Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 11-11-2010) 23-02-2011, n. 6898

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con sentenza in data 11 gennaio 2010 la Corte d’appello di Milano ha confermato la sentenza del 4 marzo 2009 del Giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Varese che, all’esito del giudizio abbreviato, aveva dichiarato D.V.A. e L. E. colpevoli, in concorso, dei delitti di rapina aggravata e lesioni personali lievi in danno di G.E. e di tentato omicidio in danno del carabiniere N.D., commessi in (OMISSIS), e il L. anche del delitto di furto aggravato di un’autovettura FIAT Marea SW in danno di R.C., commesso in (OMISSIS).

Il Giudice d’appello ha riformato la sentenza di primo grado solo in ordine al trattamento punitivo in relazione all’applicazione dell’aumento della pena per la recidiva, rideterminando la pena finale in anni sei, mesi nove e giorni diciotto di reclusione per D. V. e in anni sei, mesi quattro e giorni tredici di reclusione per L..

2. Da entrambe le decisioni di merito emergeva che:

– il (OMISSIS) D.V.A., mentre si trovava nel parcheggio del centro commerciale (OMISSIS), si era appropriato della borsetta appartenente a G.E. agganciata al carrello della spesa, vincendo la resistenza opposta dalla donna che veniva trascinata per terra;

– D.V. si era allontanato risalendo a bordo dell’auto Fiat Marea condotta da L.E., che era subito ripartita;

– detta auto, che era risultata rubata il (OMISSIS), e che, immediatamente intercettata, era stata inseguita dai carabinieri di Malnate anche in centri abitati, attraversati a velocità sostenuta senza rispettare le intimazioni di alt dei carabinieri e la segnaletica semaforica, si era fermata a (OMISSIS) in una strada senza uscita;

– il carabiniere N.D. che, con la mitraglietta di ordinanza, era uscito dall’auto posta di traverso per impedire la fuga dell’auto inseguita e aveva intimato l’alt ai suoi occupanti, era stato investito dalla detta auto, che aveva accelerato la marcia dopo la sua inversione, ed era caduto a terra dopo essere stato scagliato sul cofano e sul parabrezza della stessa auto;

– durante la caduta un colpo d’arma da fuoco, esploso accidentalmente, aveva frantumato i finestrini laterali anteriori dell’auto, nella quale erano D.V. e L., e aveva ferito il conducente;

– la marcia dell’auto, nuovamente in fuga, era stata impedita dai danni riportati collidendo con altra auto dei carabinieri di Tradate, giunti in ausilio sul posto.

3. Secondo il primo Giudice era corretta la qualificazione giuridica dei fatti contestati, atteso che la violenza esercitata per l’impossessamento della borsetta e per impedire alla vittima di riprenderla concretava il delitto di rapina aggravata; le lesioni riportate dalla donna trascinata per terra erano perseguibili d’ufficio per la contestata aggravante del nesso teleologia) con il delitto di rapina; la condotta attuata dirigendo l’auto a forte velocità contro il carabiniere, valutata con giudizio di prognosi postuma, era idonea alla realizzazione dell’evento morte e consentiva di ricavare la prova del dolo alternativo sulla base dell’id quod plerumque accidit; l’attribuzione della responsabilità concorsuale anche per il delitto di tentato omicidio ai due imputati trovava fondamento nell’espresso mantenimento dell’accordo criminoso tra gli stessi senza la manifestazione di alcuna dissociazione da parte di D.V.; del delitto di furto dell’auto doveva rispondere il solo L. che, rendendo credibile confessione, se n’era attribuita l’esclusiva paternità. 4. La Corte d’appello, dopo aver sintetizzato le doglianze mosse con gli atti di appello da parte degli imputati, riteneva, in particolare, che la qualificazione della condotta contestata come tentato omicidio, ampiamente e condivisibilmente motivata con la decisione di primo grado superando gli argomenti difensivi dedotti, riproposti con i motivi di appello, trovava sicuro fondamento nella idoneità della condotta, dimostrata dalla "violenza proiettata" contro il carabiniere, irrilevante essendo la presenza di lesioni clinicamente e giuridicamente apprezzabili, e nella messa in pericolo della vita umana attraverso detta condotta, valutata con giudizio di prognosi postuma formulabile da chiunque.

Secondo la Corte era certa la sussistenza del dolo alternativo per l’accettazione dell’evento morte e di quello minore (resistenza e fuga), dopo la rappresentazione del primo come probabile in alternativa al secondo, da parte dell’agente, che non aveva receduto dal proposito criminoso.

Entrambi gli imputati avevano concorso nel delitto di tentato omicidio, atteso che, pur non avendolo programmato, non avevano espresso l’intenzione, L. "per facta" e D.V. "per dato processuale", di porre fine alla, ormai inutile, fuga.

Con riguardo al trattamento sanzionatorio, la Corte d’appello riteneva corretta l’individuazione nel tentato omicidio del delitto base ai fini della continuazione, escludeva la concedibilità dell’attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 4, riteneva sussistente la circostanza aggravante del nesso teleologia), che rendeva procedibile d’ufficio il delitto di lesioni personali, non ravvisava elementi valorizzabili per la concessione delle circostanze attenuanti generiche, riteneva la pena adeguata alla gravità dei fatti, e rideterminava l’incidenza dell’aumento della recidiva sulla pena base, tenendo anche conto del disposto di cui all’art. 99 c.p., comma 6. 5. Avverso la detta sentenza, passata in giudicato per L. E., ha proposto ricorso per Cassazione, per mezzo del suo difensore di fiducia, D.V.A. il quale ne chiede l’annullamento sulla base di quattro motivi.

