T.A.R. Lazio Roma Sez. I bis, Sent., 15-12-2011, n. 9795

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con il ricorso in esame, i ricorrenti – sottufficiali appartenenti al ruolo dei musicisti dell’esercito ed in servizio presso la banda dell’Esercito – chiedono l’accertamento del proprio diritto alla immissione nel ruolo dei musicisti dell’Esercito con decorrenza amministrativa alla data del 1 settembre 1995, con condanna dell’amministrazione al pagamento delle somme dovute comprensive della rivalutazione monetaria, degli interessi legali e degli interessi anatonistici.

In punto di fatto, consta che:

i ricorrenti hanno partecipato al concorso indetto dall’intimata amministrazione ai sensi dell’art. 33, c. 3, lett. d) ed e) del D.Lvo n. 196/1995 (ratione temporis vigente), che così recita:

"… d) i sottufficiali musicanti ed i sottufficiali archivisti, effettivi a ciascuna banda di Forza armata ed in servizio alla data di entrata in vigore del presente decreto sono immessi nei ruoli dei musicisti previo superamento di un concorso interno. A tale concorso possono altresì partecipare i sottufficiali musicanti in servizio permanente delle altre musiche d’ordinanza (bande o fanfare), per la copertura degli eventuali posti non occupati dal personale di cui al precedente periodo;

e) il concorso interno di cui alla lettera d) è bandito per ciascuna Forza armata con decreto ministeriale entro 90 giorni dalla entrata in vigore del presente decreto ed ha luogo con le seguenti modalità:

1) i concorrenti sono valutati in base ai titoli posseduti ed all’effettuazione di prove pratiche. I titoli sono costituiti da eventuali diplomi o qualifiche o risultati di corsi a contenuto musicale, nonché dal rendimento fornito in servizio. Le prove pratiche sono quelle previste dalle norme a regime per gli aspiranti orchestrali e per gli aspiranti archivisti;

2) per la formazione delle graduatorie è nominata, per ciascuna Forza armata, con decreto del Ministro della Difesa, un’apposita commissione esaminatrice composta da: un colonnello in servizio permanente effettivo, presidente, dal maestro direttore della banda interessata e dal maestro vice direttore della stessa banda. Le funzioni di segretario sono disimpegnate da un funzionario civile del Ministero della difesa della VII o VIII qualifica funzionale;

3) le commissioni formano due graduatorie, una per i musicanti in servizio presso le bande musicali di Forza armata ed una per i musicanti delle altre musiche d’ordinanza, attribuendo un punteggio da 1 a 10 per i titoli e un punteggio da 1 a 20 per ciascuna prova;

4) per la nomina dei vincitori ed il relativo inquadramento dei musicisti ai sensi del presente decreto si attinge prioritariamente dalla graduatoria dei musicanti già in servizio presso le bande di Forza armata e, in caso di disponibilità di vacanze nei predetti ruoli, dalla graduatoria relativa agli altri musicanti;

5) la nomina in ruolo avviene con decorrenza dalla data di entrata in vigore del decreto;

gli interessati hanno partecipato al concorso interno de quo in qualità di sottufficiali appartenenti alle altre musiche di ordinanza (bande o fanfare), di cui all’art. 2, lett. b) del bando e sono stati dichiarati vincitori con decreto ministeriale 13 marzo 1998;

come per gli altri vincitori, essi sono stati immessi nel ruolo con decorrenza giuridica 1 settembre 1995;

diversamente da costoro, però, l’amministrazione ha fatto decorrere il loro inquadramento economico dalla data di esecuzione del decreto (7 aprile 1998);

i ricorrenti hanno inoltrato apposita istanza di riesame dell’inquadramento economico;

l’amministrazione ha respinto le istanze con nota del 17 luglio 2000.

Con memoria depositata il 31 agosto 2011, l’Avvocatura di Stato, oltre a resistere al ricorso, eccepisce la sua inammissibilità per mancata impugnazione nei termini decadenziali dei decreti di inquadramento dei ricorrenti.

All’udienza del 19 ottobre 2011, il difensore dei ricorrenti ha dichiarato la persistenza dell’interesse alla decisione del ricorso.

