Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 30-09-2011, n. 20097 Contratto a termine

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Che il Tribunale di Camerino ha dichiarato la nullità del termine apposto al contratto di lavoro con decorrenza 16 ottobre 1998 stipulato da Poste Italiane s.p.a. con P.D. e la conseguente sussistenza fra le parti di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con la medesima decorrenza;

la Corte d’appello di Ancona ha dichiarato inammissibile il gravame proposto da Poste Italiane s.p.a. e inefficace l’appello incidentale del lavoratore;

la Corte territoriale ha osservato che la sentenza di primo grado era stata validamente notificata a Poste Italiane s.p.a. in quanto la notifica era stata effettuata, nel domicilio eletto, ad uno dei due avvocati che rappresentavano e difendevano unitamente e disgiuntamente la società; pertanto doveva applicarsi alla fattispecie il termine breve per impugnare previsto dall’art. 325 cod. proc. civ.; poichè il ricorso in appello era stato depositato ben oltre la scadenza del suddetto termine, l’appello doveva considerarsi inammissibile; da ciò derivava altresì che l’appello incidentale tardivo doveva essere dichiarato inefficace ai sensi dell’art. 334 cod. proc. civ., u.c.;

per la cassazione di tale sentenza Poste Italiane s.p.a. ha proposto ricorso affidato a un unico motivo illustrato da memoria; P. D. resiste con controricorso.
Motivi della decisione

con l’unico motivo di ricorso Poste Italiane s.p.a. denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 285, 170, 326, 327 e 434 cod. proc. civ. e dell’art. 12 preleggi; sotto un primo profilo sottolinea che la sentenza era stata notificata in forma esecutiva e che pertanto non poteva avere l’effetto di far decorrere il termine breve per l’impugnazione; sotto altro profilo deduce che la stessa sentenza è stata notificata non già presso lo studio dei procuratori costituiti ma presso un ufficio postale che era stato indicato come luogo di elezione di domicilio;

il motivo è infondato;

deve preliminarmente osservarsi che, secondo l’insegnamento di questa Corte di legittimità (cfr., in particolare, Cass. 19 luglio 2001 n. 9787), qualora una parte sia costituita in giudizio a mezzo di due o più procuratori, con uguali poteri di rappresentanza, ciascuno di essi è legittimato a ricevere la notificazione degli atti della controparte;

ciò premesso, deve osservarsi che, come precisato da Cass. 21 novembre 2001 n. 14642, l’esistenza sulla copia notificata al procuratore costituito della formula esecutiva, non impedisce l’inizio del decorso del termine breve per l’impugnazione della sentenza (cfr. altresì Cass. 8 maggio 2008 n. 11216; Cass. 15 marzo 1990 n. 2121); ed infatti la notificazione della sentenza si fa al procuratore costituito in quanto rappresentante processuale della parte e determina ex lege l’inizio della decorrenza del termine breve per l’impugnazione, ricollegando l’art. 285 cod. proc. civ., tale effetto alla notifica senza che rilevi la volontà in proposito di chi la richieda, come è dimostrato dalla considerazione che, per un verso, non è previsto che la notifica debba essere accompagnata da alcuna formula o intimazione particolare, mentre per altro verso l’effetto dell’inizio del decorso del termine breve si produce non solo nei confronti delle parti alle quali la notifica sia effettuata, ma anche, quale che sia la sua volontà, nei confronti della parte che abbia richiesto la notifica (su quest’ultimo profilo cfr., in particolare, Cass. 19 agosto 1998, n. 8193); ne consegue l’irrilevanza dell’esistenza nella copia della sentenza notificata della formula esecutiva, essendo l’esistenza di tale formula un elemento aggiuntivo rispetto alla fattispecie prevista dalla legge per l’inizio del decorso del termine breve, elemento aggiuntivo inidoneo, come tale, ad impedirne il decorso;

anche l’ultimo profilo della censura, basato sul luogo in cui la notifica è stata effettuata (l’ufficio postale di (OMISSIS)), è privo di pregio; basterà osservare in proposito che il suddetto ufficio postale è proprio il luogo che era stato indicato come domicilio eletto dai procuratori costituiti di Poste Italiane s.p.a.;

ne consegue che la notifica effettuata nel suddetto luogo soddisfa il criterio fissato da questa Corte di legittimità (cfr., ad esempio, Cass. 22 giugno 2007 n. 14584; Cass. 24 novembre 2005 n. 24765) secondo cui, ai fini del decorso del termine breve per l’impugnazione di cui all’art. 326 cod. proc. civ., è necessario e sufficiente che la sentenza, pur se notificata in forma esecutiva, sia portata a conoscenza della parte per il tramite del suo difensore tecnico,come tale professionalmente qualificato a valutare l’opportunità dell’impugnazione;

poichè la sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione dei suddetti principi il ricorso deve essere rigettato;

in applicazione del criterio della soccombenza parte ricorrente deve essere condannata al pagamento delle spese del giudizio di cassazione liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento delle spese processuali liquidate in Euro 40,00, oltre Euro 2500,00 (duemilacinquecento) per onorari e oltre spese generali, I.V.A. e C.P.A..

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 19-04-2011) 10-06-2011, n. 23478 Mezzi di prova

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e ha insistito nell’accoglimento dei motivi di ricorso.
Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 17 giugno 2010, la Corte di appello di Salerno confermava la sentenza del Tribunale della stessa città che aveva ritenuto D.C.A. responsabile del reato di falsa testimonianza e che lo aveva condannato alla pena di anni uno e mesi sei di reclusione, con i benefici di legge.

Al D.C. era addebitato di aver deposto il falso, sentito dinanzi al Tribunale di Salerno in qualità di parte offesa di un’estorsione, nel procedimento penale a carico di F.A. ed altri, imputati di partecipazione all’associazione di stampo camorristico, denominata "clan Forte", e di estorsione continuata.

Il D.C., imprenditore edile, aveva dichiarato in particolare di aver affidato i lavori di sbancamento e scavo in un cantiere di (OMISSIS) alla ditta "Costruzioni generali" – formalmente intestata a D.G., ma in realtà di esclusiva proprietà di F.G. – non per le particolari modalità minacciose della richiesta avanzatagli da costoro (accompagnata dalla frase "tutti dobbiamo campare"), bensì per una sorta di obbligo morale derivante da un pregresso rapporto contrattuale per una fornitura di calcestruzzo effettuata alla suddetta ditta, una volta ottenutane l’integrale pagamento; inoltre aveva riferito che sin dall’inizio dei lavori aveva deciso di ripartire in tre lotti i lavori di sbancamento e scavo, da affidare a tre imprese, tra le quali la ditta del D..

In motivazione, la Corte territoriale condivideva a pieno il giudizio formulato in prime cure in ordine alla responsabilità dell’imputato, non ritenendo in alcun modo credibile la versione dei fatti resa nella deposizione testimoniale circa i motivi che lo avevano determinato ad affidare alla ditta riferibile ai F. i lavori di sbancamento. In particolare, la Corte riteneva provata l’estorsione compiuta dagli esponenti del clan Forte ai danni del D.C., sulla base della sentenza irrevocabile ed acquisita al giudizio ex art. 238 bis c.p.p., con la quale erano stati condannati D.G. e F.G. per il reato di estorsione, corroborata da ulteriori riscontri, costituiti da elementi di prova sia rappresentativa che logica. Secondo la Corte di merito, la tesi dell’obbligo morale appariva intrinsecamente inverosimile sia per l’entità del credito – di gran lunga inferiore all’importanza dell’appalto – sia per l’assenza di competenza specifica nel settore degli scavi della ditta dei F. – testimoniata dal fatto che solo pochi giorni prima dell’affidamento dei lavori si era procurata i macchinari necessari.