Con il primo motivo il ricorrente denuncia inosservanza o erronea applicazione della legge penale, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), in relazione agli artt. 56, 110, 337 e 575 c.p., con riferimento alla ritenuta sussistenza del delitto di tentato omicidio volontario in concorso, che si assume fondata sulla sola univocità degli atti; con riferimento alla qualità del dolo in capo agli imputati che, se si sono rappresentati come certa la resistenza, non si sono rappresentati come evento alternativo la morte del carabiniere che non hanno voluto; e con riferimento alla qualità del dolo in capo ad esso ricorrente, il cui concorso nel delitto di tentato omicidio aggravato è stato affermato senza alcuna sua compartecipazione nè attiva, nè morale omissiva, e sulla base della sola sua presenza a bordo dell’auto condotta da L..

Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione di legge e vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), in relazione all’art. 62 bis c.p., con riferimento all’omessa valutazione in sentenza del suo comportamento post delictum, rappresentato dalla volontaria richiesta di disintossicazione, incidente sul chiesto riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.

Con il terzo motivo il ricorrente denuncia violazione di legge e vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), in relazione all’art. 99 c.p., con riferimento al trattamento sanzionatorio, al carattere facoltativo della recidiva contestata e al giudizio di bilanciamento da farsi con il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.

Con il quarto motivo si denuncia violazione di legge e vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), in relazione all’art. 62 c.p., n. 4, con riferimento alla erronea individuazione del reato base nel tentato omicidio invece che nella rapina, cui accede la chiesta circostanza attenuante, e all’assenza di alcun danno per essere la vittima subito rientrata in possesso di quanto sottrattole.
Motivi della decisione

1. Il ricorso è infondato in ogni sua deduzione, avendo la sentenza impugnata, che si salda coerentemente con quella di primo grado, esattamente interpretato le norme applicate, alla luce dei principi di diritto fissati da questa Corte, e illustrato in modo logico e coerente, con riguardo alla posizione del ricorrente, gli elementi su cui è fondata l’affermazione di penale responsabilità dello stesso in ordine al delitto di tentato omicidio, al quale D.V. A. aveva limitato, con i motivi di appello, le sue censure in punto responsabilità, ripropositive peraltro degli argomenti già dedotti in prime cure.

2. Quanto al primo motivo non meritano accoglimento i rilievi, formulati dal ricorrente, circa l’insussistenza degli estremi del delitto di tentato omicidio con riguardo alla univocità degli atti e all’elemento psicologico del dolo.

Le sentenze di merito, facendo riferimento a una non contestata ricostruzione della vicenda, hanno fatto corretto uso dei principi, costantemente affermati da questa Corte con riferimento al tentato omicidio in merito alla idoneità degli atti e alla loro non equivocità, intesa quest’ultima come requisito della condotta e non come connotato dell’elemento soggettivo (tra le altre, da ultimo, Sez. 1, n. 35174 del 23/06/2009, dep. 11/09/2009, M., Rv. 245204;

Sez. 1. n. 5029 del 16/12/2008, dep. 05/02/2009, De Montis, Rv.

243370), e in merito alla compatibilità con lo stesso dell’elemento soggettivo del dolo alternativo (tra le altre, Sez. 1, n. 27620 del 24/05/2007, dep. 12/07/2007, Mastrovito, Rv. 237022).

2.1. L’auto sulla quale erano il ricorrente e il coimputato non ricorrente L.E., che la conduceva, dopo l’inversione di marcia nella strada senza uscita, è stata lanciata, in accelerazione, contro il carabiniere sceso dall’auto di servizio per intimare l’alt e chiudere la via di fuga.

Mentre il carabiniere investito e scagliato sul cofano cadeva a terra, l’auto ha proseguito la marcia fermandosi solo per i danni riportati con l’impatto con altra auto dei carabinieri pure intervenuti.

Il riferimento alla violenza "proiettata" contro la persona del carabiniere, posta a breve distanza, con la marcia dell’auto in accelerazione e la messa in pericolo della vita della persona offesa con giudizio di prognosi postuma, evidenziato dai Giudici di merito, rende esaustivo conto dell’iter logico dagli stessi seguito per ritenere, in conformità alla previsione normativa dell’art. 56 c.p., integrato il tentativo e corretta la qualificazione giuridica del fatto.

Il giudizio di idoneità, è stato, infatti, correttamente formulato, con prognosi ex post, con riferimento alla capacità potenziale della condotta quale ricostruita a mettere in pericolo la vita umana, in base alle condizioni umanamente prevedibili del caso particolare, e l’univocità degli atti a realizzare il più grave evento è stata rapportata alla condotta tenuta in concreto, attraverso la valutazione della posizione delle auto, delle modalità della condotta, del mezzo usato e della posizione della parte offesa.

2.2. Anche con riferimento all’elemento psicologico del dolo in ordine al reato di tentato omicidio, la cui prova – ove, come nel caso in esame, manchino esplicite ammissioni da parte dell’imputato – ha natura essenzialmente indiretta, dovendo essere desunta da elementi esterni idonei ad esprimere il fine perseguito dall’agente, ineccepibili sono le conseguenze che sul piano giuridico la Corte di merito ha tratto dalla ricostruzione della vicenda.

Facendosi, infatti, corretto riferimento agli elementi sintomatici tratti dalla valutazione della condotta tenuta dall’agente secondo l’id quod plerumque accidit si è individuata la direzione teleologica della volontà verso l’evento morte, accettato come probabile in alternativa alla resistenza e alla fuga nel momento in cui non vi è stato recesso dal proposito criminoso. La volontà di accettazione anche dell’evento morte con valenza alternativa all’evento minore, ritenuta dalla costante giurisprudenza di questa Corte, come già rilevato, pienamente compatibile con il tentativo, è stata logicamente ritenuta esteriorizzata e rappresentata dalla direzione del veicolo a forte velocità contro una persona a piedi.

