Cass. civ. Sez. II, Sent., 12-07-2012, n. 11842

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Svolgimento del processo

C.M. citò innanzi al Pretore di Osimo la confinante F.A. affinchè fosse accertato l’intervenuto acquisto per usucapione di una striscia di terreno – adibita in parte a cortile ed in parte ad orto, interposta tra l’abitazione propria e quella della convenuta – eccedente la linea ideale che divideva a metà il terreno tra i due contrapposti edifici, costituente il confine che originariamente era stato stabilito dai propri danti causa, il quale era stato alterato per effetto di un errato frazionamento; innanzi Tribunale di Ancona, presso il quale la causa era stata riassunta per ragioni di competenza, la F. spiegò, in via riconvenzionale, domanda di accertamento della proprietà esclusiva del terreno interposto e chiedendo altresì che la C. fosse condannata alla rimozione di opere costruite a distanza non conforme alla legale rispetto al proprio fondo.

L’adito Tribunale, esperite prove per testi e fatta effettuare consulenza tecnica per la verifica del confine catastale, respinse entrambe le domande, compensando le spese; la Corte di Appello di Ancona invece accolse il gravame principale della C. e respinse quello incidentale della F., ritenendo provato l’acquisto per usucapione della porzione di terreno in contestazione sulla base sia delle emergenze di una rinnovata consulenza tecnica – che aveva valorizzato la condotta della F. e della sorella, originaria cointestataria del lotto, nel presentare una domanda di frazionamento che prevedeva la linea confinaria a metà dei due lotti e non già spostata verso la parte della C. ed aveva rilevato che erano stati costruiti un muretto con sovrastante rete e la sottostante fognatura a servizio dei due fronteggianti edifici, esattamente sulla linea mediana dei due lotti.

Per la cassazione di tale decisione ha proposto ricorso la F., sulla base di due motivi, illustrati da memoria;

hanno resistito con controricorso, contenente ricorso incidentale condizionato, P.S. e Si., nella dichiarata qualità di eredi della C.; a sua volta la F. ha proposto controricorso a tale impugnazione incidentale.
Motivi della decisione

I due ricorsi vanno riuniti in quanto proposti avverso la medesima sentenza.

1 – Infondata è l’eccezione preliminare di carenza di legittimazione dei contro ricorrenti P. – sollevata dalla F. ritenendo inidonea la documentazione all’uopo prodotta: in contrario le attestazioni allegate al controricorso (certificato di morte di C.M.; certificato storico della famiglia di P. G.; certificato di morte del medesimo; denunzia di successione in morte della stessa C.) documentano a sufficienza il legame parentale diretto e quindi la presunzione di sussistenza dell’apertura di una successione legittima cui le controricorrenti hanno partecipato- con la consequenziale accettazione della eredità per facta concludentia attraverso la resistenza al ricorso della F., circostanze queste che non sono state in alcun modo esaminate nè tanto meno contestate, nella loro storicità e significanza, dalla eccipiente.

2 – Con il primo motivo la F. denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1158, 1165, 2943 e 2944 cod. civ., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, e si duole della erronea valutazione delle emergenze di causa da parte del giudice dell’appello: rileva in merito che quest’ultimo non avrebbe dato il necessario risalto ad una scrittura privata del 10 agosto 1968 con la quale le sorelle F. avrebbero ceduto alla defunta C. una parte della striscia di terreno controversa (al fine di rettificare l’errore compiuto in sede di frazionamento nel 1959 ed in base al quale era stato redatto l’atto pubblico di compravendita con cui i due immobili erano stati trasferiti e che aveva identificato il confine tra le due proprietà in modo da non rispettare la volontà di attribuire ai due acquirenti l’esatta metà della corte tra i due edifici) così ammettendo l’alienità della stessa e, di conseguenza, il valore obiettivamente interruttivo del decorso del termine per usucapire in epoca anteriore a quella dell’agosto del 1968, così che in tal modo non sarebbe ancora decorso il ventennio utile ad usucapire, calcolando il dies a quo a ritroso dal giugno 1988, data di deposito della comparsa di costituzione della F. di contestazione delle pretese della C.; la Corte distrettuale avrebbe invece dichiarato la inutilizzabilità di tale scrittura per mancata richiesta della verifica dell’autenticità della medesima ed avrebbe dato la prevalenza alle prove orali contrarie alla sussistenza di un animus sibi habendi della parte di terreno eccedente la metà, senza considerare che le stesse sarebbero state in contrasto con quanto emergente dalla detta scrittura; lamenta altresì la ricorrente che si siano tratti argomenti di convincimento da documenti – scritture del 31 marzo i960 e del 13 giugno 1959 – pur avendone dichiarata l’inammissibilità a cagione della irritualità della loro produzione – avvenuta in sede di espletamento della consulenza tecnica.

