Corte cost. 20-07-2007 (04-07-2007), n. 320 Processo penale – Principio di parità tra le parti – Identità tra i poteri processuali del pubblico ministero e quelli dell’imputato

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

SENTENZA
Nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 443 del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 2 della legge 20 febbraio 2006 n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), e dell’art. 10 della stessa legge, promossi con ordinanze del 21 marzo 2006 dalla Corte militare d’appello, sezione distaccata di Verona, del 6 aprile e del 28 aprile 2006 dalla Corte d’appello di Milano, rispettivamente iscritte ai nn. 275 e 589 del registro ordinanze 2006 ed al n. 115 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 36, prima serie speciale, dell’anno 2006 e nn. 1 e 12, prima serie speciale, dell’anno 2007.
Udito nella camera di consiglio del 4 luglio 2007 il giudice relatore Giovanni Maria Flick.

Ritenuto in fatto
1. – Con l’ordinanza in epigrafe, la Corte militare di appello, sezione distaccata di Verona, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 111, secondo e settimo comma, e 112 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui, modificando l’art. 443 del codice di procedura penale, priva il pubblico ministero del potere di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento emesse a seguito di giudizio abbreviato; nonché dell’art. 10 della medesima legge, nella parte in cui rende applicabile tale nuova disciplina ai procedimenti in corso alla data della sua entrata in vigore, stabilendo, altresì, che l’appello anteriormente proposto dal pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento viene dichiarato inammissibile con ordinanza non impugnabile, salva la facoltà dell’appellante di proporre ricorso per cassazione entro quarantacinque giorni dalla notifica del provvedimento di inammissibilità.
Il giudice a quo, investito dell’appello proposto dal pubblico ministero avverso una sentenza assolutoria emessa a seguito di giudizio abbreviato, ritiene che le norme impugnate – le quali imporrebbero, nel caso di specie, la declaratoria di inammissibilità del gravame – ledano, anzitutto, il principio di parità delle parti nel processo, sancito dall’art. 111, secondo comma, Cost.
A seguito della novella, infatti, il pubblico ministero – ormai privo di ogni possibilità di contrastare l’accesso dell’imputato al giudizio abbreviato – verrebbe a perdere in modo pressoché completo la facoltà di appellare la sentenza emessa dal giudice di primo grado: potendo tale facoltà esercitarsi, da parte dell’organo dell’accusa, solo nella «marginale» ipotesi della sentenza di condanna che modifica il titolo del reato (art. 443, comma 3, cod. proc. pen.). Il dubbio di costituzionalità assumerebbe consistenza, d’altra parte, proprio alla luce di quanto affermato da questa Corte con riguardo alla precedente limitazione del potere di appello del pubblico ministero nel giudizio abbreviato, relativa alle sentenze di condanna che lascino inalterato il titolo del reato: limitazione ritenuta legittima sia perché costituente – assieme alla riduzione della pena – il «corrispettivo» per la rinuncia al dibattimento da parte dell’imputato, con opzione che favorisce una più rapida definizione dei processi; sia perché concernente situazioni nelle quali la pretesa punitiva ha trovato comunque realizzazione (sentenza n. 363 del 1991 e ordinanza n. 421 del 2001). Quest’ultima decisiva condizione viene, per contro, a mancare nel nuovo assetto normativo, che – col rendere inappellabili le sentenze di proscioglimento – «mutila le prerogative della parte pubblica in modo generalizzato e proprio nell’aspetto più saliente del suo interesse ad impugnare».
Ne deriverebbe, quindi, una asimmetria che oltrepassa la soglia della compatibilità con il parametro costituzionale evocato: giacché, è ben vero che il principio di parità delle parti non implica necessariamente l’identità tra i poteri processuali del pubblico ministero e dell’imputato; ma è altrettanto vero che – sempre alla stregua della citata sentenza n. 363 del 1991 – la diversità di trattamento potrebbe essere giustificata unicamente dalla peculiare posizione istituzionale del pubblico ministero, o dalla funzione allo stesso affidata, ovvero da esigenze connesse alla corretta amministrazione della giustizia. Ipotesi, queste, non ravvisabili nella specie.
Ad avviso del rimettente, le norme impugnate si porrebbero altresì in contrasto con l’art. 112 Cost.: e ciò avuto riguardo segnatamente al dictum della sentenza n. 98 del 1994 di questa Corte, secondo cui la configurazione dei poteri del pubblico ministero – ancorché affidata alla legge ordinaria – potrebbe essere censurata per irragionevolezza se i poteri stessi, nel loro complesso, dovessero risultare inidonei all’assolvimento dei compiti funzionali all’esercizio dell’azione penale. Tale «situazione-limite» si sarebbe puntualmente realizzata per effetto dell’art. 2 della legge n. 46 del 2006: giacché – introducendo un limite «generale ed indifferenziato» al potere del pubblico ministero di chiedere il riesame nel merito, da parte di un giudice superiore, delle sentenze che abbiano respinto la pretesa punitiva – la disposizione censurata avrebbe pregiudicato il «nucleo essenziale» delle attribuzioni prefigurate dal parametro costituzionale in parola.
Il giudice a quo reputa inoltre compromesso l’art. 3 Cost., rilevando come sia del tutto irrazionale che, nel giudizio abbreviato, la parte pubblica risulti abilitata ad appellare in situazioni nelle quali la pretesa punitiva è stata accolta solo in parte (sentenze di condanna modificative del titolo del reato); e non fruisca, invece, di analogo potere nella «più significativa» ipotesi in cui la pretesa punitiva è stata totalmente disattesa (sentenze di proscioglimento).
Al riguardo, non gioverebbe obiettare – sempre ad avviso del rimettente – che il pubblico ministero può comunque impugnare le sentenze di proscioglimento con ricorso per cassazione, e nei più ampi termini conseguenti alla riformulazione delle lettere d) ed e) dell’art. 606, comma 1, cod. proc. pen. ad opera dell’art. 8 della stessa legge n. 46 del 2006. Anche dopo l’ampliamento dei motivi deducibili, il ricorso per cassazione resta, infatti, un mezzo di impugnazione «a critica vincolata»: mentre l’appello è un mezzo di gravame «a critica libera», che consente di censurare la sentenza per la sua «eventuale intrinseca ingiustizia». Non solo: per tal verso, il nuovo assetto delle impugnazioni genererebbe ulteriori sospetti di incostituzionalità, giacché – trasformando il giudice di legittimità «in un sostanziale giudice di merito con competenza estesa all’intero territorio nazionale» – comporterebbe un ineluttabile aumento dei processi pendenti dinanzi alla Corte di cassazione, con altrettanto ineluttabile allungamento dei relativi tempi di definizione. Nel caso, infatti, di annullamento della sentenza di proscioglimento di primo grado da parte del giudice di legittimità, potrebbero occorrere non meno di cinque gradi di giudizio per pervenire ad una pronuncia definitiva (primo grado; giudizio di cassazione promosso dal pubblico ministero; nuovo primo grado; appello e ricorso per cassazione dell’imputato contro l’eventuale sentenza di condanna): con conseguente lesione anche del principio di ragionevole durata del processo, sancito dall’art. 111, secondo comma, ultima parte, Cost.
In pari tempo, la possibilità che la Corte di cassazione – divenuta «giudice unico delle sentenze di proscioglimento» emesse a seguito di giudizio abbreviato – sia chiamata a «rivalutare» le risultanze probatorie, o ad integrare la motivazione della sentenza «anche con riguardo a specifici atti», porrebbe le norme denunciate in «stridente contrasto» con il ruolo che, alla luce dell’art. 111, settimo comma, Cost., caratterizza detto giudice: il ruolo, cioè, di «ultima e suprema istanza giurisdizionale» contro le violazioni di legge ascrivibili alle sentenze e ai provvedimenti in materia di libertà personale emessi dai giudici di merito. Tale ruolo costituzionale non esclude, in effetti, che alla Corte di cassazione possano essere attribuite anche funzioni diverse, le quali comportino la necessità di esaminare parte degli atti del procedimento; ma una simile «deviazione» dovrebbe comunque risultare ragionevolmente contenuta e tale da non alterare in modo significativo le caratteristiche dell’istituto del ricorso di legittimità: condizioni, queste, non riscontrabili nel caso in esame.
2. – Analoga questione di legittimità costituzionale dell’art. 443 cod. proc. pen., come modificato dall’art. 2 della legge n. 46 del 2006, e dell’art. 10, commi 1, 2 e 3, della medesima legge, è sollevata, con ordinanza emessa il 6 aprile 2006 (r.o. n. 589 del 2006), dalla Corte d’appello di Milano in riferimento agli artt. 3 e 111, secondo comma, Cost.
La Corte rimettente – investita degli appelli proposti dal pubblico ministero e dalla parte civile avverso una sentenza di assoluzione resa a seguito di giudizio abbreviato – rileva come il nuovo testo dell’art. 443 cod. proc. pen., nell’escludere che il pubblico ministero e l’imputato possano proporre appello contro le sentenze di proscioglimento, ponga le parti sullo stesso piano solo formalmente: introducendo, in realtà, un trattamento marcatamente diseguale, da ritenere incompatibile tanto con il principio di ragionevolezza che con quello di parità delle parti nel processo.
A seguito della riforma, infatti, l’imputato verrebbe privato del diritto di appellare la sentenza emessa in esito al giudizio abbreviato solo «su aspetti […] secondari» (quale, in specie, la diversa formula assolutoria), conservando comunque la facoltà di dolersi nel merito della pronuncia che affermi la sua colpevolezza. All’esatto opposto, la parte pubblica resterebbe legittimata a proporre appello esclusivamente «su questioni secondarie» (qualificazione del fatto o quantificazione della pena): perdendo, viceversa, il potere di appellare nei casi in cui «più penetrante dovrebbe essere la vigilanza sulla corretta amministrazione della giustizia».