2.3. A fronte di tale motivazione la difesa dell’imputato, nuovamente reiterando argomenti già dedotti nelle fasi di merito e analizzati con argomentazioni giuridicamente corrette e logicamente articolate, si è limitata da un lato a rilevare la non sufficienza della univocità degli atti per la sussistenza del delitto di omicidio volontario e a richiamare un precedente di questa Corte (Rv. 206137), relativo al reato di resistenza a pubblico ufficiale, e dall’altro a rilevare che l’unico scopo avuto di mira dagli agenti è stato quello di allontanarsi dal luogo senza volere la morte del carabiniere che avrebbe ancor più intralciato la via alla fuga.

Le deduzioni sono generiche e astratte dal contenuto della decisione impugnata e del precedente giurisprudenziale richiamato, atteso che, contrariamente a quanto dedotto, l’idoneità e univocità degli atti è stata tratta dalla specifica valutazione della condotta e dalla direzione della violenza contro la persona del carabiniere, che escludono la configurabilità di fattispecie delittuose diverse e meno gravi, e l’indifferenza all’evento che poteva conseguire all’impatto dell’auto, diretta in accelerazione contro una persona a piedi, equivale a rappresentazione dell’evento e a volontà della sua accettazione.

3. E’ infondata anche la censura difensiva relativa all’insussistenza del ritenuto contributo causale del ricorrente nel delitto di tentato omicidio, sul rilievo che detto contributo non avrebbe potuto essere tratto dalla omessa manifestazione da parte dello stesso dell’intenzione di interrompere l’azione criminosa, resa impossibile dal suo svolgimento fulmineo e dalla circostanza riferita dal ricorrente in sede di interrogatorio che egli, terrorizzato, si era "accucciato" sotto il cruscotto dell’auto non rendendosi conto di quello che stava accadendo.

La censura in buona parte si risolve in critica in linea di fatto e di puro merito, peraltro autoreferenziale nella parte in cui si riferisce a dichiarazioni rese dallo stesso ricorrente in sede di interrogatorio, inammissibile in sede di legittimità.

Essa, in ogni caso, omette di rilevare che la prosecuzione della fuga, con la già rilevata rappresentazione dell’evento più grave, senza che nè il ricorrente nè il correo avessero manifestato l’intenzione di interromperla, nonostante divenuta "senza speranze di successo", come rilevato conclusivamente dalla Corte di merito, ha dimostrato la ricorrenza in capo al ricorrente del dolo di concorso nell’evento del reato alla stessa conseguito, esprimendo una volontà criminosa nei termini detti, uguale a quella del correo, ed ha rappresentato, alla stregua della ricostruzione fattuale, l’iniziativa utile per conseguire l’impunità da condotte sincronicamente attuate (tra le altre, Sez. 1, n. 12089 del 11/10/2000, dep. 23/11/2000, Moffa e altri, Rv. 217347).

4. Non fondato è il secondo motivo con il quale si lamenta il diniego delle circostanze attenuanti generiche, correttamente fondato sulla particolare gravità della condotta, sulla capacità e personalità criminale dell’imputato, gravato da precedenti penali, e sulla pervicacia dimostrata nella condotta delittuosa tenuta.

Si tratta di motivazione del tutto corretta, che, in adesione ai principi costantemente enunciati da questa Corte (da ultimo, Sez. 1, n. 33506 del 07/07/2010, dep. 13/09/2010, P.G. in proc. Biancofiore, Rv. 247959), ha valorizzato gli elementi ostativi alla concessione delle circostanze attenuanti generiche sulla base dei criteri normativi di riferimento di cui all’art. 133 c.p., in rapporto ai quali la circostanza esposta in ricorso, e che si assume dimostrata in sede di udienza preliminare, non priva di genericità è in contrasto con il principio di autosufficienza del ricorso.

5. Infondato è anche il terzo motivo, attesa la sua genericità nella parte in cui si censura il trattamento sanzionatorio solo in relazione al confronto con il trattamento riservato al coimputato L.E..

6. Quanto al detto motivo nella parte in cui si contesta il carattere obbligatorio della recidiva, e al quarto motivo con il quale si denuncia l’erronea individuazione del reato base nel tentato omicidio invece che nella rapina, cui accede la chiesta circostanza attenuante, e l’assenza di alcun danno per essere la vittima subito rientrata in possesso di quanto sottrattole, deve rilevarsi che l’omessa sottoposizione della censura da parte del ricorrente, sotto il profilo della violazione di legge, al giudice di appello è ostativa alla sua valutazione in sede di legittimità. 6.1. Secondo l’orientamento costante di questa Corte, la denuncia di violazione di legge non dedotta con i motivi di appello costituisce causa di inammissibilità originaria dell’impugnazione.

