Cass. civ. Sez. II, Sent., 17-05-2012, n. 7764 Onorari

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

L’avv. S.C. propone ricorso per cassazione contro L.A., che non svolge difese in questa sede, avverso l’ordinanza del Tribunale di Bari n. 102/07 del 23.3.- 13.4.2007 (nel procedimento n. 1556/06 v.g. di liquidazione delle competenze di avvocato ex 29 1. 794/92) di accoglimento parziale del ricorso della istante con riconoscimento di Euro 13.873,60,di cui 581,90 per spese, Euro 3.191,70 per diritti ed Euro 10.100.000 per onorari, oltre accessori.

La vicenda era relativa alla attività difensiva svolta in favore della L. in occasione della decisione di porre termine nel 1997 alla convivenza con l’ing. C.M., dalla quale erano nate due figlie, e riguardava anche un giudizio instaurato a seguito della opposizione del C. avverso decreto presidenziale di assegnazione alla L. della casa familiare e di lire 5.000.000 mensili per il mantenimento delle figlie, conclusosi con sentenza n. 943/2003, di conferma del detto decreto e compensazione delle spese.

La richiesta di Euro 25.000.000 per compensi era stata denegata.

L’ordinanza, rispetto ad un valore della controversia indicato in Euro 387.342,679 e poi in Euro 421.000,000, riteneva applicabile l’art. 10 c.p.c., ed il valore indeterminabile e rilevante.

Col presente ricorso si denunziano, con relativi quesiti, 1) violazione del D.M. n. 585 del 1994, art. 6, dell’art. 12 preleggi, artt. 9, 10, 12, 13 e 15 c.p.c., per avere avuto il procedimento ad oggetto la richiesta di assegno di mantenimento per le figlie in lire 30.000.000 mensili, della casa familiare, di altro assegno sostitutivo od integrativo, del versamento una tantum della somma di lire 50.000.000 per acquisto di mobili ed arredi, circostanze pacifiche e non contestate. 2) violazione dell’art. 10 c.p.c., comma 2, artt. 13, 14 e 104 c.p.c., D.M. n. 585 del 1994, artt. 4, 5 e 6, e L. n. 794 del 1992, art. 29, per avere erroneamente il Tribunale qualificato indeterminabile la domanda di assegnazione della casa e proceduto al cumulo con quella dell’assegno. Anche la liquidazione dei diritti è inferiore a quella dovuta, comunque, non inferiore ad Euro 3.408,68. 3) violazione del D.M. n. 127 del 2004, artt. 4, 5 e 6, art. 91 c.p.c., L. n. 794 del 1992, artt. 24 e 29, L. n. 1051 del 1957, articolo unico, anche in ordine alle spese liquidate. 4) omessa motivazione sempre in ordine alla liquidazione delle spese.

Il ricorso, così come proposto, esige l’esame degli atti di merito, indagine preclusa al giudice di legittimità.

Questa Corte ha ripetutamente evidenziato come la parcella corredata dal parere espresso dal Consiglio dell’Ordine abbia, per il combinato disposto dell’art. 633 c.p.c., comma 1, n. 2, e art. 636 c.p.c., comma 1, valore di prova privilegiata, al pari di quanto previsto dal combinato disposto dell’art. 633 c.p.c., comma 1, n. 1, e artt. 634 o 535 c.p.c., per i documenti in questi ultimi considerati, e carattere vincolante per il giudice esclusivamente ai fini della pronunzia dell’ingiunzione, e come tali valore e carattere non abbia, per contro, costituendo semplice dichiarazione unilaterale del professionista, anche nel successivo giudizio in contraddittorio, introdotto dall’ingiunto con l’opposizione ex art. 645 c.p.c.; nel quale, attesane la natura d’ordinario giudizio di cognizione, il creditore in favore del quale l’ingiunzione è stata emessa assume la veste sostanziale d’attore e su di lui incombono i relativi oneri probatori ex art. 2697 c.c., ove vi sia stata contestazione da parte dell’opponente, in ordine così all’effettività delle prestazioni eseguite come all’applicazione della tariffa pertinente ed alla rispondenza ad essa delle somme richieste, circostanze la cui valutazione è, poi, rimessa al libero apprezzamento del giudice (Cass. 29.1.99 n. 807, 12.2.98 n. 1505, 7.5.97 n. 3972, 19.2.97 n. 1513, 30.10.96 n. 9514, 21.2.95 n. 1889, 26.1.95 95 n. 942, ma già, e pluribus, 21.3.83 n. 1977, 23.10.79 n. 5528, 28.11.78 n. 5610, 17.11.77 n. 5032, 12.7.75 n. 3498).

Nè la prevalente giurisprudenza di legittimità richiede che la contestazione mossa dall’opponente in ordine alla pretesa fatta valere dall’opposto sulla base della parcella corredata dal parere del Consiglio dell’Ordine abbia carattere specifico, per il determinarsi del suddetto onere probatorio a carico del professionista essendo sufficiente una contestazione anche di carattere generico, giacchè nel giudizio d’opposizione de quo non è applicabile, nei confronti dell’opponente-convenuto, il principio – desumibile dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, e valido, giusta lo specifico ambito d’operatività della norma, ai fini del solo ricorso per cassazione – per cui la censura intesa a prospettare la violazione delle tariffe professionali nella liquidazione delle spese di giudizio è ammissibile solo se articolata in una dettagliata disamina delle voci che s’intendono violate; onde ogni contestazione, anche generica, sollevata dall’opponente-convenuto in ordine all’espletamento dell’attività ed all’ortodossia dell’applicazione delle tariffe è idonea e sufficiente ad investire il giudice del potere-dovere di dar corso alla verifica della fondatezza della contestazione e, correlativamente, a far sorgere per il professionista l’onere probatorio in ordine tanto all’attività svolta quanto alla corretta applicazione della pertinente tariffa (Cass. 26.1.95 n. 942, 16.8.93 n. 8724, 14.12.92 n. 13181, ma già 20.5.77 n. 2101).

