferimento alla pretesa azionata, l’istante, pertanto, deduceva la violazione e/o l’errata applicazione dei principi generali in tema di svolgimento di mansioni superiori, la violazione dell’art. 36 della Costituzione e dell’art. 2126 c.c., nonché degli artt. 55, d.P.R. n. 384 del 1990 – CCNL comparto sanità, 29, d.P.R. n. 761 del 1979, 56, d.lgs. n. 29 del 1993 come successivamente modificato. Infine sollevava la questione di legittimità costituzionale con riferimento all’art. 15 del d.lgs. n. 387 del 1998 nella parte in cui limita la riconoscibilità dell’esercizio delle mansioni superiori al solo periodo successivo all’entrata in vigore del decreto legislativo.

L’ASL intimata non si costituiva in giudizio.

All’udienza di discussione la causa era trattenuta in decisione.

2 – In via preliminare, osserva il Collegio che la pretesa azionata attiene all’arco temporale che va dal 1980 al 30.6.1998. Orbene, in tale ambito deve distinguersi la parte della domanda che inerisce il periodo sino al 31.12.1994. Infatti, come evidenziato dalla costante giurisprudenza "A seguito della soppressione delle unità sanitarie locali e della loro sostituzione con le aziende di unità sanitaria locale – Ausl ai sensi del d.lg. 30 dicembre 1992 n. 502, queste ultime sono prive di legittimazione passiva in tutte le controversie aventi ad oggetto le pretese patrimoniali, anche del personale sanitario, nei riguardi delle soppresse Usl, in quanto l’art. 6 comma 1 l. 23 dicembre 1994 n. 724 ha escluso che le Regioni, di cui le neo istituite Ausl sono enti strumentali dotati di personalità giuridica pubblica, possano far gravare, direttamente o indirettamente su di esse debiti e crediti inerenti alle gestioni pregresse delle Usl, per le quali la legge ha previsto un’apposita gestione liquidatoria. Pertanto, è inammissibile il ricorso proposto per la corresponsione di differenze nel trattamento retributivo relativo al periodo antecedente al 1 gennaio 1995 notificato all’Azienda sanitaria locale in persona del legale rappresentante" (cfr. T.A.R. Calabria Catanzaro, Sez. II, 13 novembre 2003, n. 3198).

Ne consegue che per l’arco temporale indicato il ricorso deve essere dichiarato inammissibile (cfr. in terminis, da ultimo, anche TAR Lazio, sez. III quater, n. 4940 del 2011).

3 – Relativamente al periodo 1 gennaio 1995 – 31 giugno 1998, il gravame è infondato.

Come è stato di recente ribadito dalla Sezione (sent. n. 4940 citata), in conformità alla consolidata giurisprudenza, va ricordato che in assenza di specifiche disposizioni, nel settore del pubblico impiego, lo svolgimento di mansioni superiori a quelle proprie della qualifica rivestita non radica nel dipendente il diritto soggettivo all’attribuzione del livello economico corrispondente, atteso che l’accesso alle varie qualifiche e, comunque, la progressione in carriera formano oggetto di norme specifiche che, definendo gli organici e i requisiti di accesso, rendono inapplicabile la regola codificata per l’impiego privato dall’art. 13 L. 20 maggio 1970 n. 300; né risulta estensibile a tale rapporto di lavoro quanto previsto dalla disciplina privatistica invocata da parte ricorrente, proprio in ossequio all’obbligo di copertura finanziaria degli atti amministrativi (Corte cost. 10 aprile 2003 n. 115; Cons. Stato, A.P. 23 febbraio 2000, n. 11; Cons. Stato, VI Sez., 4 aprile 2000, n. 1929) e alla regola generale del concorso sia al momento dell’assunzione che nel successivo sviluppo della carriera (Corte cost. 20 luglio 1994, n. 313 e 27 dicembre 1991, n. 487).

Non può essere peraltro condiviso il richiamo all’art. 36 Cost. poiché, come chiarito dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 18 novembre 1999, n. 22, la pretesa alle differenze retributive in conseguenza dello svolgimento di mansioni superiori non può fondarsi su detta norma in presenza di una disciplina legislativa specifica che subordini il diritto al compenso alla ricorrenza di determinati presupposti.

