T.A.R. Lazio Roma Sez. III quater, Sent., 04-08-2011, n. 6977 Farmaci e prodotti galenici

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con ricorso notificato il 7 dicembre 2010 e depositato il successivo 22 ottobre, la Società ricorrente impugna l’atto specificato in epigrafe e ne chiede l’annullamento.

Riferisce in fatto di essere importatore parallelo di farmaci ed in tale veste ha presentato all’AIFA in data 29 gennaio 2009 una richiesta di autorizzazione all’importazione, dalla Grecia, del medicinale "Canesten 1% crema – Tubo 20 g -", considerandolo come parallelo al medicinale CANESTEN 1% crema tubo da 30g autorizzato in Italia. E ciò sulla base di una assoluta identità sostanziale dei farmaci.

L’AIFA, di contro, ha ritenuto che la modifica del confezionamento secondario renderebbe necessaria una Variazione, ai sensi del Regolamento CE n. 1234/2008 da parte del Titolare del marchio e non può essere attuata ai sensi del D.M. 29.8.1997 sulle importazioni parallele di medicinali per uso umano, poiché il farmaco in argomento non è registrato in Italia.

Anche a seguito delle controdeduzioni prodotte dalla ricorrente in data 1° ottobre 2010, l’AIFA ha confermato il proprio diniego, chiarendo che si tratterebbe di una nuova presentazione e non di un condizionamento (ovvero confezionamento) di un medicinale già autorizzato ed, inoltre, ha rilevato differenze nel foglietto illustrativo al paragrafo "Quanto", che indica la posologia e al paragrafo "Quando e per quanto tempo".

A sostegno delle proprie ragioni deduce:

1. violazione e falsa applicazione degli artt. 28 e 30 del Trattato consolidato dell’UE (oggi artt. 34 e 36 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea) e del principio di libera circolazione delle merci e delle persone; violazione e falsa applicazione del Regolamento (CE) n. 1234/2008 della Commissione e della "Guideline on the details of the various categories of variations to the terms of marketing authorisations for medicinal products for human use and veterinari medicinal products" approvata dalla Commissione il 21.12.2009; violazione e falsa applicazione della comunicazione della Commissione europea n. 839/2003. Eccesso di potere per falsità del presupposto.

Ad avviso della ricorrente erra l’AIFA nel ritenere che la richiesta di autorizzazione all’importazione parallela del medicinale "Canesten 1% crema – Tubo 20 g -",, nel riconfezionamento (rietichettatura) proposto, rientrerebbe tra le "Variazioni" elencate nei paragrafi B.II.e.4 e B.II.e.5 della Guideline e richiederebbe una "Variazione" per una nuova presentazione di confezione, poiché il Regolamento n. 1234/2008 si applica esclusivamente all’"esame delle variazioni dei termini delle autorizzazioni all’immissione in commercio di medicinali per uso umano o di medicinali veterinari" e riguarda esclusivamente le AIC e non può, quindi, disciplinare le AIP.

A dimostrazione dell’errore in cui è incorsa l’AIFA è sufficiente la considerazione che se si trattasse di procedimento di "Variazione" sarebbe necessaria la messa a disposizione della ricorrente del "Dossier di registrazione contenente le informazioni sul farmaco", che naturalmente è nella disponibilità esclusiva della Titolare di AIC e non fruibile dall’importatore parallelo;

2. Violazione e falsa applicazione della normativa comunitaria dettata in tema di libera circolazione delle merci (artt. 28 e 30 del Trattato Consolidato) sotto differente profilo, nonché della comunicazione della Commissione europea n. 839/2003; falsa applicazione della sentenza CGE 433/00.

Con il diniego emesso dall’AIFA risulta violato il principio della libera circolazione delle merci di cui agli artt. 28 e 30 della versione consolidata del Trattato Istitutivo della Comunità Europea. Soltanto esigenze di tutela della salute e della vita delle persone nonché della proprietà industriale e commerciale giustificherebbero eventuali limitazioni all’applicazione di tale principio, che nella specie non sono rinvenibili, posto che trattasi soltanto di riconfezionamento, restando il prodotto identico, che consente l’utilizzo mediante l’apertura di un tubo contenente un quantitativo ridotto di farmaco. In proposito viene richiamata la decisione della Corte di Giustizia Europea (sentenza n. 276 del 22.12.2008), la quale ha espressamente previsto che il titolare del marchio non può legittimamente opporsi all’ulteriore smercio di un prodotto farmaceutico anche nel caso in cui l’importatore abbia riconfezionato il farmaco, riapponendo il marchio;

3. Eccesso di potere, difetto di istruttoria e di motivazione, disparità di trattamento.

La ricorrente assume la inconferenza dei rilievi formulati dall’AIFA in relazione alle differenze nel foglietto illustrativo.

4. violazione e falsa applicazione del D.M. 29.8.1997 e del d. lgs. n. 219 del 2006, nonché del giusto procedimento e della legge n. 241 del 1990. Violazione del principio di proporzionalità.

Erra l’Agenzia nel ritenere applicabile il decreto legislativo n. 219 del 2006, poiché esso si applica esclusivamente alle richieste di Autorizzazione alla immissione in commercio, mentre per le Autorizzazioni all’importazione parallela occorre fare riferimento al D.M. 29 agosto 1997.