In proposito, il rimettente ricorda come questa Corte abbia ritenuto legittima, proprio con riferimento al giudizio abbreviato, una «limitata asimmetria» dei poteri di impugnazione delle parti, in considerazione delle peculiarità del rito speciale e delle finalità deflattive ad esso sottese. Nella specie, tuttavia, non sarebbe possibile individuare alcun valore costituzionale atto a «bilanciare e legittimare» la disposta «mutilazione» del potere di impugnazione della parte pubblica. Dai lavori preparatori della riforma si desumerebbe, infatti, che la disciplina censurata è stata suggerita non già dalle finalità deflattive proprie del giudizio abbreviato, o comunque da obiettivi di semplificazione processuale; quanto piuttosto dalla convinzione che all’imputato – diversamente che alla parte pubblica – vada comunque assicurata, nel caso di condanna, «una "seconda chance" di merito»: e ciò anche al fine di dare attuazione all’art. 2 del Protocollo addizionale n. 7 alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984, ratificato e reso esecutivo con legge 9 aprile 1990, n. 98, il quale prevede il diritto dell’imputato a far riesaminare da una giurisdizione superiore l’affermazione della propria colpevolezza.
Tale giustificazione – ad avviso del rimettente – si rivelerebbe peraltro fallace, in quanto il comma 2 dell’art. 2 del Protocollo addizionale prevede espressamente che possa derogarsi al principio in esso affermato, allorché l’imputato sia stato dichiarato colpevole e condannato a seguito di un ricorso avverso il suo proscioglimento: eccezione, questa, da ritenere evidentemente riferita all’ipotesi dell’impugnazione della sentenza di proscioglimento di primo grado ad opera della parte pubblica. Ma, anche a voler diversamente opinare sul punto, la previsione del diritto dell’imputato ad un doppio grado di giurisdizione di merito non comporterebbe, comunque, la necessaria ablazione dell’analogo diritto delle altre parti: ben potendo la statuizione del Protocollo essere realizzata con una riforma organica del sistema delle impugnazioni, piuttosto che con la sottrazione totale al pubblico ministero del potere di appellare le sentenze di proscioglimento.
La soluzione normativa censurata non potrebbe essere giustificata neppure con l’ulteriore argomento – desumibile anch’esso dai lavori preparatori – stando al quale sarebbe «incongruo» che il giudice dell’appello, che ha una cognizione essenzialmente "cartolare" del materiale probatorio, possa ribaltare la sentenza di proscioglimento emessa da altro giudice – quale quello di primo grado – che ha invece assistito alla formazione della prova nel contraddittorio tra le parti. Tale argomento – rileva il rimettente – oltre a non poter valere per il giudizio abbreviato (che ha carattere "cartolare" anche in primo grado), non spiegherebbe comunque perché un «giudizio sulle carte» di proscioglimento «abbia maggior dignità di analogo giudizio di condanna»: con la conseguenza che l’esito logico della tesi avversata dovrebbe essere, semmai, l’inappellabilità «di tutte le sentenze per chiunque».
Un ulteriore e conclusivo profilo di irragionevolezza delle norme denunciate sarebbe insito nel fatto che esse consentono al pubblico ministero di appellare le sentenze di condanna – onde ottenere, evidentemente, una sanzione più grave – a fronte di una affermazione di responsabilità che pure in parte soddisfa la pretesa della parte pubblica; mentre gli negano il potere appellare le sentenze di proscioglimento, che vedono, invece, detta parte «totalmente soccombente».
3. – Le disposizioni degli artt. 443 cod. pen. pen., come modificato dall’art. 2 della legge n. 46 del 2006, e dell’art. 10, comma 1, 2, e 3, della legge ora citata, sono censurate, nelle medesime articolazioni precettive, dalla Corte d’appello di Milano con ulteriore ordinanza emessa il 28 aprile 2006 (r.o. n. 115 del 2007), in relazione agli artt. 3 e 111 Cost.
Il giudice a quo – chiamato anch’esso a pronunciarsi sull’appello proposto dal pubblico ministero avverso una sentenza assolutoria emessa a seguito di giudizio abbreviato – ritiene che le disposizioni censurate ledano in modo evidente il principio di parità tra le parti del processo, sancito dall’art. 111 Cost.
Premesso che la condizione di parità, evocata dalla norma costituzionale, non può intendersi limitata alla sola fase di acquisizione della prova, ma deve permanere lungo tutto l’arco del processo, fino alla sentenza definitiva, il rimettente rileva come la riforma crei un palese, quanto irragionevole squilibrio tra i contendenti, sottraendo ad uno solo di essi lo strumento processuale necessario per vedere affermata la pretesa fondamentale di cui è portatore. Rendendo inappellabili le sentenze di proscioglimento pronunziate in esito al giudizio abbreviato, la riforma avrebbe, infatti, privato totalmente il pubblico ministero del potere di far valere la pretesa punitiva nei confronti di soggetti contro i quali è stata promossa l’azione penale; lasciando integro, invece, il potere dell’imputato di impugnare la decisione che lo vede «soccombente», rispetto alla pretesa di vedersi riconosciuto innocente.
Si tratterebbe di un’asimmetria talmente radicale da non poter trovare giustificazione neppure nell’esigenza di garantire la ragionevole durata del processo, avuto riguardo alle finalità "acceleratorie" proprie del giudizio abbreviato: finalità in relazione alle quali questa Corte ha ritenuto, per contro, costituzionalmente legittima la preclusione dell’appello del pubblico ministero contro le sentenze di condanna che non modifichino il titolo del reato (art. 443, comma 3, cod. proc. pen.).
A ciò si aggiungerebbe l’intrinseca irragionevolezza di un assetto nel quale il pubblico ministero resta legittimato ad appellare talune delle sentenze di condanna, mentre non può appellare le sentenze di proscioglimento.
Le norme censurate determinerebbero, infine, una irragionevole disparità di trattamento tra il pubblico ministero e la parte civile. Quest’ultima – secondo il giudice a quo – avrebbe infatti conservato, anche dopo la riforma, la facoltà di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento: con la conseguenza che l’interesse della parte privata al risarcimento dei danni verrebbe, contro ogni logica, a godere di una tutela più ampia rispetto a quella accordata alla pretesa punitiva dello Stato, fatta valere dalla pubblica accusa.
Considerato in diritto
1. – La Corte militare d’appello, sezione distaccata di Verona, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 2 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui, novellando l’art. 443 del codice di procedura penale, esclude che il pubblico ministero possa appellare le sentenze di proscioglimento emesse a seguito di giudizio abbreviato; nonché della disposizione transitoria di cui all’art. 10 della medesima legge n. 46 del 2006, nella parte in cui rende applicabile tale nuova disciplina ai procedimenti in corso alla data della sua entrata in vigore, stabilendo, altresì, che l’appello anteriormente proposto dal pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento viene dichiarato inammissibile, salva la facoltà dell’appellante di proporre ricorso per cassazione entro quarantacinque giorni dalla notifica del provvedimento di inammissibilità.
Le disposizioni impugnate violerebbero, in particolare, il principio di parità delle parti nel processo, enunciato dall’art. 111, secondo comma, della Costituzione. Per effetto di esse, infatti, il pubblico ministero – già privo della possibilità di contrastare l’accesso dell’imputato al giudizio abbreviato – si vedrebbe sottratto quasi completamente il potere di appello avverso le sentenze pronunciate a conclusione di tale rito speciale, anche quando – come, appunto, nei casi di proscioglimento – emerga con più forza il suo interesse ad impugnare.
Tale limitazione impedirebbe, altresì, all’organo della pubblica accusa di assolvere i compiti previsti dall’art. 112 Cost. in ordine all’effettivo e funzionale esercizio dell’azione penale, violando, così, anche quest’ultimo precetto fondamentale.
Ad avviso della Corte rimettente, sarebbe inoltre compromesso l’art. 3 Cost., dovendosi ritenere del tutto irragionevole che, nel giudizio abbreviato, la parte pubblica sia abilitata a proporre appello contro la sentenza di condanna che modifica il titolo del reato (art. 443, comma 3, cod. proc. pen.), e dunque in situazioni nelle quali la pretesa punitiva è stata accolta solo in parte; mentre non goda di analogo potere nella «più significativa» ipotesi in cui la pretesa punitiva è stata completamente respinta (com’è nel caso della sentenza di proscioglimento).
Da ultimo, la possibilità, per l’accusa, di proporre, quale unico rimedio impugnatorio avverso la sentenza di proscioglimento, il ricorso per cassazione – sia pure nei più ampi limiti conseguenti alla modifica apportata dalla stessa legge n. 46 del 2006 all’art. 606 cod. proc. pen. – non solo non escluderebbe i vulnera denunciati, ma farebbe emergere ulteriori profili di illegittimità costituzionale. Il nuovo assetto normativo, infatti, da un lato determinerebbe – in contrasto con il principio della ragionevole durata del processo, di cui all’art. 111, secondo comma, ultima parte, Cost. – un ineluttabile aumento dei procedimenti pendenti dinanzi alla Corte di cassazione e, conseguentemente, dei relativi tempi di definizione; dall’altro lato, snaturerebbe il ruolo della Corte di legittimità – quale delineato dall’art. 111, settimo comma, Cost. – trasformandola, nella sostanza, in un «giudice di merito con competenza estesa all’intero territorio nazionale».
2. – Le disposizioni di cui all’art. 443 cod. proc. pen., come modificato dall’art. 2 della legge n. 46 del 2006, e all’art. 10, commi 1, 2 e 3, di tale legge, vengono censurate anche dalla Corte d’appello di Milano, con due ordinanze di tenore in larga parte analogo.
Anche secondo tale giudice rimettente, la previsione della inappellabilità delle sentenze di proscioglimento emesse a seguito di giudizio abbreviato risulterebbe incompatibile con il principio di parità delle parti nel processo, stabilito dall’art. 111, secondo comma, Cost. In conseguenza delle norme denunciate, infatti, l’imputato perderebbe il diritto di appellare solo in rapporto ad aspetti «secondari», quale la diversa formula assolutoria: conservando, comunque, la facoltà di dolersi nel merito della decisione che lo veda «soccombente», rispetto alla propria affermazione di innocenza. Tutt’al contrario, il pubblico ministero potrebbe proporre appello solo su «questioni secondarie», come nell’ipotesi di sentenza di condanna che qualifichi diversamente il fatto (art. 443, comma 3, cod. proc. pen.); mentre non fruirebbe del potere di appello nei casi – quelli, appunto, di proscioglimento – in cui «più penetrante dovrebbe essere la vigilanza sulla corretta amministrazione della giustizia».
