Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 28-04-2011) 13-07-2011, n. 27378

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con la sentenza in epigrafe la Corte d’appello di Genova ha confermato la sentenza in data 14 novembre 2007 del locale Tribunale, appellata da Y.M., O.M., F.M. e M.J., che li aveva ritenuti responsabili, unitamente ad altro imputato non appellante, del delitto di lesioni personali in concorso, aggravate dall’uso di uno strumento atto ad offendere, commesso il (OMISSIS), in danno di una persona come loro detenuta presso la Casa circondariale di (OMISSIS).

Propongono distinti ricorsi gli imputati.

Con il ricorso proposto dal difensore di Y.M. e O. M., nonchè con il ricorso presentato dal difensore di M. J. si deduce difetto di motivazione sulla valutazione delle emergenze processuali da parte dei giudici del merito, in particolare non avendo la Corte d’appello affrontato le doglianze sottoposte con le loro impugnazioni, specialmente sulle dichiarazioni delle persone aggredite, i fratelli T., che non sarebbero stati in grado di indicare con precisione chi fossero i loro aggressori e di quelle delle guardie carcerarie che non avrebbero individuato con sicurezza le azioni di ciascuno. Uguale doglianza vien proposta con riferimento al ritenuto utilizzo di un coperchio in lamiera per causare le lesioni, che non sarebbe stato rilevato da alcuno.

In ultimo luogo, il ricorso presentato per i primi due primi due lamenta la mancata applicazione delle attenuanti generiche con valutazione di prevalenza sull’aggravante e l’omessa concessione della sospensione condizionale allo Y., incensurato, e quindi persona non adusa alla violenza come ritenuto indistintamente dalla Corte territoriale.

Il ricorso presentato personalmente da F.M. lamenta omissione di motivazione sulle argomentazioni specificamente sottoposte al giudizio di appello con la propria impugnazione.

I ricorsi dei prevenuti sul merito dell’imputazione non sono fondati ed in alcuni casi, come per F., generici al limite dell’inammissibilità, non avendo indicato con precisione a quali doglianze dell’impugnazione la Corte di merito non avrebbe dato adeguata risposta. In ogni caso, rileva il Collegio che dal complesso delle argomentazioni dei giudici del merito, le cui motivazioni possono essere considerate come unico apparato dimostrativo, risulta che le deposizioni degli agenti di polizia penitenziaria, che avevano assistito alla vicenda, avevano dato atto che il gruppo di cinque detenuti, che nell’area di passaggio avevano aggredito i T. al momento del loro transito, era ben separato dal resto dei detenuti, così che le guardie ne avevano potuto agevolmente individuare i componenti, i quali, di conseguenza, erano stati identificati senza dubbi di sorta, al di là del reticente contributo testimoniale delle vittime dell’aggressione. Una tale indicazione, del tutto correttamente motivata, già si ricavava dalla sentenza del Tribunale e, a fronte di una doglianza che formula solo la generica ipotesi di una possibilità di errore di identificazione da parte delle guardie, pare sufficiente l’indicazione della Corte di merito sull’attendibilità dell’immediata identificazione dei responsabili ad opera di un personale di custodia pienamente in grado di riconoscere i prevenuti, per la consuetudine con costoro derivante dal giornaliero contatto.

Quanto all’utilizzo del coperchio in lamiera, rinvenuto sporco di sangue sulle scale dell’aggressione, i giudici del merito hanno correttamente evidenziato, sia che le ferite riportate da una delle persone aggredite erano risultate, all’esito di apposita consulenza, compatibili con l’uso di quell’oggetto, sia che l’aggressione da parte di un gruppo di poche persone definito e circoscritto impediva di differenziare le responsabilità di ciascuno di coloro che avevano contribuito all’aggressione unitamente a colui che materialmente brandiva l’arma impropria. A fronte delle motivazioni dei giudici del merito, corrette in diritto e prive di incongruenze logiche, i ricorsi ripropongono le doglianze dell’atto di impugnazione a cui la Corte territoriale ha dato, sia pur sintetica, risposta, a fronte di elementi di fatto valutati correttamente a cui non possono essere fondatamente contrapposte in questa sede valutazioni alternative delle emergenze processuali sulla base di alcune frasi tratte dai verbali, isolatamente dal contesto non conoscibile dal giudice di legittimità, apparendo poi del tutto adeguata anche la valutazione di ridotta attendibilità dei ripensamenti dibattimentali delle persone offese, in considerazione delle circostanze e dell’ambiente in cui si era sviluppato l’episodio violento, tanto più che la responsabilità ben poteva essere affermata, come è stato fatto nella specie, sulla scorta degli elementi di prova sopra indicati, estrinseci ed oggettivi.

Inammissibili perchè risolventisi in censure su valutazioni di merito, in suscettibili, come tali, di aver seguito nel presente giudizio di legittimità, sono infine le doglianze concernenti la valutazione di sola equivalenza delle concesse attenuanti generiche e la mancata concessione della sospensione condizionale allo Y., giacchè la motivazione della impugnata sentenza si sottrae ad ogni sindacato per avere adeguatamente richiamato i precedenti penali di alcuni, e la manifestata inclinazione alla violenza di tutti, quali elementi sicuramente rilevanti ex art. 133, 62 bis, 69 e 163 c.p..

Nè i ricorrenti indicano elementi non considerati in positivo, decisivi ai fini di una diversa valutazione, tale non essendo l’incesuratezza di Y. in relazione al quale la prognosi negativa formulata dalla Corte territoriale trova conforto nelle evidenziate specifiche condizioni anche di luogo in cui era verificato il fatto.