Il provvedimento impugnato viola, altresì, il principio di proporzionalità, che vincola l’Amministrazione non solo nel momento della gradazione della sanzione, ma anche nel momento provvedimentale, nei casi in cui si pongono limiti alla sfera giuridica dei soggetti;

5. violazione e falsa applicazione dell’art. 10 bis della legge n. 241 del 1990; vizio del procedimento; falsità del presupposto, poiché in sede di adozione del provvedimento finale ha solo parzialmente replicato alle giustificazioni prodotte dalla ricorrente.

L’Amministrazione intimata, costituitasi in giudizio, conclude per il rigetto del ricorso.

All’Udienza del 6 luglio 2011 la causa è stata trattenuta in decisione.

Motivi della decisione

Come esposto in narrativa oggetto della presente controversia è il diniego opposto dall’Agenzia Italiano del Farmaco (AIFA) alla richiesta, formulata dalla Società P.S.I. S.r.l., di autorizzazione all’importazione dalla Grecia del medicinale "CANESTEN 1% Crema – tubo 20g", proponendo il riconfezionamento (la rietichettatura) del medicinale, considerandolo come parallelo al medicinale CANESTEN 1% crema – tubo da 30 g, autorizzato in Italia. E ciò sulla base di una assoluta identità sostanziale dei farmaci.

L’AIFA, di contro, ha ritenuto che la modifica del confezionamento secondario renderebbe necessaria una "Variazione", ai sensi del Regolamento CE n. 1234/2008 da parte del Titolare del marchio e non può essere attuata ai sensi del D.M. 29.8.1997 sulle importazioni parallele di medicinali per uso umano, poiché il farmaco in argomento non è registrato in Italia.

Il ricorso non merita accoglimento.

Giova chiarire in via preliminare che il D.M. 29 agosto 1997, sulla base delle cui disposizioni è stato adottato il provvedimento impugnato, stabilisce che, nella procedura di importazione parallela, il farmaco esportato deve essere essenzialmente analogo al prodotto, con il medesimo principio attivo, la stessa forma farmaceutica ed il medesimo confezionamento autorizzato nel Paese di origine.

Consegue che il "confezionamento", costituisce uno degli elementi di identificazione del farmaco, come autorizzato in Italia, la cui modifica nella forma o nelle dimensioni può comportare un significativo impatto sull’uso, sulla consegna e sulla stabilità del prodotto finito con la conseguenza che la modifica del confezionamento del farmaco rientra nelle ipotesi di "Variazioni" elencate nel B.II.e.4 e B.II.e.5 della "Guideline on the details of the various categories of variations to the terms of marketing authorisations for medicinal products for human use and veterinari medicinal products".

Tuttavia, affinché si possa richiedere una "Variazione" per una nuova confezione, è necessario che il richiedente sia già titolare di una AIC di una confezione del medesimo medicinale, secondo quanto previsto dall’art. 47 del decreto legislativo n. 219 del 2006.

Nel caso di specie, la ricorrente, quale AIP e, quindi, priva di AIC, può importare il farmaco solo adeguandolo alla confezione autorizzata in Italia, vale a dire con un tubo da 30 grammi.

D’altro canto è ragionevole che l’importazione parallela di farmaci si svolga nell’ambito delle regole che disciplinano l’immissione in commercio dei farmaci stessi, sicché l’ingresso sul mercato di farmaci importati parallelamente è consentito soltanto a condizione che al prodotto importato sia stata concessa un’autorizzazione all’immissione in commercio nello Stato membro di origine e il prodotto importato sia analogo ad un prodotto che ha già ricevuto l’AIC nello Stato di destinazione.

Per maggior chiarezza giova precisare che il richiamo al Regolamento n. 1234/2008 è stato effettuato dall’AIFA solo a supporto della motivazione di diniego e non quale normativa direttamente applicabile al caso di specie.

Alla luce dei termini normativi sopra riportati deriva la infondatezza del primo motivo.

Parimenti infondato è il secondo motivo di ricorso, poiché la ricorrente Società muove dal presupposto che il riconfezionamento non altererebbe le condizioni originali del prodotto, mentre, al contrario, le norme testé esaminate inducono a ritenere che nell’importazione parallela il farmaco importato debba essere analogo anche nel confezionamento al prodotto autorizzato in Italia. Le argomentazioni addotte in proposito dalla ricorrente non appaiono conferenti, essendo rimessa tale valutazione ad una fase successiva, cioè nella fase di controllo da parte del titolare del marchio.

Aggiunge la ricorrente che il diniego impugnato condurrebbe ad un artificioso isolamento del mercato interno.

Osserva il Collegio che ciò non può essere imputato all’AIFA, poiché l’Amministrazione ha correttamente applicato i principi informatori del Trattato Istitutivo della Comunità europea ed il principio di libera circolazione dei medicinali nel mercato interno. La ricorrente, di contro, ha avanzato una domanda pur essendo priva dei presupposti previsti dalla normativa in vigore, non essendo titolare di AIC in Italia in relazione al medesimo farmaco. Circostanza questa che l’avrebbe abilitata a procedere alla Variazione; procedura necessaria per procedere alla modifica del confezionamento del farmaco.