In ogni caso, contrastavano con la versione fornita dal D.C. le testimonianze degli imprenditori che, secondo costui, dovevano dividersi i lavori con la ditta dei F.. Costoro avevano infatti riferito di essere stati contattati dal D.C. mesi prima per i lavori di sbancamento in questione e di non aver poi ricevuto alcun riscontro all’offerta, comportamento che veniva giustificato dal D. C. con la seguente spiegazione: "i tre scavi dovevano farli quelli della ditta Forte". 2. Avverso la suddetta sentenza, propone ricorso per cassazione il difensore dell’imputato.

Con un primo motivo denuncia la violazione dell’art. 207 c.p.p., comma 2, e art. 529 c.p.p., per omessa declaratoria dell’improcedibilità dell’azione penale, avendo la Corte di Appello rigettato la questione sollevata dalla difesa (sin dall’udienza preliminare), relativa alla mancanza della condizione di procedibilità prevista dall’art. 207 c.p.p., comma 2.

Secondo il ricorrente, il procedimento a carico del D.C. si sarebbe dovuto definire con una sentenza di non luogo a procedere per difetto di una "condizione di procedibilità", atteso che il giudice del procedimento principale – in cui il D.C. avrebbe commesso il reato di falsa testimonianza – non aveva ravvisato, a carico del teste, gli indizi del reato di cui all’art. 372 c.p., non disponendo la trasmissione degli atti all’Ufficio del pubblico ministero.

Osserva il ricorrente che la ratio della disposizione contenuta nell’art. 207 c.p.p., sarebbe quella di proteggere il testimone da tutte le fonti di possibile condizionamento, al fine di assicurare la massima genuinità delle risposte, e di porlo – attraverso l’ammonimento del giudice ed il reiterato avvertimento dell’obbligo di dire la verità – nelle condizioni di percepire il rischio cui potrebbe andare incontro a causa delle dichiarazioni rese o non rese, determinandosi, eventualmente e spontaneamente, a ritornare sui suoi passi e ritrattare la versione dei fatti fornita. E per tale ragione la norma riserverebbe al solo giudice di dare impulso al procedimento per falsa testimonianza a carico del testimone, risultando, conseguentemente, precluso al pubblico ministero di perseguire, autonomamente e di propria iniziativa, i testimoni ritenuti sospetti di falsità.

Con un secondo motivo, si deduce l’inosservanza dell’art. 238 bis c.p.p. e art. 192 c.p.p., comma 3, in relazione all’utilizzazione come prova della sentenza che ha condannato il F. e il D. per l’estorsione ai danni dell’imputato, pure in carenza del necessario riscontro di ulteriori elementi probatori che confermino l’accertamento compiuto. Il convincimento del giudice si sarebbe fondato sui medesimi dati probatori, ovvero le dichiarazioni rese da M.G., P.G. e P.D..

Con un terzo motivo, il ricorrente lamenta la assoluta carenza della motivazione, anche per l’omessa valutazione di elementi decisivi rappresentati dalla difesa, con i quali era stato denunciato un quadro di profonda incertezza probatoria, inidoneo a sostenere, oltre ogni ragionevole dubbio, l’affermazione di colpevolezza del D. C.. Si sostiene al riguardo che la Difesa aveva espresso le proprie doglianze in un articolato atto di appello, censurando, punto per punto, la motivazione della sentenza di primo grado, sia perchè non corrispondente al materiale probatorio acquisito al processo, sia perchè, sotto plurimi profili, illogica e contraddittoria.

In particolare, in relazione alla affermazione dei giudici in prime cure dell’inverosimiglianza della tesi sostenuta dall’imputato circa i motivi che lo avevano spinto a scegliere la ditta "Costruzioni Generali" sol perchè la data della fattura era di molti mesi prima l’affidamento dell’incarico, la difesa aveva dedotto in appello che la data della fattura nulla dimostrava circa il momento in cui era stato effettuato il relativo pagamento, posto che quest’ultimo poteva essere successivo l’emissione della fattura.

Si rileva inoltre che, con l’appello, era stato sostenuto che le dichiarazioni rese dal D.C. in dibattimento non erano contrastanti con quelle verbalizzate dagli agenti di polizia giudiziaria, in quanto in sede di deposizione dibattimentale l’imputato aveva dichiarato che le stesse, apparentemente diverse, circostanze (ovvero i motivi per i quali aveva affidato i lavori alla ditta del D. e la data del pagamento dell’assegno per la fornitura) erano state riferite ai carabinieri, ma non verbalizzate.

La difesa aveva rappresentato a tal riguardo l’approssimatività della verbalizzazione operata dai carabinieri di un colloquio di più ampia portata durato molte ore e connotato da vivace dialettica tra chi tentava di ottenere una ben precisa risposta e chi, invece, si ostinava a ribadire altro.

Si deduce altresì che, nell’atto di appello, la difesa aveva svolto ampie argomentazioni sulla frase "tutti dobbiamo campare", la cui valenza minacciosa era stata ritenuta dai giudici del processo contro il clan Forte, ma che non implicava affatto la falsa testimonianza del D.C., in quanto costui non aveva percepito nella stessa alcuna minaccia. Altre considerazioni era state svolte infine sulla assenza di divergenze tra le dichiarazioni rese dall’imputato circa la sua decisione di dividere i lavori tra le tre ditte e quelle rese dagli altri testi (in particolare, prima dell’intervento degli inquirenti, tale decisione era già stata comunicata a P. D., come risulta dalle dichiarazioni di quest’ultimo rese in data 6 luglio 1999) e sulla sussistenza dell’elemento soggettivo.

Su tutti tali punti, secondo il ricorrente, la Corte di appello avrebbe omesso di pronunciarsi, limitandosi a fare integrale rinvio alla sentenza di primo grado, a svolgere considerazioni di carattere puramente logico ed a trascrivere alcune delle dichiarazioni del M. e dei P., senza neanche sforzarsi di sottoporle a valutazione e di confrontarle con l’asserita falsa testimonianza del D.C..
Motivi della decisione

1. Il ricorso è infondato e deve essere pertanto rigettato.

2. Quanto al primo motivo, deve ribadirsi che la trasmissione degli atti al pubblico ministero da parte del giudice del dibattimento, ai sensi dell’art. 207 c.p.p., perchè proceda nei confronti del testimone sospettato di falsità o reticenza e del testimone renitente, non costituisce una condizione di procedibilità dell’azione penale (Sez. 6, n. 33709 del 13/04/2010, dep. 16/09/2010, P.S., non mass.).

Infatti, così come non è dubbio che l’esercizio del potere-dovere del giudice di trasmettere gli atti al pubblico ministero non vincola il pubblico ministero all’esercizio dell’azione penale, in quanto non incide sul suo potere di chiederne l’archiviazione, altrettanto indubbio è che la mancata trasmissione degli atti stessi non gli sottrae il potere di esercitarla.

