Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 05-01-2012, n. 13 Cessione di credito

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con ricorso al giudice del lavoro di Roma la s.r.l. PIM – Pubblicità Italiana Multimedia – proponeva opposizione all’atto di precetto col quale era stato intimato alla suddetta società di pagare ad S.A.G. la somma di Euro 812.535,80 per vari titoli derivanti dalla sentenza del Tribunale di Milano in data 18 settembre 2007 con la quale era stata dichiarata, fra l’altro, l’illegittimità del licenziamento intimato al S. dalla società sopra indicata, sua datrice di lavoro. Eccepiva, in particolare, la società ricorrente il difetto di legittimazione del S. a procedere all’esecuzione atteso che quest’ultimo, come aveva ritualmente comunicato all’opponente, aveva ceduto ad altri il credito di cui al procedimento de quo fino alla concorrenza di Euro 354.300,00. Sotto altro profilo deduceva l’erroneità della quantificazione delle somme dovute a titolo di interessi legali e rivalutazione monetaria e chiedeva che, previa sospensione dell’efficacia del titolo esecutivo, il precetto fosse dichiarato nullo ed inefficace.

Costituitosi il contraddittorio, il giudice adito ordinava la sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo fatto valere in giudizio. Con sentenza in data 15 maggio 2009 dichiarava che il S. aveva diritto a procedere all’esecuzione forzata, nei confronti dell’opponente per la somma di Euro 408.072,20.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso la s.r.l. PIM – Pubblicità Italiana Multimedia affidato a due motivi illustrati da memoria. Il S. resiste con controricorso.

Motivi della decisione

Il presente ricorso per cassazione è ammissibile atteso che, trattandosi di sentenza depositata in data 15 marzo 2009, alla fattispecie si applica la disposizione di cui all’art. 616 cod. proc. civ. come modificato dalla L. 24 febbraio 2006, n. 52, art. 14. Tale norma è stata poi nuovamente modificata dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 49 ma tale modifica, entrata in vigore a decorrere dal 4 luglio 2009, che ha reintrodotto l’appellabilità delle pronunce di primo grado, non si applica, ratione temporis, al caso di specie (Cass. (ordin.) 30 aprile 2011 n. 9591; Cass. 21 gennaio 2011 n. 1402).

Col primo motivo di ricorso parte ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione della L. n. 218 del 1952, artt. 9 e 23 in relazione all’art. 1263 cod. civ. nonchè del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 23 e 64 sempre in relazione all’art. 1263 cod. civ.. Deduce che la sentenza impugnata, pur avendo parzialmente accolto l’opposizione proposta dalla PIM in relazione agli effetti prodotti dalla cessione del credito, da parte del S., fino alla concorrenza di Euro 354.300,00 è viziata nella parte in cui ha affermato che il residuo credito azionabile ammonta alla somma complessiva di Euro 408.072,20;

tale somma è stata infatti ottenuta detraendo dall’importo lordo dovuto in virtù della sentenza del Tribunale di Milano, comprensivo di interessi legali e rivalutazione monetaria al 7 gennaio 2009, l’importo oggetto di cessione (pure maggiorato di interessi legali e rivalutazione monetaria al 7 gennaio 2009) anch’esso erroneamente considerato importo lordo laddove trattavasi di importo necessariamente netto (e cioè al netto delle ritenute e contributive). Ciò in quanto: a) esiste un obbligo legale inderogabile per il datore di lavoro – sostituto di imposta – di effettuare le ritenute fiscali sulle somme erogate al dirigente e tale obbligo deve essere necessariamente assolto nel rapporto azienda lavoratore senza alcuna rilevanza delle posizioni dei terzi; b) il dirigente aveva nella sua disponibilità solo somme nette e solo queste poteva aver legittimamente ceduto.

Il motivo è infondato. Deve infatti ritenersi corretta, in quanto conforme al disposto di cui all’art. 1263 cod. civ., l’affermazione del giudice del merito secondo cui il credito oggetto della cessione viene trasferito al cessionario con gli stessi caratteri, garanzie ed eccezioni che aveva al momento del trasferimento e quindi non muta la sua natura di credito di lavoro, al quale devono ritenersi applicabili tutti gli istituti legali e contrattuali e i criteri di accertamento e quantificazione valevoli per i crediti aventi la medesima natura.

Ed infatti, secondo quanto precisato da questa Corte di legittimità (Cass. 15 settembre 1999 n. 9823), in tema di cessione del credito, la previsione dell’art. 1263 cod. civ., comma 1 in base alla quale il credito è trasferito al cessionario, oltre che con i privilegi e le garanzie reali e personali, anche con gli "altri accessori", deve essere intesa nel senso che nell’oggetto della cessione rientri ogni situazione giuridica direttamente collegata con il diritto ceduto, la quale, in quanto priva di profili di autonomia, integri il suo contenuto economico o ne specifichi la funzione, ivi compresi tutti i poteri del creditore relativi alla determinazione, variazione e modalità della prestazione. Nello stesso senso cfr., altresì, Cass. 17 gennaio 2001 n. 575 secondo la quale, a seguito della cessione del credito, il debitore ceduto diviene obbligato verso il cessionario allo stesso modo in cui era tale nei confronti del suo creditore originario.