3 – Con secondo e connesso motivo parte ricorrente, denunziando il vizio di insufficiente e contraddittoria motivazione, assume il malgoverno, da parte del giudice dell’appello, delle risultanze probatorie, avendo la Corte territoriale omesso di rilevare che tra l’immobile della C. e le particelle che si intendeva usucapire sarebbe esistita la pubblica via e non avendo dato il dovuto risalto alla genericità delle risposte dei testi indotti dalla controparte.

– Entrambi i motivi sono inammissibili.

4 – Va innanzi tutto premesso che la lettura del ricorso non offre argomenti a che la Corte deroghi al proprio costante indirizzo a mente del quale il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione denunciabile con ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, si configura solo quando nel ragionamento del giudice di merito sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione. Tali vizi non possono consistere nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte, spettando solo al giudice di merito individuare le fonti del proprio convincimento, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova, mentre alla Corte di Cassazione non è conferito il potere di riesaminare e valutare autonomamente il merito della causa, bensì solo quello di controllare, sotto il profilo logico e formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione compiuti dal giudice del merito, cui è riservato l’apprezzamento dei fatti (così, ex multis, Cass. Sez 1^, n. 10607/2010 a cui adde Cass. Sez 1^, n. 18119/2008; Cass. Sez. 1^, n. 7972/2007; Cass. Sez. L. n. 15489/2007; Cass. Sez. 3^, n. 20322/2005;

Cass. Sez. 5^ n. 584/2004; Cass. Sez. 3^, n. 2222/2003).

4/a – Nel caso di specie la denunzia di vizio di motivazione, lungi dal costituire ragionata critica al ragionamento logico del giudice dell’appello, si risolve in un’espressa non condivisibilità dei risultati argomentativi ai quali lo stesso è pervenuto, pur dopo aver esposto esaurientemente e non contraddittoriamente le ragioni del proprio convincimento.

4/b – La mancata riproduzione della scrittura privata de qua – in violazione del principio di autosufficienza del ricorso- impedisce altresì alla Corte di scrutinare la pretesa contraddizione tra l’affermazione, contenuta a fol 8 della sentenza di appello, secondo cui la scrittura datata 10 agosto 1968 avrebbe avuto sostanza latamente confessoria – da parte della C. – dell’avverso diritto su parte della striscia di terreno in contestazione – con effetto interruttivo del periodo utile ad usucapire- e la prevalenza data alle prove orali favorevoli all’acquisto per usucapione 5 – Il secondo motivo è inammissibile in quanto basato su una rielaborazione dei dati di fatto inibita alla Corte.

6 – Il ricorso incidentale, espressamente indicato come condizionato all’accoglimento di quello principale, va dichiarato inammissibile, stante il rigetto di quest’ultimo.

7 – L’esito del giudizio consente di esprimere un giudizio di reciproca soccombenza e legittima la compensazione delle spese.
P.Q.M.

LA CORTE Riunisce i ricorsi; rigetta quello principale e dichiara inammissibile quello incidentale; compensa le spese.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte di Cassazione, il 17 maggio 2012.