Infondato è altresì il terzo motivo di ricorso.

Invero, in base agli studi presentati in occasione della richiesta di AIC sia l’Applicant che l’Autorità competente al rilascio di detta autorizzazione hanno ritenuto adeguata quella quantità di prodotto in base alle applicazioni di crema giornaliere per una idonea copertura terapeutica; conseguentemente, ciò che ha inteso spiegare l’AIFA è che nel caso in cui si dovesse commercializzare un farmaco contenente una quantità di prodotto minore o diversa rispetto a quella già autorizzata in Italia, sarebbe necessario dismettere la qualifica di AIP e procedere alla registrazione del farmaco con un nuovo nome, come titolare di AIC, con modifica di vari punti del foglio illustrativo, con particolare riferimento ai paragrafi "Quanto" e "Quando e per quanto tempo".

Parimenti infondato è il quarto motivo di ricorso con cui la ricorrente lamenta la violazione del principio di proporzionalità e la violazione del D.M. 29 agosto 1997, concernente le procedure di autorizzazione all’importazione parallela delle specialità medicinali.

Invero, tale decreto disciplina la procedura per l’autorizzazione al commercio di una specialità medicinale per uso umano già registrata in Italia a favore di un titolare diverso dall’importatore ed importata da uno Stato membro dell’Unione europea nel quale essa è registrata. Nel caso di specie il medicinale in argomento è registrato in Italia a nome della Società B. S.pa., sicché alla ricorrente, nella qualità di importatore parallelo, non è consentito presentare una domanda nella qualità di titolare di AIC, che compete esclusivamente alla B. S.pa, poiché – come evidenziato sopra – la richiesta di modifica del confezionamento comporta una "Variazione" per una nuova confezione, che può essere avanzata dal titolare di una AIC di una confezione del medesimo medicinale, secondo quanto previsto dall’art. 47 del decreto legislativo n. 219 del 2006 e non dall’importatore parallelo.

Alla luce di tali considerazioni sono infondate le censure relative alla violazione del principio di proporzionalità.

Per quanto concerne il quinto motivo di ricorso, con cui viene lamentata la violazione dell’art. 10 bis della legge n. 241 del 1990, in quanto in sede di adozione del provvedimento finale l’AIFA avrebbe solo in parte replicato alle giustificazioni proposte, si osserva che, nel provvedimento impugnato, l’AIFA ha diffusamente chiarito le motivazioni del diniego, confutando le argomentazioni esposte dalla ricorrente nel proprio scritto di replica all’atto di preavviso di rigetto del 1° ottobre 2010.

Per le argomentazioni che precedono, il ricorso deve essere respinto.

In relazione ai profili della controversia le spese del giudizio possono essere compensate fra le parti.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza Quater)

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Compensa tra le parti le spese di giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 20-05-2011) 19-08-2011, n. 32526 Giudizio d’appello sentenza d’appello

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con sentenza in data 13 giugno 2007 il Tribunale di Termini Imerese assolveva per insussistenza del fatto G.F., legale rappresentante del Club Mediterranee di (OMISSIS), e M. G.A., responsabile del personale dello stesso Club, dal reato di concorso in estorsione loro contestato al capo 1 (secondo la prospettazione accusatoria gli imputati avevano minacciato alcuni lavoratori stagionali di licenziamento o di mancata riassunzione nella stagione successiva, costringendoli ad effettuare ore di lavoro straordinario non retribuito e a rinunciare alle ore di riposo settimanale e, inoltre, ad effettuare prestazioni lavorative al loro esclusivo servizio all’esterno della struttura, così procurandosi l’ingiusto profitto di far risultare una gestione più economica del Club e dell’ottenere prestazioni lavorative non retribuite per il loro esclusivo vantaggio). Il G. e il M. venivano assolti per insussistenza del fatto anche dai reati, aggravati e continuati, loro ascritti ai capi 2 e 3, di concorso in tentata violenza privata (con riferimento alle pressioni rivolte ad alcuni lavoratori per indurli a cancellare la loro iscrizione al sindacato, sotto la minaccia del licenziamento o della mancata riassunzione) e in appropriazione indebita di beni e materiali vari appartenenti al Club di (OMISSIS), di cui secondo la contestazione avevano il possesso in relazione alla qualifica di direttore del villaggio il G. e di responsabile del personale il M.. Il M. veniva assolto, inoltre, per insussistenza del fatto dai reati di concorso in violenza privata aggravata e continuata (capi 4 e 5) ascrittigli in concorso con F.V., Gu.Fr. e M.F., con esclusione della condotta ai danni di T.G., qualificata come reato di minaccia in ordine al quale il Tribunale dichiarava l’improcedibilità per mancanza di querela nei confronti del Gu. assolvendo gli altri imputati (tra cui M.G.A.) per non aver commesso il fatto.