La lettura della norma proposta dal ricorrente – che verrebbe a giustificarsi con la intenzione del Legislatore di salvaguardare la libertà di autodeterminazione del testimone – risulta non trovare fondamento proprio nella Relazione al progetto preliminare del codice di rito, dalla quale si evince al contrario che "anche in assenza di una tale notitia criminis, il pubblico ministero potrà promuovere l’azione penale contro il testimone in base a una propria autonoma valutazione di falsità della deposizione e in qualsiasi momento:

perciò, anche prima che il processo in cui il teste ha deposto sia stato concluso con sentenza irrevocabile e, al limite, mentre è ancora in corso il relativo dibattimento" (Rel. prog. prel., 64). Si è invero ritenuto in sede di elaborazione del codice che una diversa soluzione avrebbe determinato la procrastinazione di ogni iniziativa del pubblico ministero alla conclusione con sentenza irrevocabile del processo principale, con il rischio di una impunità di fatto per i testimoni falsi. Alle medesime conclusioni si è tra l’altro assestata l’opinione prevalente della Dottrina.

Nè alcuna influenza può assumere sulla configurabilità del reato ascritto al prevenuto la mancanza dell’avvertimento previsto dall’art. 207 c.p.p., comma 1, (Sez. 2, n. 31384 del 16/07/2004, dep. 06/07/2004, Caddeo, Rv. 229730). Tale norma, invero, dispone che, se nel corso dell’esame un testimone renda dichiarazioni contraddittorie, incomplete e contrastanti con le prove già acquisite, il presidente o il giudice glielo fa rilevare, rinnovandogli, "se del caso", l’avvertimento previsto dall’art. 497 c.p.p., comma 2. L’espressione "se del caso", usata dal legislatore, implica di per sè il carattere non obbligatorio di tale adempimento, la cui omissione non comporta tra l’altro alcuna sanzione processuale.

Privo di pregio giuridico è altresì il rilievo secondo cui, non essendo stata attivata la sequela procedimentale di cui all’art. 207 c.p.p., l’imputato non è stato posto in condizione di ritrattare utilmente. Già questa Corte ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 376 c.p., nella parte in cui prevede la possibilità della ritrattazione, quando il reato di falsa testimonianza sia contestato successivamente alla chiusura del dibattimento, in cui è stata resa la deposizione incriminata (cfr. Sez. 6, n. 8459 del 16/05/1975, dep.30/08/1975, Rondina, Rv. 131638). Finalità primaria dell’art. 376 c.p. è infatti quella di favorire l’accertamento della verità nel processo in cui la testimonianza è stata resa, prima ancora che soddisfare l’interesse del falso testimone ad evitare la sanzione comminata per il reato ormai posto in essere (Corte cost. nn. 206 del 1982, 26 del 1974). La punibilità, dunque, viene esclusa per ragioni di tutela del bene protetto, in una prospettiva essenziale di eliminazione degli effetti ulteriormente lesivi del fatto illecito già realizzato. In questa prospettiva, la ritrattazione è manifestazione di un ravvedimento operoso, e come tale atto personale e "volontario" del falso testimone, che si caratterizza, rispetto ad altre forme di riparazione positiva, in ragione della peculiare natura del fatto stesso cui il soggetto vuole, appunto, riparare, per essere rivolta al processo nel quale il falso ebbe ad intervenire e per la conseguente necessità di doversi quindi esplicare, a sua volta, in tale processo (nonchè, in tempo ed in modo utili allo svolgimento ed alla conclusione di questo).

2. Anche il secondo motivo di ricorso è infondato.

La Corte di appello ha fatto corretta applicazione della regola probatoria contenuta nell’art. 238 bis c.p.p..

Tale norma, nel prevedere che le sentenze irrevocabili possono essere acquisite al processo ai fini della prova del fatto, stabilisce che le stesse sono valutate a norma dell’art. 187 c.p.p., e art. 192 c.p.p., comma 3. Ciò vuoi dire che le sentenze emesse in altro procedimento, benchè divenute irrevocabili, non costituiscono piena prova dei fatti in esse accertati, ma necessitano di riscontri esterni dei quali il giudice deve dare motivatamente atto. Tali riscontri possono consistere in qualsiasi elemento o dato probatorio, non predeterminato nella specie e qualità, e quindi in elementi di prova sia rappresentativa che logica.

Nel caso di specie, la Corte di Appello ha utilizzato, quale elemento di conferma dei fatti accertati nella menzionata sentenza definitiva, le dichiarazioni rese nella fase delle indagini preliminari dallo stesso D.C.nel procedimento a carico del clan Forte e dai testi M.G. e dai fratelli P.D. e P. G..

Contrariamente all’assunto della difesa, l’art. 238 bis c.p.p. non esclude affatto che i riscontri esterni possano essere individuati in elementi già utilizzati nell’altro giudizio, sempre che gli stessi non vengano recepiti acriticamente, ma siano sottoposti a nuova ed autonoma valutazione da parte del giudice procedente (Sez. 6, n. 42799 del 30/09/2008, dep. 17/11/2008, Campesan, Rv, 241860).

La ratto della norma ora citata è infatti quella di non disperdere elementi conoscitivi acquisiti in provvedimenti che hanno acquistato autorità di cosa giudicata, fermo restando il principio del libero convincimento del giudice, nel senso che l’utilizzazione ai fini del decidere di risultanze di fatto emergenti dalle sentenze divenute irrevocabili implica innanzi tutto l’accertamento della rilevanza di dette risultanze in relazione all’oggetto della prova e poi una verifica in ordine alla sussistenza o meno degli indispensabili elementi esterni di riscontro individualizzanti, di qualsiasi natura, da acquisire nel contraddittorio delle parti, che ne confermino la valenza di elemento di prova, per legge non autosufficiente (Sez. 1, n. 12595 del 16/11/1998, dep. 01/12/1998, Hass, Rv. 211768).

Tali elementi, per la possibilità della circolazione della prova offerto dall’art. 238 c.p.p., possono essere quindi anche i verbali di prove utilizzati nel procedimento a quo, purchè sia preservata l’autonomia delle valutazioni giudiziali.

Nel caso in esame, il giudice del gravame non si è limitato a recepire ed utilizzare, ai fini decisori, i fatti e i giudizi contenuti nei passaggi argomentativi della precedente sentenza passata in giudicato, ma ha proceduto ad un’autonoma valutazione critica delle circostanze rilevanti, individuando gli elementi di riscontro che confermano la responsabilità dell’imputato in ordine al reato ascrittogli.

Va infine osservato che se è corretto rilevare che, attraverso l’acquisizione in dibattimento delle sentenze irrevocabili ex art. 238 bis c.p.p., non può darsi improprio ingresso ai verbali di dichiarazioni raccolte in altro procedimento, in violazione alle regole previste dall’art. 238 c.p.p. (Sez. 3, n. 8823 del 13/01/2009, dep. 27/02/2009, Cafarella, Rv. 242768), nel caso in esame il rilievo difensivo appare del tutto infondato, posto che l’utilizzazione dei suddetti verbali è avvenuta, come si evince dalla sentenza impugnata, a norma dell’art. 238 c.p.p., comma 4. Tra l’altro, la stessa difesa dell’imputato nulla aveva eccepito nei motivi di appello circa la loro utilizzazione in contrasto con l’art. 238 c.p.p..