Non può essere condivisa la minoritaria e datata giurisprudenza (Cass. 4409/79 e 3019/73, pur ripresa dall’isolata Cass. 242/97,), per la quale la parcella del difensore sarebbe assimilabile ad un rendiconto in relazione al quale le contestazioni del destinatario non possono essere generiche ma devono riguardare le singole voci esposte; detta opinione non sembra, infatti, considerare che, in tal guisa argomentando e non potendosi tradurre la contestazione analitica in un semplice formalismo privo d’effetti giuridici, verrebbe, di fatto, invertito il principio dell’onere della prova, dovendosi poi richiedere dal convenuto-opponente autore di siffatta contestazione la dimostrazione del relativo fondamento, id est dell’insussistenza delle prestazioni dedotte dal professionista in parcella e della non corretta applicazione delle tariffe (prova negativa), così esonerandosi il professionista stesso dal fornire la dovuta dimostrazione dell’attività svolta e della legittimità della pretesa economica ad essa relativa (prova positiva); nè senza considerare che, come è stato altre volte ritenuto (Cass. 30.1.97 n. 932, 20.1.82 n. 384, 21.10.78 n. 4775), il parere del Consiglio dell’Ordine costituisce un mero controllo sulla rispondenza delle voci indicate in parcella a quelle previste dalla tariffa e non può estendersi nè all’accertamento del valore della causa, onde svolgere tale controllo anche sulla corretta applicazione della tariffa pertinente, nè, tanto meno, all’effettività delle prestazioni parcellate, ragion per cui non ha valore di certificazione amministrativa e non da luogo, pertanto, ad alcuna presunzione di verità che esoneri il professionista dall’onere della prova ed imponga al cliente quello della contestazione specifica. Nella fattispecie, non si tratta di decreto di ingiunzione a seguito di parcella vistata dall’ordine ma di procedura speciale, per la quale la ricorrente contesta il valore indeterminato rilevante stabilito dal Giudice.

Ciò premesso, in relazione al primo motivo va rilevato che il valore della causa, come indicato in domanda, riguarda l’ipotesi dell’integrale accoglimento di essa e di condanna del soccombente alle spese.

Nel caso in esame, l’ordinanza fa riferimento ad un ricorso ex artt. 147, 148, 261, 155 e 700 c.p.c., con richieste solo in parte accolte e ad un giudizio di opposizione nel quale la ricorrente ha assistito l’opposta, conclusosi col rigetto della opposizione e la compensazione delle spese.

Il valore della controversia va dimostrato in concreto, determinandosi in astratto un conflitto di interessi per una azione incoata per un dichiarato alto valore, ma infondata o non accolta anche in parte.

Al riguardo va sottolineato che già il D.M. 24 novembre 1990, n. 392, art. 6, attenuando la rigidità del criterio adottato dall’art. 10 c.p.c., comma 1, ha stabilito, nell’ipotesi dell’accoglimento parziale, nella liquidazione degli onorari a carico del soccombente, nel giudizi per pagamento somme, il riferimento alla somma attribuita alla parte vincitrice, piuttosto che quella domandata – Cass. 1.3.1995 n. 2338.

In caso di rigetto della domanda, il valore della controversia (art. 5, comma 1, stesso D.M.) è determinato dalla somma richiesta, salvo il potere di compensazione (Cass. 4.3.1998 n. 2407), ipotesi riferita alla liquidazione a favore del convenuto vittorioso.

Donde il rigetto del primo motivo.

Va accolto, invece, il secondo.

La generica motivazione adottata non consente di verificare il criterio concretamente adottato nella determinazione del valore di riferimento donde la corretta censura secondo la quale l’importo dello scaglione presuntivamente utilizzato dal tribunale non copre neanche il valore di una sola delle domande da sommare ai fini del cumulo.

Restano assorbiti gli altri motivi, in relazione al nuove esame demandato al Giudice di merito.

P.Q.M.

La Corte rigetta il primo motivo, accoglie il secondo, dichiara assorbiti il terzo ed il quarto, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, al Tribunale di Bari.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 11-10-2011) 28-11-2011, n. 44035 Demolizione di costruzioni abusive

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Con ordinanza del 26 novembre 2009 il giudice dell’esecuzione del Tribunale di Lucera ha revocato la sospensione dell’ingiunzione alla demolizione emessa dal Procuratore della Repubblica di Lucera in data 21 novembre 1998, concessa con ordinanza del 20 novembre 2000 dal giudice dell’esecuzione del Tribunale stesso; ed ha rigettato l’istanza avanzata nell’interesse di D.N.M. in data 26 gennaio 2009, per l’annullamento o la sospensione dell’ingiunzione a demolire le opere abusive di cui alla sentenza del pretore di Vico del Gargano del 25 gennaio 1997, divenuta irrevocabile il 3 aprile dello stesso anno.

2. Ricorre per cassazione l’interessato lamentando che il giudice ha esercitato una potestà riservata per legge all’autorità amministrativa. L’ordinanza si basa, tra l’altro, sull’erroneo presupposto che la condonabilità di un’opera possa aver luogo solo entro determinati limiti temporali.

Tale enunciazione viene censurata: come emerge dalla documentazione prodotta, la procedura è pendente presso il Comune, in attesa di nullaosta paesaggistico. Nelle more di determinazioni dell’autorità amministrativa in ordine alla procedura, i cui tempi non dipendono dalla volontà del richiedente, il provvedimento adottato dal giudice è illegittimo.

Si lamenta altresì che erroneamente il giudice reputa che il mancato accatastamento sia ostativo al rilascio del condono. Tale enunciazione è erronea perchè la procedura di sanatoria è regolata dalla L. n. 47 del 1985, art. 35 della. Tale norma individua la documentazione da depositare senza che vi sia menzione dell’accatastamento del manufatto. D’altra parte, l’art. 38 non individua alcuna conseguenza del mancato accatastamento dell’immobile. Ancora, l’art. 52 della citata Legge non individua come elemento da valutare l’accatastamento in questione.