Né sussiste la dedotta violazione del d.lgs. n. 387 del 1998.

Infatti va precisato in proposito che le rivendicate differenze retributive sono riconoscibili con carattere di generalità solo a decorrere dall’entrata in vigore del citato d.lgs. n. 387 del 1998, che con l’art. 15 ha reso effettivamente operativa la disciplina dell’art. 56, d.lgs. 3 febbraio 1993 n 29 (Cons. Stato, Ap., 23 febbraio 2000, n. 11).

Tuttavia, come ricordato dal Consiglio di Stato (Sez. V, 4 marzo 2011, n. 1406), la necessità dell’atto formale adottato dall’organo competente non è venuta meno neppure con l’entrata in vigore del ripetuto d.lgs. n. 387/1998, che, con l’art. 15, ha dato attuazione alla disciplina di cui all’art. 56, d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, con la conseguenza che l’effettivo esercizio per un periodo di tempo apprezzabile delle mansioni della qualifica superiore presuppone pur sempre l’avvenuto conferimento delle stesse attraverso un incarico formale di preposizione da parte dell’organo che, all’epoca dello svolgimento delle mansioni superiori, era da ritenersi competente a disporre la copertura del posto.

Nel caso in esame, per quanto riguarda il periodo dal 1995 in poi, non è rinvenibile in atti il predetto atto formale di conferimento. Ne consegue che la pretesa risulta infondata.

Conseguentemente, a prescindere da ogni altra valutazione, deve essere dichiarata irrilevante la questione di legittimità costituzionale proposta.

Nulla è dovuto per le spese.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza Quater)

definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe, lo dichiara in parte inammissibile, come precisato in motivazione, ed in parte lo respinge.

Nulla per le spese.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Lombardia Milano Sez. IV, Sent., 22-11-2011, n. 2834 Demolizione di costruzioni abusive

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con il presente ricorso l’istante impugna il provvedimento indicato in epigrafe, con il quale gli è stata ingiunta la demolizione di una recinzione assunta dal comune come realizzata abusivamente, oltre al ripristino dello stato dei luoghi.

A sostegno del ricorso l’istante deduce la violazione degli artt. 7 e 10 della legge n. 47/1985, dell’art. 31 della legge n. 457/1978, dell’art. 7 della legge n. 84/1982 e dell’art. 4, comma 7, della legge n. 493/1993, oltre che l’eccesso di potere per illogicità ed ingiustizia manifeste, errata valutazione dei presupposti di fatto e di diritto, carenza di istruttoria e di motivazione, assumendo, sostanzialmente, la natura di intervento di manutenzione straordinaria della precedente struttura esistente (cancellata) ed in ogni caso il potere del proprietario di recintare l’area di sua proprietà, come asserito da costante giurisprudenza. Fa presente, inoltre, che per la suddetta recinzione aveva in ogni caso presentato istanza di sanatoria, alla quale il comune non ha fornito alcuna risposta.

Si è costituito il comune intimato, che ha chiesto la reiezione del gravame per infondatezza nel merito.

Con ordinanza n. 4190/00 del 20 dicembre 2000 la sezione ha accolto l’istanza cautelare formulata dalla ricorrente.

Successivamente le parti hanno presentato memorie a sostegno delle rispettive conclusioni.

All’udienza pubblica dell’8 novembre 2011, il ricorso è stato trattenuto in decisione.

Il ricorso è fondato e merita accoglimento.

L’intervento realizzato dalla ricorrente sull’area di sua proprietà destinata all’esercizio di attività produttiva ha la consistenza di una recinzione, realizzata al posto di una cancellata prima preesistente, spostata in alta posizione.

Il comune ha ordinato la demolizione di tale manufatto, ritenendo la natura abusiva del medesimo in relazione alla sussistenza di un vincolo dell’area per destinazioni pubbliche ad uso degli insediamenti.

Successivamente la ricorrente, nonostante l’accoglimento dell’istanza cautelare dalla stessa avanzata, ha presentato istanza di sanatoria di tale manufatto, ma il comune non ha fornito alcun riscontro, come risulta dalla documentazione versata in atti.

Il vincolo di destinazione è, poi, decaduto, avendo l’area attualmente integrale destinazione industriale.