3. Quanto infine al dedotto vizio di motivazione, le doglianze sono infondate, ai limiti dell’inammissibilità.

La sentenza impugnata resiste infatti ai denunciati vizi motivazionali, in quanto il ragionamento probatorio della Corte di appello si rivela articolato – come in narrativa esposto in sintesi e nei suoi punti più salienti – e rispettoso dei canoni di ordine logico, che devono orientare il giudice di merito nelle scelte da compiere nel proprio lavoro di ricostruzione storica dei fatti da provare. La Corte ha esposto le ragioni, per le quali i fatti non potessero essere ricostruiti nel senso indicato dall’imputato, fornendo le risposte ai punti critici della ricostruzione operata dal giudice di primo grado.

La sentenza impugnata ha infatti superato quei rilievi formulati nell’atto di appello, che ora il ricorrente ripropone pedissequamente, senza confrontarsi con le valutazioni in proposito espresse dal giudice del gravame, risultando pertanto l’atto di impugnazione non in sintonia con le ragioni motivazionali del gravato provvedimento.

In particolare, con riferimento ai rilievi difensivi svolti avverso la sentenza di prime cure, con i quali si intendeva dimostrare che non era probante, al fine della credibilità della versione fornita dal D.C., la data della fatturazione effettuata a favore della ditta riferibile ai fratelli F., la Corte di appello ha considerato che la prova della falsità delle dichiarazioni discendeva non dalla circostanza valorizzata dal primo giudice, bensì da altri elementi di prova. Pertanto, perdeva di rilevanza e decisività la dimostrazione – sollecitata dalla difesa – della non contestualità dell’emissione della fattura e del relativo pagamento che avrebbe giustificato l’affidamento dell’incarico.

Quanto alla tesi difensiva del D.C. di aver riferito anche ai verbalizzanti i motivi per i quali aveva affidato i lavori alla ditta del D. (sdebitarsi da un obbligo morale), la Corte di appello ha ritenuto che, in ogni caso, la versione riferita dall’imputato nel processo contro il clan Forte era priva di intrinseca verosimiglianza, considerate sia l’entità del pregresso credito (solo L. 8 milioni) rispetto al più vantaggioso appalto concesso in cambio, sia la circostanza riferita dagli stessi rappresentanti della "Costruzioni generali" che solo pochi giorni prima dell’affidamento dell’incarico la ditta aveva acquistato i macchinari per i lavori (così dimostrando anche di non avere nessuna competenza nel settore specifico degli sbancamenti).

Va qui ribadito che nella valutazione probatoria giudiziaria è corretto e legittimo fare ricorso alla verosimiglianza ed alle massime di esperienza. E’ tuttavia necessario – affinchè il giudizio di verosimiglianza sia logicamente e giuridicamente accettabile – che si possa escludere plausibilmente ogni alternativa spiegazione che invalidi l’ipotesi all’apparenza più verosimile (Sez. 6, n. 4668 del 28/03/1995, dep. 27/04/1995, Layne, Rv. 201152).

E a tal fine la Corte di appello richiamava, quale sicura conferma della inverosimiglianza della versione resa dal D.C., le testimonianze di M.G., P.G. e P. D., che riferirono di essere stati contattati mesi prima dal D. C. per affidare loro i lavori di sbancamento, ma di non aver poi ricevuto alcuno riscontro all’offerta (così P.G.) e di aver appreso dallo stesso D.C. che non aveva potuto affidare loro i lavori, perchè "i tre scavi dovevano farli quelli della ditta Forte" (così P.D.). Proprio tale ultima frase – hanno sottolineato i giudici a quibus – eliminava ogni possibile dubbio sulle ragioni che avevano spinto il D.C. ad affidare i lavori alla ditta dei F..

Alla luce di tali argomentazioni, risultano pertanto prive di decisività le doglianze contenute nell’atto di appello in ordine alla percezione da parte del D.C. della valenza minacciosa della frase "tutti dobbiamo campare", avendo la Corte di appello tratto aliunde – e non solo da tale frase – la dimostrazione che l’affidamento dell’incarico alla ditta dei F. fu una scelta "obbligata" per il D.C..

Quanto alla censura relativa al mancato esame del motivo riguardante la comparazione tra le dichiarazioni rese dall’imputato e quelle degli altri testi, va rilevato che la Corte di merito ha evidenziato i passaggi salienti delle deposizioni dei testi P.D. e P.G. e di M.G. in contrasto con la ricostruzione della difesa. Il ricorrente in realtà sollecita una diversa valutazione della portata dimostrativa di quelle dichiarazioni, che è un giudizio di fatto, che, in quanto privo di illogicità manifeste, è incensurabile in questa sede.

In ordine poi alla mancata risposta al motivo di appello con il quale la difesa intendeva dimostrare, sulla base delle dichiarazioni del 6 luglio 1999 di P.D., che prima dell’intervento degli inquirenti D.C. aveva comunicato a costui di voler dividere tra tre ditte i lavori di scavo, deve osservarsi che anche tale doglianza è manifestamente infondata. La Corte di appello ha smentito infatti tale assunto, riportando un passo della suddetta deposizione, nella parte in cui P.D. riferisce che D.C. gli aveva detto prima dell’intervento degli inquirenti di aver "dovuto" affidare "tutti e tre gli scavi" alla ditta dei F.. Pertanto, anche a voler ritenere denunciato con il presente ricorso un travisamento della prova, era onere de. ricorrente dare dimostrazione del vizio, con la produzione del relativo verbale.

Del tutto infondato, oltre che generico, è infine l’ultimo rilievo sulla sussistenza dell’elemento soggettivo. Il motivo di appello, circa l’inconfigurabilita del dolo – perchè la falsa dichiarazione non sarebbe stata da lui voluta con "l’intenzionalità di arrecare danno all’amministrazione della giustizia" – deve ritenersi manifestamente infondato, con la conseguente irrilevanza del suo omesso esame. Per perfezionare il delitto di falsa testimonianza non occorre infatti il dolo specifico, essendo sufficiente l’intendimento, comunque determinatosi, di dire il falso: è indifferente l’obiettivo avuto di mira dall’agente, perchè quale esso sia, viene sempre leso il normale funzionamento della giustizia che rappresenta l’oggetto della tutela giuridica.

4. Sulla base di quanto premesso, il ricorso deve essere rigettato.

Ai sensi dell’art. 616 c.p.p. segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 06-04-2011) 24-06-2011, n. 25335

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Svolgimento del processo

1. Avverso la sentenza indicata in epigrafe, che ha confermato la sentenza del giudice di pace di Bono, del 22.09.2008, di condanna di C.D., per il reato di usurpazione alla pena di Euro 516 di multa, ricorre la difesa dell’imputato, chiedendo l’annullamento della sentenza e deducendo a motivo:

a) la violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. B) perchè i fatti dovevano essere qualificati, più correttamente come esercizio arbitrario delle proprie ragioni, perchè l’imputato ha agito convinto di esercitare un proprio diritto nel riposizionare i confini del suo campo negli stessi limiti che sussistevano prima che il vicino G.P. li spostasse; di conseguenza, nei fatti per cui è processo, non può ravvisarsi la competenza del giudice di pace. b) la violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) in relazione all’art. 486 c.p.p., comma 5 non avendo il Tribunale riconosciuto il legittimo impedimento del difensore, impegnato il 13.01.2010 in altri due procedimenti fissati avanti altro Tribunale.

