T.A.R. Lazio Roma Sez. I ter, Sent., 22-02-2011, n. 1655 Carenza di interesse sopravvenuta

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con ricorso notificato il 22 dicembre 2009 e depositato il 30 dicembre 2009 le Soc. S. Spa + ATI ha impugnato la deliberazione della Giunta Regionale del Lazio 2/10/2009 n.753 relativa alla revoca dei finanziamenti in favore dei servizi di trasporto pubblico urbano della Regione Lazio ex art.30 L. reg.le 30/98.

Il 22/4/2010 l’Avv. Ernesto Stajano difensore della parte ricorrente ha depositato istanza per la declaratoria della cessazione della materia del contendere;

Alla camera di consiglio del 15/4/2010 l’Avv. Enrico Attili difensore della parte ricorrente ha chiesto la cessazione della materia del contendere;

Non essendo stato precisato se la pretesa avanzata dalle ricorrenti è pienamente satisfattiva il collegio ritiene di dover dichiarare la sopravvenuta carenza d’interesse alla decisione;

La natura della controversia consente la compensazione delle spese di lite tra le parti.
P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, dichiara improcedibile il ricorso per sopravvenuta carenza d’interesse.

Compensa le spese di lite tra le parti.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. I, Sent., 12-05-2011, n. 10495 Diritti politici e civili interessi

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Svolgimento del processo

1. La sig.ra T.G. con ricorso alla Corte d’appello di Roma chiedeva la condanna del Ministero della Giustizia al pagamento dell’indennizzo previsto dalla L. n. 89 del 2001 in relazione a un giudizio da lei promosso dinanzi al Tribunale di S. Maria C.V. avente ad oggetto il riconoscimento dell’indennità di maternità. La Corte d’appello, con decreto depositato il 22 ottobre 2008, le liquidava la somma di Euro 6.600,00 oltre interessi legali dalla data del decreto e spese liquidate nella misura di Euro 825,00 di cui Euro 500,00 per onorari ed Euro 250,00 per diritti, con distrazione in favore dell’avv. Raffaele Di Telia. L’attrice ha proposto ricorso a questa Corte avverso il decreto, con atto notificato il 4/5 dicembre 2009 al Ministero della Giustizia, formulando due motivi. La parte intimata resiste con controricorso.

La Corte delibera che si dia luogo a motivazione semplificata.
Motivi della decisione

1.Con il primo motivo si denuncia la violazione degli artt. 1173 e 1282 c.c. per essere stati gl’interessi sulla somma attribuita liquidati dalla data del decreto e non dalla domanda, come dovevano esserlo stante la natura indennitaria e non meramente compensativa dell’equa riparazione.

Con il secondo motivo si denuncia la violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., artt. 4 e 5 della tariffa professionale, per essere stati gli onorari e i diritti liquidati in misura inferiore a quella di legge.

2. Entrambi i motivi sono accompagnati dai prescritti quesiti.

Il primo motivo va accolto in relazione alla costante giurisprudenza di questa Corte secondo la quale, in materia di equa riparazione per l’eccessiva durata del processo, gl’interessi vanno liquidati dalla domanda (ex multis Cass. 11 aprile 2005, n. 7389; 27 gennaio 2004, n. 1405; 17 febbraio 2003, n. 2382).

Il secondo motivo va dichiarato assorbito.

Il decreto impugnato va pertanto cassato in relazione alla censura accolta e tale cassazione comporta anche la caducazione della statuizione sulle spese. Sussistono le condizioni per la decisione nel merito ai sensi dell’art. 384 c.p.c., disponendosi che gl’interessi legali decorrano dalla domanda e le spese del giudizio di merito siano liquidate nella misura di Euro 580,00 per onorari, Euro 600,00 per diritti ed Euro 50,00 per spese vive, non essendo rimborsabili a carico della parte soccombente tutte le voci richieste.

Le spese del giudizio di cassazione vanno poste a carico del Ministero della Giustizia e liquidate come in dispositivo, compensandosene la metà sussistendone giusti motivi. Le spese vanno distratte come in dispositivo.
P.Q.M.

LA CORTE DI CASSAZIONE Accoglie il primo motivo e dichiara assorbito il secondo.

Cassa il decreto impugnato in relazione al motivo accolto e decidendo nel merito condanna il Ministero della Giustizia al pagamento degl’interessi legali sulla somma liquidata dalla Corte d’appello di Euro 6.600,00 dalla data della domanda giudiziale.

Lo condanna altresì, con distrazione in favore dell’avv. Raffaele Di Telia, alle spese del giudizio di merito nella misura di Euro 580,00 per onorari Euro 600,00 per diritti e Euro 50,00 per spese vive, oltre spese generali e accessori come per legge nonchè, compensandosene la metà, alla metà delle spese del giudizio di cassazione che liquida nella misura così già ridotta in Euro 250,00 di cui Euro 50,00 per spese vive, oltre spese generali e accessori come per legge, con distrazione in favore dell’avv.