3. Il ricorso è infondato.

L’ordinanza espone i tratti della vicenda in esame segnalando che la suprema Corte di cassazione, con sentenza del 25 maggio 2000, ha annullato con rinvio l’ordinanza del 19 ottobre 1999 con la quale era stata rigettata l’opposizione avverso l’ingiunzione alla demolizione delle opere edilizie abusive. La pronunzia aveva tra l’altro enunciato la necessità di valutare l’esito della procedura amministrativa e la condonabilità con riferimento all’epoca di ultimazione delle opere abusive. In ottemperanza a tale pronunzia è stato adottato ordine di sospensione dell’esecuzione con atto del 20 novembre 2000.

Si espone altresì che la parte interessata ha documentato ancora da ultimo la pendenza della pratica di condono, così come peraltro fatto nel corso degli anni.

Si ritiene, tuttavia, che nel caso in esame il condono non potrebbe essere utilmente ottenuto e non potrebbe comunque sortire gli effetti positivi invocati dall’interessato, atteso che la parte "non ha in alcun modo dimostrato di aver posto in essere la procedura di accatastamento o di variazione catastale" come richiesto dalla L. n. 47 del 1985, art. 52, comma 2, richiamato dalla L. n. 724 del 1994, art. 39, comma 4, che impone la tempestiva denunzia ai fini dell’accatastamento stesso.

Quanto al profilo paesaggistico della procedura, si considera altresì che è stata prodotta attestazione dell’amministrazione comunale nella quale si afferma che la pratica si trova pendente ai fini del rilascio del parere di legge, il cosiddetto nullaosta paesaggistico. Tuttavia non può che prendersi atto che la parte non ha documentato la effettiva avvenuta proposizione di tale richiesta onde consentire la sua valutazione in vista della sua astratta accoglibilità.

Si conclude che le mancanze indicate, afferenti alla procedura di accatastamento ed al nullaosta paesaggismo, impediscono il perfezionamento della procedura di condono.

Si considera, infine, che le mancanze indicate sarebbero comunque rilevanti ai fini delle valutazioni rimesse al giudice dell’esecuzione, anche qualora il condono fosse concesso, atteso che, come ritenuto dalla giurisprudenza di legittimità (Rv. 243905), il giudice ha il potere di sindacare l’atto concessorio disapplicandolo ove lo stesso sia stato emesso in assenza delle condizioni formali e sostanziali di legge. D’altra parte, si aggiunge, ai fini della sospensione della procedura esecutiva il giudice deve tra l’altro valutare la procedibilità e la proponibilità della domanda con riferimento alla documentazione richiesta (Rv.239606); ed è proprio la improcedibilità della domanda, sotto il profilo della mancanza di alcuni dei documenti richiesti ai fini del perfezionamento della pratica di condono ad impedire che la procedura possa concludersi in senso favorevole alla richiedente.

Infine, a coronamento dell’argomentazione, sempre con richiamo alla giurisprudenza di questa suprema Corte (Rv.238145), si considera che l’ordine di demolizione può essere sospeso qualora sia ragionevolmente prevedibile, sulla base di elementi concreti, che in un breve lasso di tempo si adottato dall’autorità amministrativa o giurisdizionale un provvedimento che si ponga in insanabile contrasto con l’ordine di demolizione.

Nel caso in esame, si conclude, tenuto conto del lungo tempo trascorso dalla proposizione dell’istanza di condono cioè dal marzo 1995, nonchè della mancata dimostrazione degli adempimenti relativi all’accatastamento ed alla richiesta di nullaosta paesaggistico, non è in alcun modo prevedibile ed anzi deve ragionevolmente essere escluso che in un breve lasso di tempo l’interessato possa beneficiare degli effetti di un provvedimento di condono.

Tale valutazione è riccamente argomentata con apprezzamenti immuni da vizi logico giuridici, è conforme ai principi e non può essere quindi sindacata nella presente sede di legittimità. Soprattutto, l’ordinanza si attiene alle indicazioni contenute nella citata sentenza di annullamento con rinvio emessa da questa Suprema Corte; e fa applicazione della giurisprudenza di legittimità, che viene correttamente richiamata. Essa, in breve, enuncia il principio che il giudice penale deve delibare la possibilità di ottenere una legittima sanatoria. Basti rammentare esemplificativamente le enunciazioni pertinenti e condivise espresse da recente pronunzia in cui si è affermato che in tema di reati edilizi, ai fini della revoca o sospensione dell’ordine di demolizione delle opere abusive (L. 28 febbraio 1985, n. 47, art. 7, u.c., oggi previsto dal D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, art. 31, comma 9) in presenza di una istanza di condono o di sanatoria successiva al passaggio in giudicato della sentenza di condanna, il giudice dell’esecuzione investito della questione è tenuto ad una attenta disamina dei possibili esiti e dei tempi di definizione della procedura ed, in particolare: a) ad accertare il possibile risultato dell’istanza e se esistono cause ostative al suo accoglimento; b) nel caso di insussistenza di tali cause, a valutare i tempi di definizione del procedimento amministrativo e sospendere l’esecuzione solo in prospettiva di un rapido esaurimento dello stesso (Cass. 3, 26 settembre 2007, Rv.

237816).

In particolare risultano ambedue pertinenti le considerazioni afferenti alla non condonabilità. Lo è quella sul mancato avvio della procedura di accatastamento. Sul punto l’ordinanza è chiara e sfugge alle censure ora prospettate: ciò che difetta nella procedura non è tanto l’accatastamento quanto l’avvio della relativa procedura, come richiesto dalla normativa sopra evocata.