La Corte di appello di Palermo con sentenza emessa in data 5 maggio 2010, in accoglimento dell’appello del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Termini Imerese, dichiarava il G. e M.G.A. colpevoli del reato di estorsione, esclusa l’aggravante dell’art. 112 c.p., e li condannava, con le circostanze attenuanti generiche per entrambi, alla pena di anni quattro, mesi otto di reclusione ed Euro 1.500,00 di multa ciascuno, con la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per anni cinque, dichiarando condonate la pena detentiva nella misura di anni tre e l’intera pena pecuniaria. Dichiarava inoltre non doversi procedere nei confronti dei predetti imputati in ordine ai reati di tentata violenza privata e appropriazione indebita, perchè estinti per prescrizione. Il G. e il M. venivano infine condannati al risarcimento dei danni, da liquidarsi separatamente, e alla rifusione delle spese in favore delle parti civili UIL TuCS (Unione Italiana Lavoratori Turismo Commercio e Servizi), Club Mediterranee, S.H., Me.Pa. e Ge.Gi..

Le restanti statuizioni venivano confermate.

Avverso la predetta sentenza gli imputati G. e M. hanno proposto, tramite i rispettivi difensori, separati ricorsi per cassazione.

Con il ricorso presentato dall’imputato G. si deduce:

1) la violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b ed e, art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e), art. 125 c.p.p., comma 3, in relazione all’art.629 c.p., per erronea applicazione della legge penale e motivazione carente e manifestamente illogica, essendosi la Corte di appello limitata, quanto al reato di estorsione, ad enunciazioni apodittiche e sommarie nel pervenire a conclusioni diverse da quelle del giudice di primo grado in ordine all’idoneità della minaccia a coartare la libera determinazione della volontà del soggetto passivo e alla sussistenza dell’ingiustizia del profitto; infatti il G. e il M. non avrebbero avuto alcun interesse ad imporre ore di straordinario non retribuite o la mancata fruizione dei riposi settimanali ai lavoratori che comunque firmando il contratto, benchè senza l’apposizione della data di scadenza, acquisivano il diritto alla riassunzione; il giudice di appello avrebbe capovolto il giudizio di inattendibilità o inidoneità delle singole testimonianze attraverso un esame parziale delle dichiarazioni dei testi, senza individuare le specifiche condotte attribuite al G.; in particolare, secondo il ricorrente, il teste Me.

P. era stato ritenuto attendibile, pur avendo reso tre diverse versioni, e la frase attribuita dal teste al M. ("se non ti conviene, dimettiti") sarebbe stata erroneamente interpretata come una minaccia, mentre si sarebbe omesso di analizzare il ruolo che nell’episodio riferito avrebbe avuto il G.; sarebbe stato travisato, inoltre, il contenuto delle dichiarazioni del teste g.g. (il quale aveva appreso solo dal firmatario dell’esposto, Me.Pa., delle minacce di licenziamento e aveva opposto un rifiuto, "indipendentemente dalla retribuzione", all’unica richiesta di lavoro straordinario fattagli dal G.), avendo il giudice di appello prima dato atto del rifiuto del teste a compiere il lavoro straordinario e poi, contraddittoriamente, affermato che il teste aveva compiuto detto lavoro; i testi Me. e g., peraltro, erano stati gli autori del "comunicato stampa" del (OMISSIS) che denunciava le vessazioni cui sarebbero stati sottoposti i dipendenti del Club Mediterranee di (OMISSIS) e che, solo casualmente, era stato inviato alla Procura della Repubblica; non sarebbero state confutate adeguatamente le argomentazioni attraverso le quali il giudice di primo grado aveva ritenuto inattendibile il teste Ge. e prive di carattere estorsivo le richieste di lavori eseguiti dal teste all’esterno del Club per conto del G.; non si sarebbe tenuto conto che la teste S. aveva escluso di aver ricevuto minacce dal G. e di aver svolto lavoro straordinario, affermando di essersi rifiutata di svolgere prestazioni lavorative per la cugina del ricorrente; quanto ai testi D., m., ma. e P. il giudice di appello non avrebbe motivato il convincimento della loro attendibilità, negata dal primo giudice con specifiche argomentazioni;

2) l’erronea applicazione dell’art. 129 c.p.p. e la carenza di motivazione in ordine alla pronuncia di estinzione per prescrizione relativamente ai reati ascritti ai capi 2 e 3 (tentata violenza IMA, privata e appropriazione indebita), senza previo esame di tutto il compendio probatorio ai fini della valutazione della fondatezza dell’appello del pubblico ministero (Cass. Sez.Un. 28 maggio 2009 n.35490, Tettamanti); in particolare il giudice di appello non avrebbe valutato, quanto al capo 2, che – come evidenziato dal giudice di primo grado – dalle dichiarazioni testimoniali dei quattro lavoratori che sarebbero stati minacciati per costringerli a cancellare l’iscrizione al sindacato emergerebbe solo un episodio risalente al 1996, diverso da quello contestato; quanto al capo 3 si sarebbe omesso di considerare che solo nei confronti del M. erano stati eseguiti una perquisizione e un sequestro e che gli oggetti rinvenuti non erano ricollegabili al G.;

3) la violazione degli artt. 81 e 133 c.p. quanto alla determinazione della pena per la continuazione (anni uno, mesi quattro di reclusione ed Euro 600,00 di multa), senza distinguere tra i singoli episodi estorsivi (non datati e attribuiti ora all’uno, ora all’altro imputato);

4) la violazione degli artt. 74 e 538 c.p.p., e il difetto di motivazione relativamente alla condanna al risarcimento dei danni in favore delle parti civili UIL TuCS (in relazione ai fatti estorsivi ai danni dei lavoratori prima dell’iscrizione di questi ultimi al sindacato) e Club Mediterranee (che non avrebbe subito alcun danno dalle estorsioni ai danni dei dipendenti, avendo anzi tratto profitto da una gestione più economica dell’organizzazione del lavoro; in ipotesi solo il reato di appropriazione indebita, di cui era stata dichiarata l’estinzione per prescrizione, avrebbe comportato danni per il Club).