Motivi della decisione

2. Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato e deve essere dichiarato inammissibile perchè generico.

2.1 La doglianza è priva del necessario contenuto di critica specifica al provvedimento impugnato, le cui valutazioni, ancorate a precisi dati fattuali trascurati nell’atto di impugnazione, si palesano peraltro immuni da vizi logici o giuridici. Nel ricorso, infatti, non vengono dedotte specifiche censure alla motivazione della sentenza impugnata, ma viene solo riproposta , in forma assertiva, una circostanza di fatto che è peraltro risultata sfornita di prove, ovvero l’aver riposizionato i confini del campo nei limiti sussistenti prima che il G. li spostasse.

2.2 Il giudice di seconde cure la ha respinta con una motivazione logica, coerente ed esaustiva,affermando in motivazione che correttamente il giudice di prime cure aveva qualificato i fatti come usurpazione posto che univoche in tal senso erano state le dichiarazioni rese dalla parte lesa, P.D., e quelle del M.llo R. che aveva provveduto ad effettuare i rilievi in loco, accertando l’esistenza di una precedente recinzione (pali divelti ed un cancello di legno) e di una nuova recinzione, costituita da cemento, pali e rete di fattura recente.

2.3 Inoltre non era emersa alcuna prova di un precedente spostamento dei confini e nulla era stato prodotto o allegato in ordine all’epoca in cui si sarebbe verificata la predetta circostanza: sicchè "è rimasta una mera asserzione sfornita di qualsivoglia provala tesi dell’imputato sugli originari confini risalenti all’anno 1990 (non si sa mutati da chi e quando) che il medesimo avrebbe inteso riposizionare". 2.4 Anche il secondo motivo è manifestamente infondato.

2.5 Ed infatti, l’avvenuta tempestiva comunicazione di un contemporaneo impegno professionale presso altro giudice non è certo da sola sufficiente ad integrare l’impossibilità assoluta del difensore ai sensi dell’art. 486 c.p.p., comma 5, essendo altresì necessario che l’istanza di rinvio, come affermato da S.U. 27.3.92 Fogliani e altri "…. espliciti le ragioni che rendono essenziale l’espletamento della sua (del difensore) funzione nell’altro processo per la particolare natura dell’attività cui deve presenziare, l’assenza in detto procedimento di altro codifensore che può validamente difendere l’imputato, l’impossibilità di avvalersi – data la peculiarità della situazione – della designazione di un sostituto ex art. 102 c.p.p. sia nel processo a cui si intende partecipare sia in quello in cui si chiede il rinvio…". 2.6 Indicazioni che unitamente alla tempestività della comunicazione dell’impedimento, addirittura debbono ritenersi quali vere e proprie condizioni di ammissibilità dell’istanza di rinvio (fra altre Cass. 9.1.98, Martinangelo), con la conseguenza che, in mancanza delle stesse, il giudice non è in grado di valutare nel merito l’assolutezza dell’impedimento e di motivare adeguatamente in ordine alle esigenze di difesa dell’imputato e quelle di giustizia, tra le quali quella di evitare che l’impedimento sia funzionale a manovre dilatorie (S.U. citata).

2.7 E quindi correttamente il Giudice d’appello ha escluso che l’istanza avanzata dal difensore del C., priva delle indicazioni di cui sopra, fosse dimostrativa dell’assoluta impossibilità a comparire. Tanto più che nell’istanza di rinvio non è stato indicato un sostituto, e la costante giurisprudenza di questa Corte, che il collegio condivide, ritiene che costituisca condizione per il rinvio dell’udienza, che il difensore indichi le ragioni che non hanno consentito la nomina di un sostituto, atteso che provvedere alla propria sostituzione non è facoltà discrezionale del difensore medesimo e che anzi integra un suo preciso dovere indicare le ragioni per cui gli è impossibile farlo.

(Sentenza n. 308 del 2000 Rv. 218157).

3. Ai sensi dell’art. 616 c.p.p., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, il ricorrente che lo ha proposto deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento, nonchè – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento a favore della cassa delle ammende della somma di Euro mille, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille alla cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Lazio Roma Sez. I ter, Sent., 18-07-2011, n. 6416

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

L.C., indagato dalla Procura della Repubblica di Potenza nell’ambito del procedimento penale n. 2686/05, si determinava a collaborare con l’Autorità giudiziaria procedente, rendeva numerose dichiarazioni auto ed etero accusatorie consentendo, tra l’altro, il recupero di armi ed esplosivi da cava, e riferiva circa le attività del clan Scarci, l’esistenza di altri depositi di armi ed esplosivi, nonché su episodi delittuosi tra i quali omicidi, estorsioni e traffico di stupefacenti.

In virtù della scelta di collaborare, il predetto veniva sottoposto, su istanza della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Potenza – DDA, ad un piano provvisorio di protezione ai sensi dell’art. 13 L.n. 82/1991.

Con il provvedimento impugnato, tuttavia, la Commissione Centrale ex art. 10 L.n. 15 marzo 1991 n. 82, deliberava di non accogliere la proposta di ammissione ad uno speciale programma di protezione avanzata dalla DDA di Potenza, nell’interesse di L.C. e dei suoi familiari e di revocare le misure di protezione e di assistenza già disposte in loro favore.

Ritenendo erronee ed illegittime le determinazioni assunte dalla Commissione centrale, il L. proponeva ricorso dinanzi al TAR del Lazio, avanzando le domande indicate in epigrafe.

L’Amministrazione resistente, costituitasi in giudizio, sosteneva l’infondatezza del ricorso e ne chiedeva il rigetto.

Con ordinanza n. 3503 del 10 luglio 2008, il TAR respingeva la domanda cautelare proposta dalla parte ricorrente.

All’udienza del 23 giugno 2011 la causa veniva trattenuta dal Collegio per la decisione.

Motivi della decisione

1. Avverso il provvedimento impugnato, il ricorrente ha avanzato le censure di seguito esposte:

a) violazione e falsa applicazione dell’art. 3 della legge n. 241/1990; difetto di motivazione: – il provvedimento impugnato è stato assunto dalla Commissione Centrale recependo acriticamente le valutazioni espresse dalla Direzione Nazionale Antimafia, senza che l’Organo indicato svolgesse alcuna autonoma valutazione del caso di specie; – la Commissione, anziché valutare i presupposti di fatto sottoposti alla sua cognizione, ha posto a fondamento del diniego e della revoca le valutazioni della Direzione Nazionale Antimafia;

b) violazione e falsa applicazione dell’art. 9 della legge n. 82/1991; difetto di istruttoria; contraddittorietà; eccesso di potere per inesistente presupposto di fatto; difetto di motivazione: – la Commissione Centrale ha deliberato di non accogliere la proposta di ammissione del ricorrente ad uno speciale programma di protezione avanzata dalla DDA di Potenza, omettendo di considerare che l’art. 9, della legge n. 82/1991, con specifico riguardo al carattere della completezza e della attendibilità delle dichiarazioni, non avrebbe consentito l’adozione del provvedimento contestato; – il carattere della intrinseca attendibilità delle dichiarazioni del L. è stata dimostrata e verificata dalle indagini condotte dalla Procura della Repubblica di Potenza; – la Commissione centrale, non ha indicato alcun dato e/o circostanza obiettiva a sostegno della tesi dell’assenza di attendibilità, novità e completezza delle dichiarazioni rese dal L.; – le circostanze evidenziate dalla DNA nelle note poste a sostegno del provvedimento impugnato non corrispondono al vero e, comunque, la Commissione centrale avrebbe dovuto condurre una istruttoria esaustiva al fine di valutarle in concreto;