Al rigetto dei ricorsi consegue la condanna di ciascun ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

La Corte rigetta i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 09-06-2011) 26-07-2011, n. 29899 Violazioni tributarie

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Svolgimento del processo

Il Tribunale di Monza con sentenza del 29/4/04 dichiarava L. A., M.V. e S.D. colpevoli del reato di cui all’art. 416 c.p. perchè si associavano tra loro al fine di compiere più delitti di emissione di fatture per operazioni inesistenti; nonchè di diverse violazioni della normativa di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000; il solo M. del reato di cui all’art. 81 c.p., e D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10.

Condannava il L. e il S. alla pena di anni 4 e mesi 6 di reclusione, il M. ad anni 4 e mesi 8 di reclusione.

La Corte di Appello di Milano, chiamata a pronunciarsi sugli appelli interposti nell’interesse degli imputati, con sentenza del 25/11/09, in riforma del decisum di prime cure, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di tutti gli imputati in ordine ai reati finanziari contestati, limitatamente ai fatti commessi in epoca anteriore al 15/4/2000, perchè estinti per prescrizione; ha confermato la penale responsabilità dei prevenuti in ordine al reato di cui all’art. 416 c.p.; ha rideterminato la pena per i residui delitti in anni tre e mesi 6 di reclusione per ciascuno di essi.

Propongono autonomi ricorsi per cassazione i prevenuti, con i seguenti motivi:

– il L. e il S. ribadiscono la eccezione di incompetenza territoriale del Tribunale di Monza. contestando la interpretazione adottata dal decidente delle norme processuali in materia in caso di imputazione per il reato di cui all’art. 416 c.p.;

– le argomentazioni accusatone, svolte dal giudice di merito per pervenire alla condanna per il reato associativo, sono assolutamente prive di riscontro, come è palesemente evincibile dalle emergenze istruttorie;

– erronea applicazione dell’art. 597 c.p.p., rilevato che la dichiarata estinzione dei reati di cui alla lettera B) del capo di imputazione (limitatamente ai fatti compiuti in data anteriore al 15/4/2000) avrebbe dovuto determinare una relativa diminuzione della pena comminata, seppur in continuazione con il capo A), diminuzione non accordata dal decidente;

– il M., con un unico motivo di ricorso, eccepisce la violazione degli artt. 8, 9 e 16 c.p.p., e D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 18, commi 1 e 3, rilevando che nel caso di specie non possono trovare applicazione i criteri suppletivi indicati dall’art. 9 c.p.p., e art. 18 del citato decreto, ai quali impropriamente si è rifatto il giudice di merito nel motivare il rigetto della eccezione di incompetenza territoriale sollevata.

Motivi della decisione

I ricorsi sono inammissibili.

La argomentazione motivazionale. adottata dal giudice di merito, si palesa del tutto logica e corretta.

Col primo motivo di ricorso il L. è il S. eccepiscono la incompetenza territoriale del Tribunale di Monza.

La eccezione è manifestamente infondata per quanto di seguito specificato.

Per giurisprudenza costante la competenza territoriale a conoscere di un reato associativo, che è un reato di natura permanente, si radica nel luogo in cui la struttura della societas sceleris, destinata ad operare nel tempo, diventa concretamente operante, a nulla rilevando il luogo di consumazione dei singoli reati oggetto del pactum (Cass. 10/12/97, n. 6933).

Nel caso in cui non emerga con chiarezza il luogo in cui l’associazione opera o abbia operato, nè è possibile fare ricorso al sito di consumazione dei reati fine, trova applicazione l’art. 9 c.p.p., comma 3 (Cass. 7/12/05. n. 45388).

La costituzione di una associazione per delinquere non si verifica nel momento in cui avviene l’accordo, ma in quello della costituzione di una organizzazione permanente frutto del concerto, anch’esso a carattere permanente, di intenti e di azioni tra associati: in tale momento si realizza quel minimum di mantenimento della situazione antigiuridica, necessaria alla sussistenza del delitto di costituzione di associazione di cui all’art. 416 c.p.. Solo se difetta la prova relativa al luogo ed al momento della costituzione della associazione soccorrono criteri sussidiari.

Infatti il luogo del semplice accordo criminoso non è sufficiente per radicare la competenza trattandosi di criterio eccessivamente generico; si richiede qualcosa di più preciso e concreto, da individuarsi nel posto in cui è avvenuta la costituzione della associazione, ovvero quello ove si svolge l’attività organizzativa- decisionale della associazione, ovvero di prima esternazione del sodalizio criminoso o di concretizzazione dei primi segni di operatività, sintomatici della origine della associazione nello spazio.

Nel caso di specie, il decidente evidenzia che il luogo in cui si è svolta l’attività organizzativa-decisionale della condotta criminosa è Seregno, città in cui il M. aveva il proprio ufficio e esercitava la attività professionale di commercialista, coordinando la contabilità delle varie società e svolgendo una funzione di supporto costituita dal cambio e dalla monetizzazione degli assegni ricevuti in pagamento dagli utilizzatori finali, ovvero degli assegni provenienti dalle varie società coinvolte nella illecita attività.

Pertanto, era proprio lo studio del M. il posto in cui gli imputati avevano possibilità o occasione di incontrarsi e/o correlarsi tra loro, stabilmente in modo continuativo.