Il collegio non ritiene di discostarsi dall’opinione espressa in sede cautelare, nella quale è stato evidenziato come il manufatto oggetto della presente controversia rientra fra le opere di recinzione legittimamente realizzabili dal proprietario, in adesione all’orientamento espresso dalla costante giurisprudenza in materia.

La recinzione, infatti, è manufatto essenzialmente destinato a delimitare una determinata proprietà allo scopo di separarla dalle altre, a custodirla e difenderla da intrusioni, nozione che può essere tratta dalla giurisprudenza civile in materia di muro di cinta, come da art. 878 c.c.; mentre, sotto il versante più propriamente amministrativo, la recinzione da parte del proprietario non comporta di per sé una diversa utilizzazione urbanistica dell’area, essendo solo diretta a far valere quello ius excludendi alios costituente tipico contenuto del diritto di proprietà e legittimamente sacrificabile solo quando ricorrano le condizioni previsti dall’ordinamento in funzioni di superiori interessi pubblici, da adeguatamente motivarsi nel bilanciamento degli interessi pubblici e privati coinvolti; in definitiva, la tipologia di intervento in questione non implica ex se una trasformazione del territorio incompatibile con la previsione urbanistica della zona (cfr. TAR Campania, sez. II, 11 settembre 2009, n. 4935).

Tale recinzione era, infatti, volta a sostituire il cancello preesistente nonché ad impedire l’accesso indisturbato all’area industriale da parte di estranei, costituendo esercizio del cosiddetto "ius excludendi alios", in alcun modo precluso dalla concreta destinazione urbanistica dell’area.

Per le suesposte considerazioni, il ricorso va accolto, disponendosi l’annullamento del provvedimento impugnato.

Le spese di giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Quarta) definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, dispone l’annullamento del provvedimento impugnato.

Condanna il comune intimato alla rifusione delle spese di giudizio nei confronti di parte ricorrente, che si liquidano in euro 1500, compresi gli oneri di legge.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cons. Giust. Amm. Sic., Sent., 15-12-2011, n. 997 Aggiudicazione dei lavori

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Svolgimento del processo

Viene in discussione l’appello contro la sentenza in epigrafe con cui il TAR Catania, ritenuta la responsabilità dell’Azienda Ospedaliera odierna appellante, con valutazione equitativa ha condannato quest’ultima a risarcire il danno provocato alla società odierna appellata SPM (concorrente alla gara come capogruppo e componente in A.T.I. con CO.ED. Costruzioni Edili s.r.l.) per non aver potuto eseguire la parte di sua competenza dell’appalto (promosso per la realizzazione, chiavi in mano, di un’area attrezzata per il monitoraggio "Long Term dell’Epilessia") assegnatole in via definitiva soltanto con deliberazione n. 650 del 26.3.2004, a seguito di un contenzioso giudiziario che nelle more del suo svolgimento aveva visto lo stesso appalto integralmente eseguito da un’altra A.T.I. concorrente (nella specie: la società a r.l. Mortara Rangoni Europe – I.G.L. Consorzio Italiano Grandi Lavori) sulla base di una precedente delibera di aggiudicazione (la n. 1347 dell’8.11.2002), in seguito annullata con sentenza del TAR Catania n. 1940/2003.

Nell’udienza del 16.3.2011 l’appello è stato assunto in decisione da questo Consiglio.

Motivi della decisione

Avverso la decisione di condanna pronunciata dal Giudice di prime cure, nei termini in fatto ed in diritto sopra riferiti, la difesa dell’Azienda Ospedaliera appellante deduce: – Come primo motivo, l’inammissibilità del risarcimento accordato in proprio ad un soggetto, quale la società S.P.M., ricorrente in primo grado "esclusivamente quale capogruppo di una A.T.I. (con la società n. c. S.C.G. Siciliana costruzioni Generali di Pavone Filippo e c.)". Tale circostanza, infatti, una volta riconosciuta dallo stesso Giudice l’inesistenza della stessa A.T.I. come soggetto ricorrente, determinerebbe il vizio della impugnata sentenza sotto il duplice profilo del petitum e della causa petendi – dovendosi ritenere, a tale stregua, illegittimo il frazionamento delle posizioni per giustificare e quantificare l’attribuzione e la quantificazione del risarcimento alla sola società S.P.M.

