Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 06-05-2011) 20-05-2011, n. 20065 Revoca e sostituzione

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con ordinanza del 31 dicembre 2010, il Tribunale di Palermo ha respinto l’appello proposto nell’interesse di P.O. avverso l’ordinanza del 10 dicembre 2010, con la quale il Giudice per le indagini preliminari del medesimo Tribunale aveva respinto la richiesta di revoca della misura delle custodia cautelare in carcere emessa nei confronti del predetto per il delitto di rapina aggravata.

Propone ricorso per cassazione il difensore, il quale deduce violazione di legge e vizio di motivazione, in quanto i giudici dell’appello non avrebbero congruamente e logicamente replicato ai rilievi difensivi tesi a screditare il valore probatorio della ricognizione fotografica posta a base del corredo indiziario evocato nei confronti dell’indagato.

Il ricorso è palesemente inammissibile. Una volta formatosi, come nella specie, il giudicato cautelare in punto di gravita indiziaria, infatti, solo la sopravvenienza di fatti nuovi – nel frangente neppure dedotti – può giustificare la rivalutazione di quelli già apprezzati e rendere possibile la revoca o la modifica della misura applicata (ex plurimis, Cass., Sez. 1^, 15 aprile 2010, D’Agostino).

D’altra parte, le censure del tutto generiche poste a base del ricorso non hanno tenuto in alcun conto i puntuali rilievi svolti sul merito della vicenda cautelare dàgiudici del gravame, attenti a valorizzare le singole emergenze per poi ricomporle all’interno di un coeso e del tutto satisfattivo quadro indiziario, solo labialmente contrastato in sede di ricorso.

Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento alla Cassa delle ammende di una somma che si stima equo determinare in Euro 1.000,00 alla luce dei principi affermati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 186 del 2000.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna precorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille alla Cassa delle ammende. Si provveda a norma dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1- ter.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cons. Stato Sez. III, Sent., 06-06-2011, n. 3368 Pensioni, stipendi e salari

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Con sentenza 13 ottobre 2006, n. 10369, il TAR Lazio, III ter, Roma, accogliendo in parte il ricorso collettivo proposto da P. C. (più altri dipendenti dell’Autorità Garanzie delle Comunicazioni, meglio indicati in epigrafe,) ha riconosciuto a favore dei 18 ricorrenti il diritto al trattamento economico perequativo a far data dal 23 luglio 1998 (giorno successivo alla pubblicazione sulla G.U. del regolamento organico del personale dell’A.G.COM), mentre lo ha negato per il periodo dal 10 marzo 1998 (data di insediamento dell’A.G.COM. medesima), rigettando, altresì, la domanda di adeguamento sia dei buoni pasto sia dell’indennità di missione.

1.1. Avverso tale sentenza (non notificata ai dipendenti ricorrenti) ha proposto l’appello in epigrafe P. C., unitamente agli altri 17 ricorrenti in primo grado, chiedendone la riforma al fine di ottenere il riconoscimento del diritto all’indennità perequativa per il periodo dal 10 marzo al 22 luglio 1998, unitamente alla rivalutazione monetaria per il periodo di spettanza della medesima (cioè 10 marzo 1998 – 31 dicembre 1999), nonché del diritto all’adeguamento delle retribuzioni orarie connesse alle prestazioni di lavoro straordinario e del valore dei buoni pasto (dal 17 maggio 1999) e del trattamento di missione; in via subordinata, considerata la sussistenza di una contrastante giurisprudenza circa l’individuazione della data di maturazione del diritto all’indennità perequativa, viene chiesto, comunque, il deferimento della questione all’Adunanza plenaria, per la denegata ipotesi in cui la Sezione dovesse ritenere non fondata la domanda di riconoscimento dell’indennità perequativa dal 10 marzo 1998; infine sulle somme spettanti viene chiesto il computo di interessi e rivalutazione, spese vinte per il doppio grado di giudizio.