Pure per ciò che attiene all’aspetto paesaggistico è dirimente il fatto che non solo il prescritto nulla osta non è stato rilasciato dopo così tanto tempo, ma non è stata neppure prodotta documentazione idonea a verificare se la procedura sia stata correttamente avvista e possa trovare accoglimento.

Il ricorso deve essere conseguentemente rigettato. Segue per legge la condanna al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 13-07-2012, n. 12055 Passaggio ad altra amministrazione Personale non docente

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. La parte ricorrente chiede l’annullamento della sentenza di appello che ha negato il suo diritto al riconoscimento integrale dell’anzianità maturata presso l’ente locale di provenienza da parte del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca (MIUR).

2. La medesima questione è stata già decisa da Cass. 12 ottobre 2011, n. 20980 e Cass. 14 ottobre 2011, n. 21282, cui si rinvia per una motivazione più analitica. In estrema sintesi, deve rilevarsi quanto segue.

3. La controversia concerne il trattamento giuridico ed economico del personale amministrativo, tecnico ed ausiliario (ATA) della scuola trasferito dagli enti locali al Ministero in base alla L. 3 maggio 1999, n. 124, art. 8.

4. Tale norma fu oggetto di un vasto contenzioso concernente, specificamente, l’applicazione che della stessa venne data dal decreto del Ministro della pubblica istruzione 5 aprile 2001, che recepì l’accordo stipulato tra l’ARAN e i rappresentanti delle organizzazioni sindacali in data 20 luglio 2000. Le controversie giudiziarie riguardarono in particolare la possibilità di incidere, su di una norma di rango legislativo, da parte di un accordo sindacale poi recepito in decreto ministeriale. La giurisprudenza si orientò in senso negativo, sebbene con percorsi argomentativi diversi (ex plurimis, Cfr. Cass., 17 febbraio 2005, n. 3224; 4 marzo 2005, n. 4722, nonchè 27 settembre 2005, n. 18829; Da ultimo, sul punto, cfr. Cass., 14 marzo 2012, n. 4045).

5. Intervenne il legislatore, dettando la L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 218 (finanziaria del 2006), che recepì, a sua volta, i contenuti dell’accordo sindacale e del decreto ministeriale. Il legislatore elevò, quindi, a rango di legge la previsione dell’autonomia collettiva. Si sostenne, da un lato, che tale norma non avesse efficacia retroattiva e, dall’altro, che se dotata di efficacia retroattiva, fosse incostituzionale sotto molteplici profili. Entrambe le posizioni sono stata giudicate non fondate.

L’efficacia retroattiva è stata affermata da questa Corte (per tutte, S.U., 8 agosto 2011, n. 17076) e dalla Corte costituzionale (sentenza n. 234 del 2007). L’incostituzionalità è stata esclusa in quattro interventi del giudice delle leggi (Corte cost. n. 234 e n. 400 del 2007; n. 212 del 2008; n. 311 del 2009). Per tali motivi, ricorsi di contenuto analogo a quello qui considerato, sono stati respinti (cfr. per tutte, Cass., 9 novembre 2010, n. 22751).

6. Questo approdo deve ora essere integrato con quanto statuito dalla Corte di giustizia dell’Unione europea (Grande sezione) nella sentenza 6 settembre 2011 (procedimento C-108/10, Scattolon), emessa su domanda di pronuncia pregiudiziale in merito all’interpretazione della direttiva del Consiglio 14 febbraio 1977, 77/187/CEE. 7. La Corte ha risposto a quattro questioni poste dal Tribunale di Venezia. La prima consisteva nello stabilire se il fenomeno successorio disciplinato dalla L. n. 124 del 1999, art. 8, costituisca un trasferimento d’impresa ai sensi della normativa dell’Unione relativa al mantenimento dei diritti dei lavoratori. La soluzione è affermativa ("La riassunzione, da parte di una pubblica autorità di uno Stato membro, del personale dipendente di un’altra pubblica autorità, addetto alla fornitura, presso le scuole, di servizi ausiliari comprendenti, in particolare, compiti di custodia e assistenza amministrativa, costituisce un trasferimento di impresa ai sensi della direttiva del Consiglio 14 febbraio 1977, 77/187/CEE, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di stabilimenti, quando detto personale è costituito da un complesso strutturato di impiegati tutelati in qualità di lavoratori in forza dell’ordinamento giuridico nazionale di detto Stato membro").

8. Con la seconda e la terza questione si chiedeva alla Corte di stabilire: – se la continuità del rapporto di cui all’art. 3, n. 1 della 77/187 deve essere interpretata nel senso di una quantificazione dei trattamenti economici collegati presso il cessionario all’anzianità di servizio che tenga conto di tutti gli anni effettuati dal personale trasferito anche di quelli svolti alle dipendenze del cedente (seconda questione); – se tra i diritti del lavoratore che si trasferiscono al cessionario rientrano anche posizioni di vantaggio conseguite dal lavoratore presso il cedente quale l’anzianità di servizio se a questa risultano collegati nella contrattazione collettiva vigente presso il cessionario, diritti di carattere economico (terza questione). Il dispositivo della decisione è: "quando un trasferimento ai sensi della direttiva 77/187 porta all’applicazione immediata, ai lavoratori trasferiti, del contratto collettivo vigente presso il cessionario e inoltre le condizioni retributive previste da questo contratto sono collegate segnatamente all’anzianità lavorativa, l’art. 3 di detta direttiva osta a che i lavoratori trasferiti subiscano, rispetto alla loro posizione immediatamente precedente al trasferimento, un peggioramento retributivo sostanziale per il mancato riconoscimento dell’anzianità da loro maturata presso il cedente, equivalente a quella maturata da altri lavoratori alle dipendenze del cessionario, all’atto della determinazione della loro posizione retribuiva di partenza presso quest’ultimo. E’ compito del giudice del rinvio esaminare se, all’atto del trasferimento in questione nella causa principale, si sia verificato un siffatto peggioramento retributivo".