Orbene, secondo la costante giurisprudenza di legittimità (cfr., ad esempio, Cass. 1 luglio 2000 n. 8842) l’accertamento e la liquidazione in giudizio dei crediti pecuniari del lavoratore vanno effettuati al lordo delle ritenute fiscali e contributive, in quanto le prime attengono al distinto rapporto di imposta e vanno eseguite in un momento successivo ed anche le seconde non possono essere considerate nell’ambito del giudizio di cognizione, poichè il datore di lavoro può provvedervi in relazione alla sola retribuzione corrisposta alla scadenza. In senso conforme cfr. Cass. 26 luglio 1996 n. 6758.

La sentenza impugnata, nel calcolare il residuo credito azionabile dal S. (dopo la cessione di una parte di esso a favore di un soggetto terzo) ha correttamente considerato, in applicazione dei suddetti principi, l’importo oggetto della cessione come lordo e come tale lo ha sottratto all’importo lordo dovuto in virtù della sentenza del Tribunale di Milano in data 18 settembre 2007 (data di lettura del dispositivo). Tale criterio, che è corretto anche dal punto di vista logico in quanto opera la sottrazione fra importi di natura omogenea, non determina alcuna violazione delle norme invocate da parte ricorrente, in quanto esso attiene soltanto al criterio di determinazione delle somme dovute al lavoratore all’esito dell’avvenuta cessione parziale del credito, laddove le ritenute fiscali e previdenziali vengono effettuate solo al momento dell’effettivo pagamento delle stesse.

Quanto all’ulteriore argomento basato sull’interpretazione, da parte del Tribunale, dell’atto di cessione del credito, esso è inammissibile per vizio di autosufficienza non avendo parte ricorrente riprodotto nel motivo di ricorso il testo dell’atto stesso (cfr., ad esempio, Cass. 22 febbraio 2007 n. 4178; Cass. 6 febbraio 2007 n. 2560).

Col secondo motivo di ricorso la società denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 474 cod. proc. civ.. Deduce che la sentenza impugnata ha omesso di tener conto de fatto che il precetto azionato contiene somme al lordo delle ritenute previdenziali, laddove il titolo esecutivo deve essere azionato al netto di tali ritenute. Il motivo si conclude col seguente quesito di diritto: se costituisca violazione e/o falsa applicazione dell’art. 474 c.p.c. l’aver azionato un titolo esecutivo contenente somme al lordo delle ritenute previdenziali e fiscali quando grava sul lavoratore l’obbligo di dedurre tali ritenute dagli importi che questi ponga in esecuzione senza attendere che il datore di lavoro vi ottemperi.

Il motivo è inammissibile.

Premesso che la sentenza impugnata è soggetta, ratione temporis, alla disciplina dell’art. 366 bis cod. proc. civ., introdotto dal D.Lgs. n. 40 del 2006, l’illustrazione delle censure, concernenti la violazione e falsa applicazione di norme di diritto si conclude con la formulazione di un quesito di diritto che non è rispettoso della prescrizione dettata dal citato art. 366 bis.

Al riguardo è stato anche recentemente precisato (cfr. Cass. 14 gennaio 2011 n. 774; Cass., S.U. 25 novembre 2008 n. 28054; Cass. S.U, 9 luglio 2008 n. 18759) che il quesito di diritto, previsto dall’art. 366-bis cod. proc. civ. risulta ritualmente formulato quando, pur non essendo esposto in forma interrogativa, consenta di far comprendere dalla sua sola lettura quale sia l’errore di diritto assentamene compiuto dal giudice di merito e quale, secondo la prospettazione del ricorrente, la regola da applicare.

Nel caso di specie, la parte ricorrente non ha adempiuto alla prescrizione imposta dal citato art. 366 bis; ed infatti il quesito, formulato nei termini sopra riportati, non appare riconducibile nello schema previsto dalla legge atteso che la sua formulazione non indica in modo chiaro l’errore di diritto imputato alla sentenza impugnata in relazione alla concreta controversia.

Il ricorso deve essere in definitiva rigettato.

In applicazione del criterio della soccombenza la società ricorrente deve essere condannata al pagamento delle spese processuali liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento delle spese processuali liquidate in Euro 100,00. oltre Euro 6000 (seimila) per onorari e oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 12 ottobre 2011.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 28-06-2011) 29-09-2011, n. 35386

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Svolgimento del processo

– Che con l’impugnata ordinanza il tribunale di Napoli, in funzione di giudice dell’esecuzione, rilevato che era divenuta irrevocabile la condanna di T.S. alla pena di anni dieci di reclusione per il reato di cui all’art. 416 bis c.p., da ritenersi commesso fino alla data del 14 febbraio 2007, dispose la revoca dell’indulto di cui il T. aveva fruito, ai sensi della L. n. 241 del 2006, sulla residua pena di anni due e mesi due di arresto che avrebbe dovuto espiare in forza di precedenti condanne;

– che avverso detta ordinanza ha proposto ricorso per cassazione la difesa del T., denunciando violazione di legge e vizio di motivazione, sull’assunto, in sintesi e nell’essenziale, che, essendo stato dimostrato, dalla difesa, nel corso della discussione, che esso ricorrente aveva, prima dell’entrata in vigore della legge di concessione dell’indulto, manifestato, con l’invio di diverse missive al tribunale, la propria intenzione di recidere i suoi legami con il sodalizio mafioso, non si sarebbe potuto ritenere che la permanenza del reato si fosse protratta fino alla data indicata nell’impugnata ordinanza, coincidente con quella nella quale era stata esercitata l’azione penale.