Il parametro dei poteri di cognizione del giudice di legittimità è, infatti, delineato dall’art. 609 c.p.p., comma 1, che ribadisce in forma esplicita un principio già enuclearle dal sistema, e cioè la commisurazione della cognizione di detto giudice ai motivi di ricorso proposti, funzionali alla delimitazione dell’oggetto della decisione impugnata e all’indicazione delle relative questioni, con modalità specifiche al ricorso per Cassazione. La correlazione di detta disposizione con quella dell’art. 606 c.p.p., comma 3, nella parte in cui prevede la non deducibilità in Cassazione delle questioni non prospettate nei motivi di appello, impedisce la proponibilità in Cassazione di qualsiasi questione non prospettata in appello (Sez. U, n. 15 del 30/06/1999, dep. 15/09/1999, Piepoli, Rv. 213981; Sez. U, n. 24 del 24/11/1999, dep. 16/12/1999, Spina, Rv. 214793), a meno che non si tratti di deduzioni di pura legittimità o di questioni di puro diritto insorte dopo il giudizio di secondo grado in forza di ius superveniens o di modificazione della disposizione normativa di riferimento conseguente all’intervento demolitorio o additivo della Corte costituzionale (Sez. 1, n. 2378 del 14/11/1983, dep. 17/03/1984, Guner Cuma, Rv. 163151; Sez. 4, n. 4853 del 03/12/2003, dep. 06/02/2004, Criscuolo e altri, Rv. 229373).

6.2. Nel caso di specie, le doglianze, inammissibili nella parte in cui si denuncia la violazione di legge non insorta dopo il giudizio di appello, sono infondate nella parte in cui si censura genericamente il difetto di motivazione, compiutamente, invece, espresso nell’esame dei motivi sul punto proposto dal coimputato L., non ricorrente.

7. Il ricorso deve essere, pertanto rigettato.

Al rigetto del ricorso segue per legge, in forza del disposto dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 11-02-2011) 09-03-2011, n. 9402 Aggravanti comuni aggravamento delle conseguenze del delitto

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Svolgimento del processo

Il G.U.P. del Tribunale di Locri, con sentenza del 9.11.2009, dichiarava C.M., F.D. e F.M. colpevoli in ordine a due ipotesi criminose di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, per avere coltivato al fine di spaccio 749 piante di canapa indiana e per avere illecitamente detenuto mg. 1.588,7 di sostanza stupefacente di tipo marijuana già essiccata e in ordine al reato di cui agli artt. 110 e 624 c.p. e art. 625 c.p., n. 2 per essersi impossessati di acqua potabile, evitando di pagare i relativi consumi all’ente, realizzando un allaccio abusivo alla condotta dell’acquedotto comunale. Riteneva i sopra indicati reati uniti dal vincolo della continuazione e, applicate le circostanze attenuanti generiche ritenute equivalenti alle contestate aggravanti, applicata altresì la diminuente per la scelta del rito, condannava F. D. alla pena di anni sette e mesi sei di reclusione ed Euro 36.000 di multa e C.M. e F.M. alla pena per ciascuno di anni sei e mesi quattro di reclusione ed Euro 30.000 di multa. Disponeva la confisca dello stupefacente in sequestro e di quanto altro sottoposto a sequestro e condannava gli imputati al risarcimento in solido dei danni patrimoniali e morali in favore della costituita parte civile Comune di Siderno e alla rifusione alla stessa delle spese di costituzione e difesa. Avverso la sopra indicata sentenza proponevano appello gli imputati.

La Corte di appello di Reggio Calabria, con sentenza datata 8.04.2010, oggetto dei presenti ricorsi, confermava la sentenza emessa nel giudizio di primo grado e condannava gli imputati al pagamento delle ulteriori spese processuali.

Avverso tale sentenza proponevano distinti ricorsi per cassazione gli imputati, a mezzo dei loro difensori e concludevano chiedendone l’annullamento, con ogni consequenziale statuizione.
Motivi della decisione

F.M. e C.M. hanno censurato la sentenza impugnata per inosservanza di legge e vizio di motivazione.

Osservavano i predetti ricorrenti che gli agenti operanti avevano sorpreso D. e F.M. nell’atto di estirpare alcune piante di canapa indiana nel terreno e C.M. semplicemente con in mano delle piante. Pertanto sarebbe illogica ed apodittica l’affermazione dei giudici della Corte territoriale secondo cui sarebbero inverosimili le giustificazioni da loro fornite, di essersi cioè recati nella piantagione perchè sollecitati da F.D., che aveva chiesto loro di aiutarlo ad estirpare le piante per poi distruggerle. Nessun elemento infatti sussisteva atto a provare che essi avessero contribuito alle diverse fasi del ciclo produttivo riguardante la piantagione ed anzi il teste L. aveva riferito di non avere mai visto accedere al terreno in precedenza C.M. e F.M., ma che l’unico frequentatore dell’appezzamento era F.D..

C.M. lamentava altresì erronea applicazione della legge penale e vizio di motivazione laddove la Corte territoriale aveva voluto ravvisare due distinte ipotesi criminose di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, unificate dall’identità del disegno criminoso, invece che un’unica condotta rapportabile alla coltivazione non autorizzata di piante di canapa indiana.

F.M. e F.D. hanno censurato la sentenza impugnata altresì in relazione alla mancata assunzione delle prove indicate nel quarto motivo dell’atto di appello, ritenendo pertanto nulla l’impugnata decisione. Secondo tali ricorrenti infatti gli accertamenti afferenti alla perizia sulle piante sequestrate e alla escussione del consulente tecnico di parte dott. B. costituivano prova decisiva, in quanto utile a contrastare l’asserzione di affidabilità degli accertamenti sullo stupefacente svolti dal consulente del Pubblico Ministero, che avevano condizionato il convincimento dei giudici della Corte territoriale sia in relazione alla sussistenza dell’aggravante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80 sia in relazione alla rilevante misura della pena in concreto inflitta agli imputati.

F.M. e D. hanno lamentato altresì violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. b) ed e) in relazione alla erroneamente ritenuta sussistenza dell’aggravante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2.