Alla stressa udienza, la causa stata trattenuta per la decisione.

Può prescindersi dall’esame della eccezione di inammissibilità del ricorso attesa la sua infondatezza.

I ricorrenti, alla data di espletamento del concorso, non erano in servizio presso la banda dell’esercito.

Essi, pertanto, neppure risultavano effettivi alla banda medesima alla data del 1 settembre 1995.

Segnatamente, come riferito da controparte, gli interessati erano o già cessati dal servizio o trasferiti presso altri enti o musicanti di altre musiche di ordinanza.

Ne consegue, che correttamente l’amministrazione ha fatto decorrere il solo inquadramento nel ruolo (decorrenza giuridica) dal 1 settembre 1995 (uguale per tutti i vincitori) – in pedissequa applicazione dell’art. 33, c. 3, lett. e), punto 5 del D.Lvo n. 196/1995 -; non potendo, la decorrenza amministrativa, risalire, ai fini del mero trattamento economico, alla stessa data in mancanza di assunzione, da parte dei ricorrenti, delle relative funzioni nel corpo della banda dell’esercito.

Sotto altro profilo, va osservato che, siccome l’inquadramento in questione ha carattere costitutivo – giusta sussistenza di una imprescindibile discrezionalità sul sostanziale profilo del quomodo degli inquadramenti da disporre attraverso i decreti intervenuti – la data di maturazione del diritto al trattamento economico stipendiale conseguente al nuovo inquadramento non può che trovare la propria, pertinente fonte nel provvedimento amministrativo, ovvero dalla sua esecutività.

Per quanto sopra argomentato, il ricorso in esame è infondato e va, perciò, respinto.

Sussistono giusti ed eccezionali motivi, in ragione della peculiarità della questione, per disporre, tra le parti, la compensazione delle spese di lite.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima Bis) definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 14-06-2012, n. 9707

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Svolgimento del processo

Con sentenza in data 26.11/10.12,2007 la Corte di appello di Lecce confermava la decisione di primo grado che aveva rigettato la domanda proposta nei confronti dell’INPS da M.F., nella qualità di erede di S.A., ai fini del riconoscimento in favore della de cuius, già titolare di pensione di invalidità civile totale , dell’assegno sociale previsto dalla L. n. 335 del 1995, art. 3, comma 6.

Osservava in sintesi la corte territoriale che la trasformazione della pensione sociale in assegno sociale non poteva nel caso riconoscersi per difetto di interesse (stante l’assenza di alcuna connessa richiesta economica) e, comunque, per difetto del prescritto requisito reddituale.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso M.F..

Non ha svolto attività difensiva l’Istituto intimato.

Motivi della decisione

1. Con un unico motivo, svolto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, il ricorrente lamenta violazione della L. n. 335 del 1995, art. 3, comma 6, osservando come erroneamente la corte territoriale avesse ritenuto insussistente tanto l’interesse ad agire, quanto il requisito reddituale, prevedendo in ogni caso la legge, al raggiungimento del 65^ anno di età, la sostituzione della pensione sociale con l’assegno, senza alcuna differenziazione con riferimento alla data in cui tale età fosse stata raggiunta (se precedente o successiva all’1.1.1996).

2. Va preliminarmente dato atto che il ricorrente ha depositato certificazione attestante la ritualità della notificazione del ricorso all’Istituto intimato.

3. Il ricorso è infondato.

Deve, al riguardo, richiamarsi il principio, consolidato nella giurisprudenza di questa Suprema Corte, secondo cui la regola di irretroattività della legge impone di interpretare la L. n. 335 del 1995, art. 3, comma 6, in mancanza di una sua qualsiasi previsione concernente la "trasformazione" della pensione sociale in assegno, nel senso che la norma in questione – nella parte in cui prevede l’attribuzione dell’assegno "in luogo della pensione sociale" in favore degli ultrasessantacinquenni – ha come propri destinatari i soli soggetti per i quali il requisito dell’età anagrafica si sia perfezionato nella vigenza della stessa L. n. 335 del 1995, e, quindi, che abbiano maturato il requisito dell’età anagrafica successivamente al 1 gennaio 1996 (cfr. da ultimo Cass. n. 23168/2011).