Ad avviso del decidente elemento a sostegno della irrilevanza della sede sociale delle varie società coinvolte, quale criterio utile al fine di individuare la competenza territoriale in ordine al reato di cui all’art. 416 c.p., è costituito dal contenuto del verbale di perquisizione, redatto, in data 13/9/2000, nei locali della Sistemi s.a.s. di Milano, presso cui sono state domiciliate, nel corso del tempo, la Elleesse Sidermeccanica s.r.l., la Elle Meccanica s.r.l., la Glifada s.r.l. e la J.F. Marvin s.r.l., visto che in tale occasione il rag. Montichi, presente alla perquisizione, ha dichiarato che tutte le suddette società facevano capo al M.;

che la documentazione fiscale e contabile ad esse relativa non era mai stata ivi depositata e che lì veniva unicamente recapitata della corrispondenza, che era ritirata successivamente dal predetto M..

Di poi, sempre dal verbale di perquisizione si evince che società con sede formale altrove, in realtà avevano acceso i propri conti correnti presso istituti di credito operanti nell’ambito territoriale di competenza del Tribunale di Monza; che su tali conti correnti operavano i principali imputati del procedimento e che costante e continuativo punto di riferimento era il ruolo del M., presso il cui studio avveniva la registrazione delle fatture, pur materialmente compilate altrove. Ad avviso del giudice di merito, quindi, allo stato degli atti, deve ritenersi la competenza dell’Autorità Giudiziaria di Monza. in quanto è in Seregno che la organizzazione ha acquisito quelle caratteristiche di permanenza e di concretezza da legittimare la contestazione del reato di cui all’art. 416 c.p., ed è, comunque, in tale ambito territoriale che venivano concretamente poste in essere anche le movimentazioni finanziarie, tese a conseguire i profitti cui l’accordo associativo era finalizzato.

Orbene, si osserva che, secondo il dettato della L. n. 516 del 1982, art. 11, la competenza per territorio è determinata dal luogo di accertamento del reato; tale principio è riprodotto dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 18.

Nondimeno bisogna guardare al reato associativo che. essendo più grave, spiega la propria actractiva sui reati fiscali.

Nella fattispecie, con riguardo ai criteri di cui agli artt. 8 e 9 c.p.p., non vi è dubbio che non essendo possibile stabilire dove sia sorto l’accordo, l’elemento che contraddistingue l’associazione è proprio la base operativa, che è il luogo in cui si è svolta la condotta, individuato, a giusta ragione, in Seregno, ove è risultato che il M. svolgesse la propria attività di commercialista, detenendo tutta la documentazione fiscale del sodalizio e gestendo le operazioni illecite.

Con il secondo motivo di ricorso il L. ed il S. contestano la sussistenza di emergenze istruttorie atte a comprovare la concretizzazione del reato di cui all’art. 416 c.p., a loro ascritto. Sul punto la Corte territoriale evidenzia la durata della attività criminosa, circa sei anni, svolta con modalità costanti, elemento questo connotante la stabilità dell’accordo tra i correi, che esclude che la condotta dei prevenuti possa configurare una ipotesi di concorso di persone in reati fiscali, come sostenuto dalla difesa.

Il criterio distintivo, infatti, tra il delitto di associazione per delinquere e il concorso di persone nel reato continuato si fonda nel carattere dell’accordo criminoso, che. nella seconda ipotesi, si concretizza in via meramente occasionale ed accidentale, essendo diretto alla commissione di uno o più reati determinati, con la realizzazione dei quali si esaurisce l’accordo dei correi; mentre nella prima, l’accordo criminoso risulta diretto alla attuazione di un più vasto programma criminoso, per la commissione di una serie di delitti, con la permanenza di un vincolo associativo tra i partecipanti, ciascuno dei quali ha la costante consapevolezza di essere associato alla attuazione di detto programma, anche indipendentemente e al di fuori della effettiva commissione dei singoli reati (Cass. 20/1/99, n. 3340).

Nella specie, ad avviso del decidente, il modus operandi simile per tutti i reati rende evidente che alla base della emissione delle fatture vi fosse una struttura stabile e duratura, idonea a supportare attività ben definite nei mezzi e nelle finalità.

Gli imputati L. e S., rivestivano il ruolo di amministratori delle società, il primo della Posider Maut e della Elle Meccanica, il secondo della Elleesse Sidermeccanica. in concreto, poi, ciascuno amministrava di fatto tutte le società interessate.

Quanto all’elemento psicologico, la durata della attività illecita, le modalità delle varie operazioni, l’ammontare considerevole delle somme evase, lo scambio dei ruoli all’interno delle predette società, rappresentano tutti indici rilevatori della consapevolezza di ciascuno degli imputati delle finalità di evasione fiscale e della partecipazione ad un programma stabile e duraturo. Da quanto osservato emerge che il giudice di merito correttamente ha ritenuto provata la cristallizzazione degli elementi concretizzanti il delitto di cui all’art. 416 c.p., nonchè la responsabilità dei prevenuti in ordine al reato de quo.

Con il terzo motivo di ricorso si contesta la erronea applicazione della legge penale in riferimento all’art. 597 c.p.p., visto che il giudice non ha proceduto alla dovuta diminuzione della pena per il capo B) di imputazione, in dipendenza della dichiarata prescrizione di alcuni degli episodi rientranti nel predetto capo di imputazione.

La censura è del tutto priva di fondamento: il Tribunale aveva inflitto a L. e S. la pena di anni 4 e mesi 6 di reclusione ciascuno, considerando pena base anni 4, diminuita a 3 anni, aumentata ad anni 4 e mesi 6 per i capi B), C) e D).