Motivi della decisione

– Che il ricorso non appare meritevole di accoglimento e rasenta, anzi, l’inammissibilità per manifesta infondatezza in quanto, non contestandosi neppure in esso che il capo d’imputazione contenente l’indicazione del reato di cui il ricorrente è stato ritenuto responsabile fosse formulato in termini tali (come avviene, in particolare, quando si tratti di contestazione cd. "aperta") da dover far coincidere la cessazione della permanenza con la data di esercizio dell’azione penale (se non addirittura, come più volte ritenuto dalla giurisprudenza, con quella della pronuncia della condanna di primo grado), non si vede come, in sede esecutiva e sulla sola base, per giunta, della produzione di lettere al tribunale in cui si manifestava la semplice "intenzione" di recidere i legami con la criminalità organizzata, potesse darsi per acquisito che la permanenza del reato fosse cessata prima della data ricavabile dalla sentenza passata in giudicato.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. V, Sent., 21-03-2012, n. 4521

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Svolgimento del processo

Sun Bet s.r.l. opera nel settore della raccolta della scommesse ippiche, sportive e non sportive, in virtù di apposite concessioni rilasciate dall’Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato.

In data 31.1.2003, in relazione alle somme non versate nel 2001 a titolo d’imposta unica sui concorsi pronostici e sulle scommesse di cui al D.Lgs. n. 504 del 1998, la società, presentando la correlativa dichiarazione ed effettuando i conseguenti versamenti, si avvalse della definizione agevolata prevista dalla L. n. 289 del 2002, art. 8, comma 2.

Peraltro – a seguito dell’abrogazione della L. n. 289 del 2002, art. 8, comma 2 e della definizione agevolata ivi prevista, operata dal D.L. n. 282 del 2002, art. 5 ter (inserito dalla Legge di Conversione 21 febbraio 2003, n. 27) a partire dal 30.6.2004, la società provvide al versamento di ulteriori importi a titolo di imposta unica, sulla base della previsione del D.L. n. 147 del 2003, art. 8, comma 5, convertito in L. n. 200 del 2003 (nonchè al decreto del direttore generale dell’Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato del 10 ottobre 2003, pubblicato in Gazzetta Ufficiale al n. 245 del 21 ottobre 2003 e successive modificazioni e integrazioni).

Assumendo di essersi determinata alla (nuova) definizione agevolata di cui alla legge richiamata, soltanto per non incorrere nell’immediata decadenza dalla concessione sancita dalla disposizione per l’ipotesi di mancata adesione, il 31.5.2006, la società presentò istanza di rimborso delle somme di cui ai versamenti effettuati a partire dal 30.6.2004, versamenti che riteneva non dovuti, per aver già definito la propria posizione debitoria con l’adesione, del gennaio 2003, alla definizione agevolata prevista dalla L. n. 289 del 2002, art. 8, comma 2.

L’Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato rigettò la domanda di rimborso ritenendola tardiva D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 21, comma 2, ed i ricorsi proposti dalla società contribuente avverso il provvedimento reiettivo fu accolta dall’adita commissione provinciale.

In esito al gravame dell’Amministrazione, la decisione del primo giudice fu, tuttavia, riformata dalla commissione regionale. I giudici di appello – pur disattesa l’eccezione dell’Agenzia d’inammissibilità della domanda restitutoria, in quanto tardiva – ritenne la pretesa della società contribuente infondata nel merito.

Avverso la decisione di appello, la società contribuente ha proposto ricorso per cassazione in tre motivi.

L’Agenzia ha resistito con controricorso e proposto ricorso incidentale condizionato in due motivi.

Motivi della decisione

Con il primo motivo di ricorso, la società contribuente deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, artt. 2, 3 e 10 ("Statuto del contribuente"), censurando la decisione impugnata per aver attribuito alla previsione del D.L. n. 282 del 2002, art. 5 ter (inserito dalla Legge di Conversione 21 febbraio 2003, n. 27) efficacia retroattiva, in merito all’abrogazione della L. n. 289 del 2002, art. 8, comma 2, in violazione dell’evocate norme dello "Statuto".

Con il secondo motivo di ricorso, la società contribuente deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 400 del 1988, art. 15, per aver esso attribuito efficacia retroattiva alle modifiche apportate al decreto legge in sede di conversione, in violazione della disposizione evocata.

Con il terzo motivo di ricorso, la società contribuente deduce contraddittorietà della motivazione, per essere la decisione basata sull’errato presupposto di fatto per cui la dichiarazione integrativa L. n. 289 del 2002, ex art. 8, comma 2, sarebbe avvenuta successivamente all’entrata in vigore della disposizione abrogatrice ( D.L. n. 282 del 2002, art. 5 ter, come inserito dalla Legge di Conversione 21 febbraio 2003, n. 27).

Le doglianze sono infondate.

Il D.L. n. 282 del 2002, art. 5 ter, inserito dalla Legge di Conversione 21 febbraio 2003, n. 27, ha abrogato la L. n. 289 del 2002, art. 8, comma 2, e la definizione agevolata ivi prevista, "… con effetto dal 1 gennaio 2003" (e, dunque, sin dalla data di relativa entrata in vigore) ed ha, altresì, stabilito che "i versamenti effettuati sulla base della disposizione suddetta prima della data di entrata in vigore della" norma abrogativa "sono restituiti ai contribuenti dall’Amministrazione finanziaria ovvero dalla stessa trattenuti, anche in acconto, se i relativi importi sono dovuti ad altro titolo".

Cancellando ab origine gli effetti della norma previgente, il D.L. n. 282 del 2002, art. 5 ter, convertito in L. n. 27 del 3003, presenta evidente carattere retroattivo, ma ciò non ne comporta l’illegittimità.