Depositato in Cancelleria il 12 luglio 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Lazio Roma Sez. II bis, Sent., 24-01-2011, n. 708

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. Il ricorrente è proprietario di un terreno sito nel Comune di M., località Palaverta, distinto in catasto al Foglio 29, particelle 1077 – 1074 – 1076 e 932. Egli impugna in questa sede la variante generale al PRG del Comune di M., adottata con deliberazione di C.C. n. 62 del 24.11.2000 e approvata con deliberazione di Giunta Regionale n. 994 del 29.10.2004, prospettando diversi profili di eccesso di potere, travisamento di fatto, difetto di istruttoria, carenza di motivazione, errore di fatto.
2. Si è costituito in giudizio il Comune di M., resistendo al ricorso.
3. A seguito dell’istruttoria disposta con l’ordinanza n. 1032/2010, il ricorso è stato nuovamente chiamato per la discussione all’udienza pubblica del 2 dicembre 2010, e quindi trattenuto in decisione.
4. Persiste l’interesse a ricorrere, in quanto allo stato il procedimento di approvazione della Variante speciale per il recupero dei nuclei abusivi, che attribuisce un indice edificatorio pari a 1,00 mc/mq al lotto in questione, non si è ancora concluso.
5. Parte ricorrente lamenta il fatto che nell’ambito della zona di Via Palaverta alcuni lotti, tra cui – per la maggior parte – quello di sua proprietà, sono stati classificati come E3B (aree edificate a carattere sparso con edifici isolati realizzati in gran parte abusivamente), con esclusione dell’edificabilità; mentre altri lotti circostanti sono stati classificati come B3, ovvero come aree edificabili, già edificate parzialmente ma in modo inferiore rispetto alle zone B1 e B2.
La censura è fondata in quanto dalla nota comunale di riscontro alla disposta istruttoria risulta che si tratta di un lotto non sito in un contesto di edifici isolati, ma di un lotto intercluso: circostanza, questa, la quale conferma i profili di difetto istruttorio lamentati nel ricorso, in quanto la discrezionalità pianificatoria non va esente dal controllo giurisdizionale con riferimento alle ipotesi di manifesta illogicità in relazione alla specifica situazione dei luoghi. Peraltro, alla stregua degli atti, ciò riguarda solamente le particelle 932 e 1076 del Foglio 29 NCT, classificati come E3B, in quanto:
– da un lato, non si ravvisano elementi tali da comportare la specifica illegittimità della classificazione come Zona di completamento – Sottozona B6 di un’altra porzione della proprietà del ricorrente;
– dall’altro, non si deducono specifici motivi di illegittimità della previsione di una strada che divide il terreno a metà.
Parimenti fondata è la censura relativa all’erronea ritenuta inclusione del terreno in questione nel cono di volo dell’aeroporto di Ciampino: dalla relazione del Comune si ricava che detto terreno non ricade all’interno del vincolo aeroportuale.
6. Il ricorso deve quindi essere accolto, con il conseguente annullamento dell’impugnata variante generale nelle sole parti relative al Foglio 29, particelle 932 e 1076.
7. Sussistono giusti motivi per compensare le spese di giudizio.
P.Q.M.
definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie, e per l’effetto annulla l’atto impugnato nelle parti indicate al punto 6 della motivazione.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 2 dicembre 2010 con l’intervento dei magistrati:
Eduardo Pugliese, Presidente
Antonio Vinciguerra, Consigliere
Francesco Arzillo, Consigliere, Estensore

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CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. III PENALE – SENTENZA 12 gennaio 2009, n.626 NON COMMETTE PIÙ REATI L’IMPRENDITORE CHE UTILIZZA FATTURE DIVERSE NELL’UNICA DICHIARAZIONE FRAUDOLENTA

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

In fatto

Il giudice dell’udienza preliminare presso il tribunale di Brescia, con sentenza del 14 febbraio del 2008, applicava nei confronti di Z. G. D. la pena concordata nella misura di mesi due di reclusione, in aumento di quella irrogata con la sentenza del 25 gennaio del 2007 per il medesimo reato, ritenuta la continuazione tra i due fatti.

Lo Z. era imputato del reato di cui all’articolo 2 del decreto legislativo n. 74 del 2000, per avere, quale legale rappresentante della società R. M. S.P.A., al fine di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture ed altri documenti per operazioni inesistenti, indicava nella dichiarazione relativa a dette imposte per l’anno 2003 elementi passivi fittizi per un valore imponibile pari ad euro 1.526.466,20, IVA euro 305293,24, avvalendosi in particolare delle fatture emesse dalla “R. & R.” Italia Branch, con sede nel Venezuela. Fatto commesso nel 2004 al momento della presentazione della dichiarazione.