9. Il giudice nazionale è quindi chiamato dalla Corte di giustizia ad accertare se, a causa del mancato riconoscimento integrale della anzianità maturata presso l’ente cedente, il lavoratore trasferito abbia subito un peggioramento retributivo.

10. In motivazione la Corte rileva che, una volta inquadrato nel concetto di trasferimento d’azienda e quindi assoggettato alla direttiva 77/187, al trasferimento degli ATA si applica non solo il n. 1 dell’art. 3 della direttiva, ma anche il n. 2, disposizione che riguarda segnatamente l’ipotesi in cui l’applicazione del contratto in vigore presso il cedente venga abbandonata a favore di quello in vigore presso il cessionario (come nel caso in esame). Il cessionario ha diritto di applicare sin dalla data del trasferimento le condizioni di lavoro previste dal contratto collettivo per lui vigente, ivi comprese quelle concernenti la retribuzione (punto n. 74 della sentenza). Ciò premesso, la Corte sottolinea che gli stati dell’Unione, pur con un margine di elasticità, devono attenersi allo scopo della direttiva, consistente "nell’impedire che i lavoratori coinvolti in un trasferimento siano collocati in una posizione meno favorevole per il solo fatto del trasferimento" (n. 75, il concetto è ribadito al n. 77 in cui si precisa che la direttiva "ha il solo scopo di evitare che determinati lavoratori siano collocati, per il solo fatto del trasferimento verso un altro datore di lavoro, in una posizione sfavorevole rispetto a quella di cui godevano precedentemente").

11. Quindi, nella definizione delle singole controversie, è necessario stabilire se si è in presenza di condizioni meno favorevoli. A tal fine, il giudice del rinvio deve osservare i seguenti criteri.

a. Quanto ai soggetti la cui posizione va comparata, il confronto è con le condizioni immediatamente antecedenti al trasferimento dello stesso lavoratore trasferito (così il n. 75 e, al n. 77, si precisa "posizione sfavorevole rispetto a quella di cui godevano prima del trasferimento". Idem nn. 82 e 83). Al contrario, non ostano eventuali disparità con i lavoratori che all’atto del trasferimento erano già in servizio presso il cessionario (n. 77).

b. Quanto alle modalità, si deve trattare di "peggioramento retributivo sostanziale" (così il dispositivo) ed il confronto tra le condizioni deve essere globale (n. 76: "condizioni globalmente meno favorevoli"; n. 82: "posizione globalmente sfavorevole"), quindi non limitato allo specifico istituto.

c. Quanto al momento da prendere in considerazione, il confronto deve essere fatto all’atto del trasferimento (nn. 82 e 84, oltre che nel dispositivo: "all’atto della determinazione della loro posizione retribuiva di partenza").

12. La quarta ed ultima questione posta dal Tribunale di Venezia atteneva alla conformità della disciplina italiana e specificamente del comma 218 dell’art. 1 della finanziaria 2006, all’art. 6, n. 2 TUE in combinato disposto con l’art. 6 della CEDU e artt. 46, 47 e 52 n. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000, come recepiti nel Trattato di Lisbona. La Corte, dando atto della pronunzia emessa il 7 giugno 2011 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenza Agrati), ha statuito che "vista la risposta data alla seconda ed alla terza questione, non c’è più bisogno di esaminare se la normativa nazionale in oggetto, quale applicata alla ricorrente nella causa principale, violi i principi" di cui alle norme su indicate.

13. La sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea incide sul presente giudizio. In base all’art. 11 Cost. e art. 117 Cost., comma 1, il giudice nazionale e, prima ancora, l’amministrazione, hanno il potere-dovere di dare immediata applicazione alle norme della Unione europea provviste di effetto diretto, con i soli limiti derivanti dai principi fondamentali dell’assetto costituzionale dello Stato ovvero dei diritti inalienabili della persona, nel cui ambito resta ferma la possibilità del controllo di costituzionalità (cfr., per tutte, Corte cost. sentenze n. 183 del 1973 e n. 170 del 1984;

ordinanza n. 536 del 1995 nonchè, da ultimo, sentenze n. 284 del 2007, n. 227 del 2010, n. 288 del 2010, n. 80 del 2011). L’obbligo di applicazione è stato riconosciuto anche nei confronti delle sentenze interpretative della Corte di giustizia (emanate in via pregiudiziale o a seguito di procedura di infrazione) ove riguardino norme europee direttamente applicabili (cfr. Corte cost. sentenze n. 113 del 1985, n. 389 del 1989 e n. 168 del 1991, nonchè, sull’onere di interpretazione conforme al diritto dell’Unione, sentenze n. 28 del 2010 e n. 190 del 2000).

H. Nella memoria per l’udienza la difesa dei ricorrenti chiede la disapplicazione della L. n. 266 del 2005, art. 1, richiamando la tesi che: 1) ritiene "errata" la decisione Scattolon laddove ha giudicato assorbita la quarta questione a seguito della decisione sugli altri punti sottoposti al suo esame e 2) prospetta la necessità di non sottoporre la questione nuovamente al vaglio della Corte costituzionale per contrasto sopravvenuto con l’art. 117 Cost., in quanto la controversia, come sancito nella sentenza Scattolon, rientra nel diritto dell’Unione, con la conseguenza che il giudice ordinario dovrebbe "disapplicare direttamente la norma interpretativa che ha violato la Carta oppure operare un nuovo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia".

15. Deve premettersi che la decisione della Corte di giustizia, di cui si è prima messo in evidenza l’efficacia vincolante per il giudice nazionale, presenta tale efficacia nella sua interezza e non può discrezionalmente essere ritenuta vincolante per una parte e non vincolante per un’altra.