Benchè inserita in sede di conversione, la norma non viola la previsione di cui alla L. n. 400 del 1988, art. 15, comma 5 – ai sensi della quale "le modifiche eventualmente apportate al decreto- legge in sede di conversione hanno efficacia dal giorno successivo a quello della pubblicazione della legge di conversione, salvo che quest’ultima non disponga diversamente" dovendosi rispetto ad essa riscontrare la ricorrenza delle condizioni della "salvezza" di cui all’ultima parte della disposizione.

Peraltro – pur costituendo principio generale dell’ordinamento (cfr. art. 11 preleggi) e fondamentale valore di civiltà giuridica l’irretroattività della legge, se si esclude il campo penale (cfr. l’art. 25 Cost.), non è valore costituzionalmente garantito, con la conseguenza che, in linea di principio, nulla vieta al legislatore ordinario di adottare norme che dispongano anche per il passato.

Il criterio è pienamente operante anche nell’ambito dell’ordinamento tributario.

Infatti (non diversamente dalle altre norme del medesimo testo normativo, pure emanate in attuazione degli artt. 3, 23, 53 e 97 Cost., ed espressamente qualificate principi generali dell’ordinamento tributario), la previsione della L. n. 212 del 2000, art. 3 (c.d. "Statuto del contribuente") – che specificamente sancisce la regola dell’irretroattività della disposizioni tributarie – non presenta, nella gerarchia delle fonti, rango superiore a quello della legge ordinaria (tant’è che ne è ammessa la modifica o la deroga, purchè espressa e non ad opera di leggi speciali: art. 1) e non può, quindi, fungere da norma parametro di costituzionalità (cfr. Corte cost., ord. 180/07), nè comportare la disapplicazione di norma tributaria solo perchè con essa contrastante (cfr. Cass. 8145/11, 8254/09).

D’altro canto, l’esplicita regolamentazione dei rapporti instaurati in base alla legge retroattivamente abrogata (con la previsione dell’obbligo di restituzione ai contribuenti degli importi da loro all’uopo versati ovvero della relativa utilizzazione al fine dell’estinzione di eventuali altri loro debiti) rende la disposizione retroattivamente abrogatrice in linea con il parametro della ragionevolezza e con quello di cui all’art. 53 Cost..

Da quanto esposto s’inferisce che, all’atto dell’adesione alle prescrizioni del D.L. n. 147 del 2003, art. 8, comma 5, convertito in L. n. 200 del 2003, la posizione debitoria della società contribuente in merito all’imposta unica sui concorsi pronostici e sulle scommesse, di cui al D.Lgs. n. 504 del 1998, non era definita in virtù dell’adesione alla definizione agevolata di cui alla L. n. 289 del 2002, art. 8, comma 2, per effetto dell’intervenuta abrogazione retroattiva della predetta disposizione e conseguente caducazione della definizione agevolata dalla stessa prevista; con la conseguenza che la pretesa restitutoria di quanto versato ai fini della definizione di cui al successivo D.L. n. 147 del 2003, art. 8, comma 5, convertito in L. n. 200 del 2003, sostenuta dalla società contribuente in funzione della pregressa definizione di ogni sua posizione debitoria, si rivela infondata.

Alla stregua delle considerazioni che precedono – ed atteso che il terzo motivo del ricorso della società contribuente resta assorbito dalle considerazioni che precedono, che intervengono a correggere la motivazione della decisione impugnata ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 4 – s’impone il rigetto del ricorso principale proposto dalla società contribuente. Il rigetto del ricorso principale esime dall’esame del ricorso incidentale, in quanto proposto dall’Agenzia in via condizionata.

Per la soccombenza, la società contribuente va condannata alla refusione delle spese di causa, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte; rigetta il ricorso principale e dichiara assorbito quello incidentale; condanna la società contribuente alla refusione delle spese di causa, liquidate in complessivi Euro 3.500,00, oltre spese prenotate a debito.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 27-04-2012, n. 6565 Cassa integrazione guadagni

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1.- Con ricorso al Giudice del lavoro di Torino, B.P. conveniva in giudizio il datore di lavoro FIAT Auto spa e, assumendo illegittima la sua collocazione in cassa integrazione guadagni straordinaria (CIGS) per il periodo 17.04-31.10.03, ne chiedeva la condanna al pagamento della differenza tra quanto percepito a titolo di integrazione e quanto spettante a titolo di retribuzione.

2.- Accolta la domanda e proposto appello da Fiat Group Automobiles s.p.a. (succeduta a Fiat Auto s.p.a.) la Corte d’appello di Torino con sentenza in data 5.07.10 rigettava l’impugnazione.

La sentenza di merito riteneva che FIAT, fin dall’inizio della procedura (attivata con la comunicazione 31.10.02 alle r.s.u.), avesse l’obbligo di indicare per iscritto i criteri di scelta e le ragioni dell’eventuale mancata previsione della rotazione tra i dipendenti, ai sensi della L. 23 luglio 1991, n. 223, art. 1, comma 7, e che tale disciplina non era stata modificata dal D.P.R. 10 giugno 2000, n. 218, art. 2, comma 5, recante norme per la semplificazione del procedimento per la concessione del trattamento di cassa integrazione guadagni straordinaria e di integrazione salariale.