Ricorre per cassazione l’imputato per mezzo del difensore denunciando la violazione dell’articolo 649 c.p.p., in quanto per lo stesso fatto relativo al medesimo anno d’imposta era stato già condannato, a nulla rilevando la circostanza che la fattura oggetto del presente procedimento fosse diversa da quella di cui alla sentenza del 25 gennaio del 2007, posto che la dichiarazione era unica.

Il ricorso è fondato.

Nel presente procedimento al prevenuto si è contestato il delitto di dichiarazione fraudolenta per avere indicato nella dichiarazione presentata nel 2004 per l’anno d’imposta precedente elementi passivi fittizi avvalendosi di fatture emesse per operazioni inesistenti. Orbene con riferimento alla stessa dichiarazione annuale ed al medesimo anno d’imposta il prevenuto era stato già condannato con la sentenza n. 335 del 2007 dal tribunale di Brescia, utilizzata dal giudice dell’udienza preliminare per applicare la continuazione. Questa è stata ritenuta in base al rilievo che, anche se la dichiarazione era unica ed era relativa al medesimo anno d’imposta, le fatture indicate nei due procedimenti erano diverse (cfr. parere del procuratore generale). In realtà la diversità di documenti utilizzati per aumentare i costi, allorché la dichiarazione sia unica e relativa allo stesso periodo d’imposta non giustifica l’affermazione di responsabilità per due reati diversi. Invero, l’articolo 8 del decreto legislativo n. 74 del 2000 che punisce colui il quale emette fatture per operazioni inesistenti, al secondo comma, dispone che l’emissione o il rilascio di fatture per operazioni inesistenti nel corso del medesimo periodo d’imposta si considera come un solo reato. A fortiori quindi dovrebbe considerarsi unico il reato allorché si utilizzino più fatture per aumentare i costi se la dichiarazione è unica ed è relativa alla stessa imposta ed allo stesso periodo d’imposta. L’articolo 2 del decreto legislativo n. 74 del 2000 consente un’unica incriminazione per il soggetto che pone in essere una dichiarazione fraudolenta, sia che si avvalga di un solo documento, sia che utilizzi una pluralità di fatture o altri documenti, a nulla rilevando che le fatture o gli altri documenti siano diversi ed abbiano diversi destinatari e ciò perché il reato non si perfeziona con la semplice registrazione del documento che sarà poi utilizzato ma con la dichiarazione, riferita a quella specifica intera annualità e con l’indicazione, nell’ambito della suddetta dichiarazione, di elementi passivi fittizi inseriti nella contabilità. Di conseguenza è irrilevante il numero delle fatture o degli atti documenti utilizzati per abbattere i costi perché la registrazione di tali documenti rappresenta solo un’attività prodromica alla realizzazione del reato che si consuma nel momento in cui si presenta una dichiarazione fraudolenta mediante l’uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti e non nel momento in cui si registra in contabilità il singolo documento che poi sarà utilizzato per abbattere i costi. L’eventuale pluralità di reati non dipende dalla pluralità dei documenti utilizzati, ma dalla pluralità delle dichiarazioni relative a periodi d’imposta diversi. Se la dichiarazione è unica, unico è il reato commesso con quella dichiarazione anche se i documenti utilizzati sono diversi.

Il ricorrente assume che la questione anzidetta, sia pure oralmente nel corso della discussione, era stata prospettata in prime cure, ma è stata ignorata dal giudice. Ai fini che ora interessano non importa stabilire se la questione sia stata o no prospettata dal ricorrente, posto che il giudice, nel momento in cui ha acquisito la precedente sentenza per applicare la continuazione, avrebbe dovuto, anche ex officio, rilevare che trattavasi del medesimo reato.

Alla stregua delle considerazioni svolte la sentenza impugnata va annullata senza rinvio perché l’azione penale non avrebbe potuto essere iniziata per precedente giudicato.