16. Nè rileva il fatto che, all’epoca in cui la Corte di giustizia si è espressa, la decisione Agrati della CEDU non fosse ancora definitiva, perchè la decisione della Corte di giustizia nella parte in cui delinea il suo rapporto con la sentenza Agrati non si basa su questo dato, ma sul contenuto della decisione della CEDU. 17. La sentenza Agrati parte dalla premessa che "i ricorrenti sostengono di aver percepito, in seguito al trasferimento, un trattamento economico nel complesso inferiore a quello percepito prima del trasferimento" e "hanno perso tutti gli elementi accessori della retribuzione" e perviene alla conclusione che "l’adozione della finanziaria 2006 definiva il merito della controversia e rendeva vana la prosecuzione dei procedimenti", conclusione in forza della quale ha espresso il suo giudizio sull’intervento del legislatore italiano.

18. La sentenza Scattolon, interpretando la normativa italiana alla luce del diritto europeo, perviene alle conclusioni di cui si è dato conto, in forza delle quali il singolo giudizio non può dirsi chiuso e il diritto dei lavoratori (a non percepire, a seguito del trasferimento, un trattamento nel complesso inferiore a quello percepito prima del trasferimento) trova garanzia. Ciò spiega perchè, la Corte di giustizia abbia giudicato assorbita la quarta questione, implicante la chiusura del giudizio e la negazione della garanzia su indicata.

19. Deve aggiungersi, per completezza, che anche l’altra affermazione formulata dai ricorrenti nella causa Agrati di aver perso "tutti gli elementi accessori della retribuzione" (affermazione ribadita da parte ricorrente di questo giudizio nella memoria per l’udienza) non è condivisibile, in quanto, nelle controversie in cui la questione è stata posta, la decisione è stata nel segno della conservazione del diritto (cfr., Cass. 19 marzo 2012, n. 4316, confermando l’orientamento della sentenza di merito emessa dalla Corte d’appello di Brescia, a sua volta di conferma della sentenza del Tribunale che aveva accolto la domanda del lavoratore).

20. In conclusione, in consonanza con la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, il caso in esame deve essere deciso con l’accoglimento del ricorso del lavoratore. La violazione del complesso normativo, costituito dalla L. n. 124 del 1999, art. 8 e L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 218, denunziata, deve essere verificata in concreto sulla base dei principi enunciati dalla Corte di giustizia europea. La decisione impugnata deve, pertanto, essere cassata con rinvio alla Corte d’appello indicata in dispositivo, la quale, applicando i criteri di comparazione su specificati, dovrà decidere la controversia nel merito, verificando la sussistenza, o meno, di un peggioramento retribuivo sostanziale all’atto del trasferimento e dovrà accogliere o respingere la domanda del lavoratore in relazione al risultato di tale accertamento. Il giudice del rinvio provvederà anche sulle spese del giudizio.
P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa e rinvia alla Corte d’appello di Bologna, anche per le spese.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 30 maggio 2012.

Depositato in Cancelleria il 13 luglio 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 31-01-2013) 22-03-2013, n. 13535

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo

1. Il G.i.p. presso il Tribunale di Pescara, con sentenza in data 2.12.2009, resa all’esito di giudizio abbreviato, dichiarava V.G. colpevole del reato di furto di alcune parti del motopeschereccio "(OMISSIS)" di proprietà del Comune di (OMISSIS) (capo 2) e del tentativo di furto del motore dello stesso natante (capo 3) condannando l’imputato alla pena di mesi otto di reclusione ed Euro 300,00 multa. Il giudicante mandava assolto il V. dal reato di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (capo 1), con la formula perchè il fatto non sussiste.

2. La Corte di Appello di L’Aquila, con sentenza in data 23.01.2012, confermava la sentenza del G.i.p. di Pescara. Nel censire i motivi di doglianza dedotti dalla parte appellante, il Collegio evidenziava che, secondo la tesi difensiva, il V. avrebbe agito nel convincimento che la propria condotta fosse lecita, alla luce della autorizzazione allo smontaggio di alcune parti del natante di cui si tratta, concessagli verbalmente dall’ing. D., dirigente del Settore Provveditorato e Patrimonio del Comune di Pescara.

La Corte territoriale riferiva che la difesa nell’atto di gravame, aveva osservato: che V., prima di prelevare le attrezzature dal peschereccio, aveva avanzato richiesta al Comune di Pescara per lo smontaggio del verricello e di altre strutture; che V. era il custode del natante; che il Comune di Pescara aveva lasciato la nave in stato di sostanziale abbandono; che le parti rimosse erano state tutte reintegrate.

Tanto premesso, il Collegio rilevava che risultava irricevibile l’istanza di rinnovo dell’istruttoria dibattimentale, giacchè l’imputato aveva richiesto il rito abbreviato non condizionato; e che nel caso il giudice di appello non era obbligato a motivare il rigetto della richiesta istruttoria.

Nel merito, la Corte territoriale considerava del tutto irrilevante, ai fini della configurabilità del delitto di furto, l’intervenuta restituzione dei beni, trattandosi di comportamento successivo alla consumazione del reato. Osservava poi che era rimasta indimostrata la tesi difensiva, in forza della quale vi sarebbe stato il consenso verbale dell’ing. D. al prelievo delle parti del natante. Il Collegio evidenziava che si trattava di un assunto difensivo non dimostrato e non più dimostrabile; ribadiva che la Corte di Appello non aveva ritenuto di procedere d’ufficio alla integrazione probatoria, atteso che le circostanze sulla quali l’ing. D. avrebbe dovuto riferire erano state semplicemente dedotte dalla difesa e non emergevano dagli atti; osservava che il dato di fatto è rappresentato da una istanza di prelievo delle attrezzature presenti sul natante, presentata presso il Comune di Pescara, istanza rimasta senza risposta; e che l’imputato avrebbe perciò dovuto astenersi dal compiere le attività criminose di cui ai capi 2) e 3).