Nella specie i criteri indicati nella comunicazione di avvio della procedura erano generici, in quanto non consentivano di verificare la coerenza tra il criterio indicato e la selezione dei lavoratori da sospendere, il che rendeva illegittima la sospensione in CIGS dei dipendenti. Inoltre, l’accordo intervenuto tra datore e Oo.ss. in data 18.3.03, a conclusione della procedura di consultazione (e ribadito da altro successivo del 22.7.03), non assumeva efficacia sanante delle omissioni, in quanto il vizio originario della comunicazione si ripercuoteva sull’intera procedura.

3.- Avverso questa sentenza FIAT Group Automobiles s.p.a. propone ricorso per cassazione illustrato con memoria. Si difende con controricorso la lavoratrice.

4.- I motivi di ricorso di Fiat Group Automobiles possono riassumersi come segue.

4.1.- La società ricorrente, prima di ogni altra censura, contesta la sentenza di merito per non aver preso in esame un motivo di appello contro il rigetto dell’eccezione di improponibilità della domanda per intervenuta conciliazione sindacale del 9.10.03, con cui il lavoratore aveva rinunziato alle pretese derivanti dal rapporto di lavoro. Nel merito la ricorrente sottolinea che la conciliazione era conseguenza degli accordi sindacali del 18.3.03 (relativo alla collocazione in CIGS) e 30.7.03 (relativo alla procedura di mobilità conseguente alla situazione di crisi, che è cosa diversa dal cd. accordo Panda del 22.7.03), conclusi all’esito della valutazione della situazione di crisi del settore ed esplicitamente menzionati nell’atto di conciliazione. In particolare, con il secondo accordo era stata avviata una procedura di mobilità e si concordava di individuare i lavoratori cui proporre il licenziamento incentivato secondo il criterio della maturazione del trattamento di quiescenza entro il periodo di mobilità. Il giudice avrebbe dovuto tener conto che l’adesione a tale accordo da parte del lavoratore, garantita dall’assistenza sindacale prevista dall’art. 411 c.p.c., costituiva una complessiva rinunzia ad ogni ulteriore pretesa anche in punto di CIGS. 4.2.- La questione fondamentale posta a base del ricorso è se il giudice abbia correttamente applicato la L. n. 223 del 1991, art. 1, commi 7 e 8, o se la norma in questione debba ritenersi abrogata per l’intervento del D.P.R. n. 218 del 2000. Fiat sostiene che tale decreto, emanato in forza della L. 15 marzo 1997, n. 59, art. 20, avrebbe delegificato il procedimento amministrativo di autorizzazione e concessione della cigs e, quindi, tutti i suoi momenti od atti coordinati e collegati in serie (frase preparatoria, introduttiva, di istruzione e di decisione), con abrogazione implicita di tutte le disposizioni già vigenti.

4.3.- Ne deriverebbe che le modalità di rotazione e l’indicazione delle ragioni che eventualmente l’escludono, potrebbero essere indicate non solo con la comunicazione di apertura della procedura inviata alle Oo.Ss., ma anche all’esito dell’esame congiunto tra imprenditore ed Oo.ss. sulla crisi aziendale e le conseguenti esigenze di organizzazione della produzione.

4.4.- Nel caso di specie, le parti sindacali avevano raggiunto un accordo circa le modalità della rotazione il 18.3.03, all’esito dell’esame congiunto, dopo che Fiat nel dicembre 2002 aveva aderito al più generale accordo di programma, il cui perfezionamento costituiva la base per l’assunzione di impegni amministrativi da parte del Governo a supporto del superamento della più generale crisi aziendale. Avrebbe dunque errato il giudice di merito a ritenere preminente il presupposto formale della comunicazione e consultazione rispetto al contenuto dell’accordo raggiunto con le Oo.ss. il 18.3.03, che assumeva invece valore sanante; ne sarebbe, infatti, rimasta esclusa la possibilità per le parti stipulanti di elaborare in corso di trattativa diversi criteri di gestione della crisi.

4.5.- Conseguenza di tale erronea preminenza assegnata al dato formale, sarebbe stata la disapplicazione del verbale di esame congiunto del Ministero del Lavoro del 5.12.02 (avente natura di atto pubblico a contenuto certificativo, costituente prova della procedura di consultazione svolta con la mediazione governativa.

4.6.- La comunicazione 31.10.02 di avvio della procedura di cigs, che fissava il criterio di scelta nelle esigente tecniche, organizzative e produttive, in relazione alle esigente professionali e funzionali, era comunque idonea allo scopo di esternare le intenzioni del datore di lavoro in ordine alle ricadute del programma di superamento della crisi aziendale in relazione alla situazione dei singoli lavoratori, pur residuando la possibilità di procedere a specificazione in sede di esame congiunto, all’esito dell’acquisizione da parte delle oo.ss. di una completa informazione.

In ogni caso, avrebbe dovuto valutarsi in concreto la posizione soggettiva del dipendente, in quanto, ove pure per ragioni formali fosse dichiarata illegittima tutta la procedura, pur tuttavia avrebbe dovuto valutarsi se la risoluzione di collocare i lavoratori in cigs fosse coerente con i criteri di scelta concretamente indicati ab initio nella comunicazione di avvio della procedura sindacale.

6.- Preliminarmente deve rigettarsi la richiesta, avanzata dal controricorrente, di dichiarare inammissibile il ricorso principale per l’intervenuta definizione del procedimento per comportamento antisindacale, promosso dalle Oo.ss. nei confronti di Fiat, per violazione degli oneri di informazione nell’ambito della procedura collettiva che ha condotto all’applicazione della cigs di cui ora si discute.