Nel caso è incontroverso che la de cuius, nata nel (OMISSIS), aveva compiuto il sessantacinquesimo anno di età prima dell’entrata in vigore di tale legge, per cui non risulta invocabile la sostituzione della pensione in assegno.

Alla luce di tali principi di diritto, la sentenza impugnata merita conferma, a prescindere dalle considerazioni poste a sua giustificazione dai giudici di appello.

4. Il ricorso va, pertanto, rigettato.

Nulla in ordine alle spese, non avendo l’Istituto intimato svolto attività difensiva.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso, nulla per le spese.

Così deciso in Roma, il 10 maggio 2012.

Depositato in Cancelleria il 14 giugno 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 12-07-2012, n. 11796 Contratto a termine

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Svolgimento del processo

Con sentenza depositata il 2.2.07 la Corte d’appello di Torino rigettava il gravame di Poste Italiane S.p.A. contro la sentenza con cui il Tribunale della stessa sede aveva dichiarato la nullità del termine apposto al contratto di lavoro decorrente dal 6.6.2000 con P.V. e, per l’effetto, aveva dichiarato essersi costituito da tale data un rapporto lavorativo a tempo indeterminato, con condanna della predetta società a riammettere in servizio il lavoratore e a pagargli le retribuzioni maturate dalla messa in mora.

Per la cassazione di tale sentenza ricorre Poste Italiane S.p.A. affidandosi a due motivi, poi ulteriormente illustrati con memoria ex art. 378 c.p.c..

Il P. è rimasto intimato.
Motivi della decisione

1- Con il primo motivo si lamenta violazione e falsa applicazione della L. n. 56 del 1987, art. 23 e art. 1362 c.c. in relazione all’accordo 25.9.97 e successivi accordi integrativi, per avere l’impugnata sentenza subordinato la legittimità del contratto a termine inter partes alla dimostrazione della sussistenza di un nesso eziologico fra l’assunzione del singolo lavoratore e le esigenze dedotte in contratto, anche con riferimento allo specifico ufficio di applicazione, requisito non previsto nè voluto dalle parti collettive, come risultante dall’interpretazione letterale dell’accordo 25.9.97 e dalla delega in bianco loro attribuita dal legislatore con il cit. art. 23 nel delineare nuove ipotesi di contratto a termine.

Il motivo è infondato.

E’ pacifico inter partes che il contratto a termine de quo è stato stipulato – ai sensi dell’art. 8 CCNL del 1994, come integrato dall’accordo aziendale 25.9.97 – in data successiva al 30.4.98, allorquando era espressamente venuta meno la copertura autorizzatoria prevista dalla stessa autonomia collettiva.

Tale considerazione – in base all’indirizzo ormai consolidato in materia dettato da questa Corte (con riferimento al sistema vigente anteriormente al CCNL del 2001 e al D.Lgs. n. 368 del 2001) – è sufficiente a sostenere l’affermata nullità del termine apposto al contratto de quo (in tal senso correggendosi ex art. 384 c.p.c., u.c. la motivazione svolta dalla sentenza impugnata).

A tale riguardo, sulla scia di Cass. S.U. 2.3.2006 n. 4588 è stato precisato che "l’attribuzione alla contrattazione collettiva, L. n. 56 del 1987, ex art. 23 del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla L. n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo determinato" (v. Cass. 4.8.2008 n. 21063; cfr., altresì, Cass. 20.4.2006 n. 9245; Cass. 7.3.2005 n. 4862; Cass. 26.7.2004 n. 14011).

Ove però – come accaduto nel caso di specie – un limite temporale (quello del 30.4.98) sia stato in concreto previsto dalle parti collettive (anche con accordi integrativi del contratto collettivo), la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione del termine (v., ex aliis, Cass. n. 316/2011; Cass. 23.8.2006 n. 18383; Cass. 14.4.2005 n. 7745; Cass. 14.2.2004 n. 2866).

In particolare, quindi, come questa Corte ha costantemente affermato e come va anche qui ribadito, "in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998; ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza della L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1" (cfr., ex aliis, Cass. n. 316/2011, cit.; Cass. 1.10.2007 n. 20608; Cass. 28.1.2008 n. 28450; Cass. 4.8.2008 ti. 21062; Cass. 27.3.2008 n . 7979; Cass. n. 18376/2006).