La Corte di Appello rilevava che nell’atto di donazione, intercorso tra il V. ed il Comune di Pescara, si specificava che il peschereccio veniva ceduto nelle condizioni nelle quali si trovava e quindi completo delle parti – specificamente destinate alla attività di pesca – di poi sottratte dal V. medesimo. E precisava che, al momento del fatto, il V. non era custode del natante, atteso la proprietà dell’imbarcazione era già stata ceduta al Comune di Pescara e che il medesimo ente era pure entrato in possesso del mezzo, senza conferire al V. alcun incarico.

3. Avverso la richiamata sentenza della Corte di Appello di L’Aquila ha proposto ricorso per cassazione V.G., a mezzo del difensore.

L’esponente, dopo essersi soffermato sulla vicenda processuale che aveva visto pure il coinvolgimento di C.A.A., moglie del V. e sui motivi proposti con l’atto di appello avverso la sentenza di primo grado, ha articolato i seguenti motivi di ricorso.

Con il primo motivo, la parte si duole della mancata assunzione di prova decisiva. Osserva che la Corte di Appello ha ritenuto di non motivare il rigetto della richiesta di rinnovo parziale della istruttoria dibattimentale; al riguardo, la parte ritiene che i giudici di appello abbiano violato l’obbligo di motivazione. Il ricorrente considera che non vi è alcuna incompatibilità tra il rito abbreviato prescelto e la richiesta di parziale rinnovazione dell’istruttoria in grado di appello; ed osserva che, a seguito delle modifiche apportate alla disciplina del rito abbreviato dalla L. 16 dicembre 1999, n. 479, la rinnovazione del dibattimento in appello, anche laddove si sia proceduto nelle forme del rito abbreviato, risulta disciplinata dal disposto di cui all’art. 603 c.p.p..

Con il secondo motivo, il ricorrente deduce il vizio motivazionale e la violazione di legge; osserva che l’atto di appello, diversamente da quanto affermato dalla Corte territoriale, era incentrato su quattro motivi e non già unicamente sulla carenza dell’elemento psicologico del reato; e sottolinea che le conclusioni rassegnate in sede di gravame – assoluzione dell’imputato per non aver commesso il fatto o quanto meno perchè il fatto non sussiste – non risultano neppure difformi dai motivi dedotti, diversamente da quanto affermato dalla Corte territoriale nella sentenza impugnata; ciò in quanto l’elemento soggettivo del reato risulta integrativo della fattispecie incriminatrice. L’esponente ritiene che la Corte distrettuale abbia omesso di argomentare, rispetto alle singole censure che erano state dedotte, essendosi limitata a richiamare le motivazioni espresse dal primo giudice.

La parte ritiene che la decisione sia pure in contrasto con gli atti del processo. Al riguardo, si sofferma sulla vicenda che ha condotto l’imputato a donare al Comune di Pescara il motopeschereccio " (OMISSIS)" ed alla successiva richiesta di smontaggio delle attrezzature destinate alla pesca che ancora si trovavano sulla motonave. Il deducente ribadisce che V. era custode della nave; che vennero prelevate solo attrezzature serventi alla attività di pesca, attività alla quale il natante non poteva altrimenti essere destinato, a seguito della intervenuta donazione; che prima del prelievo, V. aveva presentato specifica istanza all’ente comunale, avente ad oggetto l’asportazione dei beni sopra indicati;

che nell’istanza era stata indicato il regolamento CEE che consentiva il diverso utilizzo dei predetti beni; che unitamente alla istanza era stato presentato un progetto per la trasformazione della motonave in laboratorio galleggiante. La parte osserva che, stante la perdurante inerzia della amministrazione, il V., previa autorizzazione verbale espressa dal dott. D., procedette al prelievo dei beni analiticamente indicati nella richiamata istanza.

Il ricorrente ritiene che, alla luce delle richiamate circostanze, sia impossibile ipotizzare la sussistenza del dolo di furto, in capo al V.. Osserva che le attrezzature sono state restituite, di talchè manca anche l’elemento del danno, come pure l’ulteriore elemento del profitto.

Con il terzo motivo, il ricorrente deduce l’erronea interpretazione del regolamento comunitario n. 1198/2006 istitutivo del fondo europeo per la pesca e del regolamento di attuazione n. 498/2007. Il deducente ribadisce che le attrezzature oggetto del furto sono strettamente connesse all’esercizio della pesca e non sono mai state oggetto della donazione del natante in favore del Comune di Pescara.

Osserva che dette attrezzature non risultano indicate neppure nel verbale di consegna del bene, che pure richiamava analiticamente le dotazioni del motoscafo. L’esponente ritiene che il Comune di Pescara non abbia acquisito nè la proprietà nè il possesso dei predetti beni.

Motivi della decisione

4. Il ricorso che occupa muove alle considerazioni che seguono.

4.1 Con il primo motivo di ricorso l’esponente denuncia il vizio motivazionale, in riferimento all’intervenuto rigetto della richiesta di rinnovo parziale dell’istruttoria dibattimentale.

Invero, la Corte di Appello ha chiarito di non ritenere sussistente alcun obbligo di motivazione, sul punto, a carico del giudice procedente in sede di gravame, in considerazione del rito abbreviato prescelto dall’imputato.

Non sfugge che questa Suprema Corte, soffermandosi specificamente sul rito abbreviato in grado di appello, ha escluso che esista un diritto dell’imputato, giudicato con rito abbreviato, alla richiesta di rinnovazione del dibattimento ed un corrispondente obbligo per il giudice di appello di motivare la reiezione della richiesta di rinnovare il dibattimento (Cass. Sez, 2, Sentenza n. 3609 del 18/01/2011, dep. 01/02/2011, Rv. 249161).

Preme, peraltro, evidenziare che nella materia di interesse si registra una successiva elaborazione giurisprudenziale, che involge una riflessione sull’ambito funzionale del giudizio di secondo grado e sui principi che regolano l’acquisizione della prova, che vengono in rilievo nel giudizio di appello anche nel caso in cui il giudizio di primo grado sia stato celebrato con rito abbreviato.