La Corte di Appello ha ridotto la pena ad anni 3 e mesi 6 di reclusione per ciascuno, individuando quale pena base anni 4 di reclusione, ridotta per le attenuanti generiche in anni 3. aumentata per la continuazione di mesi 3, per ciascun reato di cui sub B) e D);

la riduzione, pertanto è stata applicata correttamente, ai singoli aumenti ex art. 81 c.p. (da mesi 6 a mesi 3).

La difesa del M. come motivo di ricorso solleva la eccezione di incompetenza territoriale del Tribunale di Monza, in ordine alla quale valgono le osservazioni già sviluppate a riscontro del medesimo motivo libellato nella impugnazione degli altri ricorrenti.

Rilevasi che i reati risultano ad oggi prescritti, successivamente alla pronuncia di seconde cure, ma la inammissibilità dei ricorsi dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità ai sensi dell’art. 129 c.p.p. (Cass. S.U. 21/12/2000, De Luca).

Tenuto conto, poi, della sentenza del 13/6/2000, della Corte Costituzionale, e rilevato che non sussistono elementi per ritenere che il L., il S. e il M. abbiano proposto i ricorsi senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, gli stessi, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., devono, altresì, essere condannati al versamento di una somma, in favore della Cassa delle Ammende, equitativamente fissata, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di Euro 1.000,00.

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione dichiara inammissibili i ricorsi e condanna ciascuno dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e al versamento in favore della Cassa delle Ammende della somma di Euro 1.000,00.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 29-12-2011, n. 29722

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Svolgimento del processo

B.A., conduttore di un appartamento in (OMISSIS) di proprietà della Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense, ha convenuto la locatrice davanti al Tribunale di Roma, chiedendone la condanna alla restituzione della somma di Euro 2.950,00, versate in pagamento del servizio di portierato, servizio che non era stato in realtà prestato a beneficio dello stabile in cui egli risiedeva.

Con sentenza 19 dicembre 2008 – 13 gennaio 2009 la Corte di appello di Roma, in riforma della sentenza e-messa in primo grado, ha accolto la domanda del conduttore, condannando la Cassa a restituire la somma di Euro 2.029,75.

La Corte di appello ha ritenuto che il servizio di portineria sia effettivamente mancato in favore del conduttore e appellante, poichè il portiere assunto dalla CNPF, P.G., era stato da questa adibito a più stabili, cioè ai civici numeri (OMISSIS), venendo di fatto collocato nella guardiola della (OMISSIS), in posizione tale da non poter rendere il servizio di vigilanza e di custodia in favore dello stabile di (OMISSIS).

Ha altresì richiamato – la Corte di appello di Roma – l’art. 18 del CCNL, che prevede la possibilità di assegnare un unico portiere a più stabili, sempre che questi abbiano un unico ingresso funzionante o più ingressi sorvegliabili da un unico posto di custodia:

presupposti nella specie insussistenti.

Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense con atto 23 febbraio 2010 e date successive, affidato a tre motivi e illustrato con due memorie.

Resiste con controricorso B.A..

Motivi della decisione

1. Osserva, in limine, la Corte che il presente ricorso – proposto per la cassazione della sentenza pronunciata dalla Corte di Appello di Roma il 13 gennaio 2009, cioè contro una sentenza pubblicata successivamente al 2 marzo 2006, ma anteriormente al 4 luglio 2009 – è soggetto alla disciplina del processo di Cassazione così come risultante per effetto dello modifiche introdotte dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 (cfr. D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, artt. 6 e 27 e L. 18 giugno 2009, n. 69, artt. 47 e 58).

2. Con il primo motivo, denunciando violazione della L. 27 luglio 1978, n. 392, art. 9, la ricorrente assume che il locatore ben può affidare il servizio di portierato ad un’unica persona per più stabili, come anche questa Corte ha ritenuto con sentenza n. 7257 del 1991, che analoga disposizione contiene l’art. 6 CCNL (oggi art. 21), per cui l’unico portiere può essere adibito ad uno stabile con più ingressi, anche non comunicanti e non sorvegliabili da un’unica postazione, fino ad un massimo di sei: disposizione che la Corte di appello ha trascurato di prendere in esame, limitandosi a richiamare l’art. 18. La Corte ha poi considerato irrilevante la circostanza che il portiere distribuisse comunque la posta e che all’ingresso di (OMISSIS) un cartello avvertisse che il portiere era reperibile in (OMISSIS).

Ai sensi dell’art. 366 bis cod. proc. civ. il motivo si conclude con il seguente quesito: "Stabilisca questa ecc.ma Corte se, alla luce del CCNL dei Dipendenti di Proprietari di Fabbricati, qualora il proprietario di due o più palazzine contigue, e locatore degli appartamenti ivi inseriti, affidi …la sorveglianza e in genere i servizi di portineria ad una persona, il complesso di prestazioni e di attività che questa si impegna a svolgere integra il contratto di portierato, anche se il controllo sulle persone che accedono non può essere eseguito con la stessa intensità con la quale viene espletato dal portiere adibito ad un unico edificio". 3. Il motivo è inammissibile.

Almeno sotto due, concorrenti, profili.

3.1. In primis il motivo ed il quesito che lo conclude sono inammissibili perchè non congruenti con la ratio decidendi della sentenza impugnata.

Questa ultima,infatti, non consiste nell’avere ritenuto illegittime o contrastanti con la contrattazione collettiva le modalità sopra descritte di esplicazione del servizio di portierato, ma attengono al diverso problema di stabilire se ed in che misura gli inquilini che usufruiscano diversamente del servizio – o che non ne usufruiscano affatto, in considerazione delle modalità (pur lecite) con le quali viene esplicato – siano tenute a pagarlo.