– Come secondo motivo, l’assenza di colpa grave e, dunque, la mancanza di responsabilità dell’Azienda Ospedaliera – atteso che la (sottoscrizione e la successiva) esecuzione del contratto d’appalto compiuto dal concorrente società Mortara Rangoni sono avvenuti sulla base di un provvedimento di aggiudicazione efficace fino all’annullamento operato dalla sentenza del TAR Catania n. 1940/2003, senza che "medio tempore" fosse stata accordata dallo stesso Giudice la misura cautelare di sospensione del provvedimento di aggiudicazione, come richiesta dall’odierna appellata all’atto della presentazione del ricorso n. 205/2003, poi sfociato nella cit. sentenza n. 1940/2003. D’altra parte, si deduce ancora, la stessa Azienda Ospedaliera, a seguito della diffida di dare esecuzione a quest’ultima decisione, provvedeva tempestivamente a produrre la delibera n. 650 del 26.3.2004 con la quale procedeva ad aggiudicare definitivamente l’appalto all’odierna società appellata – a prova ulteriore, dunque, della mancanza "dell’elemento soggettivo (id est: della "colpa") richiesto per la configurabilità di un danno risarcibile" che il Giudice di prime cure ha viceversa addossato all’Azienda Ospedaliera appellante.

– Come terzo motivo, infine, si deduce l’erronea scelta dei criteri di individuazione e quantificazione del danno, riconosciuto in via equitativa alla società appellata in misura tale (10% complessivo, rispetto al valore della commessa di pertinenza) da risultare "ben più favorevole dell’impiego del capitale".

Questo Consiglio ritiene che l’appello deve essere respinto per le ragioni che qui di seguito sono indicate.

Circa l’illegittimità del frazionamento delle posizioni, operato dal Giudice di prime cure, per giustificare l’attribuzione e la quantificazione del risarcimento alla sola società S.P.M., occorre preliminarmente rilevare che la particolare soggettività giuridica attribuita nell’ambito della disciplina degli appalti pubblici alle c.d. A.T.I. (Associazioni Temporanee di Imprese) non sancisce di per sé una separazione di posizioni tra questo soggetto e le imprese che raggruppa temporaneamente, sia sotto il profilo della soggettività giuridica che a ciascuno di esse tipicamente compete, sia sotto il profilo dell’autonomia aziendale, per quanto attiene l’individuazione e l’imputazione di opere o di servizi che, nell’ambito del programma complessivo, ciascuna di esse si impegna ad eseguire. Nell’art. 10 del D.Lgs. n. 358/1992, opportunamente richiamato dall’impugnata sentenza, infatti, non solo si afferma che "l’offerta congiunta deve essere sottoscritta da tutte le imprese raggruppate e deve specificare le parti delle forniture che saranno eseguite dalle singole imprese … (comma 2°)", determinandosi così a seguito della sottoscrizione "la responsabilità solidale nei confronti dell’Amministrazione" per l’offerta medesima (comma 3°); ma si stabilisce anche che "il rapporto di mandato" – venutosi a costituire a seguito del necessario conferimento del potere di rappresentanza speciale, sostanziale e processuale, ad una delle imprese del raggruppamento dopo l’aggiudicazione e la sottoscrizione del relativo contratto "per tutte le operazioni e gli atti di qualsiasi natura dipendenti dal contratto" – da un lato non esclude che "l’Amministrazione può far valere direttamente la responsabilità a carico delle imprese mandanti (comma 6°); e, dall’altro, che "non determina di per sé organizzazione o associazione fra le imprese riunite, ognuna delle quali conserva la propria autonomia di gestione…" (comma 7°).