La Corte ambrosiana ravvisa, altresì, un vulnus del principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.) nel fatto che il pubblico ministero resti legittimato ad appellare le sentenze di condanna modificative del titolo del reato, le quali pure contengono un’affermazione di responsabilità dell’imputato; e non, invece, le sentenze di proscioglimento, che disattendono del tutto la pretesa punitiva.
La sola ordinanza r.o. n. 115 del 2007 denuncia, infine, anche la irragionevole disparità di trattamento indotta dalle disposizioni censurate tra il pubblico ministero e la parte civile. Quest’ultima parte – secondo il giudice a quo – avrebbe infatti conservato, anche dopo la riforma, il potere di appellare le sentenze di proscioglimento: con l’illogica conseguenza che – stante la maggiore ampiezza del rimedio impugnatorio accordato all’«accusa privata» – l’interesse al risarcimento del danno, di cui questa è portatrice, verrebbe a fruire di una maggiore tutela rispetto alla pretesa punitiva azionata dalla parte pubblica.
3. – Le ordinanze di rimessione hanno ad oggetto le medesime norme e sollevano questioni in larga misura analoghe, onde i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica decisione.
4. – In riferimento all’art. 111, secondo comma, Cost., la questione è fondata.
Giova premettere che, per costante giurisprudenza di questa Corte, il principio di parità delle parti processuali – enunciato attualmente in forma autonoma dal secondo comma dell’art. 111 Cost., aggiunto dalla legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, ma già pacificamente insito nel pregresso sistema dei valori costituzionali – non comporta necessariamente, nel processo penale, l’identità tra i poteri del pubblico ministero e quelli dell’imputato. Stanti le fisiologiche differenze che connotano le posizioni delle due parti necessarie del processo penale, ripartizioni asimmetriche di poteri tra le parti stesse sono compatibili con il principio di parità, ad una duplice condizione: e, cioè, che tali asimmetrie, per un verso, trovino un’adeguata ratio giustificatrice nel ruolo istituzionale del pubblico ministero, ovvero in esigenze di funzionale e corretta esplicazione della giustizia penale, anche in vista del completo sviluppo di finalità esse pure costituzionalmente rilevanti; e, per un altro verso, risultino comunque contenute – anche in un’ottica di complessivo riequilibrio delle posizioni delle parti – entro i limiti della ragionevolezza (da ultimo, sentenza n. 26 del 2007; si vedano, altresì, ex plurimis, le sentenze n. 98 del 1994 e n. 432 del 1992; e le ordinanze n. 46 del 2004 e n. 165 del 2003).
5. – Ciò premesso, va rilevato come la disciplina del giudizio abbreviato contemplasse, sin dall’origine, limiti all’appellabilità della sentenza, volti segnatamente ad evitare che il giudizio svoltosi in primo grado con tale rito vedesse ritardata «la sua completa definizione» per effetto dell’applicazione dell’ordinario regime delle impugnazioni; con il rischio di compromettere il fine deflattivo del procedimento speciale (così la relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale del 1988). In base all’originario art. 443 cod. proc. pen., tali limiti erano ripartiti in modo sostanzialmente paritario fra le parti: ad entrambe era infatti inibito l’appello contro le sentenze di proscioglimento, ove diretto ad ottenere una diversa formula, e contro le sentenze che applichino sanzioni sostitutive (comma 1); al solo imputato, l’appello contro le sentenze di condanna a pena che comunque non deve essere eseguita, o alla sola pena pecuniaria (comma 2); al solo pubblico ministero, l’appello contro le sentenze di condanna, salvo che modifichino il titolo del reato (comma 3).
Successivi interventi, dapprima di questa Corte (sentenza n. 363 del 1991) e poi del legislatore (art. 31 della legge 16 dicembre 1999, n. 479), determinarono, tuttavia, la totale rimozione dei limiti all’impugnazione relativi al solo imputato e la soppressione, altresì, di quello – comune ad ambedue le parti – concernente le sentenze che applicano sanzioni sostitutive; a fronte, invece, della permanenza del limite relativo al solo pubblico ministero. La preclusione dell’appello della parte pubblica contro le sentenze di condanna non modificative del titolo del reato fu ritenuta, in particolare, dalla Corte non lesiva del principio di parità tra accusa e difesa, in quanto giustificata, per un verso, dall’«obiettivo primario di una rapida e completa definizione dei processi svoltisi in primo grado secondo il rito abbreviato»; e, per un altro verso, dalla circostanza che le sentenze sottratte all’appello segnavano comunque «la realizzazione della pretesa punitiva» fatta valere con l’azione intrapresa: avendo il legislatore privilegiato – con scelta «incensurabile sul piano della ragionevolezza, in quanto proporzionata al fine preminente della speditezza del processo» – «l’effettiva irrogazione della pena […] rispetto alla sua piena aderenza alla natura del reato contestato» (sentenza n. 363 del 1991 e ordinanza n. 305 del 1992).
6. – In pari tempo, peraltro, anche la struttura complessiva del giudizio abbreviato – caratterizzata inizialmente dalle tre condizioni della rinuncia dell’imputato al contraddittorio nella formazione della prova, in cambio di una riduzione di pena in caso di condanna; del consenso del pubblico ministero; e della possibilità di decidere il processo sulla base dei soli atti del fascicolo delle indagini – subiva profondi mutamenti.
Pronunce di questa Corte introdussero, anzitutto, l’obbligo del pubblico ministero di enunciare le ragioni del proprio dissenso e il controllo del giudice, a dibattimento concluso, sulla fondatezza di tali ragioni (sentenze n. 81 del 1991, n. 183 e n. 66 del 1990). Avuto riguardo, poi, all’eventualità in cui il dissenso fosse motivato con l’impossibilità di definire il processo allo stato degli atti per carenze investigative addebitabili alla stessa parte pubblica, questa Corte auspicò l’introduzione, da parte del legislatore, di un meccanismo di integrazione probatoria (sentenza n. 92 del 1992); negando, per contro, che il problema potesse essere risolto con la semplice soppressione del requisito del consenso. Si osservò, infatti, che tale ultima operazione avrebbe reso necessaria – a fini di «riequilibrio "interno" dell’istituto» – tanto una nuova disciplina sul diritto alla prova del pubblico ministero; quanto una revisione dei limiti all’appello del medesimo: essendo tali limiti razionalmente giustificabili, «in linea di principio», «solo se collegati al […] consenso» della parte che li subiva (sentenza n. 442 del 1994 e ordinanza n. 33 del 1998).
Gli auspici formulati dalla Corte furono recepiti – ma solo in parte – dalla legge n. 479 del 1999. Privato il pubblico ministero del potere di interloquire sulla scelta del rito, la novella ha configurato l’accesso al giudizio abbreviato come un vero e proprio «diritto» dell’imputato che ne faccia richiesta, non più subordinato ad un vaglio giudiziale circa la possibilità di decidere il processo «allo stato degli atti»: essendosi previsto – come rimedio alle eventuali carenze degli atti investigativi – un ampio potere di integrazione probatoria officiosa da parte del giudice. Si è stabilito, inoltre, che lo stesso imputato possa condizionare la propria richiesta ad una specifica integrazione probatoria, purché compatibile con le finalità di economia processuale proprie del procedimento. Quanto ai poteri probatori del pubblico ministero, essi risultano circoscritti alla facoltà di prova contraria, nel caso di richiesta di giudizio abbreviato «condizionata»; mentre è rimasta ferma la preclusione all’appello della pubblica accusa, di cui all’art. 443, comma 3, cod. proc. pen.
Anche dopo la novella del 1999, la Corte ha continuato a ritenere, peraltro, che detta preclusione possa conciliarsi con il principio di parità delle parti, in quanto tuttora razionalmente giustificabile dall’obiettivo di speditezza processuale (ordinanze n. 165 del 2003, n. 347 del 2002 e n. 421 del 2001): e ciò sul presupposto che – come ribadito dalla recente sentenza n. 26 del 2007 – la preclusione seguita ad afferire a sentenze che, sia pure con uno scarto «quantitativo» rispetto alle richieste dell’accusa, vedono comunque realizzata «la pretesa punitiva».
7. – Si innesta su tale panorama l’intervento attuato dalla legge n. 46 del 2006, il cui art. 2 – oggetto delle odierne censure – sopprimendo l’inciso finale del comma 1 dell’art. 443 cod. proc. pen. («quando l’appello tende ad ottenere una diversa formula»), ha precluso in via generale, tanto al pubblico ministero che all’imputato, l’appello contro le sentenze di proscioglimento emesse a seguito di giudizio abbreviato.
La modifica rappresenta un tassello del più ampio disegno – evocato dallo stesso titolo della legge – volto a configurare l’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento come regola valevole nell’intero ordinamento processuale penale: e dunque anche – e prima di tutto – nell’ambito del rito ordinario. Secondo quanto può desumersi dai lavori parlamentari, il coinvolgimento in tale disegno del giudizio abbreviato non risponde – negli intenti del legislatore – a finalità "proprie", distinte da quelle addotte a sostegno dell’intervento nella sua globalità: quali, in ipotesi, quelle di incrementare la componente "premiale" del rito alternativo, o la sua attitudine "acceleratoria" della definizione dei processi. La disposizione oggi censurata viene infatti qualificata, in detti lavori, come semplice norma «di raccordo» o «di coordinamento», rispetto all’intervento attuato nell’ambito del rito ordinario (così la relazione alla proposta di legge n. 4604/C e l’intervento del relatore alla Camera dei deputati nella seduta del 25 luglio 2005).
