T.A.R. Campania Napoli Sez. VII, Sent., 10-03-2011, n. 1400 Carenza di interesse sopravvenuta Interesse a ricorrere

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con atto notificato in data 11/06/1992 e depositato il successivo 16 giungo A.M.L.G. ha impugnato l’ordinanza sindacale n. 264 del 30.05.1992del Comune di Massa Lubrense, con cui le si ordinava la sospensione di lavori asseritamente abusivi, realizzati sull’immobile di sua proprietà, sito nel Comune medesimo, località Sant’Agata, via Campi n. 26, consistenti in opere di straordinaria manutenzione, realizzate in zona sottoposta a vincolo ai sensi della legge 29/06/1939 n. 1497 e successive modifiche ed integrazioni, in assenza della necessaria asseverazione ex artt. 26 l. 47/85.

A sostegno del ricorso ha dedotto diverse censure di violazione di legge e di eccesso di potere, articolate in due motivi di ricorso.

L’Amministrazione resistente non si è costituita.

Con ordinanza presidenziale n. 62/2010 si è disposta istruttoria, in considerazione del lungo lasso di tempo trascorso dalla proposizione del ricorso e delle probabili mutazioni intervenute sulla situazione di fatto e di diritto, non avendo parte ricorrente nulla specificato al riguardo nell’istanza di fissazione di udienza a firma congiunta, depositata ai sensi dell’art. 9 comma 2, l. 205/2000, ordinando all’Amministrazione di fornire chiarimenti in merito alle eventuali sopravvenienze, con deposito dei relativi atti.

In ottemperanza alla citata ordinanza il Comune di Massa Lubrense ha depositato l’atto prot. n. 1470 del 29 giungo 1992, relativo all’accertamento del ripristino dello stato dei luoghi di cui ai lavori edili abusivi oggetto dell’ordinanza di sospensione dei lavori de qua.

Il ricorso è stato quindi trattenuto in decisione all’udienza pubblica del 10 febbrario 2011, nella cui sede il difensore di parte ricorrente, esaminata la documentazione depositata dalla resistente Amministrazione, ha dichiarato di non avere più interesse al ricorso.

Pertanto nel caso di specie non può che essere dichiarata l’improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse, in considerazione della documentazione depositata dall’Amministrazione resistente e della dichiarazione resa dal difensore di parte ricorrente.

Come noto l’interesse al ricorso, in quanto condizione dell’azione, deve sussistere sia al momento della proposizione del gravame, che al momento della decisione, con conseguente attribuzione al giudice amministrativo del potere di verificare la persistenza della predetta condizione in relazione a ciascuno di tali momenti (cfr. C.d.S., Sez. V, 14 novembre 2006, n. 6689).

In considerazione delle ragioni meramente procedurali della decisione e della circostanza che pur dopo l’accertamento del ripristino dello stato dei luoghi parte ricorrente ha depositato istanza di fissazione di udienza a firma congiunta, sussistono eccezionali e gravi ragioni per ritenere irripetibili le spese di lite sopportate dalla medesima ricorrente.
P.Q.M.

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo dichiara improcedibile per sopravvenuto difetto di interesse.

Spese irripetibili

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 08-03-2011) 29-03-2011, n. 12752

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sona del Dott. SPINACI Sante, che ha concluso per il rigetto.
Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 15/02/2010, la Corte di Appello di Messina confermava la sentenza del 6/03/2006 con la quale il g.m. del Tribunale di Patti aveva ritenuto P.G.D. responsabile del delitto di cui all’art. 633 c.p. perchè, dopo aver forzato la porta d’ingresso, invadeva, al fine di occuparlo, l’alloggio di proprietà IACP. 2. Avverso la suddetta sentenza, l’imputata, a mezzo del proprio difensore, ha proposto ricorso per cassazione deducendo i seguenti motivi:

1. Violazione dell’art. 633 c.p.. per non avere la Corte territoriale valutato che:

a) avendo l’imputata presentato regolare domanda di assegnazione, avrebbe dovuto trovare applicazione il disposto della L. n. 513 del 1977, art. 26, comma 4;

b) l’immobile non era goduto da alcuno perchè l’ultima assegnataria era deceduta due anni prima;

c) il dolo doveva riguardare la coscienza e volontà di invadere l’altrui bene: nel caso di specie, la P., invece, aveva ritenuto di occupare un bene di cui, a seguito della richiesta di assegnazione da parte del marito (il giudice aveva omesso di valutare, sul punto, la testimonianza del dipendente IACP, G. G. che aveva appunto confermato la suddetta circostanza:

motivo sub 3), riteneva essere stata autorizzata ad occupare;

2. violazione degli artt. 132 e 133 c.p. per non avere entrambi i giudici di merito motivato in ordine al trattamento sanzionatorio irrogato;

3. violazione degli artt. 516 e 521 c.p.p. per avere la Corte territoriale ritenuto che la condotta della prevenuta si fosse protratta fino al novembre del 2005 laddove nel capo d’imputazione era stata contestata la condotta risalente al 16/02/1997: il che, poi, aveva avuto influenza anche sulla prescrizione che era stata negata (motivo sub 5).
Motivi della decisione

3. violazione dell’art. 633 c.p.: la censura è manifestamente infondata.

La considerazione dalla quale partire è che l’assegnazione di un alloggio di edilizia popolare consiste in un complesso procedimento caratterizzato da una fase di natura amministrativa (finalizzata all’accertamento delle condizioni per l’assegnazione) alla quale segue, una volta che abbia esito positivo, una fase di natura privatistica che si conclude solo nel momento in cui all’assegnatario, previa stipula del relativo contatto, venga consegnato l’immobile, come desumibile dal D.P.R. n. 1035 del 1972, stesso art. 11 a norma del quale "dopo la stipulazione del contratto, l’Istituto autonomo per le case popolari procede alla consegna dell’alloggio all’interessato o a persona da lui delegata".

Da ciò consegue che:

– fino a che non sia stato stipulato il contratto, l’assegnatario non può vantare sull’immobile alcun diritto;

– possessore dell’immobile, fino alla consegna, resta l’Istituto Autonomo delle Case popolari al quale solo compete la tutela del medesimo sotto ogni profilo giuridico (ad es. esercizio di azioni possessorie nei confronti di terzi che pretendano di esercitare diritti sull’immobile).

Quanto appena detto serve a confutare la prima delle censure proposte: infatti, non ha alcuna rilevanza, sotto il profilo giuridico, che il marito della ricorrente avesse presentato una semplice domanda di assegnazione per ritenerla legittimata – senza neppure un provvedimento di assegnazione – a sfondare la porta di ingresso ed occupare l’immobile: ciò che rileva è che, nel momento in cui la ricorrente occupò l’immobile il procedimento di assegnazione non si era ancora concluso perchè non era ancora stata dichiarata assegnataria dell’immobile sicchè non avrebbe potuto esercitare sul medesimo alcuna azione tanto meno di natura violenta.

La L. n. 575 del 1977, all’invocato art. 26, comma 4 nel prevedere mere sanzioni amministrative nei confronti di chiunque occupi un alloggio di edilizia residenziale pubblica senza le autorizzazioni previste dalle disposizioni in vigore, è una norma che si aggiunge ma non certo elide la configurabilità penale della condotta della prevenuta.

L’occupazione effettuata, va, quindi, considerata arbitraria (per tale dovendosi intendere, come nel caso di specie, l’invasione effettuata con violenza o clandestinità: Cass. 19/2/1990, Rv 185013) a nulla rilevando il preteso stato soggettivo della ricorrente (ossia di credere che bastasse aver presentato l’istanza di assegnazione per essere autorizzata ad occupare manu militari l’immobile), anche perchè lo stesso compimento dell’azione violenta o clandestina indica uno stato soggettivo incompatibile con il preteso esercizio di un diritto soggettivo (che, ove fosse esistito, avrebbe legittimato la ricorrente a tutelarsi in sede giudiziaria).

4. Violazione degli artt. 132 e 133 c.p.: risulta dalla sentenza impugnata che alla prevenuta è stata irrogata "la misura della sanzione sui valori minimi di legge": di conseguenza, la censura va ritenuta manifestamente infondata per genericità non avendo la ricorrente neppure indicato di cosa, in concreto, si dolga.