Secondo i predetti ricorrenti la sentenza impugnata interpretava in maniera erronea D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80 in quanto erroneamente riteneva sussistente la detta aggravante sulla base delle analisi del principio attivo estratto da poche piantine e sulla moltiplicazione aritmetica dello stesso per il numero di piante presenti nella piantagione. Secondo la difesa dei ricorrenti quindi l’aggravante prevista dall’art. 80, comma 2 era stata ricavata dai giudici di merito sulla base di un erroneo accertamento peritale effettuato dai consulenti del Pubblico Ministero.

Tutti i ricorrenti infine hanno censurato la sentenza impugnata per violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. e) in relazione agli artt. 132, 133 e 62 bis cod. pen. per inosservanza della legge penale e vizio di motivazione circa l’omessa declaratoria di prevalenza delle attenuanti generiche sull’aggravante contestata e circa la misura della pena in concreto inflitta agli imputati.

OSSERVA LA CORTE DI CASSAZIONE che i proposti motivi di ricorso non sono fondati.

Deve innanzitutto osservarsi che, correttamente è stato ritenuto non credibile la tesi sostenuta da F.M. e C.M. secondo cui essi non avrebbero in alcun modo partecipato alla coltivazione della piantagione di marjiuana, ma sarebbero solo accorsi al momento dell’intervento degli operanti, su sollecitazione di F.D., che si era pentito e voleva estirpare le piante per poi distruggerle. La sentenza impugnata indica con grande chiarezza i motivi per cui tale tesi contrasta con i canoni della logica. Non può ritenersi che F.D. abbia commesso il reato in un momento di pazzia, come da lui sostenuto, dal momento che le piante erano centinaia e il loro livello di crescita dimostra che le stesse erano state piantate non di recente. I giudici della Corte territoriale evidenziano poi che contraddizioni erano emerse tra la versione fornita da F.D. e quella di C.M. in ordine alla partecipazione di quest’ultimo all’operazione di estirpazione. Il F.D. sostiene infatti di avere chiamato il C. prima ancora di avere avuto sentore dell’esistenza di una operazione di polizia, in quanto, essendosi reso conto di avere commesso una pazzia, voleva distruggere le piante. Il C. invece afferma di essersi trovato per caso nella piantagione e, allarmato dalla presenza nella zona della polizia, aveva egli stesso proposto al F. di aiutarlo a distruggere le piante. La sentenza impugnata evidenzia poi che, diversamente da quanto hanno sostenuto tutti e tre gli imputati secondo cui l’operazione di estirpazione delle piante era stata posta in essere nella stessa giornata, poche ore prima dell’intervento dei Carabinieri, gli agenti operanti hanno trovato estirpate un numero assai rilevante di piante e un numero di buche superiore al numero di piante adagiate sul terreno, a conferma che l’operazione di estirpazione era già iniziata in epoca precedente e non già nel giorno in cui i tre sono stati sorpresi dalle forze dell’Ordine. Nessuna delle piante estirpate poi era stata distrutta, ma le stesse si trovavano sul terreno pronte per essere poste sulle reti metalliche già predisposte per la successiva fase dell’essiccazione. Correttamente quindi la sentenza impugnata ritiene che la presenza di tutti e tre gli imputati nella fase finale della coltivazione, e cioè nella estirpazione delle piante e nella loro essicazione,presuppone la loro partecipazione alle fasi precedenti di messa in posa e coltivazione. Neppure può ritenersi fondato l’assunto sostenuto da F.M. secondo cui la Corte territoriale avrebbe erroneamente individuato due condotte penalmente rilevanti di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73,unificate dal vincolo della continuazione, mentre invece sarebbe sussistente una sola condotta delittuosa con riferimento alla illecita coltivazione di piante di canapa indiana.

Tanto premesso si osserva sul punto che dalla mera lettura dei capi di imputazione si evince che due sono le condotte illecite poste in essere dagli imputati, atteso che la prima fa riferimento alla coltivazione di una piantagione di canapa indiana, mentre la seconda si riferisce alla illecita detenzione in un diverso luogo, e cioè all’interno di una casetta di legno, di una quantità di marijuana da cui si potevano ricavare 63,5 dosi medie singole.

Relativamente poi alla ritenuta violazione di legge in merito al rigetto della richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, si osserva che non può certo essere ritenuta prova decisiva l’escussione del consulente tecnico della difesa dott. B. e l’espletamento di una perizia sulle piante di canapa indiana.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, infatti, (cfr. Cass., Sez. 6, Sent. n. 37173 dell’11.06.2008, Rv 241009), la mancata assunzione di una prova può essere dedotta in sede di legittimità, a norma dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), in quanto si tratti di una" prova decisiva", ossia di un elemento probatorio suscettibile di determinare una decisione del tutto diversa da quella assunta, ma non quando i risultati che la parte si propone di ottenere possono condurre, confrontati con le ragioni poste a sostegno della decisione, solo ad una diversa valutazione degli elementi legittimamente acquisiti nell’ambito dell’istruttoria dibattimentale.

Per quanto poi concerne il motivo relativo alla pretesa insussistenza dell’aggravante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, si osserva che la sentenza impugnata da atto che, sulla base degli accertamenti condotti con rigore scientifico sui campioni di piante prelevati, è emerso che, all’esito del ciclo produttivo e tenuto conto del prevedibile sviluppo delle piante, era possibile ricavare dalle stesse circa 85.000 dosi medie giornaliere. Riteneva pertanto correttamente la sentenza impugnata, citando anche pertinente giurisprudenza di questa Corte, che la coltivazione in esame avesse destato notevole allarme, avendo dato luogo ad una vera e propria piantagione di cannabis, con riferimento agli elementi fattuali rappresentati dal dato ponderale e dal principio attivo contenuto nelle piante e che, per tali motivi, fosse configurabile la sopra indicata aggravante. La difesa di F.D. contestava tali argomentazioni e menzionava la sentenza di questa Corte, sesta sezione, n. 20119 del 2 marzo 2010, secondo cui, ai fini del riconoscimento della circostanza aggravante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2, non possono di regola definirsi "ingenti" i quantitativi di droghe "pesanti" (ad es., eroina e cocaina) o "leggere" (ad es., hashish e marijuana) che, sulla base di una percentuale media di principio attivo per il tipo di sostanza, siano rispettivamente al di sotto dei limiti di due chilogrammi e cinquanta chilogrammi.