Ad avviso degli appellanti la sentenza di primo grado illogicamente non avrebbe rilevato che il mancato riconoscimento del diritto a percepire le richieste indennità perequative dal 10 marzo 1998, nonché ad ottenere gli altri benefici richiesti, si pone in contrasto con gli artt. 50 e 61 del regolamento organico del personale dell’AG.COM. e con puntuali atti di organizzazione della medesima, con il principio di parità di trattamento ed, infine, non risulta sorretto da motivazione.

L’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, pur ritualmente intimata, non si è costituita.

Alla pubblica udienza dell’11 marzo 2011, udito il difensore presente per gli appellanti come da verbale, la causa è passata in decisione.

2. Gli appellanti (tutti dipendenti pubblici in servizio fuori ruolo dapprima presso l’Ufficio del Garante per la radiodiffusione, istituito dalla legge n. 223/1990, e di poi presso l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, A.G.Com. istituita con la legge n. 249/1997 e subentrata all’Ufficio del Garante sopradetto) hanno chiesto la parziale riforma della sentenza di primo grado (meglio indicata in epigrafe) nella misura in cui non ha riconosciuto a loro favore il diritto ad ottenere:

1) le differenze retributive a titolo di indennità perequativa per il periodo 10 marzo – 23 luglio 1998, cioè il lasso di tempo intercorso tra l’insediamento dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e la successiva entrata in vigore del regolamento organico del personale, avvenuta il 23 luglio 1998;

2) l’adeguamento del compenso per il lavoro straordinario, dell’importo dei buoni pasto e dell’indennità di missione;

3) il computo della svalutazione monetaria sui crediti maturati per le differenze retributive.

L’appello appare fondato nei limiti di seguito illustrati.

Invero la sentenza di primo grado, nel riconoscere ai ricorrenti il diritto all’indennità perequativa (prevista prima dalla legge n. 249/1997 e poi dal reg. org. Pers. 1998) soltanto a far data dal 23 luglio 1998, non ha considerato che lo stesso regolamento organico all’art. 61 prevedeva la perdurante applicazione delle disposizioni adottate dall’Autorità in materia di stato giuridico e di trattamento economico del personale "con deliberazioni assunte prima dell’entrata in vigore del presente regolamento".

Pertanto, correttamente gli appellanti richiamano a sostegno della loro pretesa la delibera A.G.COM n. 4 del 1998 che, pur disciplinando principalmente la fase di avviamento degli uffici, tuttavia all’art. 4 detta organiche disposizioni in materia di "utilizzazione dei dipendenti pubblici" in fuori ruolo presso la A.G.COM, precisando al comma 5 che al personale medesimo viene concesso in trattamento giuridico ed economico analogo a quello in godimento dal personale di ruolo.

2.1. D’altra parte lo stesso giudice di primo grado, pur riconoscendo l’intento della legge n. 249/1997, art. 1 comma 19, di estendere al personale già in servizio fuori ruolo presso l’Ufficio del garante (e transitato presso l’A.G.COM) il medesimo trattamento giuridico – economico previsto per il personale dell’A.G.COM, poi, senza specifica motivazione, ritiene che la delibera sopradetta (n.4/1998) non sia applicabile ai ricorrenti in quanto "non destinatari" del provvedimento medesimo, mentre depongono per l’applicabilità di un omogeneo status giuridico economico a tutto il personale comandato evidenti esigenze di uniformità e di parità di trattamento a fronte di prestazioni di servizio sovrapponibili.

Né da alcun documento risulta che il personale ereditato dall’ex Ufficio del Garante per la radiodiffusione, nella fase di avvio della neoistituita A.G.COM., non sia stato utilizzato per lo svolgimento delle attività specifiche svolte dai gruppi di lavoro nell’epoca precedente la adozione del regolamento organico del personale del luglio 1998.

Pertanto, agli appellanti va riconosciuto il diritto all’indennità perequativa anche per il periodo 10 marzo 1998 – 22 luglio 1998; sull’importo dovuto viene riconosciuto altresì il diritto ai soli interessi legali, da computarsi dalla maturazione del credito fino al soddisfo con i criteri stabiliti dalla A.P. n. 3/1998, poiché (come è noto) a partire dai crediti maturati dal 1 gennaio 1995 la legge n. 724/1994 art. 22 comma 36, ha vietato il cumulo con la svalutazione monetaria.