5. Violazione degli artt. 516 e 521 c.p.p.: anche la suddetta censura è manifestamente infondata per le ragioni di seguito indicate.

Il reato in questione è, pacificamente, un reato di natura permanente sicchè la Corte territoriale, adeguandosi alla costante giurisprudenza di questa Corte di legittimità, ha correttamente rilevato che "in assenza della cessazione della condotta antigiuridica, deve ritenersi permanente fino alla sentenza di primo grado (6/3/2006), con la conseguenza che non può ritenersi maturato il termine di prescrizione".

Nel caso di specie, poi, correttamente la Corte territoriale – dopo avere rilevato che il P.M. aveva riportato nel capo d’imputazione la sola data dell’accertamento del fatto (16/02/1997) – ha applicato anche la giurisprudenza di questa Corte secondo la quale "poichè la contestazione del reato permanente, per l’intrinseca natura del fatto che enuncia, contiene già l’elemento del perdurare della condotta antigiuridica, qualora il pubblico ministero si sia limitato ad indicare esclusivamente la data iniziale (o la data dell’accertamento) e non quella finale, la permanenza – intesa come dato della realtà – deve ritenersi compresa nell’imputazione, sicchè l’interessato è chiamato a difendersi nel processo in relazione ad un fatto la cui essenziale connotazione è data dalla sua persistenza nel tempo, senza alcuna necessità che il protrarsi della condotta criminosa formi oggetto di contestazioni suppletive da parte del titolare dell’azione penale.

(Nell’affermare detto principio la Corte ha precisato che la contestazione del reato permanente assume una sua "vis expansiva" fino alla pronuncia della sentenza, e ciò non perchè in quel momento cessi o si interrompa naturalisticamente o sostanzialmente la condotta, sebbene solo perchè le regole del processo non ammettono che possa formare oggetto di contestazione, di accertamento giudiziale e di sanzione una realtà fenomenica successiva alla sentenza, pur se legata a quella giudicata da un nesso inscindibile per la genesi comune, l’omogeneità e l’assenza di soluzione di continuità, la quale potrà essere eventualmente oggetto di nuova contestazione)": SSUU 11021/1998 Rv. 211385 – Cass. 27381/2003 Rv.

225021.

Di conseguenza, manifestamente infondata deve ritenersi la doglianza sia in ordine alla pretesa violazione degli artt. 516 e 521 c.p.p. sia in ordine alla declaratoria di prescrizione.

6. In conclusione, l’impugnazione deve ritenersi inammissibile a norma dell’art. 606, c.p.p., comma 3, per manifesta infondatezza:

alla relativa declaratoria consegue, per il disposto dell’art. 616 c.p.p., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè al versamento in favore della Cassa delle Ammende di una somma che, ritenuti e valutati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in Euro 1.000,00.
P.Q.M.

DICHIARA Inammissibile il ricorso e CONDANNA la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Lombardia Milano Sez. III, Sent., 12-04-2011, n. 955 Edilizia popolare ed economica

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Il Comune di Viganò, con provvedimento del Segretario Comunale n. 1 del 25 gennaio 2008, indiva una procedura concorsuale per l’assegnazione in diritto di proprietà di aree appartenenti al patrimonio comunale, ed inserite nel Piano di Zona "L.M.", da destinarsi ad interventi di edilizia economica residenziale.

Ad esito della procedura concorsuale, le aree venivano aggiudicazione alla Cooperativa "L.M.".

La Cooperativa Edilizia O. Società Cooperativa (d’ora innanzi anche "Coop. O."), classificatasi al secondo posto della graduatoria, impugnava dinanzi a questo Tribunale il provvedimento di aggiudicazione in uno con il bando gara.

Con sentenza n. 4312 del 7 luglio 2009, la Sezione accoglieva il ricorso.

Successivamente il Comune di Viganò, dava incarico ad un professionista per la redazione di un progetto definitivo/esecutivo delle opere di urbanizzazione da realizzarsi nell’ambito del Piano di Zona "le Molere", nonché di un progetto relativo alla "palazzina tipo" da realizzarsi nell’ambito del medesimo Piano Urbanistico.