La difesa di parte controricorrente ha prodotto le sentenze di questa Corte 9.6.09 n. 13240 e 1.7.09 n. 15393 – che rigettano il ricorso per cassazione di Fiat avverso la sentenza di appello che riteneva sussistente il comportamento antisindacale e dichiarava l’illegittimità dei provvedimenti di sospensione in cigs adottati a seguito della procedura avviata con la comunicazione del 31.10.02 – e deduce l’esistenza di un giudicato esterno di cui chiede l’affermazione anche tra le parti.

Il giudicato è, tuttavia, insussistente in quanto le pronunzie invocate dal controricorrente non possono spiegare la stessa autorità in un diverso giudizio, dato che il giudicato sostanziale opera soltanto entro i rigorosi limiti degli elementi costitutivi dell’azione e presuppone – a differenza di quanto qui riscontrabile – che tra la precedente causa e quella in atto vi sia identità di parti, oltre che di petitum e di causa petendi (giurisprudenza consolidata, v. per tutte Cass. 27.01.06 n. 1760).

1.- Quanto al mancato esame del motivo di appello in punto di conciliazione della controversia, debbono ritenersi infondati il primo, con cui è dedotta violazione dell’art. 411 c.p.c., comma 3, e degli artt. 1965 e 2113 c.c., e il secondo motivo con cui è dedotta omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (v. n. 4.1).

L’attenzione deve focalizzarsi sul motivo di vizio di motivazione, dato che manca un accertamento in linea di fatto da parte del giudice di merito riguardo alla questione ora in esame. Deve rilevarsi allora che le circostanze di fatto esposte non evidenziano elementi idonei a dimostrare una rinuncia estesa a diritti relativi alla fase di cassa integrazione. In particolare al riguardo deve richiamarsi il seguente passo, trascritto nel ricorso, dell’accordo sottoscritto dal lavoratore: "rinuncia comunque ad ogni ulteriore pretesa, domanda ed azione, dedotta e deducibile che nel suddetto licenziamento e conseguente cessazione del rapporto con Fiat Auto S.p.a. e collocazione in mobilità possa trovare origine e/o fondamento a qualsiasi tiolo legale, contrattuale e risarcitorio".

Le conseguenze che parte ricorrente intende far conseguire a questa statuizione negoziale – ovvero che la conciliazione contenente la rinuncia, in cambio di una somma di denaro, all’impugnativa del licenziamento conseguente ad una procedura di mobilità, conclusasi con accordo sindacale (richiamato nel verbale di conciliazione), comporti la preclusione anche di ogni azione del lavoratore diretta al riconoscimento di diritti connessi al pregresso rapporto di lavoro – sono in contrasto innanzitutto con i principi enunciati da questa Corte in materia di rinunce e transazioni aventi ad oggetto diritti del prestatore di lavoro, secondo cui a fronte di formule di rinuncia genetiche ed omnicomprensive occorre accertare se vi siano state la consapevolezza da parte del lavoratore della possibile esistenza di determinati diritti e la effettiva volontà di rinunciarvi. La stessa tesi collide anche con l’effettivo contenuto letterale della dichiarazione. Quest’ultima, secondo quanto riportato nello stesso ricorso, ha fatto riferimento a pretese, domande o azioni che "nel suddetto licenziamento e conseguente definitiva cessazione del rapporto di lavoro con FIAT AUTO s.p.a. e collocazione in mobilità" potessero "trovare origine e/o fondamento", e pertanto ha delimitato chiaramente il possibile ambito delle rinunce alle pretese inerenti alla fase del licenziamento, della cessazione del rapporto e del collocamento in mobilità, rimanendovi quindi estranei i diritti relativi alla fase anteriore della sospensione per collocamento in cassa integrazione.

Questi rilievi sono assorbenti anche con riferimento al motivo di vizio di motivazione, che non evidenzia alcuna illogicità o insufficienza di motivazione della statuizione sul punto del giudice di appello. In particolare, la circostanza storica della utilizzazione per la cassa integrazione di un criterio di scelta, quale il possesso da parte del lavoratore di una condizione contributiva e di età idonea a facilitare il suo pensionamento, analogo a quello poi utilizzato per il collocamento dei lavoratori in mobilità, non consente un’interpretazione così estensiva della dichiarazione di rinuncia da attrarvi diritti relativi alla fase di cassa integrazione a cui in alcun modo viene fatto riferimento o allusione.

I due precedenti di questa Corte richiamati al riguardo nel ricorso (Cass. n. 6391/1992 e 16283/2004) sono qui inconferenti, in quanto in un caso il lavoratore, diversamente che nella specie, aveva dichiarato di rinunciare (anche) a ogni (altro) diritto derivante dal pregresso rapporto di lavoro e, nell’altro, aveva dato atto di aver ricevuto una somma a totale soddisfacimento delle sue spettanze e di non aver altro a pretendere (e la Cassazione aveva ribadito quindi l’esigenza di uno specifico accertamento circa l’effettiva configurabilità dei presupposti oggettivi e soggettivi della riferibilità della rinuncia o transazione al diritto oggetto del giudizio).

8.- Per quanto riguarda la questione principale (v. 5.2-5.3) deve osservarsi che la L. 23 luglio 1991, n. 223 – che introduce una visione organica della cigs, ricollegandone la fruizione a particolari requisiti soggettivi dell’impresa e all’esistenza di uno stato di crisi aziendale, nonchè alla proposizione da parte dell’imprenditore di precisi programmi, limitati nel tempo – prevede che dopo l’accertamento dello stato di crisi e l’approvazione dei programmi e per tutta la loro durata, all’esito di una articolata procedura, il Ministero del Lavoro con decreto conceda il trattamento straordinario di integrazione salariale (artt. 1 e 2).