In base a tale orientamento consolidato non merita, quindi, censura la declaratoria di nullità del termine apposto al contratto de quo, il che assorbe ogni ulteriore argomentazione a riguardo svolta nel primo motivo di ricorso.

2- Con il secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 1372 c.c., comma 1, art. 1362 c.c., comma 2 e art. 2697 c.c., nonchè dell’art. 115 c.p.c., oltre che vizio di motivazione, laddove la Corte territoriale non ha ravvisato il mutuo consenso a non riattivare il rapporto di lavoro in fatti incompatibili con la volontà di mantenerlo in vita, come la prolungata inerzia della lavoratrice dopo la scadenza del termine, la percezione da parte sua – senza riserva – del TFR, nonchè il non essersi il P. ripresentato al lavoro nonostante la comunicazione di riammissione in servizio inviatagli a seguito della sentenza di primo grado, circostanza – quest’ultima – su cui la Corte territoriale non aveva motivato.

Il motivo è infondato.

La più recente giurisprudenza di questa S.C. – cui va data continuità – è ormai consolidata nello statuire che "Nel rapporto di lavoro a tempo determinato, la mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a termine è di per sè insufficiente a ritenere sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso in quanto, affinchè possa configurarsi una tale risoluzione, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo dovendosi, peraltro, considerare che l’azione diretta a far valere la illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro, per violazione delle disposizioni che individuano le ipotesi in cui è consentita l’assunzione a tempo determinato, si configura come azione di nullità parziale del contratto per contrasto con norme imperative ex art. 1418 c.c. e art. 1419 c.c., comma 2, di natura imprescrittibile pur essendo soggetti a prescrizione i diritti che discendono dal rapporto a tempo indeterminato risultante dalla conversione "ex lege " del rapporto a tempo determinato cui era stato apposto illegittimamente il termine. (Nella specie, relativa ad una pluralità di contratti a tempo determinato conclusi tra un aiuto arredatore e la RAI S.p.a., la S.C., in applicazione dell’anzidetto principio ha ritenuto che correttamente la Corte di merito avesse dichiarato la nullità del termine apposto, restando priva di rilievo la mera inerzia tenuta dal lavoratore per oltre un anno e mezzo, dalla scadenza del termine dell’ultimo dei cinque contratti intervenuti)" (Cass. 15.11.2010 n. 23057; conf. Cass. 1.2.2010 n. 2279).

Ancora più di recente, Cass. n. 9583/2011 ha ribadito che "nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinchè possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle partì medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo".

In senso conforme si vedano, altresì, Cass. 10.11.2008 n. 26935;

Cass. 28.9.2007 n. 20390; Cass. 17.12.2004 n. 23554; Cass. 11.12.2001 n. 15621 ed innumerevoli altre.

Aggiunge, ancora la cit. sentenza n. 9583/2011 che "grava sul datore di lavoro, che eccepisca la risoluzione per mutuo consenso l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro" (v. ancora, in senso conforme, Cass. 2.12.2002 n. 17070).

Ebbene, tutte le sentenze citate hanno, nel caso concreto sottoposto all’esame della S.C., ritenuto giuridicamente corretta (oltre che immune da vizi logici) l’affermazione dei giudici di merito secondo cui la mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto, anche se protratta per due o tre anni o più, non fosse sufficiente, in mancanza di ulteriori elementi di valutazione, a far ritenere la sussistenza dei presupposti della risoluzione del rapporto per tacito mutuo consenso. Aggiunge icasticamente Cass. n. 23501/2010, cit:

"D’altra parte, come è noto, l’azione diretta a far valere la illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro, per violazione delle disposizioni che individuano le ipotesi in cui è consentita l’assunzione a tempo determinato, si configura come azione di nullità parziale del contratto per contrasto con nome imperative ex art. 1418 c.c. e art. 1419 c.c., comma 2. Essa, pertanto, ai sensi dell’art. 1422 c.c., è imprescrittibile, pur essendo soggetti a prescrizione i diritti che discendono dal rapporto a tempo indeterminato risultante dalla conversione ex lege per illegittimità del termine apposto. Ne consegue che il mero decorso del tempo tra la scadenza del contratto e la proposizione di siffatta azione giudiziale non può, di per sè solo, costituire elemento idoneo ad esprimere in maniera inequivocabile la volontà delle parti di risolvere il rapporto a tempo indeterminato risultante dalla conversione ovvero, in un ottica che svaluti il ruolo e la rilevanza della volontà delle parti intesa in senso psicologico, elemento obiettivo, socialmente e giuridicamente valutabile come risoluzione per tacito mutuo consenso (v. Cass., 15/12/97 n. 12665; Cass., 25/3/93 n. 824). Comunque, consentendo l’ordinamento di esercitare il diritto entro limiti di tempo predeterminati, o l’azione di nullità senza limiti, il tempo stesso non può contestualmente e contraddittoriamente produrre, da solo e di per se, anche un effetto di contenuto opposto, cioè l’estinzione del diritto ovvero una presunzione in tal senso, atteso che una siffatta conclusione sostanzialmente finirebbe per vanificare il principio dell’imprescrittibilità dell’azione di nullità e/o la disciplina della prescrizione, la cui maturazione verrebbe contra legem anticipata secondo contingenti e discrezionali apprezzamenti. Per tali ragioni appare necessario, per la configurabilità di una risoluzione per mutuo consenso, manifestatasi in pendenza del termine per l’esercizio del diritto o dell’azione, che il decorso del tempo sia accompagnato da ulteriori circostanze oggettive le quali, per le loro caratteristiche di incompatibilità con la prosecuzione del rapporto, possano essere complessivamente interpretate nel senso di denotare "una volontà chiara e certa delle parti di volere, d’accordo tra loro, porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo" (v. anche Cass., 2/12/2000 n. 15403; Cass., 20/4/98 n. 4003). E’, inoltre, onere della parte che faccia valere in giudizio la risoluzione per mutuo consenso allegare prima e provare poi siffatte circostanze (v. Cass. sez. lav. n. 2279 dell’1/2/2010, n. 16303 del 12/7/2010, n. 15624 del 6/7/2007):’ (v., altresì, Cass. n. 23499/2010 cit. ed altre ancora).

Riepilogando, per aversi tacito mutuo consenso inteso a risolvere o comunque a non proseguire il rapporto di lavoro non basta il mero decorso del tempo fra la scadenza del termine illegittimamente apposto e la relativa impugnazione giudiziale (nel caso di specie il ricorso introduttivo del giudizio è stato notificato il 15.3.06), ma è necessario il concorso di ulteriori e significative circostanze tali da far desumere in maniera chiara e certa la comune volontà delle parti di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo, circostanze della cui allegazione e prova è gravato il datore di lavoro (ovvero la parte che eccepisce un tacito mutuo consenso).

Ad avviso della società ricorrente tali ulteriori e significative circostanze consisterebbero nell’avere l’intimato percepito senza riserve il TFR e nel non essersi poi ripresentato al lavoro nonostante la comunicazione di riammissione in servizio inviatagli.

Ora, quanto al TFR, questa S.C. ha più volte avuto modo di rilevare che non sono indicative di un intento risolutorio nè l’accettazione del TFR nè la mancata offerta della prestazione, trattandosi di "comportamenti entrambi non interpretabili, per assoluto difetto di concludenza, come tacita dichiarazione di rinunzia ai diritti derivanti dalla illegittima apposizione del termine" (cfr., Cass., n. 15628/2001, in motivazione).

Lo stesso dicasi della condotta di "chi sia stato costretto ad occuparsi o comunque cercare occupazione dopo aver perso il lavoro per cause diverse dalle dimissioni" (cfr. Cass. n. 839/2010, in motivazione, nonchè, in senso analogo, Cass., n. 15900/2005, in motivazione).

Infine, circa il non essersi l’odierno intimato ripresentatosi al lavoro nonostante la comunicazione di riammissione in servizio inviatagli dalla società, si tratta di circostanza meramente asserita, senza trascrizione nè indicazione del documento (e della relativa sede processuale) da cui ciò risulterebbe, il che implica un difetto di autosufficienza sul punto.