Con la sentenza n. 26 del 2007, questa Corte ha dichiarato, peraltro, costituzionalmente illegittima – per contrasto con il principio di parità delle parti – la rimozione del potere di appello del pubblico ministero contro le sentenze di proscioglimento pronunciate nel giudizio ordinario (rimozione sancita dall’art. 1 della legge n. 46 del 2006, tramite sostituzione dell’art. 593 cod. proc. pen.): rilevando come l’asimmetria di poteri fra parte pubblica e imputato che ne conseguiva – per il suo carattere radicale, generalizzato e unilaterale – non potesse trovare adeguata giustificazione nelle rationes che, alla stregua dei lavori parlamentari, si collocano alla radice della riforma (vale a dire: l’asserita impossibilità di considerare colpevole «al di là di ogni ragionevole dubbio» l’imputato prosciolto in primo grado; l’esigenza di dare attuazione alle previsioni di determinati atti internazionali; l’opportunità di evitare che la sentenza di proscioglimento, emessa da un giudice che – come quello di primo grado – ha assistito alla formazione della prova nel contraddittorio fra le parti, venga ribaltata da altro giudice che – come quello di appello – basa invece la sua decisione su una prova prevalentemente scritta).
8. – L’esito dello scrutinio di costituzionalità non può essere diverso in rapporto all’omologa previsione ablativa concernente il giudizio abbreviato: previsione alla quale, tra l’altro, non sarebbe comunque riferibile l’ultima delle rationes appena sopra indicate, stante il carattere prevalentemente "cartolare", anche in primo grado, dei processi svoltisi con detto rito.
8.1. – Vale evidentemente, anche in rapporto alla norma oggi censurata, quanto preliminarmente osservato dalla citata sentenza n. 26 del 2007: e, cioè, che al di sotto dell’assimilazione formale delle parti – «l’imputato e il pubblico ministero non possono proporre appello contro le sentenze di proscioglimento» (così il novellato art. 443, comma 1, cod. proc. pen.) – detta norma racchiude «una dissimmetria radicale». A differenza dell’imputato – il quale resta abilitato ad appellare le sentenze che affermino la sua responsabilità – il pubblico ministero viene, infatti, totalmente privato del simmetrico potere di proporre doglianze di merito avverso la pronuncia che disattenda in modo integrale la pretesa punitiva. Menomazione, questa, che non può ritenersi compensata dall’ampliamento dei motivi del ricorso per cassazione, parallelamente operato – peraltro a favore di entrambe le parti – dall’art. 8 della stessa legge n. 46 del 2006 (modificativo dell’art. 606, comma 1, cod. proc. pen.): giacché – quale che sia l’effettiva portata dei nuovi e più ampi casi di ricorso – il rimedio non attinge comunque alla pienezza del riesame di merito, consentito dall’appello.
È altrettanto evidente, d’altronde, come le considerazioni, sulla cui scorta questa Corte ha reiteratamente affermato la legittimità dell’originario limite all’appello della parte pubblica nel giudizio abbreviato, di cui al comma 3 dell’art. 443 cod. proc. pen., non possano valere con riguardo alla preclusione che al presente interessa. Come già ricordato, difatti, la dissimmetria conseguente all’inappellabilità, da parte del pubblico ministero, delle sentenze di condanna che non modifichino il titolo del reato, è stata ritenuta «incensurabile sul piano della ragionevolezza in quanto proporzionata al fine preminente della speditezza del processo», sotteso al giudizio abbreviato: e ciò perché si tratta di sentenze che – sia pure con una difformità di ordine «quantitativo» rispetto alle richieste dell’accusa – implicano comunque la realizzazione della pretesa punitiva azionata. Analoga valutazione non potrebbe essere ovviamente operata rispetto alla radicale ablazione del potere di appellare le sentenze di proscioglimento, che quella pretesa punitiva disattendono viceversa in toto.
Ma, anche a voler prescindere dalle indicazioni ricavabili dalla pregressa giurisprudenza costituzionale ora ricordata, deve comunque escludersi che la suddetta ablazione possa venir giustificata dall’obiettivo di assicurare una maggiore celerità nella definizione dei processi svoltisi in primo grado con il rito abbreviato. Maggiore celerità che peraltro – come già rimarcato – non risulta evocata, a fondamento della norma impugnata, nei lavori parlamentari; e che neppure è detto si verifichi, stante la possibilità che la natura, di regola solo rescindente, del giudizio di cassazione determini – nel caso di impugnazione di una sentenza di proscioglimento viziata – un incremento dei gradi di giudizio occorrenti per pervenire alla sentenza definitiva.
In proposito, resta infatti assorbente il rilievo che, per costante affermazione di questa Corte, il valore costituzionale della ragionevole durata del processo (art. 111, secondo comma, Cost.) – cui si raccordano le previsioni normative intese a realizzare economie di tempi e di energie processuali – va contemperato con il complesso delle altre garanzie costituzionali (ex plurimis, sentenza n. 219 del 2004; ordinanze n. 420 e n. 418 del 2004) e non può essere comunque perseguito «attraverso la totale soppressione di rilevanti facoltà di una sola delle parti» (sentenza n. 26 del 2007).
Tale conclusione appare tanto più valida a fronte della fisionomia, già per il resto sensibilmente sbilanciata sul versante della parte pubblica, che – a seguito dell’evoluzione dianzi ripercorsa – ha attualmente assunto l’istituto del giudizio abbreviato: con conseguente significativa attenuazione – rispetto all’assetto d’origine – della valenza del "sacrificio" insito nella rinuncia al contraddittorio nella formazione della prova, ad opera dell’imputato.
Al riguardo, l’accento cade, anzitutto, sulla soppressione del requisito del consenso della pubblica accusa ai fini dell’accesso al rito: consenso nel quale pure questa Corte ebbe ad identificare uno dei presupposti per la valutazione di ragionevolezza delle previsioni limitative della facoltà di impugnazione (sentenza n. 442 del 1994 e ordinanza n. 33 del 1998); e che vale tuttora a giustificare – nel quadro della disciplina dei riti alternativi – la previsione di inappellabilità della sentenza in caso di applicazione della pena su richiesta delle parti (art. 448, comma 2, cod. proc. pen.). Trovandosi, di conseguenza, a "subire" una scelta del tutto unilaterale dell’imputato, da cui deriva la perdita della possibilità di coltivare le prospettive dell’accusa in dibattimento, il pubblico ministero vede attualmente circoscritto il suo ruolo, quale parte processuale nel giudizio abbreviato – ove si eccettui l’eventuale diritto alla prova contraria rispetto alle integrazioni probatorie richieste dall’imputato – al semplice contributo dialettico in sede di discussione; mentre la decisione del giudice può ormai approdare a ricostruzioni del fatto anche totalmente alternative rispetto a quelle desumibili dagli atti di indagine raccolti dallo stesso pubblico ministero: e ciò per effetto tanto di integrazioni probatorie officiose o richieste dall’imputato, quanto di apporti da parte di quest’ultimo, realizzati – in particolare dopo la legge 7 dicembre 2000, n. 397 (Disposizioni in materia di indagini difensive) – attraverso lo strumento delle investigazioni difensive, i cui risultati sono anch’essi utilizzabili nel giudizio abbreviato (ordinanza n. 57 del 2005).
Ne deriva, in conclusione, un quadro d’assieme antitetico rispetto alla possibilità di giustificare l’integrale ablazione del potere di appello del pubblico ministero, avverso le sentenze di proscioglimento, in una prospettiva di riequilibrio complessivo dei poteri accordati alle parti nell’ambito del rito de quo.
8.2. – A ciò va aggiunto che la disposizione denunciata ha determinato anche una intrinseca incoerenza nella disciplina delle impugnazioni del pubblico ministero, similare a quella indotta – con riferimento al rito ordinario – dall’art. 1 della stessa n. 46 del 2006 e già censurata da questa Corte (sentenza n. 26 del 2007).
A seguito della modifica normativa in esame, infatti, il pubblico ministero resta privo del potere di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento, che disattendono completamente le istanze dell’accusa; mentre mantiene il potere di appellare le sentenze di condanna che mutino il titolo del reato, le quali invece recepiscono, sia pure parzialmente, le predette istanze, affermando la responsabilità dell’imputato.
8.3. – Alla luce delle considerazioni che precedono, deve quindi concludersi che la disciplina censurata integra una violazione del principio di parità delle parti non sorretta da adeguata ratio giustificativa, ponendosi così in contrasto con l’art. 111, secondo comma, Cost.
Le residue censure dei giudici rimettenti restano di conseguenza assorbite.
9. – L’art. 2 della legge n. 46 del 2006 va dichiarato, pertanto, costituzionalmente illegittimo nella parte in cui, modificando l’art. 443, comma 1, cod. proc. pen., esclude che il pubblico ministero possa appellare contro le sentenze di proscioglimento emesse a seguito di giudizio abbreviato.
Correlativamente, va dichiarata l’illegittimità costituzionale anche dell’art. 10, comma 2, della citata legge n. 46 del 2006, nella parte in cui prevede che l’appello proposto dal pubblico ministero, prima dell’entrata in vigore della medesima legge, contro una sentenza di proscioglimento emessa a seguito di giudizio abbreviato, è dichiarato inammissibile. Tale declaratoria di incostituzionalità risulta satisfattiva del petitum dei giudici rimettenti, senza che sia necessario un intervento sui commi 1 e 3 dello stesso art. 10, pure specificamente coinvolti nello scrutinio dalla Corte d’appello di Milano. Il comma 1, infatti – nello stabilire che le disposizioni della legge n. 46 del 2006 si applicano «ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della medesima» – si limita, di per sé, a ribadire il generale principio tempus regit actum, valevole in materia processuale; mentre il comma 3 – che consente alla parte, il cui appello sia stato dichiarato inammissibile ai sensi del comma 2, di impugnare la sentenza di proscioglimento di primo grado con ricorso per cassazione – resta automaticamente inapplicabile nei casi di specie, venendo meno il presupposto della declaratoria di inammissibilità dell’appello del pubblico ministero.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 2 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui, modificando l’art. 443, comma 1, del codice di procedura penale, esclude che il pubblico ministero possa appellare contro le sentenze di proscioglimento emesse a seguito di giudizio abbreviato;
2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 10, comma 2, della citata legge 20 febbraio 2006, n. 46, nella parte in cui prevede che l’appello proposto dal pubblico ministero, prima dell’entrata in vigore della medesima legge, contro una sentenza di proscioglimento emessa a seguito di giudizio abbreviato, è dichiarato inammissibile.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. I, Sent., 20-01-2011, n. 1361 Assemblea