Dalla superiore disciplina ne consegue dunque che l’offerta congiunta né prima né dopo l’eventuale aggiudicazione comporta il superamento delle singole posizioni di interesse e di responsabilità delle imprese partecipanti – sicché anche il soggetto che, a seguito dell’aggiudicazione e della stipula del relativo contratto d’appalto, dovesse agire nei confronti dell’Amministrazione come mandatario del raggruppamento, contempla non un interesse comune e sovraordinato, bensì un interesse collettivo, definito dalla somma delle posizioni di interesse, individuate e individuabili, che fanno capo a ciascuna delle imprese del raggruppamento; e che se per un verso, come riportato, non impediscono all’Amministrazione committente di far valere la responsabilità individuale di ciascuna di esse per l’esecuzione della fornitura di sua competenza, allo stesso modo possono ben consentire al giudice, nel caso di una controversia che chiami in campo la responsabilità dell’Amministrazione per l’esecuzione dell’appalto, di procedere aduna valutazione differenziata della partecipazione fornita da ciascuna impresa alla realizzazione del progetto, che tenga conto del titolo e della specifica modalità della loro rappresentazione. Nella fattispecie de qua il Giudice di prime cure ha fatto buon uso di questi principi. Posto dinanzi ad una domanda di risarcimento presentata dalla società, odierna appellata, in nome delle imprese componenti l’ATI illegittimamente esclusa dall’Amministrazione dalla esecuzione della fornitura messa a bando, il TAR, dopo aver verificato che in capo alla ricorrente non sussisteva, in assenza di relativo mandato, un potere di rappresentare singolarmente tutte le imprese componenti, ha ritenuto tuttavia di poter valutare la domanda nei limiti della lesione arrecata alla sua sfera patrimoniale – atteso che la domanda risarcitoria, contemplando di per se un insieme differenziato di posizioni compiutamente definite, comunque esprimeva direttamente la pretesa risarcitoria relativa alla lesione subita dalla medesima impresa ricorrente per la mancata esecuzione della parte di fornitura di sua competenza.

Priva di censure risulta altresì il procedimento con il quale il Giudice di prime cure ha individuato in capo all’Amministrazione la responsabilità per la mancata esecuzione dell’appalto da parte delle imprese risultate inutiliter aggiudicatarie a seguito della delibera n. 650/26.3.2004, essendo stato a quella data la fornitura in oggetto già compiutamente eseguita dall’ATI concorrente, poi risultata soccombente nel giudizio per l’annullamento della aggiudicazione in suo favore, decisa dallo stesso TAR Catania con la citata sentenza n. 1940/2003. A propria discolpa, l’Azienda Ospedaliera odierna appellante invoca invero la necessità di dare seguito ad un provvedimento di aggiudicazione comunque efficace fino all’annullamento operato dal TAR Catania, e senza che "medio tempore" fosse stata accordata dallo stesso Giudice la misura di sospensione del provvedimento medesimo, come richiesta in via cautelare dall’odierna appellata all’atto della presentazione del ricorso n. 205/2003, poi sfociato nella citata sentenza n. 1940/2003. La censura, per quanto suggestivamente argomentata, non appare appropriata, in quanto omette di considerare che l’impugnativa di una aggiudicazione tempestivamente esperita, come accaduto nella fattispecie de qua, determina di per sé in capo all’Amministrazione il rischio di una responsabilità verso il ricorrente per illegittimo esercizio del potere amministrativo, secondo un consolidato indirizzo normativo che affonda le sue radici nella giurisprudenza comunitaria (v. Consiglio di Giustizia Europea, 14 ottobre 2004, in causa G 275/2003), e che a fortiori doveva essere contemplato quando l’Amministrazione ha avuto sentore che l’appalto potesse essere interamente eseguito sulla base di una aggiudicazione contestata, al quale avrebbe potuto far seguito esclusivamente, nel caso di accoglimento del ricorso, un nuovo provvedimento inutiliter datum, come qui accaduto con la delibera n. 650/26.3.2004 di nuova aggiudicazione all’ATI partecipata dall’odierna società appellata, ma priva di seguito perché sopravvenuta dopo l’integrale esecuzione dell’appalto aggiudicato da parte dell’ATI estromesso. La ragionevole contemplazione di tali rischi, dunque, poteva e doveva indurre la committente Amministrazione ad adottare comportamenti di salvaguardia, delle proprie ragioni e di quelle dell’ATI attuale aggiudicataria: che si è cercato di eludere, viceversa, attraverso la "tempestiva" adozione della citata nuova delibera di aggiudicazione n. 650/26.3.2004, la cui manifesta inutilità, piuttosto che giustificare l’errore per l’illegittimo esercizio del proprio potere amministrativo, come invocato dalla difesa dell’Azienda Ospedaliera, concorre ad aggravare la colpa per l’omessa adozione delle misure di salvaguardia che sia i principi che sorreggono l’esercizio dell’autotutela in funzione del buon andamento dell’attività amministrativa, sia, più in particolare, i principi e le norme che presiedono all’attuazione "corretta e in buona fede" dei rapporti contrattuali, potevano ben giustificare, onde evitare i pericoli di danno prefigurati dalla la sequenza processuale e procedimentale nella quale l’Amministrazione era stata coinvolta. Anche il terzo motivo di gravame, infine, non merita accoglimento – atteso che la contestazione, più che sull’iter argomentativo e sui criteri di individuazione dei danni da risarcire, seguiti dal Giudice di prime cure, riguarda piuttosto la misura equitativa del loro complessivo ammontare, che la difesa della parte appellante si limita a contestare semplicemente evocando una sua presunta superiorità rispetto "all’impiego del capitale" senza altra specificazione o prova a supporto. Ritiene altresì il Collegio che ogni altro motivo od eccezione di rito e di merito possa essere assorbito in quanto ininfluente ed irrilevante ai fini della presente decisione.