2.2. Specularmente, invece, va respinta – per quanto sopra detto – la censura relativa alla mancata attribuzione della rivalutazione monetaria del credito corrispondente all’indennità perequativa riconosciuta ai ricorrenti dal giudice di primo grado per il periodo successivo al 23 luglio 1998; il Collegio, comunque, rileva al riguardo che (in conformità a specifico motivo di appello) la sentenza sul punto aveva omesso di pronunciare.

2.3. La sentenza di primo grado va riformata, altresì, con riguardo al mancato riconoscimento del diritto degli appellanti all’adeguamento del compenso corrisposto loro per il lavoro straordinario prestato.

Infatti la motivazione della sentenza non appare strettamente pertinente, considerato che fa riferimento alla carenza dei parametri fissati dal regolamento del personale per la retribuibilità del medesimo, mentre è in contestazione soltanto l’importo di tale retribuzione accessoria, e non la spettanza dell’emolumento.

Invece dagli atti di causa risulta che tali prestazioni sono state regolarmente autorizzate dall’organo competente per il periodo maggio – ottobre 1998 con specifica indicazione dei dipendenti in elenchi allegati ad ogni ordine di servizio mensile predisposto per tale esigenza; perciò, non risultando dagli atti che l’Autorità abbia formalmente contestato la legittimità dell’avvenuta corresponsione del compenso agli appellanti per le prestazioni di tale specie, non vi è ragione, (alla luce delle considerazioni esposte con riguardo all’esigenza di parità di trattamento in materia perequativa), di non riconoscere il diritto degli appellanti stessi all’adeguamento del corrispettivo ricevuto per le prestazioni straordinarie a quello liquidato al restante personale fuori ruolo.

2.4. Analogamente non appare condivisibile la motivazione posta dal giudice di primo grado a fondamento del rigetto della domanda di adeguamento dell’importo dei buoni pasto (e cioè che i buoni pasto non configurano una voce del trattamento retributivo e che l’orario dei dipendenti provenienti dall’ex Ufficio del Garante era di 36 ore, e non di 38 ore, come previsto per il personale dell’Autorità).

In realtà, già con parere n. 916/1996 la Sezione prima Consiglio di Stato, in sede consultiva, ha affermato (proprio con riguardo al personale in servizio presso l’ex Ufficio del Garante per la radiodiffusione) che i buoni pasto rappresentano un elemento della retribuzione, quando, come nel caso all’esame, è previsto, non un servizio di mensa, ma un beneficio contrattuale con un vero e proprio valore monetario su cui vengono operate le ritenute fiscali.

2.4.1. Né la differenza di importo (lire 9.000 e cioè euro 4,65, per gli appellanti, rispetto a lire 15.000, cioè euro 7,75, per gli altri dipendenti fuori ruolo presso l’Autorità) può essere giustificata dalla circostanza che (secondo quanto espone la sentenza appellata) i dipendenti appellanti erano tenuti ad osservare un orario di 36 ore settimanali contro le 38 ore stabilite per il personale dell’Autorità: infatti, premesso che gli appellanti deducono la mancata prova di tale differenza di orario di servizio affermata nella sentenza impugnata, va rilevato, comunque, che la stessa Autorità, con più determinazioni (tra cui vedi ordine di servizio n. 1/99 agli atti) aveva precisato che il personale in servizio, compreso quello in comando o fuori ruolo (senza distinzioni), aveva titolo a ricevere un buono pasto da lire 15.000 per ogni giornata lavorativa effettuata con rientro pomeridiano a partire dal 17 marzo 1999.

Pertanto, agli appellanti (in riforma della sentenza in epigrafe) va riconosciuto il diritto all’adeguamento dei buoni pasto assegnati da euro 4,65 a euro 7,75 a far data dal 17 maggio 1999.