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Cass. civ. Sez. V, Sent., 10-06-2011, n. 12784 Redditi d’impresa

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Svolgimento del processo

1. Gli atti del giudizio di legittimità.

Il giorno 27.11.2006 è stato notificato a P.C. un ricorso dell’Agenzia delle Entrate per la cassazione della sentenza descritta in epigrafe (depositata 13.10.2005). che ha respinto l’appello dell’Agenzia contro la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Lecce n. 758/02/1995 che aveva accolto il ricorso dello stesso contribuente avverso avviso di accertamento del reddito d’impresa per l’anno d’imposta 1990.

Non si è costituita la parte intimata.

La controversia è stata discussa alla pubblica udienza del 16.3.2011, in cui il PG ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

2. I fatti di causa.

Con il menzionato avviso di accertamento l’Agenzia delle Entrate ha rettificato il reddito d’impresa di P.C. mediante procedimento induttivo ai sensi del D.L. n. 69 del 1989, artt. 11 e 12 e del D.P.C.M. 23 dicembre 1992 avvalendosi dei coefficienti presuntivi ivi determinati.

Il ricorso del contribuente avverso detto provvedimento (incentrato sull’assunto che il provvedimento stesso risultava fondato sulla sola valenza probatoria dei coefficienti presuntivi) è stato accolto dal l’adita CTP di Lecce e l’appello promosso dall’Agenzia contro la sentenza di primo grado è stato disatteso dalla CTR di Bari.

3. La motivazione della sentenza impugnata.

La sentenza della CTR, oggetto del ricorso per cassazione, è motivata nel senso che anche in presenza dei presupposti di fatto necessari all’applicazione dello strumento presuntivo di determinazione del reddito non è consentito – pena la violazione della disciplina dettata dall’art. 53 Cost. un automatismo vincolante in ordine agli effetti di detta applicazione, imponendosi comunque la valutazione della situazione effettiva del contribuente e l’analisi della conlabilità d’impresa onde identificare incongruenze che consentano all’Ufficio di avvalersi delle modalità induttive dell’accertamento.

4. Il ricorso per cassazione.

Il ricorso per cassazione è sostenuto con unico motivo d’impugnazione e – dichiarato il valore della causa nella misura di Euro 50.000.00 circa – si conclude con la richiesta che sia cassata la sentenza impugnata, con ogni conseguente statuizione anche in ordine alle spese processuali.
Motivi della decisione

5. Il primo motivo d’impugnazione.

Il primo ed unico motivo d’impugnazione è collocato sotto la seguente rubrica: "Violazione e falsa applicazione del D.L. n. 69 del 1999, art. 11, commi 1 e 2 comma; art. 12 conv. L. n. 154 del 1989;

del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 4; dell’art. 97 c.c. del D.P.C.M. 23 dicembre 1999 con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3".

Con il predetto motivo di impugnazione la ricorrente Agenzia si duole del fatto che i giudice di secondo grado abbia ritenuto insufficiente il riferimento ai coefficienti previsti nel menzionato DPCM, in difetto di ulteriori elementi utili a sorreggere la determinazione induttiva del reddito, e ciò in contrasto con gli indirizzi giurisprudenziali di legittimità, che esonerano l’Amministrazione da qualunque ulteriore prova rispetto all’esistenza dei "fattori-indice" della capacità contributiva individuati nel predetto decreto e prevedono un meccanismo di inversione probatoria a carico del contribuente, onerato della dimostrazione che il reddito presunto non esiste o esiste in misura inferiore. Anche nella specie di causa il contribuente non aveva fornito detta prova, sicchè sarebbe dovuto risultare soccombente.

Il motivo è fondato e deve essere accolto.

Questa Corte ha infatti chiarito in numerose occasioni che "In tema di accertamento delle imposte sui redditi e con riguardo alla procedura di determinazione induttiva dell’ammontare dei ricavi e dei compensi sulla base di coefficienti presuntivi, disciplinata dal D.L. 2 marzo 1989, n. 69, artt. 11 e 12 (convertito, con modificazioni, nella L. n. 154 del 1989), il principio della flessibilità degli strumenti presuntivi trova origine e fondamento nell’art. 53 Cost., non potendosi ammettere che il reddito venga determinato in maniera automatica, a prescindere dalla capacità contributiva del soggetto sottoposto a verifica. Ne consegue che, anche in ipotesi di legittima utilizzazione dei coefficienti presuntivi da parte dell’amministrazione, è sempre ammessa a carico del contribuente la prova della inapplicabilità dei parametri at caso concreto; tale prova può essere costituita, in assenza di indicazioni normative specifiche contrarie, anche da presunzioni che il giudice nel suo prudente apprezzamento può configurare e valutare" (per tutte Cass. Sez. 5, Sentenza n. 19163 del 15/12/2003 che è proprio la pronuncia richiamata dalla sentenza qui impugnata a sostegno della contraria conclusione).