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Il sig. T.A., socio della Banca Popolare di Todi s.p.a., con atto notificato il 23 luglio 1996 citò detta società in giudizio dinanzi al Tribunale di Perugia per far dichiarare nulla o annullare una deliberazione assembleare, assunta il 25 aprile 1996, con cui gli amministratori erano stati autorizzati ad acquistare 7.000 azioni proprie della società.

Essendo stata la domanda rigettata dal tribunale, il sig. T. propose gravame, che fu però del pari rigettato dalla Corte d’appello di Perugia con sentenza depositata il 18 ottobre 2004.

La corte umbra, per quanto ancora in questa sede interessa, anzitutto negò fondamento alla tesi dell’impugnante secondo cui l’acquisto di azioni proprie della società sarebbe avvenuto in violazione dell’art. 2357 c.c., comma 1, ossia oltre il limite degli utili distribuibili e delle riserve disponibili. Tale limite, a giudizio della corte, non era stato superato, potendosi tra le riserve computare anche quella iscritta nel bilancio relativo all’esercizio 1995 come "fondo sovrapprezzo di emissione", divenuta disponibile per effetto dell’avvenuta trasformazione della Banca di Todi in società per azioni in epoca anteriore alla deliberazione impugnata; nè poteva convenirsi con l’assunto dell’appellante – peraltro inammissibile, perchè dedotto per la prima volta nel giudizio di gravame – secondo cui, per rendere disponibile detto fondo, sarebbe occorsa l’approvazione di un ulteriore bilancio successivo alla trasformazione.

Fu del pari escluso dalla corte d’appello che l’acquisto di azioni proprie fosse stato autorizzato dall’assemblea oltre il limite del dieci per cento del capitale, posto dal citato art. 2357, comma 3, (nella formulazione vigente all’epoca dei fatti di causa). La corte ritenne che si dovesse a tal fine tener conto del capitale risultante all’esito di un aumento deliberato il 6 marzo 1996, ancorchè successivo all’approvazione dell’ultimo bilancio, non potendo trovare ingresso in appello l’eccezione con la quale il sig. T. aveva contestato la mancata informazione all’assemblea dell’avvenuta sottoscrizione di detto aumento di capitale; sottoscrizione comunque tempestivamente documentata in causa dalla difesa della banca, la quale aveva provveduto a depositare il proprio fascicolo di parte, precedentemente ritirato, entro quattro giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle memorie di replica alla comparsa conclusionale.

Fu disattesa anche l’eccezione di nullità, o di giuridica inesistenza, della deliberazione di aumento del capitale sociale sopra menzionata: in parte per difetto di specificità del dedotto motivo di gravame ed in parte per l’infondatezza dell’assunto dell’appellante secondo cui l’aumento del capitale, con esclusione del diritto di opzione, non avrebbe potuto esser deliberato contestualmente alla trasformazione dell’ente in società azionaria ed avrebbe dovuto necessariamente essere adottato nelle forme e con le maggioranze richieste per quest’ultimo tipo di società.

Venne infine rigettato il motivo di gravame concernente la pretesa invalidità della delibera assembleare del 25 aprile 1996 per eccesso di potere della maggioranza, non essendo state dedotte prove idonee a sorreggere l’assunto dell’appellante.

Avverso tale sentenza il sig. T. ha proposto ricorso per cassazione, articolato in cinque motivi, al quale la Banca di Todi ha replicato con controricorso e successiva memoria.

Motivi della decisione

1. La questione posta all’esame di questa corte dal primo motivo del ricorso concerne il dettato dell’art. 2357 c.c., comma 1, che consente ad una società azionaria di acquistare azioni proprie solo "nei limiti degli utili distribuibili e delle riserve disponibili risultanti dall’ultimo bilancio regolarmente approvato". 1.1. La corte d’appello ha escluso che, nel caso in esame, quel limite sia stato superato ed a tale conclusione è pervenuta computando tra le riserve disponibili della Banca di Todi anche una posta, denominata in bilancio "fondo sovrapprezzo azioni", che era stata inizialmente costituita, a norma del previgente art. 2525, comma 3 (ora sostituito dall’art. 2528 c.c., comma 2, quando la società aveva ancora veste di cooperativa. La successiva trasformazione dell’ente in società per azioni ha indotto la corte territoriale a reputare che detta riserva, all’atto della deliberazione avente ad oggetto l’acquisto di azioni proprie della società, fosse divenuta pienamente disponibile e che, perciò, se ne potesse tener conto per ampliare il limite entro cui l’acquisto di dette azioni era consentito.

Il ricorrente, lamentando la violazione di varie norme di diritto sostanziale e processuale, oltre che vizi di motivazione dell’impugnata sentenza, contesta siffatta conclusione e sostiene che, viceversa, avendo il legislatore fatto riferimento alle riserve disponibili risultanti dall’ultimo bilancio approvato ed essendo stato l’ultimo bilancio della Banca di Todi approvato, prima dell’impugnata delibera, quando la società era ancora una cooperativa, il "fondo sovrapprezzo azioni" non avrebbe potuto esser considerato disponibile. Per raggiungere un tale scopo, sempre secondo il ricorrente, sarebbe prima occorsa l’approvazione di un nuovo bilancio, che tenesse conto della diversa veste giuridica assunta dalla società ed anche di ogni ulteriore fatto sopravvenuto.

Lamenta ancora il ricorrente che quest’ultimo rilievo – quello concernente la necessità dell’approvazione di un bilancio successivo alla trasformazione per poter computare il suddetto fondo tra le riserve disponibili – sia stato giudicato inammissibile dalla corte d’appello, perchè nuovo, senza però tener conto che non si trattava di un’eccezione, bensì di una mera argomentazione difensiva. E si duole anche che la stessa corte non abbia preso in considerazione le circostanze, dedotte nell’atto di gravame, dalle quali risultava come, per l’acquisto delle azioni proprie, la società avesse in concreto utilizzato fondi diversi da quello per sovrapprezzo azioni sopra menzionato.

1.2. Le riferite censure non sono convincenti, o almeno non al punto da indurre alla cassazione della sentenza impugnata.

Può darsi che l’assunto prospettato dall’appellante secondo cui sarebbe occorso un nuovo bilancio per rendere disponibili riserve che all’origine non lo erano non integri una vera e propria eccezione.

Non è però possibile rimettere in discussione in questa sede l’entità delle riserve di cui si discute, nè il modo del loro reale utilizzo ed il rapporto quantitativo tra esse e le azioni, proprie cui si riferisce l’impugnata delibera assembleare, trattandosi di profili di fatto, accertati in modo preciso nel giudizio di merito e non suscettibili di essere rivisti dal giudice di legittimità se non a patto di un non ammissibile riesame diretto delle risultanze istruttorie.

La questione decisiva resta, allora, unicamente quella di stabilire se fosse o meno disponibile, per essere utilizzata nell’acquisto di azioni proprie a norma del citato art. 2357, comma 1, la riserva da sopraprezzo iscritta nell’ultimo bilancio approvato, avendo nel frattempo la cooperativa assunto la veste di società per azioni.

A tale domanda la risposta non può che essere positiva.

Già prima della riforma del diritto societario attuata nel 2003 era opinione della prevalente dottrina che, nelle società cooperative, non essendo previsto un tetto massimo per la riserva legale, la riserva costituita dal sovrapprezzo di azioni fosse indisponibile, e quindi non utilizzabile per l’eventuale acquisto di azioni proprie della società. Una volta, però, che la cooperativa abbia dismesso questa veste per assumere quella di società per azioni, e che siano divenute quindi ad essa applicabili le disposizioni vigenti per quest’ultimo tipo sociale, mentre la riserva non cessa di esistere nel patrimonio dell’ente, viene meno la ragione d’indisponibilità strettamente legata al vigore di disposizioni riferibili alle sole società cooperative e si rendono invece applicabili le norme in tema di società azionaria, nel cui ambito le riserve da sovrapprezzo sono disponibili quando ricorra la condizione richiesta dall’art. 2431 c.c..