Tanto premesso, si rileva che la sopra indicata sentenza non costituisce giurisprudenza costante, ma solo una isolata pronuncia, non in grado pertanto di contrastare quanto sopra evidenziato.

Per quanto infine attiene alla doglianza circa l’omessa declaratoria di prevalenza delle attenuanti sull’aggravante contestata e circa la misura della pena in concreto inflitta agli imputati, la stessa è infondata. La Corte territoriale infatti sul punto correttamente rileva che la concessione delle attenuanti generiche a tutti e tre gli imputati è stata espressione di un atteggiamento benevolo del giudice di primo grado, che ha tenuto conto dell’atteggiamento collaborativo di F.D. e del ruolo di minore importanza rispetto a quest’ultimo assunto da F.M. e da C. M.. Peraltro la vastità della piantagione e la gravita del fatto hanno condotto il giudice a non effettuare un giudizio di prevalenza rispetto all’aggravante contestata, ma a limitarsi a quello di equivalenza e a non porre a base del calcolo il minimo edittale della pena, pur non discostandosene grandemente.

I ricorsi devono essere pertanto rigettati e i ricorrenti condannati al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cons. Stato Sez. IV, Sent., 22-03-2011, n. 1757 Decisione amministrativa

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

razione appellante e l’avv. Musto per gli appellati;
Svolgimento del processo

Il Comune di Teverola ha impugnato, chiedendone la riforma previa sospensione, la sentenza con la quale il T.A.R. della Campania, accogliendo il ricorso proposto dai signori I.C. e F.C., ha annullato il decreto di occupazione d’urgenza di un suolo di loro proprietà, condannando lo stesso Comune al risarcimento dei danni derivati dall’illegittima occupazione, con ordine all’Amministrazione di addivenire a un accordo con le parti private per la cessione dei suoli ovvero di emanare un decreto di acquisizione ai sensi dell’art. 43 del d.P.R. 8 giugno 2001, nr. 327.

A sostegno dell’appello, l’Amministrazione ha dedotto: violazione degli artt. 3 e 97 Cost.; violazione e falsa applicazione dell’art. 13 della legge 25 giugno 1865, nr. 2359; difetto di giurisdizione; error in judicando (con riguardo all’erroneità della ritenuta illegittimità del decreto di occupazione, alla carenza di giurisdizione del giudice amministrativo sulla domanda risarcitoria ed all’erronea determinazione del danno risarcibile).

Si sono costituiti gli appellati, signori I.C. e F.C., i quali hanno preliminarmente eccepito l’improcedibilità del ricorso per avere il Comune, medio tempore, adottato un decreto di acquisizione in esecuzione della sentenza impugnata (decreto peraltro separatamente impugnato dagli stessi interessati dinanzi al T.A.R. della Campania); nel merito, hanno affermato l’infondatezza dei motivi di appello, chiedendone la reiezione.

Alla camera di consiglio del 21 ottobre 2008, la causa è stata introitata in decisione.

Con la propria memoria conclusiva, la parte appellante ha altresì evidenziato la necessità in ogni caso di una riforma della sentenza impugnata alla luce della sentenza della Corte Costituzionale nr. 293 dell’8 ottobre 2010, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale del predetto art. 43, d.P.R. nr. 327 del 2001.

All’udienza del 1 marzo 2011, la causa è stata trattenuta in decisione.
Motivi della decisione

1. I signori I.C. e F.C., proprietari di un suolo sito nel Comune di Teverola, hanno impugnato gli atti di una procedura espropriativa promossa su di esso per la realizzazione del progetto di un mercato comunale, culminata nel decreto di occupazione temporanea e d’urgenza del 13 marzo 2002; contestualmente, hanno chiesto riconoscersi a loro favore il risarcimento del danno cagionato dall’illegittima occupazione e dalla irreversibile trasformazione dell’immobile.

Con la sentenza qui impugnata il T.A.R. della Campania, in accoglimento del ricorso:

– ha annullato il predetto decreto di occupazione d’urgenza;

– ha affermato il diritto dei ricorrenti al risarcimento del danno, ordinando al Comune, ai sensi dell’art. 35, comma 2, del decreto legislativo 31 marzo 1998, nr. 80, di formulare un’offerta sulla base dei criteri indicati nella stessa sentenza;

– ha altresì ordinato al Comune, laddove non si fosse riusciti a raggiungere un accordo con la parte privata per la cessione bonaria del suolo, di emettere un decreto di acquisizione ai sensi dell’art. 43 del d.P.R. 8 giugno 2001, nr. 327, fissando anche i termini per l’esercizio di dette attività.

2. Tutto ciò premesso, va in via preliminare esaminata l’eccezione di improcedibilità dell’appello del Comune sollevata dagli appellati, sul rilievo che medio tempore l’Amministrazione ha dato ottemperanza alla sentenza impugnata, provvedendo ad adottare un decreto di acquisizione così come ingiuntole (decreto che è stato peraltro impugnato dai destinatari dinanzi allo stesso T.A.R. partenopeo, presso il quale pende tuttora il relativo giudizio, in una con la domanda volta a ottenere la quantificazione del danno da risarcire, non essendosi raggiunto su di esso l’accordo inter partes).