c) violazione e falsa applicazione dell’art. 9 della legge n. 82/1991 sotto diverso profilo; difetto di istruttoria; contraddittorietà; eccesso di potere per inesistente presupposto di fatto; difetto di motivazione: – il provvedimento impugnato, in quanto carente di un presupposto autonomo processo istruttorio e valutativo, non reca indicazioni circa la valutazione delle dichiarazioni rese dal L., in relazione agli elementi di novità in esse contenuti, rispetto a fatti criminosi verificatisi sia in provincia di Potenza che di Taranto;

d) violazione e falsa applicazione dell’art. 9 della legge n. 82/1991 sotto diverso profilo; eccesso di potere per inesistente presupposto di fatto; difetto di motivazione: – la Direzione Nazionale Antimafia non ha espressamente manifestato la propria contrarietà all’ammissione del L. al programma speciale di protezione, ma ha affermato che il contributo dello stesso andava valutato con prudenza; – il fatto che le note della DNA contenessero un parere contrario è, pertanto, una erronea deduzione dell’Organo deliberante; – quindi, il provvedimento impugnato si fonda su un falso presupposto di fatto consistente nell’erronea valutazione delle note della DDA;

e) violazione e falsa applicazione dell’art. 9, commi 5 e 6, della legge n. 82/1991; difetto di istruttoria; difetto di motivazione: – il provvedimento impugnato non contiene riferimenti rispetto all’istruttoria compiuta e non reca una specifica motivazione e valutazione delle condizioni di pericolo del L. e dei suoi congiunti, in conseguenza alla scelta collaborativa;

f) violazione e falsa applicazione dell’art. 12, comma 2, lett. b), e dell’art. 13 quater, commi 1 e 2, della legge n. 82/1991: – la Commissione centrale ha erroneamente applicato le norme indicate, ritenendo che ricorressero i presupposti utili per disporre una revoca obbligatoria delle misure di protezione, senza considerare che il L. non si è mai rifiutato di sottoporsi ad interrogatorio, esame o altro atto di indagine, né si è rifiutato di ottemperare agli obblighi relativi alla redazione del verbale di cui all’art. 12, comma 2, lett. b), della legge n. 82/1991.

2. L’Amministrazione resistente si è difesa in giudizio contestando le censure avanzate dalla parte ricorrente, affermando l’infondatezza del ricorso e chiedendone il rigetto.

3. E’ opportuno, prima di valutare le censure avanzate dalla parte ricorrente, esaminare il quadro normativo dettato in materia di protezione dei collaboratori e testimoni di giustizia.

La materia trova la sua disciplina primaria nel D.L. 15 gennaio 1991, n. 8 (recante Nuove norme in materia di sequestri di persona a scopo di estorsione e per la protezione dei testimoni di giustizia, nonché per la protezione e il trattamento sanzionatorio di coloro che collaborano con la giustizia) pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 15 gennaio 1991, n. 12 e convertito in legge, con modificazioni, con L. 15 marzo 1991, n. 82 (in G.U. 16 marzo 1991, n. 64), come modificato dalla legge 13 febbraio 2001, n. 45.

La disciplina dettata in materia, è completata dalla normativa di rango secondario contenuta nel D.M. 23 aprile 2004, n. 161 (recante il Regolamento ministeriale concernente le speciali misure di protezione previste per i collaboratori di giustizia e i testimoni, ai sensi dell’articolo 17bis del D.L. 15 gennaio 1991, n. 8, convertito, con modificazioni, dalla L. 15 marzo 1991, n. 82, introdotto dall’articolo 19 della L. 13 febbraio 2001, n. 45), emanato dal Ministero dell’Interno (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 25 giugno 2004, n. 147).

Per quanto concerne la protezione dei Collaboratori di giustizia, il Capo II, del D.L. n. 8/1991, all’articolo 9 (Condizioni di applicabilità delle speciali misure di protezione) stabilisce che alle persone che tengono le condotte o che si trovano nelle condizioni previste dai commi 2 e 5 del medesimo articolo 9, possono essere applicate speciali misure di protezione idonee ad assicurarne l’incolumità provvedendo, ove necessario, anche alla loro assistenza.

Le speciali misure di protezione sono applicate: 1) quando risulta la inadeguatezza delle ordinarie misure di tutela adottabili direttamente dalle autorità di pubblica sicurezza; 2) se si tratta di persone detenute o internate, dal Ministero della giustizia – Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, e risulta altresì che le persone nei cui confronti esse sono proposte versano in grave e attuale pericolo per effetto di talune delle condotte di collaborazione aventi le caratteristiche indicate nel comma 3 del medesimo articolo 9 e tenute relativamente a delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine costituzionale ovvero ricompresi fra quelli di cui all’articolo 51, comma 3bis, del codice di procedura penale e agli articoli 600bis, 600ter, 600quater, anche se relativi al materiale pornografico di cui all’articolo 600quater.1, e 600quinquies del codice penale.

Ai fini dell’applicazione delle speciali misure di protezione, il terzo comma dell’articolo 9 precisa che assumono rilievo la collaborazione o le dichiarazioni rese nel corso di un procedimento penale, le quali devono avere carattere di intrinseca attendibilità; devono, altresì, avere carattere di novità o di completezza o per altri elementi devono apparire di notevole importanza per lo sviluppo delle indagini o ai fini del giudizio ovvero per le attività di investigazione sulle connotazioni strutturali, le dotazioni di armi, esplosivi o beni, le articolazioni e i collegamenti interni o internazionali delle organizzazioni criminali di tipo mafioso o terroristicoeversivo o sugli obiettivi, le finalità e le modalità operative di dette organizzazioni. Nella determinazione delle situazioni di pericolo si tiene conto, oltre che dello spessore delle condotte di collaborazione o della rilevanza e qualità delle dichiarazioni rese, anche delle caratteristiche di reazione del gruppo criminale in relazione al quale la collaborazione o le dichiarazioni sono rese, valutate con specifico riferimento alla forza di intimidazione di cui il gruppo è localmente in grado di valersi (art. 9, comma 6).

I contenuti delle speciali misure di protezione sono stabiliti dall’articolo 13 del D.L. n. 8/1991 e dall’art. 7 del D.M. n. 161/2004, mentre l’articolo 9, comma 4 del medesimo decreto legge prevede che se le speciali misure di protezione indicate nell’articolo 13, comma 4, non risultano adeguate alla gravità ed attualità del pericolo, esse possono essere applicate anche mediante la definizione di uno speciale programma di protezione i cui contenuti sono indicati nell’articolo 13, comma 5 del medesimo decreto legge e nell’art. 8 del D.M. n. 161/2004, comprendendo, tra le altre, misure di assistenza personale ed economica (cfr. art. 13, commi 6 e ss., D.L. n. 8/1991).

Le speciali misure di protezione di cui al comma 4 dell’articolo 9 possono essere applicate anche a coloro che convivono stabilmente con le persone indicate nel comma 2 del citato articolo 13 nonché, in presenza di specifiche situazioni, anche a coloro che risultino esposti a grave, attuale e concreto pericolo a causa delle relazioni intrattenute con le medesime persone.