Con il ricorso depositato nell’interesse dell’imputato M. si deduce:

1) la violazione e la falsa applicazione di legge in relazione all’art. 629 c.p.p., e la carenza, manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione nonchè il travisamento del fatto con riferimento, quanto al reato di estorsione, agli elementi costitutivi della minaccia e dell’ingiustizia del profitto; in particolare il giudice di appello non avrebbe considerato che: a) i lavoratori stagionali del Club Mediterranee venivano assunti, in tutta Italia, senza indicazione nei contratti a termine della data di fine rapporto; b) il M., elettricista, solo in una stagione aveva svolto la funzione di responsabile del personale, senza alcun potere di assunzione o licenziamento; c) era il capo villaggio, rappresentante ufficiale della direzione generale, ad avere la gestione effettiva del personale; d) nessun lavoratore era stato minacciato, nemmeno implicitamente, dal ricorrente; e) i lavoratori stagionali erano a conoscenza del diritto di precedenza riservato dalla normativa vigente per l’assunzione nell’anno successivo e tale diritto non risultava essere stato in concreto violato; f) solo il teste Ge.Gi. aveva parlato di prestazioni lavorative effettuate per il ricorrente senza retribuzione (peraltro nell’anno 1994, quando il M. non era capo del personale), a differenza dei testi D. e C., mentre il teste Fi.Nu. aveva fatto riferimento a regalie del ricorrente in favore del Ge.; g) il materiale sequestrato a casa del M. era di lecita provenienza (come poteva desumersi dalle dichiarazioni del teste ge.fr., responsabile del materiale); h) il ricorrente a seguito di una vertenza di lavoro con il Club Mediterranee, definita con transazione, sarebbe stato risarcito nella misura di 500 milioni di lire circa; si fa infine rilevare, per quanto riguarda specificamente la condotta attribuita al M., che non vi era stata alcuna minaccia nei confronti dei dipendenti nè era stato comunque dimostrato il potere del ricorrente di assumere o licenziare lavoratori;

2) la violazione e falsa applicazione dell’art. 129 c.p.p., e la carenza della motivazione in ordine alla meno favorevole pronuncia dichiarativa dell’estinzione per prescrizione dei reati di tentata violenza privata e appropriazione indebita contestati ai capi 2 e 3;

il ricorrente osserva che, conformemente a quanto stabilito dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione nella sentenza n.35490 del 2009, il giudice di appello avrebbe potuto riformare la pronuncia assolutoria emessa dal giudice di primo grado, in presenza di una sopravvenuta causa estintiva del reato, solo se avesse ritenuto fondato nel merito l’appello fornendo un’adeguata motivazione; nel caso di specie il M. sarebbe stato del tutto estraneo alle vicende riguardanti la cancellazione di alcuni lavoratori dall’iscrizione al sindacato di appartenenza;

3) la violazione e la falsa applicazione degli artt. 81 e 133 c.p., quanto alla determinazione dell’aumento di pena per i fatti estorsivi in continuazione nella misura di anni uno, mesi quattro di reclusione ed Euro 600,00 di multa, senza l’indicazione dei singoli episodi estorsivi e della loro collocazione temporale, rilevante quest’ultima anche ai fini dell’eventuale estinzione per prescrizione.

Con la memoria difensiva contenente motivi nuovi, depositata in data 16 maggio 2011 nell’interesse del ricorrente M., si deduce l’inosservanza o erronea applicazione dell’art. 629 c.p., la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione risultante dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti del processo, l’inosservanza o erronea applicazione dell’art. 133 c.p..

La Corte rileva che i motivi nuovi presentati unitamente alla memoria difensiva nell’interesse dell’imputato M. non possono essere esaminati perchè tardivi, essendo stati presentati solo in data 16 maggio 2011, quindi quattro giorni prima dell’odierna udienza. L’art. 585 c.p.p., comma 4, prevede, infatti, che possano essere presentati motivi nuovi fino a quindici giorni prima dell’udienza.

I ricorsi sono peraltro fondati per le ragioni che seguono.