L’eccezione è infondata.

Al riguardo, è sufficiente richiamare il granitico orientamento secondo cui la doverosa esecuzione della sentenza del T.A.R. non determina alcuna acquiescenza dell’Amministrazione alle sue statuizioni, tranne nel caso in cui emerga l’esplicita volontà di accettare la sentenza di primo grado atteso che, in questi casi, il comportamento della parte attuativo della pronuncia sfavorevole è necessitato in quanto, essendo la stessa esecutiva, vi è l’obbligo di conformarvisi, salvo che il giudice di appello non ne sospenda l’esecutività, diversamente esponendosi all’esecuzione coattiva sotto il controllo e la vigilanza del giudice (cfr. ex plurimis Cons. Stato, sez. V, 8 settembre 2010, nr. 6497; Cons. Stato, sez. IV, 9 luglio 2010, nr. 4453; Cons. Stato, sez. V, 26 febbraio 2010, nr. 1148; id., 12 giugno 2009, nr. 3750; Cons. Stato, sez. IV, 19 maggio 2008, nr. 2299).

Nel caso di specie, appare evidente che l’adozione del decreto ex art. 43, d.P.R. nr. 327 del 2001, ha costituito da parte del Comune doverosa esecuzione del decisum del primo giudice – esponendosi l’Amministrazione, in caso di inerzia, al rischio di un aggravarsi del debito risarcitorio per effetto del protrarsi dell’occupazione, oltre che a una possibile responsabilità per danno erariale -, senza che ad esso possa attribuirsi alcun carattere concludente nel senso auspicato da parte appellata.

3. Nel merito l’appello è solo parzialmente fondato.

4. In particolare, è fondato il primo motivo, con il quale si assume l’erroneità della sentenza impugnata laddove ha ritenuto illegittimo il censurato decreto di occupazione d’urgenza in quanto emanato dopo la scadenza dei termini individuati dalla dichiarazione di pubblica utilità per l’inizio delle espropriazioni e dei lavori, nonché per la conclusione dei lavori.

Ed invero, nella delibera consiliare nr. 38 del 3 agosto 1999, con la quale è stato approvato il progetto definitivo dell’intervento per cui è causa, erano espressamente individuati i seguenti termini:

– rispettivamente due e cinque anni per l’inizio e la conclusione della procedura espropriativa;

– un anno per l’inizio e la conclusione dei lavori.

In entrambi i casi, il decorso dei termini era ancorato alla "esecutività" della delibera medesima: pertanto, poiché questa risulta divenuta esecutiva in data 27 settembre 1999 a seguito di parere favorevole del Co.Re.Co., è a tale ultima data che va fissato il dies a quo dei termini suindicati.

Tanto premesso, è del tutto condivisibile la doglianza dell’Amministrazione, la quale richiama il noto indirizzo giurisprudenziale secondo cui l’inosservanza dei termini di inizio della procedura espropriativa e dei lavori, ai quali è riconosciuta natura ordinatoria e acceleratoria, non comporta la decadenza della dichiarazione di pubblica utilità, poiché l’inefficacia di cui all’art. 13, comma 3, della legge 25 giugno 1865, nr. 2359, consegue non già soltanto all’inutile decorso del termine fissato per il compimento delle operazioni di esproprio, ma alla scadenza anche dell’altro termine fissato per il compimento dell’opera; sicché fino a quando questo non sia spirato ben può l’amministrazione espropriante emanare un legittimo decreto ablativo (cfr. Cons. Stato, sez. V, 12 aprile 2005, nr. 1658; id., 28 dicembre 2001, nr. 6435).

La Sezione ritiene di precisare tale orientamento, nel senso che qualora – come nel caso di specie – la dichiarazione di pubblica utilità indichi diversi termini finali per la conclusione dei lavori e della procedura di esproprio, è palesemente a quest’ultimo che deve farsi riferimento per verificare la tempestività dei successivi atti della procedura medesima.

Pertanto, essendo stato il decreto di occupazione emesso entro il quinquennio dalla suindicata data di esecutività della delibera approvativa del progetto definitivo e dichiarativa della pubblica utilità dell’intervento, ne discende che erroneamente il primo giudice ha ritenuto tale atto adottato allorché non sussisteva più il potere della p.a. di dare impulso al procedimento espropriativo.

5. Quanto sopra, se induce a riformare la sentenza impugnata nella parte relativa all’accoglimento della domanda di annullamento, ha però effetti limitati quanto invece alla parte nella quale il primo giudice si è pronunciato sulla contestuale azione risarcitoria.

Infatti, non è contestato neanche nell’odierno appello che, anche dopo la scadenza del termine quinquennale indicato nell’originaria dichiarazione di pubblica utilità (non prorogato dalla successiva delibera di Giunta Comunale nr. 104 del 21 novembre 2000 di "riapprovazione" del progetto) e fino a tutt’oggi, non risulta adottato alcun formale decreto di esproprio, con la conseguenza che a partire dalla predetta scadenza – e, quindi, dal 28 settembre 2004 – l’occupazione del suolo non risulta più sorretta da alcun valido ed efficace titolo giuridico.

Ne discende, ancora, che l’effetto del parziale accoglimento dell’appello dell’Amministrazione, per le ragioni suindicate, è circoscritto a una diversa e posteriore individuazione del dies a quo della condotta illecita alla quale deve essere commisurato il risarcimento del danno: nel senso che questo, anziché alla data della materiale occupazione del fondo in esecuzione del decreto del 13 marzo 2002, dovrà fissarsi alla data sopra indicata del 28 settembre 2004.