Con delibera di Giunta Comunale n. 9 del 5 febbraio 2010, il Comune approvava i progetti predisposti dal professionista incaricato, dava mandato al Responsabile del Servizio Tecnico di indire un nuovo bando di gara per l’assegnazione in proprietà delle aree ricadenti nel Piano di Zona ed indicava a quest’ultimo alcune prescrizioni (riguardanti principalmente le caratteristiche delle opere da realizzare nonché i criteri relativi alla determinazione dei prezzi di cessione delle autorimesse, dei sottotetti e delle aree verdi pertinenziali) da inserire nel bando di gara.

Conseguentemente, con determina del Responsabile del Servizio Tecnico n. 17 del 17 febbraio 2010, veniva approvato il nuovo bando di gara, al quale venivano in seguito apportate modifiche con determina n. 29 dell’8 marzo 2010.

Avverso questi ultimi provvedimenti, nonché avverso la suindicata delibera di Giunta Comunale n. 9/2010 Coop. O. propone il ricorso in esame.

Si è costituito in giudizio il Comune di Viganò per opporsi all’accoglimento del Gravame.

In prossimità dell’udienza di discussione del merito le parti hanno depositato memorie, insistendo nelle rispettive conclusioni.

Tenutasi la pubblica udienza in data 16 febbraio 2011, la causa è stata trattenuta in decisione.

Con il primo motivo di ricorso la ricorrente – dopo aver evidenziato che la sentenza di questo Tribunale n. 4312 del 7 luglio 2009, di accoglimento del ricorso avverso gli atti afferenti alla prima procedura concorsuale, non aveva determinato il totale travolgimento del bando gara, ma solo di una clausola dello stesso, lamenta che l’Amministrazione, con l’approvazione del nuovo bando ha in sostanza revocato il vecchio senza inviarle la comunicazione di avviso di avvio del procedimento, che le era dovuta in considerazione dell’interesse alla conclusione della procedura di gara originaria. Con il secondo motivo, viene dedotto il difetto di motivazione, posto che, a dire della ricorrente, l’Amministrazione non avrebbe adeguatamente dato conto delle preminenti ragioni di interesse pubblico che sorreggono la scelta di revocare la vecchia procedura per indirne una nuova

Il terzo motivo lamenta l’incompetenza del Responsabile del Servizio Tecnico giacché, essendo stato il primo bando approvato con provvedimento del Segretario Comunale, solo quest’ultimo organo, in virtù del principio del contrarius actus, avrebbe potuto disporne la revoca.

Infine, con il quarto motivo, viene censurata la violazione dell’art. 3 del Regolamento Comunale per l’Attuazione degli Interventi di Edilizia Economica Popolare, atteso che il nuovo bando di gara prevede un criterio di aggiudicazione (il maggior ribasso rispetto al costo degli alloggi da realizzare) non contemplato dalla predetta norma.

Prima di passare all’esame dei motivi di merito, occorre rilevare che, essendo il ricorso fondato nel merito, si può prescindere dall’esame dell’eccezione di tardività della memoria depositata da parte resistente; anche se vanno comunque affrontate, essendo rilevabili d’ufficio, le questioni relative alla sussistenza dell’interesse ad agire collegate alla mancata proposizione da parte della ricorrente dell’istanza di partecipazione alla nuova procedura concorsuale.

In proposito si osserva quanto segue.

Secondo l’adunanza plenaria del Consiglio di Stato, per poter impugnare gli atti afferenti ad una procedura concorsuale, è necessario dimostrare il possesso di una posizione differenziata e qualificata determinata dalla presentazione della domanda di partecipazione alla procedura (cfr. Consiglio di Stato, ad. plen., 29 gennaio 2003 n. 1).

Tuttavia, la ricorrente, con i primi tre motivi di ricorso, non censura gli atti di indizione della nuova gara per vizi "interni" alla procedura, ma in quanto ravvisa negli stessi l’espressione implicita della volontà di revoca della procedura concorsuale precedentemente bandita. Ciò che viene in sostanza impugnato è quindi il provvedimento – implicito ma logicamente presupposto rispetto a quello di indizione della nuova procedura – con cui l’Amministrazione ha esercitato il potere di autotutela, eliminando gli atti che avevano dato avvio alla precedente gara.