Va preliminarmente rilevato che, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte che si è espressa sul punto anche a sezioni unite (Cass. sez. 6^ 29 aprile 2009 n.22120, Talone; sez. 5^ 17 ottobre 2008 n. 42003, Pappalardo; sez. 6^ 20 aprile 2005 n. 6221, Aglieri; Sez. Un. 12 luglio 2005 n.33748, Marinino), nella motivazione della sentenza di condanna pronunciata in appello che riformi la sentenza assolutoria di primo grado il giudice ha l’obbligo di confutare in modo specifico e completo le argomentazioni della decisione di assoluzione e di valutare le ulteriori argomentazioni non sviluppate in tale decisione ma comunque dedotte dall’imputato dopo la stessa e prima della sentenza di secondo grado, pronunciandosi altresì sui motivi di impugnazione relativi a violazioni di legge intervenute nel giudizio di primo grado in danno dell’imputato e da questi non dedotte per carenza di interesse, nonchè sulle richieste subordinate avanzate dall’imputato stesso in sede di discussione nel giudizio di primo grado. Si è ritenuto necessaria, in particolare, la dimostrazione dell’incompletezza o della non correttezza ovvero dell’incocrenza delle argomentazioni del giudice di primo grado, con rigorosa e penetrante analisi critica seguita da completa e convincente motivazione che, sovrapponendosi a tutto campo a quella del primo giudice, senza lasciare spazio alcuno, dia ragione delle scelte operate e del privilegio accordato ad elementi di prova diversi o diversamente valutati (Cass. sez. 4^ 29 novembre 2004 n. 7630, Marchiorello).

Nel caso in esame la motivazione della sentenza impugnata consta per le prime ottantacinque pagine dell’esposizione delle ragioni che avevano determinato il giudice di primo grado ad emettere la sentenza assolutoria nei confronti del G. e del M. e dei motivi dell’ appello presentato dal pubblico ministero, mentre le restanti pagine sono dedicate in buona parte ad una rassegna della giurisprudenza di legittimità in materia di configurabilità del reato di estorsione, nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato, in ordine alle pretese del datore di lavoro aventi ad oggetto prestazioni lavorative gratuite o, comunque, non retribuite, ovvero retribuite in misura inferiore a quella prevista dai contratti collettivi o individuali di lavoro. Alla pur ampia esposizione teorica non è seguita tuttavia un’adeguata analisi delle dichiarazioni testimoniali di alcuni testi la cui attendibilità era stata messa in discussione dal giudice di primo grado con argomentazioni che non risultano confutate specificamente dal giudice di appello che pure ha affermato, sulla base principalmente delle stesse dichiarazioni testimoniali, la responsabilità degli imputati in ordine al reato di estorsione ed ha riformato la pronuncia assolutoria del Tribunale in ordine agli altri due reati di violenza privata e appropriazione indebita dichiarando l’improcedibilità dell’azione penale perchè estinti per intervenuta prescrizione.

Per quanto riguarda in particolare il reato di estorsione, oggetto del primo motivo in entrambi i ricorsi, la Corte ritiene che il giudice di appello non abbia giustificato l’affermazione di responsabilità, e la conseguente condanna, dei ricorrenti con l’approfondimento che le dettagliate argomentazioni contenute nella sentenza assolutoria di primo grado, cui è stato riservato ampio spazio nella parte espositiva della sentenza impugnata, avrebbero richiesto e che, pertanto, la sentenza impugnata si fondi su una motivazione complessivamente carente per quanto riguarda l’accertamento della condotta degli imputati, con riferimento sia all’idoneità della minaccia che all’ingiustizia del profitto.

Relativamente all’idoneità della minaccia, questa Corte ha più volte affermato che la minaccia costitutiva del delitto di estorsione, oltre ad essere palese ed esplicita, può essere manifestata anche in maniera implicita ed indiretta, essendo solo necessario che sia idonea ad incutere timore ed a coartare la volontà del soggetto passivo, in relazione alle circostanze concrete, alla personalità dell’agente, alle condizioni soggettive della vittima e alla situazione ambientale in cui questa opera (Cass. sez. 2^ 20 maggio 2010 n. 19724, Pistoiesi; sez. 2^ 10 aprile 2008 n.26819, Dell’Utri; sez. 5^ 22 settembre 2009 n. 41507, Basile). La valutazione dell’idoneità della minaccia non può quindi prescindere da un esame approfondito delle modalità attraverso le quali l’intimidazione viene posta in essere, dell’ingiustizia della pretesa, della personalità sopraffattrice dell’agente e della particolare condizione soggettiva della vittima venutasi a trovare nella condizione di subire la volontà del soggetto attivo per evitare, in caso di mancata adesione, il paventato timore di un grave pregiudizio. Il giudice di primo grado aveva analizzato, a questo riguardo, con particolare scrupolo le dichiarazioni dei testi Me., Ge., S., g., D. e m. – costituitisi parte civile, ad eccezione del g. e del m. – nonchè dei testi P. e B. i quali (a differenza di altri lavoratori stagionali del Club sentiti anch’essi come testi in dibattimento) avevano riferito di aver ricevuto minacce dagli imputati o comunque di aver avuto contatti significativi con gli stessi e aveva posto in evidenza, con argomentazioni articolate (sintetizzate nei ff. 14-40 della sentenza impugnata), le numerose contraddizioni, imprecisioni, confusioni emergenti dai singoli esami testimoniali sull’effettivo contenuto delle richieste asseritamente intimidatorie ricevute dagli imputati e sulla loro frequenza. Nella sentenza impugnata, pur essendo state passate in rassegna le dichiarazioni dei predetti testi, difetta un’adeguata valutazione critica che consenta di ricostruire il percorso logico seguito per svalutare le conclusioni del giudice di primo grado circa l’inattendibilità dei testi per quanto riguarda la condotta intimidatoria degli imputati. Anche in relazione all’effettiva sfera di autorità degli imputati G. (che dalle procure in atti risultava essere autorizzato ad assistere e difendere la società Club Mediterranee in giudizio, ma non aveva alcun incarico organizzativo nella struttura turistica operante nel suo paese natale) e M. (il quale aveva svolto per un breve periodo, nemmeno formalmente, le funzioni di capo del personale ed aveva la qualifica di elettricista) per quanto concerneva l’assunzione o il licenziamento del personale nell’ambito della struttura organizzativa del Club di (OMISSIS) (il cui responsabile – rappresentante ufficiale del datore di lavoro e, secondo la prospettazione accusatoria, praticamente esautorato dagli imputati – non viene nemmeno indicato nominativamente), il giudice di appello ha disatteso in maniera del tutto generica, arrivando a ribaltare la pronuncia assolutoria, i rilievi critici del giudice di primo grado sulle dichiarazioni dei testi sotto il profilo dell’idoneità delle richieste degli imputati ad incutere timore e coartare la loro volontà.