3- Le considerazioni sopra svolte assorbono la questione, ventilata da Poste Italiane S.p.A. in sede di memoria ex art. 378 c.p.c., relativa all’eventuale incidenza, nella vicenda in esame, della L. 4 novembre 2010, n. 183, sopravvenuto art. 32, commi 5, 6 e 7: per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso è necessario che quest’ultima sia pertinente alle questioni oggetto di censura (in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso: cfr. Cass. 8.5.2006 n. 10547; Cass. 27.2.2004 n. 4070), il che non si verifica nel caso odierno poichè i motivi di impugnazione sopra esaminati non riguardano le conseguenze patrimoniali derivanti dall’affermata nullità del termine del contratto di lavoro.

4- In conclusione, il ricorso è da rigettarsi.

Non è dovuta pronuncia sulle spese, non avendo l’intimato svolto attività difensiva.
P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso. Nulla spese.

Così deciso in Roma, il 17 maggio 2012.

Depositato in Cancelleria il 12 luglio 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 03-08-2012, n. 14098

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Svolgimento del processo

1. – Con atto di citazione notificato il 23 febbraio 2000, A. A. conveniva innanzi al Tribunale di Roma S. S. per ottenere il pagamento del compenso pari a L. L. 616.000.000, di cui alla fattura in data (OMISSIS), cui sosteneva di avere diritto in relazione all’attività professionale svolta, quale dottore commercialista, in favore della convenuta.

S.S. si costituiva in giudizio e contestava il fondamento della domanda, assumendo di avere già soddisfatto integralmente l’attore con il versamento a saldo della somma di L. 1.530.000.000 effettuato in data 1 ottobre 1998, come precedentemente concordato.

2. – Con sentenza in data 1 marzo 2003, il Tribunale di Roma rigettava la domanda.

3. – A.A. proponeva appello, che veniva accolto limitatamente alla liquidazione delle spese dalla Corte d’appello di Roma, con sentenza in data 11 aprile 2006.

La Corte territoriale, premesso che i capitoli di prova articolati dall’appellante avevano ad oggetto circostanze irrilevanti, osservava che A.A., come risultava dalla chiara dizione della lettera che aveva inviato alla sua assistita S. con allegata la convenuta parcella n. (OMISSIS), aveva ammesso di aver concordato l’importo di cui alla parcella quale compenso per le prestazioni professionali rese in favore dell’appellata.

4. – Per la cassazione di tale sentenza ricorre l’ A. sulla base di due motivi, illustrati anche da successiva memoria. Resiste con controricorso la S..

Motivi della decisione

1.1. – Con il primo motivo del ricorso principale si lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c. e segg., nonchè delle norme e dei principi in materia di onere della prova (art. 2697 cod. civ., e artt. 115 e 116 cod. proc. civ.), ed omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione. Il ricorrente contesta la correttezza della conclusione cui è pervenuta la sentenza impugnata in ordine alla esistenza di un accordo tra le parti per compensare l’intera attività professionale svolta a favore della S. con il versamento della somma di L. 1.530.000.000. Il giudice di secondo grado avrebbe dato per provato l’accordo scritto tra le parti, mentre di esso non vi è traccia agli atti di causa, tra cui si rinveniva solo un atto esecutivo di tale presunto accordo (l’emissione della "parcella convenuta"), il quale, però, avrebbe potuto avere un oggetto più limitato dell’accordo in questione.

Deduce ancora il ricorrente principale che la Corte di merito avrebbe violato l’art. 1362 cod. civ., per aver fatto riferimento al solo tenore letterale del presunto accordo (come desumibile dalla lettera di accompagnamento della parcella), senza tenere conto di vari altri elementi i quali avrebbero potuto indurla ad una diversa conclusione.

Sarebbe, poi, errato ed inconferente anche l’esplicito riferimento, contenuto nella sentenza impugnata, al canone ermeneutico finale di cui all’art. 1371 cod. civ. ed al principio di buona fede nell’esecuzione del contratto. A parte la contraddittorietà del richiamo al ricordato articolo, che presuppone una oscurità nel testo del contratto, che, invece, la Corte di merito ha negato sulla base del tenore letterale dell’atto, la norma de qua impone una interpretazione della volontà dei contraenti tale da realizzare l’equo contemperamento dei rispettivi interessi, mentre nella specie sarebbe stata penalizzata immotivatamente una sola parte, il professionista, in contrasto anche con una interpretazione del contratto secondo buona fede.