Il principio affermato dalla Corte di appello è quello che "i compiti di vigilanza e di custodia dello stabile sono connaturati al servizio di portierato e debbono essere in concreto osservati (non bastando che gli stessi siano previsti sulla carta)"; che, pertanto, le modalità di esplicazione del servizio debbono essere compatibili con l’esercizio concreto della vigilanza, perchè il locatore possa esigere dal conduttore il rimborso della relativa spesa.

Contro questo principio – che peraltro si fonda anche su accertamenti in fatto, censurabili in questa sede solo sotto il profilo degli eventuali vizi di motivazione – si sarebbero dovute indirizzare le censure della ricorrente che, così come formulate, non varrebbero a giustificare l’annullamento della sentenza impugnata neppure se fossero fondate.

3.2. Anche a prescindere da quanto precede, comunque, il motivo è inammissibile anche ai sensi dell’art. 366 cod. proc. civ., n. 6.

Il ricorrente – infatti – non dichiara nel ricorso di avere prodotto il CCNL su cui il ricorso si fonda, come prescritto a pena di inammissibilità dalla citata norma, nè specifica come il documento sia contrassegnato e come sia reperibile fra gli atti di causa (Cass. 17 luglio 2008, n. 19766; Cass., sez. un., 2 dicembre 2008, n. 28547, Cass., 7 febbraio 2011 n. 2966).

4. Il secondo e il terzo motivo denunciano, uno, "omessa e insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5", l’altro, "insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5". 5. Tali motivi sono entrambi inammissibili perchè proposti senza l’osservanza dell’art. 366 bis cod. proc. civ., come osservato sopra senza ombra di dubbio applicabile al presente ricorso nonostante la sua abrogazione intervenuta con decorrenza dal 4 luglio 2009 per effetto della L. n. 69 del 2009, art. 47, l’atteso che l’art. 58, comma 5, di quest’ultima ha disposto che la norma abrogata rimanesse ultrattiva per i ricorsi notificati dopo quella data, avverso provvedimenti pubblicati anteriormente (tra le tantissime in tale senso: Cass. 27 settembre 2010, n. 20323; Cass. 24 marzo 2010, n. 7119; Cass. 15 marzo 2010, n. 6212).

Giusta la testuale previsione dell’art. 366 bis c.p.c., in particolare: nei casi previsti dall’art. 360, comma 1, nn. 1, 2, 3 e 4, l’illustrazione di ciascun motivo si deve concludere, a pena di inammissibilità con formulazione di un quesito diritto. Nel caso previsto dall’art. 360, comma 1, n. 5 l’ illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione.

Al riguardo la giurisprudenza di questa Corte regolatrice è fermissima nel ritenere che non può ritenersi sufficiente – perchè possa dirsi osservato il precetto di cui all’art. 366 bis – la circostanza che il quesito di diritto, o la chiara indicazione del fatto controverso possano implicitamente desumersi dalla esposizione del motivo di ricorso nè che esso possa consistere o ricavarsi dalla formulazione del principio di diritto che il ricorrente ritiene corretto applicarsi alla specie.

Una siffatta interpretazione della norma positiva si risolverebbe, infatti, nella abrogazione tacita dell’art. 366 bis cod. proc. civ., secondo cui è, invece, necessario che una parte specifica del ricorso sia destinata ad individuare in modo specifico e senza incertezze interpretative la questione di diritto che la Corte è chiamata a risolvere nell’esplicazione della funzione nomofilattica che la modifica di cui al D.Lgs. n. 40 del 2006, oltre all’effetto deflattivo del carico pendente, ha inteso valorizzare, secondo quanto formulato in maniera esplicita nella Legge Delega 14 maggio 2005, n. 80, art. 1, comma 2, ed altrettanto esplicitamente ripreso nel titolo stesso del decreto delegato sopra richiamato.

In tal modo il legislatore si propone l’obiettivo di garantire meglio l’aderenza dei motivi di ricorso (per violazione di legge o per vizi del procedimento) allo schema legale cui essi debbono corrispondere, giacchè la formulazione del quesito di diritto risponde alla esigenza di verificare la corrispondenza delle ragioni del ricorso ai canoni indefettibili del giudizio di legittimità, inteso come giudizio d’impugnazione a motivi limitati (Cass. 25 novembre 2008 nn. 28145 e 28143 e, ancora, Cass. 27 settembre 2011, n. 19748, nonchè Cass. 2 4 maggio 2011, n. 11392, quanto alla inammissibilità di un quesito di diritto implicito, nonchè Cass. 7 aprile 2008, n. 8897, nel senso che allorchè nel ricorso per cassazione si lamenti un vizio di motivazione della sentenza impugnata in merito ad un fatto controverso, l’onere di indicare chiaramente tale fatto ovvero le ragioni per le quali la motivazione è insufficiente, imposto dall’art. 366 bis cod. proc. civ., deve essere adempiuto non già e non solo illustrando il relativo motivo di ricorso, ma formulando, al termine di esso, una indicazione riassuntiva e sintetica, che costituisca un quid pluris rispetto all’illustrazione del motivo, e che consenta al giudice di valutare immediatamente l’ammissibilità del ricorso).