La Corte ritiene, inoltre, che meriti una più precisa e puntuale analisi delle risultanze processuali l’individuazione dell’ingiusto profitto che nella sentenza impugnata risulta indicato genericamente, senza alcun riferimento specifico, "nell’utilizzazione delle energie lavorative di alcuni dei lavoratori assunti presso il Club Med per l’esecuzione di lavori di ristrutturazione e/o di manutenzione in immobili di proprietà degli imputati o di loro parenti" e, quanto al lavoro (anche) straordinario non retribuito svolto nell’ambito del Club, "nel vantaggio suscettibile di tradursi in un incremento patrimoniale per gli imputati, quali la possibilità di ottenere aumenti di stipendio, gratifiche, etc. avendo essi fatto risultare una gestione più economica della struttura". Va ricordato che, secondo la giurisprudenza di questa Corte (Cass. sez. 2^ 31 marzo 2008 n. 16658, Colucci; sez. 2^ 17 novembre 2005 n.29563, Calabrese), in tema di estorsione l’elemento dell’ingiusto profitto si individua in qualsiasi vantaggio, non solo di tipo economico, che l’autore intenda conseguire e che non si collega ad un diritto, ovvero è perseguito con uno strumento antigiuridico o con uno strumento legale ma avente uno scopo tipico diverso. Nella motivazione della sentenza impugnata – a fronte di una dettagliata analisi delle dichiarazioni testimoniali sui lavori eseguiti nell’interesse del G. e del M. e della sostanziale negazione in gran parte dei casi di un collegamento tra l’esecuzione dei lavori e la condotta asseritamente intimidatoria degli imputati – manca l’esposizione delle ragioni per le quali il giudice di appello è stato di contrario avviso, mentre risulta privo dell’indicazione ci concreti elementi di probatori l’assunto dei vantaggi di carriera, rilevanti anche sotto il profilo economico, che gli imputati avrebbero tratto dalla mancata corresponsione della retribuzione per il lavoro straordinario ai lavoratori o dalla mancata fruizione da parte dei dipendenti dei riposi settimanali.

Anche il secondo motivo di entrambi i ricorsi è fondato.

Nel caso di specie, a fronte dell’assoluzione in primo grado e dell’appello del pubblico ministero, è stata dichiarata l’estinzione per intervenuta prescrizione dei reati di tentata violenza privata e appropriazione indebita senza adeguata motivazione sulla fondatezza dell’appello del pubblico ministero, motivazione che avrebbe comportato la confutazione degli argomenti posti dal giudice di primo grado a fondamento della pronuncia assolutoria. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, infatti, il giudice dell’impugnazione, qualora l’imputato sia stato assolto con formula piena e contro tale decisione sia proposto gravame del pubblico ministero, può applicare una sopravvenuta causa di estinzione del reato solo se reputi fondata l’impugnazione, così da escludere che possa persistere la pronuncia di merito più favorevole all’imputato, con la conseguenza che la sentenza che dichiara la causa estintiva deve essere adeguatamente motivata sul punto (Cass. sez. 5^ 11 dicembre 2009 n. 4123, B.; Sez. Un. 28 maggio 2009 n.35490, Tettamanti).

Si impone pertanto, alla luce delle lacune motivazionali e dei principi di diritto sopra richiamati, l’annullamento della sentenza impugnata, con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Palermo per nuovo giudizio.

P.Q.M.

annulla con rinvio la sentenza impugnata e dispone trasmettersi gli atti ad altra sezione della Corte di appello di Palermo per nuovo giudizio.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Lombardia Milano Sez. IV, Sent., 13-10-2011, n. 2425

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con il ricorso in oggetto ritualmente notificato e depositato, è stato impugnato il provvedimento in epigrafe specificato del quale il ricorrente assume l’illegittimità sotto diversi profili e chiede, previa sospensione, l’annullamento.

Si è costituita in giudizio l’intimata Amministrazione chiedendo la reiezione delle domande del ricorso.

Con ordinanza 25 maggio 2010 n. 477 questo TAR ha accolto la formulata istanza cautelare.

Alla pubblica udienza del 4 ottobre 2011, sentito il patrono dell’Amministrazione, la causa è stata assunta in decisione.