Il datore di lavoro deve scegliere i lavoratori da collocare in cigs adottando meccanismi di rotazione tra i dipendenti che svolgono le stesse mansioni e sono occupati nell’unità produttiva interessata, I "criteri di individuazione dei lavoratori" e "le modalità della rotazione" sono oggetto di consultazione sindacale, in forza del dettato normativo, che impone la loro comunicazione alle Oo.ss. e l’esame congiunto di cui alla L. 20 maggio 1975, n. 164, art. 5.

Qualora il datore, per ragioni di carattere tecnico-organizzativo, non intenda attuare meccanismi di rotazione dovrà indicarne i motivi nel programma di ristrutturazione (L. n. 223, art. 1, commi 7 e 8).

Il Ministro del lavoro, pur approvando il programma e concedendo la cassa integrazione, può ritenere non giustificata la non adozione della rotazione e promuovere un incontro tra le parti. Ove non si pervenga ad un accordo entro tre mesi dalla data della concessione del trattamento di integrazione il Ministro stesso stabilisce l’adozione di meccanismi di rotazione sulla base delle proposte formulate dalle parti (comma 8, secondo periodo).

9.- Su tale assetto intervenne il D.P.R. 10 giugno 2000, n. 218, emanato per delega conferita dalla L. Semplificazione Amministrativa 15 marzo 1997, n. 59, art. 20, che inserì il procedimento per la concessione della CIGS – come regolato L. n. 223 del 1991 – tra quelli sottoposti a delegificazione mediante regolamento emesso ai sensi della L. 23 agosto 1988, n. 400, art. 17, comma 2, (art. 20, comma 8, in relazione al n. 90 dell’allegato 1 alla legge stessa).

10.- I rapporti tra le due fonti sono stati definiti dalla giurisprudenza di questa Corte nel senso che la disciplina del D.P.R. 218 non abroga la L. n. 223 del 1991 e lascia, quindi, intatti gli oneri di comunicazione fissati dall’art. 1 di quest’ultima. Il D.P.R. n. 218 non incide, infatti, sulle disposizioni del combinato disposto della L. n. 164 del 1975, art. 5 e della L. n. 223 del 1991, art. 1, comma 7, -riguardanti l’obbligo datoriale di comunicare in avvio della procedura per l’integrazione salariale alle organizzazioni sindacali i criteri di individuazione dei lavoratori da sospendere nonchè le modalità di rotazione poste da tali disposizioni in capo dell’imprenditore – atteso che la disciplina da esso fissata attiene unicamente alla fase propriamente amministrativa del procedimento di concessione della integrazione salariale (Cass. 28.11.08 n. 28464).

Può, dunque, affermarsi con questa impostazione (poi ripresa da numerose altre sentenze, tra le quali v. Cass. 31.1.11 n. 2155, n. 2156, n. 2157, Cass. 21.2.11 n. 4151 e 4152) che per la scelta dei lavoratori da porre in cassa integrazione, la L. n. 223 del 1991, art. 1, comma 7, prescrive che il datore di lavoro comunichi alle Oo.Ss. i criteri di scelta dei lavoratori da sospendere, in relazione a quanto previsto dalla L. n. 164 del 1975, art. 5. Tale disposizione tutela, nella gestione della cassa integrazione, i diritti dei singoli lavoratori e le prerogative delle Oo.Ss., anche dopo l’entrata in vigore della disciplina del D.P.R. 10 giugno 2000, n. 218, la quale non abroga o modifica le suddette disposizioni ma è volta unicamente a diversamente regolamentare il procedimento amministrativo, di rilevanza pubblica, di concessione di integrazione salariale.

Ad analoga conclusione questa Corte è pervenuta per quel che riguarda gli obblighi di rilevanza collettiva del datore (L. n. 223, art. 1, commi 7 e 8), precisando che la detta normativa regolamentare non ha spostato l’informazione sui criteri di scelta e sulle modalità della rotazione dal momento iniziale della comunicazione di avvio a quello immediatamente successivo dell’esame congiunto, in quanto, altrimenti, il contenuto della norma di cui al D.P.R. n. 218 cit., art. 2 sarebbe estraneo all’esigenza di semplificazione del procedimento amministrativo e avrebbe come conseguenza solo l’alleggerimento degli oneri della parte datoriale con compressione dei diritti di informazione spettanti al sindacato, dando luogo ad un sistema di consultazione sindacale palesemente inadeguato (Cass. 9.6.09 n. 13240 e 1.7.09 n. 15393, entrambe emanate a conclusione del procedimento per condotta antisindacale promosso dalle Oo.ss. nei confronti di Fiat con riferimento alla procedura di cigs ora in esame avviata con la comunicazione del 31.10.02).

11.- Sulla base di queste considerazioni, all’esito dell’esame delle questioni sub 5.1 e 5.2, può ritenersi corretto l’assunto del giudice di merito che – pur dopo l’entrata in vigore del D.P.R. n. 218 del 2000 – la comunicazione che il datore, ai sensi della L. n. 164 del 1975, art. 5, è tenuto a dare alle rappresentanze sindacali aziendali debba contenere l’indicazione dei criteri di individuazione dei lavoratori da sospendere e le modalità della rotazione, i quali solo successivamente dovranno costituire oggetto del successivo esame congiunto.