In altri termini, giusta quanto assolutamente incontroverso presso una giurisprudenza decisamente maggioritaria di questa Corte regolatrice, cui questo collegio ritiene di prestare ulteriormente adesione, le doglianze proposte ai sensi dell’art. 360 cod. proc. civ., n. 5, debbono contenere un momento di sintesi, analogo al quesito di diritto, da cui risulti la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa, insufficiente o contraddittoria, ovvero l’indicazione delle ragioni per cui essa è da ritenere inidonea a giustificare la decisione (Cass., sez. un., 1 ottobre 2007, n. 20603 e 18 giugno 2008, n. 16258; Cass. 4 febbraio 2008 n. 2652; Cass. 7 aprile 2008 n. 8897, nonchè tra le tantissime, Cass. 20 ottobre 2011, n. 21703; Cass. 31 agosto 2011, n. 17950; Cass. 12 aprile 2011, n. 8315; Cass. 20 maggio 2010, n. 12339).

Tale requisito, quindi, non si può ritenere rispettato quando solo la completa lettura dell’illustrazione del motivo – all’esito di un’interpretazione svolta dal lettore, anzichè su indicazione della parte ricorrente – consenta di comprendere il contenuto ed il significato delle censure (Cass. 16 luglio 2007, n. 16002).

Non controverso quanto precede e pacifico che sia il secondo sia il terzo motivo sono, al riguardo, assolutamente carenti è palese la manifesta inammissibilità delle due censure ora in esame.

Il tutto a prescindere dal considerare che per quanto è dato comprendere dalla parte espositiva dei due motivi con gli stessi la ricorrente ben lungi dal denunziare vizi della sentenza rilevanti sotto il profilo di cui all’art. 360 cod. proc. civ., n. 5, si limiti a opporre una diversa valutazione – rispetto a quella compiuta dal giudice a quo – delle emergenze di fatto risultanti dalle risultanze del giudizio di merito in merito alle modalità con cui era in attuato nel caso concreto il servizio di portineria.

6. Il ricorso, in conclusione, deve essere dichiarato inammissibile, con condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

LA CORTE dichiara inammissibile il ricorso;

condanna la ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio di legittimità in favore della parte contro ricorrente,liquidate in Euro 1.400,00, di cui Euro 1.200,00 per onorari e oltre spese generali e accessori come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 19-05-2011) 23-09-2011, n. 34631 Falsità ideologica in atti pubblici commessa da privato

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza in data 4-6-2010 la Corte di Appello di Palermo confermava nei confronti di S.C. la sentenza emessa in data 4-6-2008 dal Giudice monocratico del Tribunale di Agrigento con la quale l’imputato era stato dichiarato colpevole del reato di cui all’art. 483 c.p., e art. 61 c.p., n. 2 nonchè del reato di cui agli artt. 48, 479 c.p., commessi in data (OMISSIS), con recidiva, condannato previa concessione delle attenuanti generiche ritenute prevalenti sulla recidiva, alla pena di mesi nove di reclusione.

In fatto si era contestato al S. di aver falsamente attestato – nella dichiarazione di accettazione della candidatura alla carica di deputato regionale nella lista "L’Aquilone-lista del Presidente" per l’elezione dell’Assemblea regionale Siciliana del 28/05/2006 – avente valore di autocertificazione ai sensi del D.P.R. n. 445 del 2000 – di non trovarsi in alcuna delle condizioni ostative alla candidatura previste dalla L. n. 55 del 1990, art. 15, comma 1 essendo stato accertato il passaggio in giudicato di sentenza di condanna per reato di cui agli artt. 110 e 323 c.p. emessa dal Tribunale di Palermo in data 15-1-2003 – irrevocabile il 28-1-2004 integrante causa ostativa alla candidabilità di cui alla L. cit., art. 15, comma 1, lett. c. Risultava altresì contestato il reato di cui all’artt. 48 e 479 c.p. perchè con la condotta di cui innanzi l’imputato aveva fatto formare ai componenti dell’Ufficio Centrale circoscrizionale del Tribunale di Agrigento tratti in inganno dalla falsa attestazione, una delibera di ammissione come candidato alle elezioni regionali. Per tali reati unificati ex art. 81 c.p. il primo giudice aveva inflitto – previa concessione delle attenuanti generiche ritenute prevalenti sulle contestate aggravanti e sulla recidivala pena di mesi nove di reclusione, negando il beneficio della sospensione condizionale per i precedenti ostativi.

In sede di appello il S. aveva sostenuto di avere agito in assenza di dolo, avendo sottoscritto analoga dichiarazione per la propria candidatura al Senato della Repubblica.

In secondo luogo l’appellante aveva escluso l’ipotesi di cui agli artt. 48 e 479 c.p.. sostenendo che la sua ammissione non era avvenuta per effetto della falsa dichiarazione, avendo l’Ufficio Centrale Circoscrizionale svolto gli accertamenti attraverso il sistema informatico del casellario giudiziale che avevano dato esito negativo.

Con ulteriore motivo l’appellante aveva censurato l’applicazione della recidiva.

La Corte aveva ritenuto prive di fondamento le suddette richieste della parte appellante, confermando la decisione impugnata.

Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione il difensore, deducendo;

1 – il travisamento del fatto, oltre la violazione di legge ed il difetto di motivazione. Sul punto rilevava la assenza di motivazione in riferimento all’elemento psicologico del reato,che era stata rilevata in sede di appello.

-A riguardo il ricorrente rilevava che la condotta contestata riguardava una dichiarazione(resa con apposizione di un segno"x" nella casella destinata all’uopo) di non trovarsi in alcuna delle condizioni ostative alla candidatura previste dalla L. n. 19 del 1990, n. 55, art. 15, comma 1, lett. c) precisando che l’imputato si era sbagliato nella interpretazione della normativa richiamata,ritenendo che la dichiarazione dovesse riferirsi alla assenza dei precedenti per delitto come quello ex art. 416 bis c.p. ed altri per i quali fosse prevista la pena dell’ergastolo (ritenendo che le condizioni ostative alla candidatura fossero le stesse previste per le elezioni al Senato).