P.Q.M.

La Corte

Letto l’articolo 620 c.p.p.
Annulla senza rinvio l’impugnata sentenza perché l’azione penale non avrebbe potuto essere iniziativa per precedente giudicato.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

Cassazione, sez. II, 23 marzo 2011, n. 11542 Mutamento del giudice, a chi l’onere di citare i testimoni?

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Fatto

p.1. Con sentenza del 1/06/2010, la Corte di Appello di Palermo confermava la sentenza pronunciata in data 22/6/2009 con la quale il Tribunale di Sciacca, aveva ritenuto D.A. responsabile del reato di danneggiamento aggravato.

p.2. Avverso la suddetta sentenza, l’imputato, a mezzo del proprio difensore, ha proposto ricorso per cassazione deducendo i seguenti motivi:

1. VIOLAZIONE DELL’ART. 511 C.P.P. per avere la Corte territoriale ritenuto legittima la lettura delle dichiarazioni rese dai testi escussi, nonostante esso ricorrente si fosse a ciò opposto, essendo il giudice mutato e, quindi, dovendosi nuovamente sentire i suddetti testi indotti dall’accusa. Il nuovo giudice, infatti, aveva disposto che fosse esso ricorrente a dover citare i testi; tuttavia, siccome il suddetto onere doveva ritenersi illegittimo, il giudice non avrebbe potuto utilizzare quelle testimonianze dandone lettura ex art. 511 c.p.p..

2. ILLOGICITÀ DELLA MOTIVAZIONE per non avere la Corte sufficientemente motivato in ordine alle ragioni che l’avevano indotta a ritenere convincenti le dichiarazioni dei suddetti testi e, al contrario, inattendibili quelle dei testi della difesa.

Diritto

p.3. VIOLAZIONE DELL’ART. 511 C.P.P.: la vicenda processuale alla base della censura in esame è la seguente:

– il giudice di primo grado escuteva i testi A. e S. indotti dal P.m. e da questi regolarmente citati;

– successivamente, però, il giudice mutava di persona sicché si rendeva necessario provvedere alla rinnovazione di quegli atti rispetto ai quali le parti non avevano dato il consenso alla lettura, ossia, nella specie, la testimonianza dei suddetti testi;

– il nuovo giudice ne disponeva la citazione onerando dell’incombente la difesa dell’imputato che si era opposta alla lettura;

– sennonché, all’udienza fissata per l’escussione, la difesa rappresentava che non aveva provveduto alla citazione dei testi, perché, essendo costoro stati indotti dal P.m., spettava a costui citarli;

– il giudice, quindi, rilevando l’inattività della parte, provvedeva alla lettura delle precedenti dichiarazioni rese dai testi.

p.3.1. La Corte territoriale, davanti alla quale la questione dell’inutilizzabilità delle dichiarazioni testimoniali era stata sollevata, l’ha disattesa rilevando che “posto che gli atti compiuti continuano legittimamente a fare parte del fascicolo dibattimentale e che è previsto un particolare regime per il loro recupero e conseguente utilizzazione dinanzi al nuovo giudice, la parte che abbia interesse alla loro riaudizione può essere onerata dell’obbligo di citarli essendo appunto essa stessa che avanza detta richiesta di nuova escussione testimoniale su tutti od anche su solo alcune delle circostanze precedente riferite”.

p.3.2. La difesa del ricorrente obietta che tale decisione sarebbe illegittima perché, una volta che vi sia opposizione alla lettura degli atti, nella specie per essere mutato il giudice, i medesimi devono essere nuovamente assunti secondo le regole precedenti; di conseguenza, avrebbe dovuto essere il P.m. a citare i testi da esso indotti. D’altra parte, l’omessa citazione non comportava la decadenza della prova, atteso che il giudice può revocare la prova solo quando risulti superflua ex art. 495/4 c.p.p., tanto più che l’inattività dell’imputato non poteva essere interpretata come una tacita manifestazione di volontà di recedere dalla richiesta di riaudizione dei testi.