L’obiezione secondo la quale il riferimento dell’art. 357, comma 1, alle "riserve disponibili risultanti dall’ultimo bilancio" implicherebbe che anche l’indicato requisito della disponibilità delle riserve debba sussistere alla data di chiusura di detto bilancio, non rilevando le eventuali vicende societarie successive (se non risultanti dall’approvazione di un eventuale ulteriore bilancio) non appare persuasiva.

La ratio della norma risiede nella tutela del capitale sociale, per impedire che l’acquisto delle azioni proprie della società mascheri un’indebita restituzione dei conferimenti ai soci (come potrebbe accadere se fosse a tal fine impiegato una parte del capitale sociale formato da detti conferimenti) o che siano intaccate riserve non utilizzabili in quanto destinate (per legge o per statuto) a preservare la solidità patrimoniale dell’ente o, comunque, a scopi diversi. Ciò che necessita è perciò, in primo luogo, che le riserve da utilizzare per l’acquisto delle azioni effettivamente sussistano ed, in secondo luogo, che siano legittimamente adoperabili a questo fine.

Il riferimento del legislatore alle risultanze dell’ultimo bilancio approvato attiene, evidentemente, alla prima di siffatte condizioni, ma non anche alla seconda. E’ dal bilancio che si può ricavare l’attestazione dell’esistenza della riserva patrimoniale di cui si tratta (ferma ovviamente la responsabilità degli amministratori nel verificare che la riserva non sia medio tempore venuta meno): perchè la funzione del bilancio è appunto quella di dar conto dell’esistenza di valori patrimoniali classificati in base al sistema di contabilità aziendale; non, invece, di determinare se e quale regime debba trovare applicazione per detti valori e per le poste che contabilmente li rappresentano.

Non è infatti il bilancio, bensì direttamente la legge, che disciplina la disponibilità della riserva da sovrapprezzo, il cui regime, sotto questo profilo, non muterebbe di certo sol perchè eventualmente nel bilancio medesimo essa fosse stata erroneamente classificata disponibile, se tale non era, o viceversa.

Acclarato, perciò, che la riserva da sovrapprezzo esisteva, ne consegue che la possibilità di adoperarla per acquistare azioni proprie correttamente è stata vagliata in base alle disposizioni applicabili, all’atto della deliberazione di acquisto di siffatte azioni, avuto riguardo al tipo di società che quella deliberazione ha assunto.

2. Il secondo, il terzo ed il quarto motivo di ricorso riguardano, sotto differenti profili, una diversa questione: se la più volte menzionata deliberazione assembleare di autorizzazione all’acquisto di azioni proprie sia stata o meno rispettosa del disposto del medesimo art. 2357, comma 3.

Tale norma, nella formulazione vigente al tempo dei fatti di causa (prima delle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 142 del 2008), circoscriveva la possibilità di acquistare azioni proprie da parte di qualsiasi società entro un limite di valore non eccedente la decima parte del capitale sociale, comprendendo nel computo anche le azioni possedute tramite società controllate.

2.1. Il tribunale, prima, e la corte d’appello, poi, hanno reputato che neppure tale disposizione sia stata violata nel caso in esame, dovendosi tener conto dell’ammontare del capitale sociale risultante all’esito di un aumento deliberato alcun tempo prima dall’assemblea straordinaria della società. 2.1.1. Il ricorrente contesta questa conclusione, denunciando svariati errori di diritto sostanziale e processuale, nonchè vizi di motivazione dell’impugnata sentenza, anzitutto perchè, a suo parere, il limite quantitativo posto dalla norma alla possibilità di acquisto di azioni proprie andrebbe individuato unicamente nel capitale indicato dall’ultimo bilancio, che nel caso in esame era quello chiuso al 31 dicembre 1995. Avrebbe perciò errato la corte d’appello nel prendere invece in considerazione il capitale risultante a seguito della deliberazione di aumento assunta dall’assemblea il 6 marzo 1996. Per poter tenere conto di siffatto aumento di capitale, sarebbe stato almeno necessario presentare all’assemblea una situazione patrimoniale aggiornata, o comunque mettere i soci in condizione di verificare l’avvenuta sottoscrizione del capitale aumentato, non potendo un simile accertamento aver luogo solo successivamente, in sede giudiziaria. Nè sarebbe fondato, sempre a parere del ricorrente, il rilievo della corte d’appello in ordine all’inammissibilità di quest’ultima eccezione, sollevata per la prima volta in secondo grado, trattandosi anche in questo caso di una mera argomentazione difensiva, del resto già insita nelle difese formulate dinanzi al tribunale.

2.1.2. In ogni caso, sostiene ancora il ricorrente, per poter ampliare il limite entro cui alla società era consentito acquistare azioni proprie, sarebbe occorso che l’aumento di capitale deliberato il 6 marzo 1996 fosse stato anche sottoscritto (se non addirittura versato) e, contrariamente a quanto affermato dalla corte d’appello, ciò non è stato idoneamente provato in giudizio dalla Banca di Todi, poichè la relativa documentazione era contenuta nel fascicolo di parte di detta banca, che lo aveva ritirato e poi ridepositato prima che la causa fosse posta in decisione dinanzi al tribunale; ma questo deposito era stato tardivo, siccome effettuato dopo lo scadere del termine per la presentazione delle comparse conclusionali indicato dall’art. 169 c.p.c., comma 2. Nè sarebbe da condividere la contraria opinione manifestata dalla corte d’appello secondo cui, nel regime successivo alla novella processuale del 1990, il deposito del fascicolo di parte in precedenza ritirato può aver luogo fino a quattro giorni prima della scadenza del termine per le memorie di replica, in coerenza con quanto stabilisce l’art. 111 disp. att., comma 1. E neppure avrebbe fondamento l’ulteriore affermazione della stessa corte che ha ritenuto comunque non rilevante l’eventuale violazione del predetto termine, in quanto non disposto a tutela del diritto di difesa della controparte.

2.1.3. Il ricorrente sostiene, poi, che non si sarebbe potuto tener conto del suindicato aumento di capitale anche perchè la relativa deliberazione assembleare è da considerare nulla (o giuridicamente inesistente); e contesta che fosse generico il motivo di gravame da lui formulato sul punto, avendo egli invece ben evidenziato le ragioni dell’eccepita invalidità del menzionato aumento di capitale.

Invalidità derivante dal fatto che quell’aumento era stato adottato con la medesima deliberazione con cui la società cooperativa era stata trasformata in società per azioni: il che avrebbe reso necessario procedere a due distinte deliberazioni, essendo ormai la seconda soggetta alle differenti regole di votazione proprie della società azionaria.

Osserva ancora il ricorrente che, ove si volesse invece condividere l’opinione del tribunale e della corte d’appello secondo cui l’aumento di capitale era stato deliberato dalla società quando questa aveva ancora la forma giuridica di una cooperativa, non si potrebbe sfuggire al rilievo che il quorum deliberativo in tal caso richiesto dalla legge, commisurato al numero dei soci e non all’entità del capitale da ciascuno di essi sottoscritto, non risultava essere stato conseguito. Ed a questo rilievo, contrariamente a quanto affermato nell’impugnata sentenza, il tribunale aveva dato risposta, sia pure erroneamente, e l’appellante se ne era doluto: sicchè la corte d’appello avrebbe dovuto farsi carico della questione ed avrebbe dovuto dare atto della nullità o dell’inesistenza del deliberato aumento del capitale, derivanti anche dall’indebita esclusione del diritto di opzione, pure del quale l’appellante si era tempestivamente lagnato.

2.2. Esaminando in ordine le diverse doglianze cui s’è fatto cenno, è necessario anzitutto confermare l’esattezza del principio di diritto enunciato dalla corte d’appello, secondo cui, nel valutare se un acquisto di azioni proprie sia stato deliberato nel rispetto del limite fissato dall’art. 2357 c.c., comma 3, occorre tener conto anche dell’eventuale aumento di capitale deliberato e sottoscritto successivamente all’ultimo bilancio d’esercizio approvato, senza che sia a tal fine necessario procedere all’approvazione di un ulteriore bilancio.

Inducono a tale conclusione argomenti sia di ordine testuale sia di ordine logico.

Sul piano testuale è agevole constatare come il citato dell’art. 2357, comma 3, si limiti a richiedere che il valore delle azioni proprie acquistate dalla società non ecceda il dieci per cento del capitale ma, a differenza del comma 1, non faccia alcuna menzione dell’ultimo bilancio approvato.

Sul piano logico è da considerare che tale prescrizione, diversamente dall’altra cui sopra s’è fatto cenno, non appare dettata dall’intento di salvaguardare l’integrità del capitale sociale, bensì dallo scopo d’impedire un eccessivo accumulo di potere nelle mani dell’organo amministrativo della società e la possibilità che ciò influenzi indebitamente il mercato delle azioni ed eventualmente anche la futura composizione dell’azionariato. Quel che conta, a tal fine, è perciò la misura attuale del capitale e delle azioni in circolazione, con cui occorre confrontare il numero delle azioni proprie acquistate dalla società, e non quale fosse la misura del medesimo capitale in un momento precedente, indipendentemente da quando l’ultimo bilancio sia stato approvato.

2.2.1. Naturalmente, per le medesime ragioni, il capitale cui si deve fare riferimento non è quello meramente deliberato, bensì quello effettivamente sottoscritto, cui corrisponde il numero delle azioni emesse dalla società.