Ovviamente, la sussistenza dell’interesse concreto ed attuale all’impugnazione degli atti di revoca di una procedura di gara non va dimostrato con la proposizione della domanda di partecipazione alla nuova procedura attivata (condotta che, in assenza di espressa riserva, potrebbe anche configurare un’ipotesi di acquiescenza), giacché gli atti di indizione della nuova procedura si collocano in un momento logico successivo rispetto a quello della revoca; e ciò che il ricorrente censura con l’azione processuale è proprio in radice la volontà di revocare la gara già attivata indicendone una nuova alla quale il medesimo non ha alcun interesse a partecipare.

Con riferimento ai primi tre motivi di ricorso va dunque affermata la sussistenza dell’interesse ad agire.

Per quanto riguarda invece il quarto motivo, si deve rilevare che viene censurata non già la decisione di revocare la vecchia gara per bandirne una nuova, ma la decisione di inserire particolari clausole nel nuovo bando, ritenute contrastanti con le norme contenute nel regolamento comunale. Tali censure quindi riguardano il bando di gara in quanto tale, e sono dunque finalizzate a introdurre correttivi alla procedura di nuova attivazione affinché questa sia resa conforme alle norme che ne governano lo svolgimento.

Ne discende che, per far valere tale doglianza, il ricorrente avrebbe dovuto dimostrare la sussistenza del suo interesse differenziato attraverso la proposizione della domanda di partecipazione alla gara; e che quindi, limitatamente al quarto motivo, va negata la sussistenza dell’interesse ad agire con conseguente inammissibilità della censura.

Affrontate le questioni preliminari, può ora passarsi all’esame del merito.

Come anticipato, con il primo e secondo motivo vengono censurate, rispettivamente, la mancata comunicazione dell’avviso di avvio del procedimento e la mancata adeguata esplicitazione delle motivazioni che hanno indotto l’Amministrazione a revocare la precedente procedura di gara.

Il Collegio non ignora che, in base ad un orientamento espresso in giurisprudenza, seguito anche dalla Sezione, la revoca delle procedure concorsuali non deve essere proceduta dalla comunicazione di avviso di avvio del procedimento, perlomeno fino a quando non sia adottato il provvedimento di aggiudicazione definitiva; giacché è solo in capo all’aggiudicatario che si radica una posizione di affidamento meritevole di tutela (cfr. TAR Lombardia Milano, sez. III, 5 maggio 2010 n. 1222).

Tuttavia va osservato che, nel caso in esame, prima della revoca della procedura di gara, è intervenuta una sentenza della Sezione che, accogliendo il gravame proposto dalla odierna ricorrente avverso gli atti del procedimento relativo alla vecchia procedura di gara, ha annullato il precedente bando nella parte in cui prevedeva un criterio di aggiudicazione penalizzante per Coop. O., in assenza del quale la medesima si sarebbe aggiudicata la gara.

Ritiene il Collegio che tale particolare situazione di fatto, realizzatasi nella fase antecedente all’intervenuta revoca, abbia fatto insorgere nella Coop. O. una posizione di particolare affidamento meritevole di tutela; e che quindi la decisione di porre nel nulla la procedura di gara già attivata avrebbe richiesto la comunicazione di avviso di avvio del procedimento, nonché una adeguata motivazione idonea a rendere palesi le ragioni sottese alla nuova scelta maturata..

Si deve ritenere, in altre parole, che la sussistenza di una sentenza favorevole per la ricorrente abbia collocato quest’ultima in una posizione diversa,degna di maggiore considerazione, rispetto a quella del mero partecipante alla gara; pertanto, l’Amministrazione intimata, pur essendo legittimata ad esercitare i propri poteri di autotutela che le consentivano di revocare la precedente procedura, avrebbe dovuto, innanzitutto, esercitare tali poteri attivando le garanzie procedimentali previste dalla legge sul procedimento amministrativo ed, in secondo luogo, dare adeguatamente conto delle ragioni che l’hanno indotta ad assumere una decisione più penalizzante per la ricorrente rispetto a quella che sarebbe scaturita dalla piana applicazione delle statuizioni contenute nella sentenza intervenuta fra le parti.