p.3.3. La doglianza è fondata per le ragioni di seguito indicate. Va premesso che, essendo mutato il giudice, non era in discussione il diritto dell’imputato di opporsi alla lettura delle dichiarazioni testimoniali assunte dal precedente giudice: sul punto è sufficiente rammentare quanto statuito dalle SSU che, con la sentenza n. 2/1999, Iannasso, Rv. 212395 (alla quale si è poi uniformata la giurisprudenza di questa Corte: ex plurimis Cass. N. 3613/2006 Rv. 236044), nell’enunciare il principio di diritto secondo il quale “nel caso di rinnovazione del dibattimento a causa del mutamento della persona del giudice monocratico o della composizione del giudice collegiale, la testimonianza raccolta dal primo giudice non è utilizzabile per la decisione mediante semplice lettura, senza ripetere l’esame del dichiarante, quando questo possa avere luogo e sia stato richiesto da una delle parti”, affermarono anche che allorquando, nel corso del dibattimento rinnovato a causa del mutamento del giudice, nessuna delle parti riproponga la richiesta di ammissione della prova assunta in precedenza, il giudice può di ufficio disporre la lettura delle dichiarazioni precedentemente raccolte nel contraddittorio delle parti e inserite legittimamente negli atti dibattimentali. La questione, quindi, non è se, a seguito dell’opposizione della difesa, i testi dovessero essere o meno nuovamente escussi (sul punto, pertanto, tutta la lunga disquisizione del ricorrente sul diritto alla difesa, sui principi del contraddittorio e dell’oralità del dibattimento, sul mutamento del giudice, appaiono del tutto ultronei rispetto al thema decidendum) ma, molto più semplicemente, su quale parte incombeva l’onere di citarli o, più esattamente, se la decisione del giudice di onerare dell’incombente la difesa, sia o meno corretta. La soluzione della questione non può che partire dalla descrizione del meccanismo processuale contemplato negli artt. 511 – 514 c.p.p. che, dopo la sentenza delle SSUU cit., ha la seguente cadenza procedurale:

– il giudice, ex 511/1 c.p.p., anche d’ufficio, deve dar lettura (o in alternativa indicare: art. 511/5 c.p.p.) degli atti contenuti nel fascicolo del dibattimento;

– dal combinato disposto dei commi primo e quinto dell’art. 511 cit., si evince che l’atto contenuto nel fascicolo per il dibattimento, può assumere, anche da solo, rilevanza di prova a condizione che esso sia reso a tal fine utilizzabile e cioè sia sottoposto al vaglio delle parti mediante la lettura;

– nell’ipotesi di testimonianze assunte da un giudice poi mutato, il principio di immutabilità del giudice di cui all’art. 525/2 c.p.p., impone, a pena di nullità assoluta, la rinnovazione integrale del dibattimento con la ripetizione di tutta la sequenza procedimentale prevista dal codice di rito;

– i verbali delle dichiarazioni dei testi assunti dal precedente giudice, fanno legittimamente parte del fascicolo processuale (Corte Cost. 17/1994 – SSUU cit. – Corte Cost. 399/2001);

– il nuovo giudice può dare lettura delle suddette dichiarazioni solo ove vi sia il consenso di tutte le parti, sicché è sufficiente il dissenso anche di una sola parte per impedirne la lettura e, quindi, l’utilizzabilità.

Ora, è del tutto evidente che, se è vero che i verbali precedentemente assunti fanno legittimamente parte del fascicolo processuale è anche vero che i medesimi divengono utilizzabili ad una sola condizione, ossia che tutte le parti prestino il loro consenso alla lettura. Di conseguenza, è sufficiente il dissenso di una sola parte perché si riapra tutta la sequenza processuale che aveva originariamente portato all’assunzione dei suddetti testi: il che è come dire che torna ad applicarsi l’art. 468/2 c.p.p..

La suddetta norma, infatti, ha posto l’onere della citazione a carico della parte richiedente perché, intuitivamente, è questa che ha interesse a che i propri testi siano sentiti e, quindi, è questa che deve citarli o portarli direttamente al dibattimento, non essendo compatibile con una corretta dialettica processuale (rectius: con il diritto a perseguire la strategia processuale più confacente ai suoi interessi) che vi provveda la parte che non vi abbia alcun interesse o addirittura abbia un interesse contrario.