Nel caso in esame, come s’è accennato, il capitale al quale la corte di merito ha fatto riferimento, nel giudicare del non superamento dei limiti posti dal citato art. 2357, comma 3, è, appunto, quello sottoscritto. Nè ha fondamento l’obiezione del ricorrente, secondo cui la prova della sottoscrizione di detto capitale non sarebbe stata ritualmente acquisita, perchè il fascicolo di parte che la conteneva era stato prima ritirato e poi solo tardivamente ridepositato nella cancelleria del giudice di primo grado. Se anche le cose stessero in questo modo, occorrerebbe considerare che quel medesimo fascicolo di parte, con i documenti dai quali la corte di merito ha tratto il proprio motivato convincimento in ordine all’avvenuta sottoscrizione del capitale nell’indicata misura, è stato incontrovertibilmente di nuovo depositato in secondo grado. Tanto basta a rendere utilizzabili i summenzionati documenti, non ostandovi il divieto di nuove prove in appello: appunto perchè non di documenti nuovi si è trattato, bensì di documenti già a suo tempo ritualmente prodotti dinanzi al tribunale ed offerti all’esame dell’attore quando il fascicolo di parte convenuta è stato per la prima volta tempestivamente depositato nella cancelleria del tribunale.

Accertato, allora, in punto di fatto, che furono acquistate azioni proprie in misura non eccedente il limite del dieci per cento del capitale sociale sottoscritto, nessuna contrarietà alla legge o allo statuto è dato ravvisare, sotto questo profilo, nella deliberazione assembleare che quell’acquisto aveva autorizzato, non sussistendo alcuna prescrizione che imponga di fornire seduta stante ai soci una specifica informazione sull’avvenuta sottoscrizione del capitale aumentato (verificabile in qualsiasi momento, da chiunque, a seguito dell’iscrizione nel registro delle imprese disposta ai sensi dell’art. 2444 c.c., comma 1).

2.2.2. Non ha pregio neppure l’assunto secondo il quale del riferito aumento di capitale non si sarebbe potuto comunque tener conto perchè frutto di una deliberazione assembleare invalida.

Occorre a tal proposito osservare – ed è rilievo puntualmente sollevato dal Procuratore generale nella discussione in pubblica udienza, assorbente anche rispetto alle diverse considerazioni svolte sul punto nell’impugnata sentenza – che nessuno dei vizi dai quali il ricorrente afferma che la menzionata deliberazione di aumento del capitale sarebbe affetta è tale da determinarne la nullità, e tanto meno l’inesistenza giuridica.

E’ ben noto che, in tema di deliberazioni assembleari di società per azioni, il regime dell’invalidità differisce da quello previsto in generale per gli atti negoziali, giacchè, a norma dell’art. 2377 c.c., la contrarietà della deliberazione a prescrizioni di legge imperative o a disposizioni dello statuto sociale ne comporta la mera annullabilità, laddove è solo in presenza di una delle situazioni tassativamente indicate dal successivo art. 2379 che la deliberazione può essere considerata radicalmente nulla.

Ciò consente, anzitutto, di escludere subito che possa parlarsi di nullità della delibera di aumento del capitale sociale per pretesa violazione del diritto di opzione spettante ai soci, giacchè tale diritto è tutelato dalla legge solo in funzione dell’interesse individuale dei soci ed il contrasto con norme, anche cogenti, rivolte alla tutela dell’interesse dei singoli soci determina un’ipotesi di semplice annullabilità, laddove la nullità delle deliberazioni dell’assemblea delle società per azioni per illiceità dell’oggetto, ai sensi dell’art. 2379 c.c., (anche nel testo anteriore alle modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 6 del 2003), ricorre solo in caso di contrasto con norme dettate a tutela dell’interesse generale, tale da trascendere quello del singolo socio (cfr., da ultimo, Cass. 7 novembre 2008, n. 26842).

Non diversamente è a dirsi anche per gli ulteriori vizi della deliberazione denunciati dal ricorrente, che ugualmente non mettono capo ad un’ipotesi di oggetto illecito, tale evidentemente non potendosi considerare nè la trasformazione della cooperativa in società per azioni (consentita alle banche popolari già all’epoca dei fatti di causa) nè l’aumento del capitale sociale.

E’ altresì da escludere che i denunciati vizi della deliberazione di aumento del capitale sociale evidenzino deviazioni così radicali dal modello legale da configurare un’ipotesi d’inesistenza giuridica della deliberazione stessa: la quale, a quanto risulta, è stata assunta da un’assemblea ritualmente convocata, il cui andamento è stato normalmente verbalizzato, e che si è svolta senza particolari anomalie, salvo ad essersi conclusa con una votazione contestuale vertente tanto sulla proposta di trasformazione sociale che su quella di aumento del capitale.

I vizi che in ciò ravvisa il ricorrente si riducono, a ben vedere, ad un’asserita anomalia del procedimento di votazione ed alla non corretta modalità di computo delle maggioranze occorrenti per l’approvazione della proposta di aumento del capitale sociale. Ma, se anche si volessero considerare esistenti tali anomalie, non se ne potrebbe dedurre altro se non che il procedimento di votazione e le modalità di calcolo del quorum deliberativo non sono risultati conformi alla legge. Non ignora il collegio che, in tempi peraltro assai risalenti, questa corte ha parlato d’inesistenza della deliberazione assunta in difetto della maggioranza richiesta dall’atto costitutivo della società (Cass. 13 gennaio 1987, n. 133);

ma un siffatta affermazione, che dovrebbe ovviamente a maggior ragione valere per il difetto di quorum deliberativo prescritto dalla legge, anche alla luce degli orientamenti espressi da autorevole dottrina non può essere qui confermata, o almeno non in termini assoluti e generali.

Neppure nel contesto normativo anteriore alla suaccennata riforma del 2003 (con la quale il legislatore ha chiaramente manifestato l’intento di togliere spazio alla figura giurisprudenziale dell’inesistenza giuridica delle deliberazioni societarie) si sarebbe potuto sostenere che una deliberazione adottata in difformità dalle disposizioni di legge o dello statuto in materia di quorum deliberativi non abbia i lineamenti essenziali richiesti per integrare il modello legale di una decisione assunta dai soci della società in ordine alle proposte riportate nell’ordine del giorno dell’assemblea. Una siffatta deliberazione, proveniente da un’assemblea formata da soggetti legittimati ad assumerla e conclusasi con la proclamazione del risultato, è certamente un atto giuridico venuto ad esistenza. Nè vi osta il fatto che si sia proceduto ad un’unica votazione per una pluralità di oggetti, volta che risulti comunque possibile riferire l’esito della votazione medesima a ciascuno di essi.

La deliberazione è stata assunta e l’esito ne è stato proclamato e reso pubblico. L’eventuale errore nel computo dei voti, se fosse effetto di una mera svista, non potrebbe logicamente produrre conseguenze maggiori di quanto accade per l’errore ostativo in ambito negoziale; se invece – come si sostiene essere avvenuto nella fattispecie in esame – si fosse in presenza di un’errata valutazione circa le modalità di calcolo del quorum, operato secondo regole diverse da quelle legali o statutarie, ciò non potrebbe che tradursi in una non conformità alla legge (nella parte in cui questa dispone, appunto, in ordine alle suddette modalità di calcolo); ma in nessun caso potrebbe condurre a conseguenze più radicali, come quelle dell’ipotizzata inesistenza della deliberazione proclamata, palesemente contrarie alle fondamentali esigenze di certezza e di affidamento che ispirano (ed ispiravano anche nel regime anteriore alla cennata riforma societaria) la disciplina dell’art. 2377 c.c. e segg..

Si tratta, quindi, di una deliberazione semmai, annullabile, la cui stabilità ed i cui effetti non possono perciò essere messi in discussione ove, entro il termine di decadenza fissato dal citato art. 2311, nessuno dei soggetti a ciò legittimati abbia proposto azione di annullamento.

Stando così le cose, ed avendo il ricorrente sollevato solo in una memoria depositata il 30 ottobre 1997 (si veda il ricorso, pag. 9) la questione dell’invalidità della delibera di aumento del capitale sociale assunta dall’assemblea il 6 marzo 1996, è evidente che le asserite ragioni d’invalidità di detta deliberazione sono state dedotte quando erano ormai precluse.

3. L’ultimo motivo di ricorso sposta l’attenzione su un tema del tutto diverso: l’asserita invalidità per eccesso di potere della delibera assembleare che ha autorizzato gli amministratori della Banca di Todi ad acquistare azioni proprie.

3.1. Avendo tanto il tribunale quanto la corte d’appello escluso che una tale ragione d’invalidità fosse stata dimostrata in causa, il ricorrente si duole che il giudice del gravame non abbia preso in considerazione alcune specifiche censure da lui rivolte alla sentenza di primo grado, nè abbia inteso il senso delle argomentazioni con le quali era stato posto in evidenza l’abuso consumato dal socio di maggioranza al fine di trasformare il proprio controllo di fatto in un pieno controllo di diritto della società. 3.2. Neppure tale motivo di ricorso può essere accolto.

Premesso che nel giudizio di merito è stata fatta corretta applicazione del principio di diritto, sovente enunciato da questa corte, secondo cui l’abuso o eccesso di potere può costituire motivo di invalidità della delibera assembleare soltanto quando vi sia la prova che il voto determinante del socio di maggioranza è stato espresso allo scopo di ledere interessi degli altri soci, oppure risulta in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di buona fede nell’esecuzione del contratto (cfr., ex multis, Cass. 17 luglio 2007, n. 15950), l’unica questione decisiva consisteva – e consiste – nello stabilire se l’attore, sul quale grava il relativo onere, abbia fornito o meno la prova dell’abuso.

A questa domanda il tribunale ha dato risposta negativa e la corte territoriale ha poi ritenuto che i rilievi formulati dall’appellante non fossero idonei a scalfire la prima decisione.