In merito a tali elementi la difesa rilevava che la Corte di Appello aveva reso motivazione fondata sul travisamento del fatto, osservando che il S., secondo accertamenti effettuati dalla Corte, non si era presentato alle elezioni per il Senato.

A riguardo la difesa rilevava infatti che il predetto imputato non aveva sostenuto di essersi candidato al Senato nell’anno 2006, bensì di avere sottoscritto una dichiarazione di candidatura al Senato, alla quale non si era dato seguito. Sull’argomento dunque la difesa evidenziava l’erronea interpretazione dei predetti elementi richiamando il verbale di udienza del 13/2/2008.

In base a tali rilievi la Corte,secondo il ricorrente aveva affermato l’esistenza del dolo dell’imputato, basandosi su un travisamento delle risultanze menzionate(dichiarazioni rese dal S. in merito al fatto contestato).

2-Con ulteriore motivo la difesa deduceva la violazione degli artt. 48 e 479 c.p. e la violazione dell’art. 125 c.p.p., comma 3.

A riguardo la difesa indicava il contenuto della deposizione resa dal rappresentante dell’Ufficio Circoscrizionale che aveva eseguito le verifiche dei requisiti dei candidati alle elezioni regionali del 2006, evidenziando come fosse stato dimostrato che l’ufficio aveva eseguito i controlli che avevano dato esito negativo.

-In base a tali presupposti la difesa riteneva insussistenti gli elementi costitutivi della ipotesi delittuosa ex artt. 48 e 479 c.p. non essendo stata acquisita la prova del comportamento dell’imputato idoneo a indurre in errore l’ufficio amministrativo, e censurava la motivazione della sentenza impugnata, ritenendola apodittica e priva di riferimenti probatori.

3-Con ulteriore motivo il ricorrente deduceva la carenza della motivazione in ordine alle doglianze dell’appellante per la ritenuta applicazione della recidiva specifica infraquinquennale.

Rilevava che la disposizione enunciata dall’art. 99 c.p. prevede una concreta valutazione dei presupposti che consentono di applicare tale aggravante, e che la sentenza impugnata non aveva fornito alcuna motivazione, se non in senso meramente apodittico.

Per tali motivi concludeva chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata.

-Veniva altresì depositata memoria difensiva,contenente l’enunciazione di motivi aggiunti con i quali si deduceva:

1-la violazione di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) in relazione agli artt. 483, 48 e 479 c.p. e L.R. n. 29 del 1951, art. 15 e art. 16-bis, comma 7, lett. b).

A riguardo la difesa riteneva insussistenti gli elementi costitutivi del reato evidenziando che secondo giurisprudenza deve ritenersi esclusa l’ipotesi di cui si tratta qualora la dichiarazione del privato non abbia alcuna efficacia e valenza probatoria rispetto all’atto che il pubblico ufficiale ponga in essere, qualora la legge gli imponga autonomi poteri di controllo.

Sul punto veniva citata la deposizione del teste dell’ufficio circoscrizionale e rilevava che il funzionario aveva attestato la insussistenza delle condizioni ostative alla candidatura dell’imputato solo per un errore del casellario del Tribunale di Agrigento che non recava annotazioni ostative.

Inoltre il difensore rilevava che la dichiarazione del privato, nella specie, prevista dalla L.R. n. 29 del 1951 – deve ritenersi dall’iter amministrativo susseguente, che si svolge autonomamente.

Il ricorrente richiamava a sostegno della tesi di insussistenza del reato giurisprudenza di legittimità. (Cass. Sez. 5 – 22-1-2010, n. 11952, CED 246548 – inerente all’ipotesi di un falso documento allegato che non abbia avuto alcun effetto, in quanto privo di rilevanza probatoria.

Con ulteriore motivo rilevava la carenza di dolo e la erronea applicazione in tal senso della legge penale.

A riguardo evidenziava che la Corte territoriale non aveva valutato l’esistenza del dolo generico del delitto di falso, mentre il predetto imputato aveva solo erroneamente ritenuto che le cause ostative alla candidatura fossero analoghe a quelle richieste per candidatura al Senato.

Riteneva dovesse essere escluso il dolo richiamando giurisprudenza di questa Corte, affermando che il fatto era derivato da condotta meramente negligente o per imperizia del suddetto imputato (richiamando gli art. 43 c.p. e art. 47 c.p., comma 3).

La difesa rilevava altresì la illogicità della motivazione per travisamento della prova, avendo la Corte disatteso la tesi difensiva senza dimostrare l’esistenza del dolo. Inoltre deduceva illogicità e contraddittorietà della sentenza circa la sussistenza dei presupposti della induzione in errore del pubblico ufficiale, rilevando che da deposizione del funzionario era emerso che l’ufficio circoscrizionale doveva svolgere controlli per verificare d’ufficio la sussistenza delle condizioni di incompatibilità previste dalla legge elettorale.

Motivi della decisione

Il ricorso deve ritenersi privo di fondamento.