12.- Consegue l’irrilevanza della questione attinente il rilievo assegnato alla documentazione di provenienza ministeriale. Ove si ritenga che criteri di individuazione e modalità di rotazione debbono essere indicate ab initio nella comunicazione di avvio, è superfluo esaminare la tesi che assegna valore asseverativo ad un documento che attesta che quell’indicazione è avvenuta solo in un momento successivo, e cioè in sede di esame congiunto.

13.- Neppure può sostenersi che l’accordo 18.3.03.7.03 avrebbe sanato ogni eventuale vizio della procedura attivata con la lettera 31.10.02.

In proposito va precisato che la giurisprudenza richiamata dalla ricorrente (Cass. 2.8.04 n. 14721, 21.8.03 n. 12307 ed altre) parte dal presupposto che l’accordo sia di per sè esaustivo delle esigenze conoscitive e di esternazione imposte dal combinato normativo della L. n. 164, art. 5 e della L. n. 223, art. 1, commi 7 e 8, in quanto in tal caso sarebbe solo inutile formalismo imporre al datore di comunicare alle Oo.ss. quei criteri di selezione che proprio con esse ha elaborato (Cass. 3.5.04 n. 8353).

Nel caso di specie, tuttavia, l’accordo – intervenuto a procedura già iniziata e quando molte centinaia di lavoratori erano già stati posti in cassa integrazione – si limita a formulare un generale sistema di rotazione a partire dall’aprile 2003, senza indicare il procedimento di individuazione dei soggetti interessati, il che esclude quel carattere esaustivo sopra rilevato.

Inoltre, per il fatto di essere intervenute a procedura già iniziata, le modalità concordate in sede di accordo non possono soddisfare all’essenziale esigenza cui la preventiva comunicazione è preposta, e cioè quella di consentire (non solo alle Oo.ss. di confrontarsi sul punto, ma anche) ai lavoratori coinvolti nella procedura – tanto prima che dopo il raggiungimento dell’accordo – di verificare se l’utilizzo della cassa integrazione da parte del datore di lavoro sia coerente al programma di superamento della crisi adottato e, quindi, di consentire la tutela della loro posizione individuale, nella sostanza controllando il potere del datore di collocarli in cassa integrazione (v. anche Cass. 10.5.10 n. 11254).

14.- Escludendo il carattere sanante dell’accordo 18.3.03 ed assegnando natura ostativa alla omissioni della comunicazione, il giudice di merito si è attenuto ad una lettura della norma basata su un principio pacifico, affermato da Cass., S.u., 11.5.00 n. 302, secondo cui in caso di intervento straordinario di integrazione salariale per l’attuazione di un programma di ristrutturazione, riorganizzazione o conversione aziendale che implichi una temporanea eccedenza di personale, il provvedimento di sospensione dall’attività lavorativa è illegittimo qualora il datore, sia che intenda adottare il meccanismo della rotazione sia nel caso contrario, ometta di comunicare alle Oo.Ss., ai fini dell’esame congiunto, gli specifici criteri, eventualmente diversi dalla rotazione, di individuazione dei lavoratori che debbono essere sospesi (in base al combinato disposto della L. n. 223 del 1991, art. 1, comma 7, e L. n. 164 del 1975, art. 5, commi 4 e 5). Ove l’illegittimità può essere fatta valere dai lavoratori interessati davanti al giudice ordinario, in via incidentale, per ottenere il pagamento della retribuzione piena e non integrata.

15.- Quanto all’incidenza della comunicazione 31.10.82 sulla posizione del ricorrente deve rilevarsi che la giurisprudenza della Corte di cassazione ha precisato che "i criteri di individuazione dei lavoratori da sospendere…", di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 1, debbono essere connotati dal requisito della specificità, ovvero, dalla "idoneità dei medesimi ad operare la selezione e nel contempo a consentire la verifica della corrispondenza della scelta ai criteri", precisandosi che l’aggettivazione "non individua una specie nell’ambito del genere criterio di scelta ma esprime la necessità che esso sia effettivamente tale, e cioè in grado di operare da solo la selezione dei soggetti da porre in cassa integrazione", atteso che "un criterio di scelta generico non è effettivamente tale, ma esprime soltanto, non un criterio, ma un generico indirizzo nella scelta" (v. Cass. 1.7.09 n. 15393, che richiama Cass. 23.4.04 n. 7720, e fa chiaro riferimento a S.u. n. 302 del 2000, citata).

Tale specificità non è stata riscontrata dal giudice di merito, che -analizzando il contenuto specifico dei documenti in considerazione – ha ritenuto non evidenziato con sufficiente specificità il percorso aziendale che ha portato all’individuazione dei singoli lavoratori da sospendere in cassa integrazione, il quale pure faceva riferimento ai lavoratori adibiti alla produzione di un singolo modello di vettura.

Trattasi di valutazioni di merito che, in quanto congruamente motivate, non sono suscettibili di censura in sede di legittimità. 16.- In conclusione, il ricorso è infondato e deve essere rigettato.

Le spese del giudizio di legittimità, come liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza e vanno distratte a favore dei difensori costituiti, dichiaratisi antistatari.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 30 (trenta) per esborsi ed in Euro 1.000 (mille) per onorari, oltre spese generali, Iva e Cpa, con distrazione a favore degli avvocati Redoglia Agostino, Rivalta Marco ed Andrenelli Adriano.

Così deciso in Roma, il 17 febbraio 2012.

Depositato in Cancelleria il 27 aprile 2012

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