È chiaro, quindi, che, una volta che una parte non presti il proprio consenso alla lettura delle dichiarazioni rese dai testi davanti al giudice poi mutato, poiché si riapre la sequenza procedimentale di cui agli artt. 468 – 495 c.p.p., ogni parte, ritrovandosi all’inizio del procedimento, dovrà nuovamente valutare se e quali testi citare: il che è come dire che, nella concreta fattispecie, non avendo la difesa prestato il proprio consenso alla lettura delle dichiarazioni rese dai testi indotti dal P.M., spettava a costui citarli, ove avesse avuto ancora interesse ad esaminarli.

Il suddetto interesse, invero, non potrebbe riconoscersi in capo alla difesa non solo perché i testi erano stati indotti dal P.m. ma anche perché il dissenso alla lettura non può essere interpretato come interesse a sentire nuovamente quei testi, e, viceversa, il consenso (prestato dal P.m.) come carenza di interesse. Infatti, una volta che una delle parti non esprima il proprio consenso, quelle dichiarazioni testimoniali divengono tamquam non esset sicché l’interesse processuale non va valutato alla stregua dei verbali che fanno parte del fascicolo processuale, ma considerando che quei verbali non sono più utilizzabili. Di conseguenza, ciascuna parte, essendo stata rimessa nello status quo ante, dovrà valutare, nella sua autonomia, se chiedere o meno nuovamente l’ammissione dei propri testi e, quindi, nuovamente citarli.

Ugualmente errato sarebbe far discendere dalla mancata citazione dei testi, una pretesa implicita e/o esplicita rinuncia a farli assumere, con conseguente lettura delle precedenti dichiarazioni. In proposito è sufficiente ribadire che, una volta che una parte non presta il suo consenso alla lettura, quelle dichiarazioni diventano inutilizzabili, sicché è del lutto improprio richiamare la peraltro controversa problematica di quali siano le conseguenze nel caso in cui la parte ometta di citare i testi dei quali aveva chiesto l’ammissione (Cass. 9335/1999 riv. 214255 – Cass. 32343/2007 Rv. 237074; contro: Cass. 41340/2006 Rv. 235772 – Cass. 13507/2010 Rv. 246604). Il problema, infatti, nel caso di specie, è diverso e consiste nello stabilire se l’ordine con il quale il giudice aveva disposto che a citare i testi fosse la parte opponente (rectius: la difesa), sia o no legittimo e se, a fronte, del conclamato rifiuto della parte onerata di provvedere alla citazione, sia stata o no legittima la lettura delle suddette testimonianze, previa revoca, quantomeno implicita, dell’ordinanza ammissiva della prova.

La risposta al suddetto quesito, alla stregua di quanto detto, non può che essere negativa e, pertanto, la sentenza impugnata va annullata dovendosi la Corte territoriale uniformare al seguente principio di diritto: “in caso di mutamento del giudice, le dichiarazioni dei testi assunti dal precedente giudice, non sono utilizzabili ove una delle parti si opponga alla lettura. In tal caso, l’onere della citazione dei suddetti testi, nonostante il consenso alla lettura prestato dalle restanti parti, spetta alla parte che aveva originariamente chiesto l’ammissione dei suddetti testi. Di conseguenza, ove la parte che non ha prestato il proprio consenso alla lettura venga onerata della citazione dei suddetti testi, legittimamente può rifiutarsi di citarli ed il giudice non può dare lettura delle dichiarazioni rese davanti al precedente giudice, dovendo porre l’onere della citazione a carico della parte che originariamente aveva richiesto l’ammissione dei testi”.

Gli atti vanno trasmessi alla stessa Corte di Appello in quanto la violazione dell’art. 511 c.p.p. non è compresa nell’elencazione tassativa di cui all’art. 604 cod. proc. pen. sicché spetta allo stesso giudice di appello provvederà all’escussione dei testi ai sensi dell’art. 495 c.p.p. (Cass. 3613/2006 riv 236044).

P.Q.M.

ANNULLA la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Palermo per nuovo giudizio.

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