E’ corretto quindi l’assunto di parte ricorrente secondo cui una siffatta modalità di determinazione induttiva del ricavo d’impresa (pur senza costituire un automatismo vincolante in ordine agli effetti) implica l’esonero dell’Amministrazione da qualunque ulteriore prova vuoi della non corretta tenuta della contabilità d’impresa vuoi della capacità contributiva in concreto riferibile alla parte contribuente, sicchè resta infine a carico di quest’ultima di fornire la prova che il reddito presuntivamente determinato non esiste o esiste in misura inferiore. Ed è proprio questa facoltà di prova contraria che ovvia al rischio dell’automatismo di cui si è fatto carico il giudice del merito. peraltro giungendo a conclusioni esuberanti e contraddittorie.

Ed insomma, erroneamente il giudicante di secondo grado ha ritenuto soccombente l’Amministrazione Finanziaria per non avere quest’ultima fornito la prova di specifiche incongruenze o di altri fatti che inducano a ritenere non veritieri i dati dichiarati, siccome condizione per procedere poi alla determinazione induttiva del reddito.

Nè potrebbe valere nella specie di causa il riferimento che il giudicante ha fatto alla necessità che non si pretermetta il "confronto con la situazione concreta".

Infatti è ben vero che questa Corte ha posto in evidenza (nella nota pronuncia a sezioni unite n. 26635 del 18/12/2009) che vi è per la Amministrazione obbligo di attivazione del contraddittorio a pena di nullità, proprio finalizzato a consentire di raggiungere una piena conclusione circa la questione dell’applicabilità in concreto degli standards normativi prescelti (oltre che per consentire al contribuente di formulate eventuali specifiche contestazioni della sussistenza dei presupposti di legge), ma è pur vero che nella specie di causa non risulta contestato che il contraddittorio sia stato debitamente attivato, sicchè non vi è ragione di supporre che il confronto con la situazione concreta del contribuente sia stato eluso o dimenticato.

Poichè non necessitano ulteriori accertamenti di fatto che giustifichino la rimessione della questione al giudice del merito, e la omessa costituzione della parte contribuente determina che non siano state riproposte eventuali questioni non esaminate nel corso dei precedenti gradi di giudizio, questa Corte ritiene di decidere la controversia anche nel merito (in applicazione dell’art. 384 c.p.c.) e perciò rigetta integralmente l’impugnazione del provvedimento impositivo proposta dalla parte contribuente.

La regolazione delle spese di lite di tutti i gradi del processo è informato al criterio della soccombenza.
P.Q.M.

la Corte accoglie il ricorso. Cassa la decisione impugnata e decidendo nel merito, rigetta il ricorso avverso il provvedimento impositivo proposto dalla parte contribuente. Condanna la parte intimata a rifondere le spese di lite di questo grado, liquidate in Euro 2.500.00 per onorario, oltre spese prenotate a debito, e le spese dei pregressi gradi di giudizio, liquidate in Euro 1.800.00 per ciascun grado, di cui Euro 1.300,00 per onorario ed il resto per diritti.

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Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 21-01-2011) 11-04-2011, n. 14434 Ammissibilità e inammissibilità

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per prescrizione.
Svolgimento del processo

Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte di Appello di Bari dichiarava, ai sensi dell’art. 591 c.p.p., l’inammissibilità dell’appello proposto da Q.M. avverso la sentenza del Tribunale di Foggia – sezione distaccata di Manfredonia del 18 novembre 2003, che aveva dichiarato lo stesso responsabile del reato di cui all’art. 624 c.p. e art. 625 c.p., nn 2 e 7.

La Corte riteneva che l’appello fosse tardivo, posto che, tempestivamente depositata la sentenza impugnata, era stato proposto solo il 28 gennaio 2004, ben oltre quindi il termine d’impugnativa previsto dall’art. 585 c.p.p., comma 1, lett. b).

Avverso la sentenza anzidetta l’imputato ha proposto ricorso per cassazione, affidato alle ragioni di censura indicate in parte motiva.
Motivi della decisione

1. – Con unico motivo d’impugnazione parte ricorrente denuncia violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. c) ed e), sul rilievo che il giudice del gravame avrebbe dovuto concedere la restituzione nel termine, a mente dell’art. 175 c.p.p., per poter impugnare la sentenza di primo grado, stante la contumacia e la mancata conoscenza della pronuncia di condanna. Peraltro, l’obiettivo dell’appello era solo quello di ottenere la rideterminazione della pena irrogata in primo grado e non certamente quello di rivendicare l’estraneità ai fatti contestati. Peraltro, la sentenza di primo grado presentava motivazione scarsa e contraddittoria e tale vizio, non rilevato dalla Corte distrettuale, inficiava la validità della relativa pronuncia.

2. – Il ricorso è vistosamente inammissibile per palese genericità.

Ed invero, la sentenza impugnata è solo dichiarativa di inammissibilità del gravame, siccome intempestivamente proposto.

Parte ricorrente non contesta, in alcun modo, tale rilievo officioso nè pone in discussione la correttezza del sistema di computo del termine d’impugnativa, attardandosi invece, in termini peraltro assolutamente generici, a censurare la motivazione del provvedimento impugnato. Non risulta, infine, che l’istante abbia presentato istanza di restituzione in termini, in ordine alla quale il giudice di appello abbia omesso di provvedere.

3. – Alla declaratoria d’inammissibilità conseguono le statuizioni espresse in dispositivo.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

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