Le spese del presente giudizio, come di regola, seguono la soccombenza e sono fissate nella misura stabilita in dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione Siciliana in sede giurisdizionale, definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe, ritenuto assorbito ogni altro motivo di fatto e di diritto sollevato dalla parte appellante, respinge l’appello.

Spese a carico della soccombenza, Euro 3000, 00.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. I, Sent., 14-06-2012, n. 9771 Liquidazione coatta amministrativa

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1.- Con ricorso depositato il 22.4.2004 D.G.S. chiese al Tribunale di Palermo, ai sensi della L. Fall., art. 101, l’insinuazione del proprio credito di Euro 3.103,55 in privilegio, oltre interessi e rivalutazione, al passivo della liquidazione coatta amministrativa della s.p.a. Sicilcassa, sulla premessa di essere stato dipendente di quest’ultima, la quale non aveva provveduto, al mese di ottobre 1995 e a quello di ottobre 1996, a rideterminare le prestazioni del Fondo Integrativo Pensioni a lui spettanti in forza della previsione dell’art. 5, lett. B) del relativo regolamento in data 8.6.1992.

La l.c.a. si costituì ed eccepì l’inammissibilità della domanda per carenza di interesse, la prescrizione del credito ex art. 2648 c.c., l’insussistenza del medesimo e la natura privilegiata richiesta.

Con sentenza del 7.1.2008 il Tribunale rigettò la domanda in accoglimento dell’eccezione di prescrizione ma la Corte di appello di Palermo, con sentenza in data 4.11.2010, in accoglimento dell’appello proposto dal creditore insinuatosi tardivamente, ammise il credito in via privilegiata al passivo della l.c.a., previa qualificazione della domanda come diretta ad ottenere il risarcimento del danno, soggetto a prescrizione decennale.

Osservò la corte di merito che il D.G. non aveva chiesto l’insinuazione di un credito nascente da una determinazione di integrazione del F.I.P. da parte della Sicilcassa e non pagato anno per anno bensì "un credito nascente dalla mancata determinazione di tale integrazione, in violazione di un accordo contrattuale e, quindi, quale risarcimento di un danno patrimoniale subito, con conseguente applicazione della ordinaria prescrizione decennale".

Contro la sentenza della corte di appello la l.c.a. ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi.

Resiste con controricorso l’intimato.

Nei termini di cui all’art. 378 c.p.c., le parti hanno depositato memorie.

2.1.- Con il primo motivo parte ricorrente denuncia violazione degli artt. 99 e 112 c.p.c., lamentando l’erronea qualificazione della domanda operata dalla corte di merito, domanda correttamente interpretata dal tribunale come richiesta di adempimento dell’obbligo nascente dal rapporto regolamentare.