L’ammissione alle speciali misure di protezione, oltre che i contenuti e la durata di esse, sono deliberati dalla Commissione centrale di cui all’articolo 10, comma 2, del D.L. n. 8/1991, su proposta formulata dalla competente Autorità giudiziaria inquirente o dal Capo della PoliziaDirettore Generale della Pubblica Sicurezza (cfr. artt. 2 e ss., D.M. n. 161/2004), ai sensi dell’articolo 11 del citato decreto legge, il quale prevede i casi in cui è possibile chiedere un parere, rispettivamente, al Procuratore Nazionale Antimafia ed ai Procuratori Generali presso le Corti di Appello interessati, o al competente Procuratore della Repubblica.

L’ammissione alle speciali misure di protezione avviene all’esito dell’istruttoria del caso concreto e previa assunzione da parte delle persone protette degli impegni di cui all’art. 12 del D.L. n. 8/1991, specificati nell’art. 9, del D.M. n. 161/2004.

L’art. 10, del D.M. n. 161/2004, disciplina la modifica e la verifica periodica delle speciali misure di protezione, precisando, in particolare, che: – la Commissione centrale può modificare le speciali misure di protezione ed il programma speciale di protezione attraverso l’introduzione, la modificazione, l’integrazione, l’abrogazione o la sospensione delle misure tutorie, di quelle assistenziali, nonché di quelle relative agli impegni previsti a carico degli interessati (comma 1); – le speciali misure di protezione e il programma speciale di protezione sono a termine (comma 7) ed il termine delle misure e dei programmi speciali di protezione – non inferiore a sei mesi e non superiore ai cinque anni – è fissato dalla Commissione centrale con lo stesso provvedimento con cui vengono adottati; in caso di mancata indicazione il termine è di un anno dalla data del provvedimento (comma 8).

L’art. 13, comma 1, del D.L. n. 8/1991 e l’art. 11 del D.M. n. 161/2004, prevedono che quando risultano situazioni di particolare gravità e vi è richiesta dell’autorità legittimata a formulare la proposta, la Commissione delibera, anche senza formalità e, comunque, entro la prima seduta successiva alla richiesta, un piano provvisorio di protezione dopo aver acquisito, ove necessario, informazioni dal Servizio centrale di protezione di cui all’articolo 14 del D.L. n. 8/1991 o per il tramite di esso.

La richiesta contiene, oltre agli elementi di cui all’articolo 11, comma 7, del citato decreto legge, la indicazione, quanto meno sommaria, dei fatti sui quali il soggetto interessato ha manifestato la volontà di collaborare e dei motivi per i quali la collaborazione è ritenuta attendibile e di notevole importanza; e specifica, inoltre, le circostanze da cui risultano la particolare gravità del pericolo e l’urgenza di provvedere.

I contenuti del piano provvisorio di protezione sono specificati nell’art. 6 del D.M. n. 161 del 2004.

Il provvedimento con il quale la commissione delibera il piano provvisorio di protezione cessa di avere effetto se, decorsi centottanta giorni, l’Autorità legittimata a formulare la proposta di cui all’articolo 11, del D.L. n. 8/1991, non ha provveduto a trasmetterla e la Commissione non ha deliberato sull’applicazione delle speciali misure di protezione osservando le ordinarie forme e modalità del procedimento. Al presidente della Commissione è data facoltà di disporre la prosecuzione del piano provvisorio di protezione per il tempo strettamente necessario a consentire l’esame della proposta da parte della commissione medesima.

Le speciali misure di protezione, oltre ad essere a termine, anche se di tipo urgente o provvisorio a norma dell’articolo 13, comma 1, del D.L. n. 8/1991, possono essere revocate o modificate, ai sensi dell’art. 13 quater del medesimo decreto legge, in relazione ai seguenti fatti o circostanze: – attualità del pericolo; – gravità del pericolo e idoneità delle misure adottate; – condotta delle persone interessate; – osservanza degli impegni assunti a norma di legge.

L’art. 13 quater, comma 2, del D.L. n. 8/1991, prevede ipotesi di revoca vincolata e ipotesi di revoca facoltativa.

In particolare, costituiscono fatti che comportano la revoca delle speciali misure di protezione: 1) l’inosservanza degli impegni assunti a norma dell’articolo 12, comma 2, lettere b) ed e); 2) la commissione di delitti indicativi del reinserimento del soggetto nel circuito criminale.

Costituiscono, invece, fatti valutabili ai fini della revoca o della modifica delle speciali misure di protezione: 1) l’inosservanza degli altri impegni assunti a norma dell’articolo 12; 2) la commissione di reati indicativi del mutamento o della cessazione del pericolo conseguente alla collaborazione; 3) la rinuncia espressa alle misure; 4) il rifiuto di accettare l’offerta di adeguate opportunità di lavoro o di impresa; 5) il ritorno non autorizzato nei luoghi dai quali si è stati trasferiti; 6) ogni azione che comporti la rivelazione o la divulgazione dell’identità assunta, del luogo di residenza e delle altre misure applicate.

L’art. 13 quater, comma 2, del D.L. n. 8/1991, prevede che nella valutazione da eseguire ai fini della revoca o della modifica delle speciali misure di protezione, specie quando non applicate mediante la definizione di uno speciale programma, si deve tenere particolare conto del tempo trascorso dall’inizio della collaborazione oltre che della fase e del grado in cui si trovano i procedimenti penali nei quali le dichiarazioni sono state rese e delle situazioni di pericolo di cui al comma 6 dell’articolo 9 del medesimo decreto legge.

Riguardo alla cessazione delle misure di protezione, l’articolo 11 del D.M. n. 161 del 2004, precisa che le speciali misure di protezione, anche se di tipo urgente o provvisorio ai sensi dell’articolo 13, comma 1, della legge 15 marzo 1991, n. 82, sono revocate o non sono prorogate nei casi espressamente previsti dalla legge ovvero quando vengono meno l’attualità e la gravità del pericolo o appaiono idonee altre misure adottate. Le misure speciali di protezione possono altresì essere revocate o non prorogate in caso di inosservanza degli impegni assunti da parte dei soggetti ad esse sottoposti in relazione a quanto disposto all’articolo 13quater, commi 1 e 2, della legge 15 marzo 1991, n. 82 e negli altri casi in cui la legge non prevede espressamente l’obbligatorietà della revoca.

A tal fine, il Prefetto e il Servizio centrale di protezione informano la Commissione centrale, l’Autorità proponente e il Procuratore nazionale antimafia o il Procuratore generale presso la Corte d’appello interessato di ogni comportamento o circostanza che possono integrare i presupposti per la revoca delle misure speciali di protezione.

La Commissione centrale, una volta ricevuta dal Servizio centrale di protezione o dal Prefetto la nota informativa di cui al comma 2 del citato articolo 11 del Regolamento, chiede all’Autorità proponente, al Procuratore nazionale antimafia o al Procuratore generale presso la Corte d’appello interessato di esprimere un parere in ordine alla modifica o alla revoca delle speciali misure di protezione, in conseguenza dei fatti segnalati. Qualora le predette Autorità non abbiano emesso il parere entro trenta giorni dalla richiesta della Commissione centrale, quest’ultima decide nel merito, ove non ritenga di prorogare ulteriormente il termine. In ogni caso, il comma 4 del medesimo articolo 11 precisa che il parere reso dall’Autorità proponente non è vincolante.