6. A fronte di tale conclusione, non appaiono convincenti le ulteriori doglianze articolate nell’appello avverso le statuizioni del primo giudice in punto di risarcimento.

6.1. Con un primo motivo di censura, l’Amministrazione reitera l’eccezione di inammissibilità della domanda per carenza di giurisdizione del giudice amministrativo sull’azione risarcitoria.

Tuttavia, pur senza approfondire la disciplina della giurisdizione in materia espropriativa oggi introdotta dal Codice del processo amministrativo, già in precedenza la giurisprudenza era consolidata nel senso che fossero devolute alla giurisdizione amministrativa esclusiva le controversie nelle quali si facesse questione, anche ai fini complementari della tutela risarcitoria, di attività di occupazione e trasformazione di un bene conseguenti ad una dichiarazione di pubblica utilità, con essa congruenti e ad essa conseguenti, anche se il procedimento all’interno del quale sono state espletate non fosse poi sfociato in un tempestivo atto traslativo (cfr. ex plurimis Cass. civ., sez. un., 9 febbraio 2010, nr. 2788; Cons. Stato, sez. IV, 15 settembre 2010, nr. 6861; C.g.a.r.s., 26 maggio 2010, nr. 741).

Del tutto ultronea, poi, è la parte dell’appello in cui si reitera l’eccezione di difetto di giurisdizione quanto alla richiesta di indennizzo per il periodo di occupazione legittima, atteso che su tale parte della domanda il T.A.R. ha già declinato la propria giurisdizione con la stessa sentenza qui impugnata.

6.2. Con un diverso ordine di doglianze, il Comune lamenta l’erroneità delle statuizioni relative alla quantificazione del danno da risarcire, assumendo che al suolo occupato non può in alcun modo attribuirsi natura edificatoria.

Per questa parte l’appello è invero inammissibile, atteso che nella sentenza impugnata non è affatto previsto che in sede di quantificazione della somma da erogare a titolo di danno le parti debbano obbligatoriamente attribuire al suolo natura edificabile, essendosi limitato il primo giudice a indicare – quali criteri da seguire ai sensi dell’art. 35, comma 2, d.lgs. nr. 80 del 1998 – le "disposizioni del Testo Unico sugli espropri (in specie, ai sensi dell’art. 43, comma 6, del d.P.R. n. 327/2001)", il "principio del ristoro integrale del danno subito" e la necessità di ricomprendere anche "il danno per il periodo di occupazione senza titolo del bene" (pagg. 1112 della sentenza), oltre a un generico riferimento al valore venale dello stesso (pag. 11).

Di conseguenza, è nella sede dell’esecuzione della sentenza di primo grado e dinanzi al medesimo giudice che la ha emessa – ai sensi del più volte citato comma 2 dell’art. 35, d.lgs. nr. 80 del 1998 – che va esaminata e risolta ogni questione insorta tra le parti in ordine all’applicazione in concreto dei richiamati criteri, senza che su di essa possa incidere in alcun modo il presente giudizio di appello (che è limitato all’an del risarcimento ed all’individuazione dei criteri per la sua determinazione).

7. Ai rilievi fin qui svolti può aggiungersi che – contrariamente a quanto sostenuto dal Comune appellante nella propria memoria conclusionale – nella presente sede alcuna rilevanza può avere la sopravvenuta declaratoria di illegittimità dell’art. 43, d.P.R. nr. 327 del 2001, per effetto della sentenza della Corte Costituzionale nr. 293 dell’8 ottobre 2010: ciò innanzi tutto perché, come già rilevato, un decreto di acquisizione risulta ritualmente emanato nel vigore della ricordata disposizione (e la sua sorte, con i problemi connessi, sarà decisa nel separato giudizio al riguardo pendente dinanzi al medesimo T.A.R. della Campania), e in secondo luogo perché in ogni caso resta impregiudicato il principio enunciato dalla sentenza gravata laddove ha imposto di far cessare la permanenza dell’illecita occupazione, offrendo oltre tutto all’Amministrazione la via alternativa di un accordo bonario con le parti private.

8. In conclusione, s’impone una parziale riforma della sentenza impugnata, nel senso della reiezione dell’originaria domanda di annullamento e del "ridimensionamento" dell’accoglimento della domanda risarcitoria, nei sensi sopra precisati.

9. La parziale soccombenza reciproca giustifica l’integrale compensazione tra le parti delle spese di entrambi i gradi del giudizio.
P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie in parte e, per l’effetto, respinge il ricorso di primo grado quanto alla domanda di annullamento e lo accoglie quanto alla domanda di risarcimento danni, confermando in parte qua la sentenza impugnata con la sola precisazione che la data a decorrere dalla quale andrà computato il danno risarcibile va individuata nel 28 settembre 2004.

Compensa tra le parti le spese del doppio grado del giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. I, Sent., 30-06-2011, n. 14481

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Svolgimento del processo

K.A. ricorre avverso il provvedimento con il quale il giudice di pace ha rigettato il suo ricorso contro il decreto di espulsione emesso dal Prefetto di Caserta il 20.11.2008 L’intimata Amministrazione non ha proposto difese.

Il ricorrente ha depositato memoria.

Il Collegio ha disposto la redazione della motivazione in forma semplificata.
Motivi della decisione

Il ricorso è inammissibile in quanto tutti i motivi dedotti attengono a censure di violazione di legge ma non sono corredati del quesito di diritto prescritto dall’art. 366-bis c.p.c. applicabile ratione temporis.

Non si deve provvedere in ordine alle spese in assenza di attività difensiva da parte dell’intimata Amministrazione.
P.Q.M.

la Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.