2.5. Infine l’appello va accolto anche con riguardo alla domanda di accertamento del diritto degli appellanti all’adeguamento dell’importo dei trattamenti di missione: infatti, visti gli atti di causa (e cioè le lettere di cd. invio in missione), il Collegio, da un lato, rileva che l’oggetto della controversia non concerne la spettanza del trattamento di missione, ma soltanto l’applicazione di specifici criteri di computo uguali a quelli utilizzati per gli altri dipendenti fuori ruolo dell’Autorità.

Erroneamente, quindi, la sentenza, da un lato, ha respinto la domanda dei ricorrenti affermando che non avevano provato di avere effettivamente svolto le missioni per conto dell’Autorità, mentre, dall’altro, non ha dato seguito all’istanza istruttoria formulata dagli stessi ricorrenti per ottenere l’esibizione in giudizio – da parte dell’Autorità – della documentazione di servizio relativa allo svolgimento di tali prestazioni fuori sede.

Va perciò riformato lo specifico capo della sentenza appellata, riconoscendo il diritto degli appellanti all’applicazione degli stessi criteri di computo utilizzati per la liquidazione del trattamento di missione a favore degli altri dipendenti pubblici comandati presso l’Autorità, fatto salvo l’esercizio da parte dell’A.G. COM. delle necessarie verifiche della documentazione prescritta ai fini della quantificazione degli importi in concreto da corrispondere ad ognuno degli appellanti.

3. In conclusione l’appello va accolto nei limiti sopra illustrati e, pertanto, in riforma della sentenza in epigrafe, va riconosciuto il diritto degli appellanti all’indennità perequativa dal 10 marzo al 22 luglio 1998, con gli interessi legali (da computarsi come indicato), nonché all’adeguamento sia della retribuzione del lavoro straordinario, sia dell’importo dei buoni pasto dal 17 maggio 1999, sia del trattamento di missione con riferimento ai parametri utilizzati per il restante personale fuori ruolo in servizio presso l’Autorità all’epoca dei fatti; l’appello va, invece, respinto con riguardo alla domanda di rivalutazione monetaria degli importi spettanti a ciascuno degli appellanti; in conseguenza l’A.G.COM. va condannata al pagamento delle somme che risulteranno dovute a ciascuno degli appellanti unitamente agli interessi legali maturati, secondo il tasso vigente, fino al soddisfo.

Le spese di lite per il doppio grado di giudizio seguono la prevalente soccombenza e sono liquidate in euro 3.000,00 oltre gli accessori di legge, a carico dell’A.G.COM.
P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie nei limiti di cui in motivazione e, per l’effetto, in riforma parziale della sentenza del TAR Lazio in epigrafe, accoglie il ricorso di primo grado nei sensi e limiti indicati in motivazione.

Gli oneri di lite, liquidati in euro 3.000,00 oltre gli accessori di legge, sono posti a carico della A.G.COM.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 01-03-2011) 16-06-2011, n. 24111

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

-1- L.A. propone, per il tramite del difensore, ricorso per cassazione avverso la sentenza del Giudice di Pace di Firenze, del 21 ottobre 2009, che l’ha ritenuta colpevole del delitto di lesioni colpose in pregiudizio di C.L. e l’ha condannata alla pena di 1.500,00 Euro di multa.

Secondo l’accusa, condivisa dal giudice, l’imputata non ha custodito con le dovute cautele il proprio cane, che ha aggredito il C. che ha riportato, secondo la certificazione in atti, "ferita da morso di cane alla coscia sx", guarita entro 40 giorni.

Avverso tale decisione ricorre, dunque, l’imputata, che deduce inosservanza o erronea applicazione della legge penale in punto di affermazione della responsabilità.

-2- Il ricorso è manifestamente infondato.

Nel motivare le ragioni della decisione adottata, il giudice di pace ha rilevato che la stessa imputata: a) aveva precisato che il suo cane, incrocio tra un levriero afgano ed un lupo, era un cane da difesa che si metteva in allarme allorchè incontrava una persona con il volto poco visibile (nel caso di specie, il C. teneva il bavero del giubbotto alzato per ripararsi dal freddo), b) aveva ammesso che le era scivolato il dito sul guinzaglio estensibile, avendone, così, provocato l’allungamento, con conseguente impossibilità di controllare adeguatamente i movimenti dell’animale.