2.2.- Con il secondo motivo parte ricorrente denuncia violazione dell’art. 2948 c.c., n. 4, lamentando che, correttamente interpretata la domanda come diretta ad ottenere l’integrazione del trattamento pensionistico, così come aveva operato il primo giudice con statuizione non attinta da specifico motivo di appello, la corte di merito avrebbe dovuto applicare la prescrizione quinquennale di cui all’art. 2848 c.c., n. 4.

2.3.- Con il terzo motivo parte ricorrente denuncia l’omesso esame di un punto decisivo della controversia lamentando che la corte di merito abbia omesso di affrontare la questione – riproposta con la comparsa di costituzione in grado di appello – relativa alla sopravvenuta inapplicabilità della clausola oro contenuta nell’art. 5, lett. b) del regolamento F.I.P. per effetto della scomparsa del "pari grado". Mancherebbe uno dei due valori il cui raffronto consentiva l’adeguamento del trattamento pensionistico.

2.4.- Con il quarto motivo parte ricorrente denuncia violazione del D.Lgs. n. 3 del 1992, artt. 9 e 11 e della L. n. 335 del 1995, art. 3, comma 19. Lamenta che la corte di merito non abbia tenuto conto di ciò che la clausola oro di cui all’art. 5 regolamento F.I.P., originariamente legittima, per effetto delle norme innanzi richiamate era venuta meno.

3.- Secondo la giurisprudenza di questa Corte "dal rapporto pensionistico di origine contrattuale (quale quello avente ad oggetto il trattamento erogato dal fondo pensioni di un istituto di credito) non scaturisce una singola complessiva obbligazione, avente ad oggetto una prestazione unitaria da assolvere ratealmente, ma deriva una serie di obbligazioni a cadenza periodica, ciascuna delle quali realizza l’intera prestazione dovuta in quel determinato periodo. Ne consegue che, trattandosi di una prestazione da pagarsi periodicamente, la prescrizione applicabile è quella prevista dall’art. 2948 cod. civ., n. 4, restando del tutto priva di rilievo, a tal fine, la natura retributiva o previdenziale della prestazione medesima, con l’ulteriore conseguenza che l’applicabilità della suddetta disposizione di legge impedisce di ravvisare il presupposto per l’applicazione analogica, alle pensioni di fonte negoziale, del complesso di regole e principi operanti per le pensioni erogate dall’I.N.P.S. e, in particolare, del principio, desumibile dal R.D.L. 4 ottobre 1935, n. 1827, art. 129, per cui si prescrivono in cinque anni soltanto le rate "liquidate" della pensione" (Sez. L, Sentenza n. 81 del 07/01/2002; Sez. L, Sentenza n. 8484 del 28/05/2003; Sez. L, Sentenza n. 24127 del 29/12/2004).

A tale principio consolidato si era uniformato il primo giudice del merito, correttamente qualificando la domanda di ammissione al passivo proposta dal D.G., il quale reclamava il proprio credito maturato in virtù della clausola oro di cui all’art. 5 del regolamento F.I.P. (come si evince dall’esame della domanda, consentito a questa Corte dalla natura processuale del vizio denunciato).

Sennonchè, il giudice di appello, pur in mancanza di specifica impugnazione sul punto, ha qualificato la domanda quale richiesta di ammissione di un credito per danni, determinando una vera mutatio.

Il potere-dovere del giudice di qualificare correttamente la domanda non consente di sostituire la domanda proposta con una diversa, fondata su altra "causa petendi", e dunque di introdurre nel tema controverso nuovi elementi di fatto, particolarmente in grado di appello, in cui il giudice non può esaminare una questione neppure tacitamente proposta, perchè non in rapporto con quella espressamente formulata, e di quella non costituente antecedente logico-giuridico (Sez. 1, Sentenza n. 8519 del 12/04/2006).

Pertanto, i primi due motivi di ricorso sono fondati, con conseguente assorbimento dei rimanenti motivi. La sentenza impugnata deve essere cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto, la Corte può decidere la causa nel merito, rigettando la domanda di ammissione al passivo.

Le spese processuali dell’intero giudizio possono essere compensate.

P.Q.M.

La Corte accoglie i primi due motivi di ricorso, dichiara assorbiti i rimanenti, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta la domanda proposta dal D.G. e compensa le spese dell’intero giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 17 aprile 2012.

Depositato in Cancelleria il 14 giugno 2012

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