Rileva il Collegio che dagli atti di causa (nota della Questura di Milano Uff. Imm., 11 aprile 2011 Cat. 159553/A11/2002 Imm. Cont.) emerge che in data 24 febbraio 2011 è stato emesso dalla suddetta Questura il permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo I01097274 per motivi di lavoro subordinato; il che ha determinato il venir meno dell’interesse del ricorrente alla prosecuzione del giudizio in questione;

Ritenuto, pertanto, che a cagione di quanto sopra indicato, il ricorso in epigrafe è divenuto improcedibile e che le spese processuali possono essere compensate tra le parti, fatto salvo il riconoscimento della spettanza al ricorrente del corrisposto contributo unificato di Euro 250,00.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Quarta)

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo dichiara improcedibile per sopravvenuto difetto di interesse.

Spese compensate tra le parti con spettanza al ricorrente del rimborso del contributo unificato di Euro 250,00.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 08-03-2012, n. 3634 Liquidazione, riliquidazione e perequazione della pensione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Con ricorso al Tribunale di Trani T.L., operaia agricolo a tempo determinato, lamentava che l’INPS avesse calcolato il trattamento pensionistico a lui spettante in misura inferiore al dovuto, perchè, applicando erroneamente il D.P.R. n. 488 del 1968, art. 28, aveva fatto riferimento, per la determinazione della retribuzione pensionabile per ciascun anno, al salario medio pubblicato con i decreti del Ministero del Lavoro, i quali fissavano tale salario non già in relazione all’anno in cui era stato prestato, ma in relazione all’anno immediatamente precedente.

Ciò premesso, il ricorrente chiedeva la condanna dell’INPS alla riliquidazione della pensione da calcolarsi sulla base de salario convenzionale del DPR pubblicato nell’anno successivo.

L’adito Tribunale, nel regolare contraddittorio delle parti, accoglieva la domanda.

Tale decisione, appellata dall’INPS, è stata riformata dalla Corte di Appello di Bari con sentenza n. 3821 del 2009, che ha rigettato la domanda dell’originario ricorrente escludendo il riconoscimento del diritto dell’appellato alla riliquidazione della pensione in godimento sulla base delle retribuzioni medie giornaliere per gli operai agricoli a tempo determinato, relative ai cinque anni precedenti il pensionamento, come rilevate, del D.P.R. n. 488 del 1968, ex art. 28, con i decreti ministeriali pubblicati, per ciascuno dei predetti cinque anni, nell’anno immediatamente successivo alla data di maturazione del diritto a pensione.

Contro la sentenza di appello ricorre lo S. con tre motivi, di cui i primi due riguardano asserite violazioni delle regole legislative per la riliquidazione della pensione in questione e il terzo la violazione dell’art. 112 c.p.c., con riferimento specifico all’indice ISTAT di rivalutazione della retribuzione considerata dall’INPS..

Resiste L’INPS con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato rispettiva memoria ex art. 378 c.p.c..

2. Il ricorso non ha pregio e va disatteso.

Questa Corte ha affermato da ultimo (cfr. Cass. Ord. n. 12143 del 3 giugno 2011; Cass. Ord. N. 18833 del 20 agosto 2010; Cass. Sent. n. 2351 del 30 gennaio 2009 ed altre numerose decisioni conformi) che "in tema di pensione di pensione di vecchiaia degli operi agricoli a tempo determinato la retribuzione pensionabile per gli ultimi anni di lavoro va calcolata applicando il D.P.R. 27 aprile 1968, n. 488, art. 28, e, dunque, in forza della determinazione operata anno per anno dal D.M. sulla media delle retribuzioni fissate dalla contrattazione provinciale dell’ano precedente, ciò trovando conferma – oltre che nella impossibilità di rinvenire un diverso e più funzionale sistema di calcolo, che non pregiudichi l’equilibrio stesso della gestione previdenziale del settore – anche nella disposizione di cui alla L. 17 maggio 1999, n. 144, art. 45, comma 21 – che, nell’interpretare autenticamente la L. n. 457 del 1972, art. 8, concernente le prestazioni temporanee in favore dei lavoratori agricoli, ha inteso estendere ai lavoratori agricoli a tempo determinato l’applicazione della media della retribuzione prevista dai contratti collettivi provinciali vigenti al 30 ottobre dell’anno precedente prevista per i salariati fissi, così da ricondurre l’intero sistema ad uniformità, facendo operare, ai fini del calcolo di tutte le prestazioni, le retribuzioni dell’anno precedente".

Va aggiunto che questo orientamento, che il Collegio condivide pienamente, è stato confermato dalla L. n. 191 del 2009, art. 2, comma 5, contenente disposizione di interpretazione autentica, la quale peraltro ha superato il favorevole scrutinio da parte della Corte Costituzionale (sentenza n. 257 del 30 settembre 2011).

3. In conclusione il ricorso è destituito di fondamento e la sentenza impugnata va confermata.

Ricorrono giustificate ragioni, stante la particolarità della fattispecie, che ha richiesto, come già detto, l’intervento del legislatore con norme di interpretazione autentica e successiva verifica del giudice delle leggi.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Compensa le spese.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.