Muovendo dalla intervenuta eliminazione della condizione relativa alla definibilità allo stato degli atti per l’ammissione del giudizio abbreviato, la Corte regolatrice ha osservato che non sussistono serie ragioni che impongano per il giudizio di appello una disciplina dell’acquisizione di prove sopravvenute diversa a seconda che il giudizio di primo grado sia stato celebrato con rito ordinario o con rito abbreviato. Si è, in particolare, evidenziato che la rinnovazione del dibattimento in appello non è assolutamente incompatibile con il rito abbreviato, condizionato o non, specialmente quando si tratti di prove nuove (cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 9267 del 03/02/2012, dep. 09/03/2012, Rv. 252108).

Occorre considerare che la giurisprudenza di legittimità ha pure precisato che, nel giudizio di appello (nella specie relativo a rito abbreviato), il provvedimento del giudice di ammissione di prove nuove sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado va adottato senza ritardo con ordinanza dibattimentale nel contraddittorio delle parti alla stregua di quanto previsto dall’art. 190 c.p.p. e art. 495 c.p.p., comma 1, (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 43473 del 14.10.2010, dep. 9.12.2010, Rv. 248979); che, diversamente, nell’ipotesi di cui all’art. 603 c.p.p., comma 1, la rinnovazione è subordinata alla condizione che il giudice ritenga, nell’ambito della propria discrezionalità, che i dati probatori già acquisiti siano incerti e che l’incombente processuale richiesto rivesta carattere di decisività; e che, in tema di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale nel giudizio di appello, nel caso di prove sopravvenute o scoperte dopo la sentenza di primo grado (art. 603 c.p.p., comma 2), la mancata assunzione può costituire violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), mentre, negli altri casi previsti (art. 603 c.p.p., commi 1 e 3), il vizio deducibile in sede di legittimità è quello attinente alla motivazione previsto dall’art. 606 c.p.p., lett. e), (Cass. Sez. 4, Sentenza n. 4675 del 17.5.2006, dep. 6.2.2007, Rv. 235654).

4.1.2 Procedendo nell’analisi del tema che occupa, occorre altresì richiamare la recente sentenza della Seconda Sezione Penale di questa Suprema Corte, con la quale si è proceduto alla ricostruzione sistematica dell’istituto della rinnovazione del dibattimento in appello, al fine di verificare la compatibilità dell’istituto processuale di diritto interno con l’art. 6, 1, Convenzione EDU, secondo le linee interpretative espresse dalla Corte di Strasburgo (Cass. Sez. 2, sentenza n. 46055, in data 8.11.2012, dep. 27.11.2012, n.m.).

Nella sentenza ora citata, si analizzano partitamente le diverse ipotesi previste dall’art. 603 c.p.p., e si sottolinea che, in ogni caso, il giudice del gravame, qualora decida di respingere le richieste istruttorie presentate dalle parti, è tenuto a rendere specifica motivazione e che detta motivazione è soggetta al controllo di legittimità della Suprema Corte. La Corte regolatrice, nella sentenza in esame, ha poi sottolineato che non esiste nell’ordinamento processuale italiano alcuna norma che vieti di rinnovare il dibattimento di appello e che imponga al giudice del gravame di decidere sulla sola base degli atti assunti nel giudizio di primo grado. E preme evidenziare la Seconda Sezione Penale, nell’affermare i principi ora richiamati, si è riportata all’insegnamento già espresso dalle Sezioni Unite, in riferimento agli obblighi che gravano sul giudice di appello; le Sezioni Unite, infatti, nel censire i poteri decisori del giudice di appello in caso di impugnazione del pubblico ministero contro la sentenza di assoluzione, hanno precisato che il giudice di secondo grado non può "sottrarsi all’onere di esprimere le proprie determinazioni in ordine ai rilievi sollevati dall’imputato" (Cass. Sez. U, Sentenza n. 33748 del 12/07/2005, dep. 20/09/2005, Rv. 231675).

4.2 Orbene, i principi di diritto ora richiamati, che informano secondo diritto vivente l’istituto della rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in appello, devono trovare applicazione anche nel caso in cui in primo grado si sia proceduto con rito abbreviato, condizionato o meno, per le ragioni sopra chiarite. Conseguentemente, deve osservarsi che sussiste il denunciato vizio motivazionale, rilevante ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), atteso che la Corte territoriale ha erroneamente ritenuto di essere esonerata dal relativo obbligo motivazionale, a fronte di richiesta istruttoria presentata da una delle parti, in considerazione del rito prescelto.

Deve poi osservarsi che la richiesta difensiva di escussione del teste D., rientrante nell’ambito applicativo della disposizione di cui all’art. 603 c.p.p., comma 1, avrebbe imposto alla Corte di Appello di motivare, nel l’esercitare il potere discrezionale di cui dispone in ordine alla rinnovazione dell’istruttoria, rispetto alla decisività dell’incombente richiesto. Ebbene, deve evidenziarsi che la Corte territoriale, nel confermare l’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, ha affermato che era rimasta indimostrata la tesi difensiva, in forza della quale vi sarebbe stato il consenso verbale all’impossessamento dei beni, espresso dall’ing. D.. In tali termini, è la stessa Corte di Appello, dopo avere apoditticamente ritenuto irricevibili le richieste istruttorie difensive, a dare conto della decisività della prova che la parte privata aveva chiesto di assumere e quindi della sussistenza, nel caso concreto, dell’elemento richiesto dall’art. 603 c.p.p., comma 1, per la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale.

5. Il vizio motivazionale ora evidenziato impone l’annullamento della sentenza impugnata, con rinvio alla Corte di Appello di Perugia, per nuovo esame della regiudicanda, alla luce dei principi di diritto sopra enunciati. Resta assorbito ogni ulteriore motivo di doglianza.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata con rinvio alla Corte di Appello di Perugia per nuovo esame.

Così deciso in Roma, il 31 gennaio 2013.

Depositato in Cancelleria il 22 marzo 2013

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.