In ordine alla fattispecie di cui all’art. 483 c.p. deve rilevarsi che correttamente tale reato è stato ritenuto configurabile nel caso di specie, ricorrendone gli elementi costitutivi in conformità della giurisprudenza di questa Corte – Sez. 5 del 18 giugno 2009, n. 25469 – RV 243897 – ove si è stabilito che "Integra il reato di falso ideologico commesso dal privato in atto pubblico ( art. 483 c.p.) la condotta di colui che, in sede di dichiarazione sostitutiva di atto notorio, attesti falsamente di non avere subito condanne penali, considerato che, in tal caso, la dichiarazione del privato viene equiparata ad un atto pubblico destinato a provare la verità dello specifico contenuto della dichiarazione, ivi compresa l’inesistenza di condanne in capo al dichiarante, con la conseguenza che le false attestazioni al riguardo mettono in pericolo il valore probatorio dell’atto, escludendo perciò stesso l’innocuità del falso".

Non può essere esclusa nella specie, in cui si tratta di una dichiarazione attestante l’assenza di condizioni ostative alla candidatura alle elezioni regionali, la natura pubblicistica dell’atto stesso, così come la funzione di provare lo status del dichiarante al pubblico ufficio.

Peraltro, va evidenziata l’esistenza dell’elemento psicologico del reato ogni volta che si sia in presenza di una condotta cosciente e consapevole del contenuto della dichiarazione, come si desume dai principi giurisprudenziali – Cass. Sez. 2 15-12-2003, n. 47867-RV 227078 – per cui "Il dolo integratore del delitto di falsità ideologica di cui all’art. 483 c.p. è costituito dalla volontà cosciente e non coartata di compiere il fatto e nella consapevolezza di agire contro il dovere giuridico di dichiarare il vero". Nella specie,la sentenza impugnata rende motivazione da ritenersi adeguata,avendo sottolineato che il soggetto imputato era consapevole e dotato di adeguata preparazione culturale, nè si devono ritenere pertinenti e fondati i rilievi svolti ampiamente, in senso ripetitivo nel ricorso e nella memoria difensiva, tendenti a sostenere che l’imputato sia caduto in errore nella dichiarazione di cui si tratta, atteso che egli era consapevole di aver subito condanna penale passata in giudicato per delitto contro la P.A. e pertanto i rilievi della difesa non richiamano alcun presupposto di fatto che sarebbe stato idoneo a rivelare una condotta puramente colposa del soggetto agente.

Nel caso di specie ugualmente si ritiene correttamente valutata dai giudici di merito la responsabilità dell’imputato in riferimento al reato di cui agli artt. 48 e 479 c.p. atteso che era stata realizzata parimenti la condotta tesa a trarre in inganno il pubblico funzionario addetto all’ufficio per la emanazione della delibera di ammissione del candidato alle elezioni regionali, delibera ideologicamente falsa. Nè tale fattispecie resta esclusa dalla verifica di rito eseguita dal funzionario addetto al controllo – così come restano ininfluenti le deduzioni difensive tendenti ad assumere che lo stesso imputato si fosse attivato per dar luogo al procedimento,atteso che il reato di falso si configura come reato di pericolo, e nella specie, si era già verificata la condotta consapevole dell’imputato che aveva indotto in errore il destinatario della attestazione sulla assenza delle condizioni che erano preclusive della candidatura.

Come si desume dalla sentenza di primo grado,infatti,secondo la testimonianza resa dal funzionario dell’Ufficio centrale circoscrizionale, preposto alla verifica della regolarità formale delle candidature, si era emanata delibera in data 1-5-2006 dall’ufficio circoscrizionale presso il Tribunale di Agrigento che aveva ammesso tutte le Uste di candidati.

Esiste altresì la legittima affermazione del concorso tra i due reati, secondo giurisprudenza di questa Corte (Sez. 5 26 ottobre 2001, n. 38453 – poichè nel caso di specie, così come nell’ipotesi contemplata dalla citata massima "la falsa dichiarazione del privato prevista di per sè come reato,è in rapporto strumentale con la falsità ideologica che il pubblico ufficiale in quanto autore mediatola posto in essere".

La decisione impugnata deve ritenersi esente dai vizi di legittimità sia per travisamento del fatto,ovvero per carenza ed illogicità della motivazione, avendo la motivazione della sentenza del Tribunale e quella del giudice di appello che la conferma adeguata analisi dei presupposti dei reati contestati, rispondendo alle deduzioni svolte dalla difesa, specificamente richiamando con puntualità i principi della giurisprudenza fin qui evidenziati.

Nè assume particolare rilevanza il dato che il certificato penale dell’imputato fosse incompleto, avendo il predetto ricorrente conoscenza della sentenza di condanna definitiva emessa a proprio carico.

Risulta dunque verificata l’assenza delle condizioni previste dalla legge per ritenere l’errore scusabile su norma extrapenale, ai sensi dell’art. 47 c.p. (v. sentenza di primo grado a fl.5), avendo l’imputato il dovere giuridico di informarsi sulla condizione giuridica attestata al pubblico ufficio.

Peraltro il primo giudice correttamente aveva citato sentenza delle Sezioni Unite sull’argomento del reato di cui agli artt. 48 e 479 c.p..

Tali elementi rendono dunque meramente ripetitive le prospettazioni difensive, a riguardo, mentre deve ritenersi adeguata e corretta la motivazione, sia pure sinteticamente articolata dal Giudice di appello, in ordine ai presupposti che impongono la conferma della sentenza emessa dal primo giudice, non sussistendo alcuna carenza della motivazione su argomenti che restino evidentemente smentiti dalla motivazione di primo grado, e si presentino in modo ripetitivo.

Conseguentemente il ricorso deve essere rigettato, ed il ricorrente va condannato al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.