1.2. – La illustrazione della censura si conclude con la formulazione dei seguenti quesiti di diritto, a norma dell’art. 366-bis cod. proc. civ.: Se, ai sensi dell’art. 1362 cod. civ., l’interpretazione della volontà dei contraenti di un accordo verbale possa fondarsi esclusivamente sul senso letterale delle parole, nonostante appunto l’assenza di forma scritta; Se, ai sensi dell’art. 1362 cod. civ., possa considerarsi tenore letterale di un precedente accordo quello non dell’accordo stesso, ma di atto successivo, in assenza di chiare circostanze di fatto che consentano di affermare la comune intenzione dei contraenti di ritenere quest’ultimo integralmente e definitivamente esecutivo dell’accordo medesimo; Se, ai sensi dell’art. 1362 c.c., comma 2, l’interprete, per determinare la comune intenzione delle parti, debba valutare il loro comportamento complessivo e non solo taluni comportamenti delle parti stesse; Se, ai sensi dell’art. 1362 c.c. e segg., la volontà dei contraenti di un accordo verbale debba essere necessariamente ricostruita sulla base dei criteri ulteriori e sussidiar rispetto a quello del senso letterale delle parole; Se incomba sul debitore, convenuto dal creditore per il pagamento di compensi per attività professionale e che opponga di aver già saldato il dovuto, l’onere di dimostrare che il pagamento effettuato costituisca effettivamente un saldo.

2.1. – La censura è infondata.

2.2. – Va anzitutto considerato che sarebbe spettato al ricorrente in via principale provare che la emissione della fattura era la esecuzione parziale di un accordo dal contenuto più ampio e non soltanto ipotizzarne l’esistenza.

2.3. – Quanto al richiamo all’art. 1371 cod. civ., premesso che la sentenza impugnata ha fatto riferimento a detta norma ed al criterio dell’interpretazione del contratto secondo buona fede solo ad abundantiam, essendosi basata essenzialmente sull’art. 1362 cod. civ., occorre sottolineare che, per quanto nella sentenza impugnata abbondino i riferimenti ai canoni interpretativi del contratto, in realtà la Corte di merito non ha interpretato un contratto la cui formulazione potesse in astratto dare adito a dubbi, ma ha desunto l’esistenza di un accordo con un ben determinato contenuto dal comportamento e da dichiarazioni dell’attuale ricorrente il cui significato era univoco.

E’ appena il caso di ricordare che l’accertamento circa la conclusione di un contratto da parte del giudice del merito non è sindacabile in sede di legittimità se è il frutto, come nella specie, di una motivazione immune da vizi logici e giuridici.

3.1. – Con il secondo motivo del ricorso principale si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 230, 244 cod. proc. civ. e art. 2697 cod. civ., anche in relazione all’art. 1362 c.c. e segg., nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia. Il ricorrente si duole della mancata ammissione delle prove dedotte.

3.2. – La illustrazione della doglianza si conclude con la formulazione del seguente quesito di diritto ai sensi dell’art. 366- bis cod. proc. civ.: Se è errata per violazione di legge la sentenza che fonda il convincimento di irrilevanza dei mezzi istruttori sulla erronea applicazione delle norme di interpretazione dei contratti di cui all’art. 1362 c.c. e segg..

4. Il motivo è inammissibile per difetto di autosufficienza, non essendo stato indicato nemmeno il contenuto specifico delle prove in questione, al fine di consentire la valutazione della fondatezza o meno della doglianza.

5. Conclusivamente, il ricorso deve essere rigettato. Le spese del presente giudizio, che vengono liquidate come da dispositivo, devono, in ossequio al principio della soccombenza, essere poste a carico del ricorrente.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in complessivi Euro 10000,00, di cui Euro 9800.00 per onorari, oltre alle spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Seconda Sezione civile, il 17 gennaio 2012.

Depositato in Cancelleria il 3 agosto 2012
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