Poco giova, in questa sede, soffermarsi a discutere in dettaglio sulle singole argomentazioni che il ricorrente asserisce di aver prospettato nell’atto di gravame e delle quali la corte d’appello non avrebbe tenuto conto. Ciò potrebbe aver rilievo, al fine di dimostrare l’esistenza di un vizio di motivazione dell’impugnata sentenza, solo a condizione che fosse possibile attribuire ad una o più specifiche e ben determinate circostanze, pretermesse dalla corte di merito, una valenza logica decisiva: tale, cioè, da far ipotizzare che, se di quelle circostanze detta corte si fosse invece fatta carico, la conclusione del giudizio sarebbe risultata diversa.

Ma l’esposizione del ricorso non consente di esprimere una siffatta valutazione. A fronte di una conclusione negativa circa l’assolvimento dell’onere della prova che, come riferisce la controricorrente, era stata tratta all’esito di un’istruttoria sviluppatasi in primo grado anche attraverso l’esame di testimoni, il ricorrente adduce l’esistenza di elementi indiziar dai quali, a suo dire, dovrebbe scaturire la conclusione opposta. Per poter avallare una simile opinione occorrerebbe, però, non solo poter esaminare direttamente ed in modo completo i documenti cui lo stesso ricorrente allude, ma anche confrontare quanto da essi emergesse con le risultanze della suindicata prova testimoniale; occorrerebbe, cioè, procedere ad una vera e propria rivisitazione integrale dell’intero materiale istruttorio acquisito in causa. Ma questo significherebbe reiterare il giudizio di merito e ciò esula dalla competenza di questa corte di legittimità. 4. Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato ed il ricorrente va condannato al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 15.000,00 per onorari e 200,00 per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.

P.Q.M.

La corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 15.000,00 per onorari e 200,00 per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 24-11-2010) 26-01-2011, n. 2785

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Il Tribunale di Macerata ha confermato il 2.10.2009 la condanna inflitta dal Giudice di Pace di Civitanova Marche il 28.7.2008 a S.G. perchè ritenuto colpevole di diffamazione in danno di G.R., riferendosi al medesimo – nella conversazione con sottufficiali dei CC. – con l’espressione "ladro" a riguardo del predetto.

La vicenda si svolse nel contesto di una perquisizione presso lo studio professionale dell’imputato, atto diretto a rinvenire un quietanza correlata all’addebito di appropriazione indebita ascritta al G. e commessa ai danni di SHU Srl. di cui S. era commercialista. Vi era stata una originaria denuncia sporta dal S. contro il G..

Lamenta il ricorrente.

– l’insufficienza e contraddittorietà della motivazione quanto al rilievo penale delle frasi espresse dal S. che si sarebbero più esattamente sostanziate nell’espressione, rivolta ai CC. Che eseguivano la perquisizione "non difenda il G.R. che abbiamo denunciato come ladro, frasi che esprimevano il legittimo esercizio del diritto di critica verso il G.; omessa motivazione sull’elemento soggettivo, in ordine al quale vi era stato apposito motivo di appello al quale, tuttavia, non ha fatto riscontro argomentazione in sede di motivazione.
Motivi della decisione

Il ricorso è inammissibile.

Il primo motivo è inammissibile sia perchè non risulta dedotto negli esatti termini della censura proposta con il gravame di appello, sicchè la sua proposizione non può essere avanzata per la prima volta avanti al giudice di legittimità; sia perchè è manifestamente infondata la prospettazione del diritto di critica poichè l’espressione non era in rapporto di continenza con gli interlocutori, che eseguivano un incombente istruttorio, sia – ancora – perchè essa trascende i limiti della correttezza del linguaggio e si concreta in attacco personale, finalizzati all’unico scopo di aggredire la sfera morale altrui, essendo intrinsecamente lesiva della reputazione dell’avversario, dal momento che l’epiteto "ladro" risulta in sè foriero di portato ingiurioso.

L’accertamento dell’esatta definizione della frase espressa – indiscutibile essendo l’uso del termine "ladro", essendo oggetto di ammissione da parte del ricorrente – impone una rivisitazione delle prove assunte nel corso del giudizio di merito e sufficientemente corredate da valida motivazione (che – quanto al fatto – richiama le indicazioni dei sottufficiali di PG.).

Il secondo motivo è manifestamente infondato: il giudice argomenta espressamente sulla consapevolezza dell’imputato nel denigrare l’avversario, richiamandosi all’elevato grado di cultura del prevenuto, circostanza che esclude l’incauto uso del termine e l’involontario utilizzo dell’espressione, anche perchè il comportamento del G. intendeva indubbiamente incidere nella sfera privata del prevenuto ed era, pertanto, motivato da volontà animosa verso il predetto avversario.

Dalla dichiarazione d’inammissibilità del ricorso consegue ai sensi dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ed anche al versamento della somma a favore della Cassa per le Ammende che si ritiene equo fissare in Euro 1.000, nonchè alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile liquidate in Euro 1.200, oltre accessori come per legge.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento nonchè al versamento della somma, che si ritiene equo fissare in Euro 1.000, in favore della Cassia delle Ammende, nonchè alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile liquidati.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 22-10-2010) 10-02-2011, n. 4894

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1.- La Corte di Appello di Torino ha confermato la dichiarazione di responsabilità del L. affermata dal Tribunale di Moncalieri in relazione ai reati di lesioni e minaccia grave in danno di G.A. ed ha rideterminato la pena in quattro mesi e un giorno di reclusione.

2.- L’imputato propone ricorso per cassazione, deducendo mancanza o illogicità della motivazione in relazione:

a.- alla valutazione della dichiarazione dei testi e dell’agente di P.G e all’omessa assoluzione per il capo A (lesioni). b.- all’omesso riconoscimento dell’esimente di cui all’art. 52. c.p.;

c- alla quantificazione della pena.

3.- Il ricorso è manifestamente infondato.

A.-. La Corte ha ricostruito la vicenda nel senso che il G., alla guida di un Tir, si era immesso sulla rotonda di S., in Torino, allorchè si vedeva tagliare la strada da un camioncino; suonato il clacson per richiamare l’attenzione del guidatore del camioncino, i due conducenti si fermavano, scendevano dai rispetti mezzi e il L., presa un’ascia, urlando "figlio di puttana ti ammazzo", colpiva con la parte liscia il G. al braccio sinistro, strappandogli la maglietta e causandogli una lesione, allontanandosi subito dopo.

Una diversa ricostruzione o valutandone del fatto, non è consentita in quanto il sindacato del giudice di legittimità sulla giustificazione del provvedimento impugnato è circoscritto solo alla verifica se il dedotto vizio della decisione sia costituito da errori delle regole della logica – principio di non contraddizione, di causalità, univocità, completezza – o dalla inconciliabilità con gli atti del processo specificatamente indicati (tra le tante Cass., sez. 6, 24 maggio 2007, n. 24680, Cass., sez. 6, 28 settembre 2006 n. 35964, Cass., sez. 1, 14 luglio 2006, n. 25117, Cass., sez. 5, 24 maggio 2006, 36764).

Nella specie la ricostruzione operata dal giudice merito è logica perchè si fonda sulle dichiarazioni della parte lesa, riscontrate da un altro conducente di Tir che aveva assistito alla scena ed aveva visto il G. con la maglietta strappata, con dei segni rossi al braccio ed un uomo, poi identificato nel L., che lo seguiva con un’ascia gridando "ti ammazzo" ed altro.

La logicità della motivazione risulta, inoltre, dal fatto che la testimonianza del teste introdotto dall’imputato che aveva escluso che si fosse verificato un contatto fisico tra le parti era contraddetta dal certificato dei sanitari del pronto soccorso, ove il G. si era recato alla fine del viaggio che avevano constatato contusioni ed ematoma, compatibile con le modalità dell’aggressione.

B.- Di conseguenza manifestamente infondata è la deduzione circa l’esimente della legittima difesa, avendo il giudice del merito logicamente escluso che il G. fosse passato a vie di fatto, non avendolo riferito lo stesso teste a difesa che aveva parlato solo di atteggiamento minaccioso della persona offesa, ma non di un atteggiamento concreto volto a colpire il L..

C.- Per quanto riguarda la pena va rilevato, anzitutto che sussiste l’aggravante dell’arma. Questa Corte ormai ha avuto modo di affermare che sussiste l’aggravante di cui all’art. 585 c.p., comma 2, n. 2 nel caso in cui le lesioni siano procurate con l’uso momentaneo od occasionale dello strumento atto ad offendere (un bastone), considerato che la norma non richiede che l’uso dello strumento offensivo integri anche la contravvenzione di cui alla L. n. 110 del 1975, art. 4 (Cass., sez. 5, 9 febbraio 2006, n. 9388). Nella specie le lesioni erano state procurate con la parte liscia di un’ascia che deve ritenersi uno strumento atto ad offendere non essendo stato utilizzato per la naturale destinazione, ma per colpire.

La pena inflitta, anche per quanto riguarda la continuazione, è poi manifestamente congrua avendola i giudici del merito irrogata in misura prossima al minimo edittale. Ne consegue l’inammissibilità del ricorso e la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del procedimento nonchè al versamento in favore della Cassa delle Ammende, di una somma determinata, equamente, in Euro 1000,00, tenuto conto del fatto che non sussistono elementi per ritenere che "la parte abbia proposto ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità".(Corte Cost.

186/2000).

Il ricorrente va anche condannato a rimborsare le spese di parte civile che possono essere liquidate in Euro 1500,00 oltre accessori come per legge.
P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000,00 in favore della Cassa delle Ammende nonchè alla rifusione delle spese di parte civile che liquida in Euro 1500,00 oltre accessori come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.