Con motivata richiesta l’Autorità proponente può indurre la Commissione a verificare la permanenza delle condizioni che hanno determinato l’applicazione delle speciali misure di protezione, provvedendo, se necessario, alla modifica o alla revoca delle medesime (cfr. art. 11, comma 5, D.M. n. 161/2004).

Le misure speciali di protezione possono essere modificate o revocate prima della scadenza, d’ufficio o su richiesta degli interessati, anche per avviare il reinserimento sociale e lavorativo delle persone protette, tenuto conto degli impegni processuali, della esposizione a pericolo, della compatibilità delle iniziative proposte con le esigenze di sicurezza, del tempo trascorso dall’adozione delle misure speciali di protezione (cfr. art. 11, comma 6, D.M. n. 161/2004). Anche in tal caso è richiesto il parere dell’Autorità proponente e di quelle preposte all’attuazione delle misure speciali di protezione, nonché quello del Procuratore nazionale antimafia o del Procuratore generale presso la Corte d’appello interessato.

4. Ciò posto, le censure avanzate dalla parte ricorrente vanno considerate infondate per le ragioni di seguito indicate.

Dall’esito dell’istruttoria condotta in relazione al caso di specie – per come emerge e risulta dal tenore del provvedimento impugnato, dallo stralcio del verbale della riunione della Commissione centrale e dagli atti posti a base del provvedimento contestato – risulta che, a fronte della proposta di ammissione al programma speciale di protezione, avanzata in data 26 luglio 2006 dalla Procura della Repubblica di Potenza Direzione Distrettuale Antimafia, nell’interesse del collaboratore di giustizia L.C., la Direzione Nazionale Antimafia ha espresso parere contrario in relazione alla natura della collaborazione e all’insussistenza di specifici fattori di rischio. In particolare, la DNA, ha evidenziato che, nel corso di una riunione di coordinamento, dalle indagini condotte dalla D.D.A. di Lecce per fatti di sua competenza, è emerso che il L. ha continuato a mantenere contatti con esponenti criminali di Taranto del clan Scarci, rappresentando, quindi, la necessità che il suo contributo collaborativo andasse valutato con estrema prudenza, al fine di verificare la genuinità delle dichiarazioni rese. La DDA di Lecce non ha inteso presentare con la DDA di Potenza la richiesta di programma in favore del L., di fatto non esprimendo l’intesa richiesta dall’art. 11, comma 2, d.l. n. 8/1991. Nel corso di una successiva riunione di coordinamento tra le Procure di Potenza, Napoli e Lecce, è emerso, poi, che il L. non ha confessato numerosi altri reati, continuando a mantenere, almeno fino ad agosto 2007, rapporti con un noto pregiudicato di Taranto, indagato per estorsioni ed usura (cfr. note DNA del 19 luglio, 5 ottobre e 17 dicembre 2007).

E’ sulla base dell’insieme delle circostanze indicate che la commissione centrale – avuto riguardo a quanto stabilito dall’art. 9 del D.l. n. 8/1991, sopra richiamato al punto sub 3) – ha negato l’ammissione alle speciali misure di protezione ritenendo che la collaborazione resa dal L. ed, in particolare, le dichiarazioni rese, non presentasse i richiesti caratteri della intrinseca attendibilità, novità e completezza in ordine ai reati indicati.

E’ ragionevole che, nella fattispecie, la Commissione centrale abbia preferito fare perno sugli elementi di valutazione forniti dalla DNA, piuttosto che sulla proposta avanzata dalla DDA di Potenza, considerato che le dichiarazioni rese dal L. riguardavano indagini seguite da tre diverse Procure della repubblica (Potenza, Napoli e Lecce) e che in relazioni ad alcune di queste le dichiarazioni rilasciate dal L. erano risultate prive del carattere di compiutezza e attendibilità. Del resto, propria alla DNA è attribuito il compito di svolgere attività di impulso e di coordinamento nei confronti delle Procure Distrettuali Antimafia.

Le misure provvisorie di protezione nei confronti del ricorrente sono state quindi, revocate in quanto l’incompletezza e l’inattendibilità delle dichiarazioni rese hanno integrato una ipotesi di revoca obbligatoria, ai sensi del combinato disposto degli artt. 12, comma 2, lettera b) e 13 quater, comma 2, del d.l. n. 8/1991.

A ciò va aggiunto che, contrariamente a quanto previsto e richiesto dall’articolo 11, comma 2, del decreto legge n. 8 del 1991, la DDA di Lecce, a differenza della DDA di Potenza, non risulta avere espresso l’intesa sulla proposta di ammissione del L. allo speciale programma di protezione e, quindi, in sostanza, non può affermarsi che è intervenuto un parere favorevole delle DDA interessate.

Al riguardo, va considerato che la proposta congiunta delle DDA competenti rappresenta una condizione di procedibilità per l’adozione delle speciali misure di protezione previste dal D.L. n. 8/1991 (cfr. art. 11 D.L. n. 8/1991 e artt. 2 e ss. D.M. n. 161/2004). Quindi, in mancanza di una proposta formale, comprensiva dell’intesa indicata, la Commissione non avrebbe potuto ritenersi investita del potere di adottare speciali misure di protezione.

Tali condizioni si verificano anche quando (come nel caso di specie), successivamente all’ammissione ad un piano provvisorio di protezione adottato a seguito di una specifica proposta avanzata dall’Autorità competente, non pervenga alla Commissione entrale, nei termini previsti (180 gg.) una formale proposta di adozione di definitive misure speciali di protezione o di uno speciale programma di protezione, avanzata d’intesa tra le DDA competenti. In tal caso, infatti, l’art. 13, comma 1, del D.L. n. 8/1991, prevede la cessazione degli effetti del piano provvisorio di protezione e, quindi, è la stessa fonte di rango primario indicata a prevedere (prima ancora del provvedimento della Commissione centrale che, quindi, assume in tali ipotesi semplicemente valore dichiarativo) la cessazione delle misure di protezione disposte in via provvisoria.

Quanto alla posizione dei familiari del L., il Collegio si richiama alla giurisprudenza che riconosce loro di essere destinatari del programma speciale solo in funzione della relazione di convivenza o, comunque, della specificità del rapporto con il soggetto "titolare principale" delle misure di protezione, in ragione della loro esposizione a gravi, attuali e concreti pericoli. Quindi, se, come nel caso in esame, sono venute meno le condizioni di fruizione di speciali misure di protezione in favore del soggetto titolare principale, tale situazione si riflette e si estende in modo automatico anche agli altri soggetti indicati dal comma 5 dell’art. 9, del d.l. n. 8/1991, nel senso della incompatibilità con il proseguire della protezione nei loro confronti.

5. Alla luce delle considerazioni che precedono il Collegio ritiene che il ricorso sia infondato e debba essere respinto.

6. Sussistono validi motivi – legati alla particolarità delle vicenda e delle questioni trattate – per disporre la integrale compensazione delle spese di giudizio fra le parti in causa.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima Ter), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto:

– lo respinge il ricorso;

– dispone la integrale compensazione delle spese di giudizio fra le parti in causa;

– ordina che la presente sentenza sia eseguita dalla competente Autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.