Nel caso concreto, l’Amministrazione ha revocato la precedente gara senza inviare la comunicazione di avviso di avvio del procedimento all’interessata; ed inoltre non ha assolutamente motivato la decisione della revoca, giacché né nel provvedimento di approvazione del nuovo bando gara, né nella deliberazione di Giunta Comunale n. 9/2010 sì è dato conto delle valutazioni effettuate per la comparazione degli interessi pubblici e privati sottesi alla vicenda in esame, e tantomeno delle ragioni che hanno fatto ritenere preferibile la scelta di indire una nuova gara sacrificando l’interesse del privato a vedersi aggiudicata quella già bandita.

I primi due motivi di ricorso sono quindi fondati.

Infondato è invece il terzo motivo in quanto, in base al combinato disposto degli artt. 107, commi 1 e 2, e 109, comma 2, del d.lgs. 18 agosto 2000 n. 267, la competenza ad approvare e, quindi a anche a revocare, i bandi di gara spetta al Responsabile del Servizio, e non già al Segretario Comunale cui l’art. 97 del medesimo decreto attribuisce compiti di collaborazione e funzioni di assistenza giuridicoamministrativa nei confronti degli organi dell’ente.

In conclusione, essendo fondati i primi due motivi, il ricorso va accolto.

Le spese seguono la soccombenza nella misura liquidata in dispositivo.
P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Terza) definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l’effetto annulla i provvedimenti impugnati.

Condanna il Comune di Viganò al pagamento delle spese e degli onorari di lite che liquida complessivamente in Euro 3.000,00 oltre IVA e CPA se dovuti, fermo l’onere di cui all’art. 13 D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo integrato dal comma 6 bis dell’art. 21 del decretolegge n. 223 del 2006, come modificato dalla legge di conversione n. 248 del 2006.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

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Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 15-02-2011) 03-05-2011, n. 17063

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. – C.D., per mezzo del suo difensore, ricorre avverso l’ordinanza del 15 ottobre emessa dal Tribunale di Venezia che ha respinto l’istanza di riesame e confermato la misura cautelare degli arresti domiciliari disposta dal G.i.p. in relazione al reato di cui all’art. 317 c.p., per avere, quale assessore comunale, chiesto e ottenuto la somma di Euro 15.000 (in contanti e in banconote di piccolo taglio) da M.G., un imprenditore, minacciando di revocargli un finanziamento già concesso.

Con il primo motivo il ricorrente contesta la sussistenza dei gravi indizi e rileva che il Tribunale non avrebbe preso in esame l’intera dichiarazione resa nell’interrogatorio del 2.10.2010, da cui risulta che all’imprenditore avrebbe solo richiesto la restituzione di quanto indebitamente trattenuto e cioè circa Euro 78.200,00 che il M. aveva ricevuto dal Comune e che non aveva impiegato per gli scopi per cui erano stati erogati, ossia l’organizzazione di un torneo calcistico.

Con il secondo motivo censura l’ordinanza per avere ritenuto sussistenti le esigenze cautelari, senza considerare l’avvenuta sospensione dell’intero consiglio comunale, situazione che avrebbe dovuto indurre il Tribunale a ritenere cessato il pericolo di reiterazione del reato.

2. – Il ricorso è inammissibile.

Con il primo motivo il ricorrente si limita a proporre una lettura alternativa degli elementi indiziali presi in considerazione dall’ordinanza impugnata, basando la sua difesa sulle dichiarazioni rese nell’interrogatorio del 2 ottobre 2010, che il Tribunale ha considerato come mere giustificazioni difensive, del tutto inidonee a mettere in crisi il solido quadro di elementi pronatori a suo carico, rappresentato dalle sue stesse ammissioni e dalle banconote trovate in suo possesso, peraltro tutte di piccolo taglio.

Per quanto concerne il secondo motivo il Tribunale ha fornito una motivazione adeguata in ordine alle ragioni per cui ritiene sussistenti le esigenze cautelari, facendo correttamente riferimento alla gravità del reato e all’inserimento dell’imputato nel mondo politico locale.

3. – Alla ritenuta inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della cassa delle ammende, che si ritiene equo determinare in Euro 1.000,00.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della cassa delle ammende.

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