Tali circostanze sono legittimamente apparse al giudicante decisive e significative in tesi d’accusa, in quanto indicative della condotta negligente ed imprudente tenuta dall’imputata nella custodia di un animale dalle notevoli dimensioni e con le peculiarità caratteriali dalla stessa descritte. Giustamente, d’altra parte, lo stesso giudice ha rilevato che la circostanza che il cane fosse stato da poco operato ad una zampa non diminuiva il rischio di possibili reazioni davanti a sollecitazioni esterne, nè rendeva meno evidente la colpa dell’imputata e la sua negligenza nel controllarlo.

Orbene, a fronte di tale coerente argomentare, la ricorrente denuncia una inesistente violazione della legge penale per poi finire con il contestare il "percorso argomentativo" della motivazione, attraverso considerazioni in fatto non deducibili nella sede di legittimità e, in ogni caso, manifestamente infondate, laddove si nega qualsiasi comportamento colpevole e si sostiene che la responsabilità dell’imputata sarebbe stata affermata in relazione al mancato uso della museruola, asseritamente non obbligatorio. Affermazione che non corrisponde alla realtà, avendo il giudice del merito posto l’accento sulla complessiva gestione dell’animale, ritenuta imprudente e negligente, non solo per il mancato uso della museruola – dimostratosi, peraltro, necessario proprio alla luce della reazione avuta dal cane alla vista del C. – ma, più in generale, per l’insufficiente controllo dello stesso, esercitato con modalità tali che hanno permesso una pericolosa libertà di movimento all’animale che ne ha approfittato per aggredire il C..

E’ la stessa ricorrente, d’altra parte, a richiamare la giurisprudenza di questa Corte ed a sostenere che la fattispecie delittuosa oggi contestata può ritenersi integrata allorchè il proprietario dell’animale abbia violato elementari regole di prudenza; come è accaduto nel caso di specie, che ha visto l’imputata condurre imprudentemente un cane da difesa e di ragguardevoli proporzioni, irascibile in talune occasioni, senza museruola e con l’uso di un lungo guinzaglio che gli lasciava eccessive possibilità di movimento e che metteva a repentaglio l’altrui incolumità. Mentre la circostanza che l’animale fosse stato da poco operato e che fosse anziano non ne diminuiva, evidentemente, la pericolosità, bensì ne aumentava l’irascibilità e l’istinto reattivo sollecitato da fattori esterni.

Alla manifesta infondatezza dei motivi consegue l’inammissibilità del ricorso e la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma, in favore della cassa delle ammende, che si reputa equo determinare in Euro 1.000,00.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 21-11-2011, n. 24455 Responsabilità civile

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Svolgimento del processo

Il Tribunale di Roma il 27 giugno 2006, su gravame di C. E., confermava la sentenza del Giudice di pace del 2004, che aveva accolta la sua domanda di risarcimento danni da sinistro stradale avvenuto il (OMISSIS), determinando il quantum in misura inferiore a quello da lei ritenuto spettante in termini di spese mediche, spesa per CTU e CT di parte, di danno patrimoniale da mancato reddito nel periodo di invalidità temporanea, con compensazione delle spese di lite.

Il giudice dell’appello condannava la C. alle spese del grado, ma non riconosceva alla parte appellata la s.p.a. HDI Assicurazioni il rimborso forfettario per spese generali.

Avverso siffatta decisione propone ricorso principale la C. affidandosi a cinque motivi.

Resiste con controricorso la Compagnia assicuratrice che propone ricorso incidentale, affidandosi ad unico motivo. Non ha svolto attività difensiva l’intimata S.M. nella qualità di erede di M.L., all’epoca proprietario e conducente della autovettura coinvolta nell’incidente.

Motivi della decisione

I due ricorsi vanno riuniti ex art. 335 c.p.c..

1.-Con il primo motivo (violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione all’art. 2697 c.c. e del D.L. n. 857del 1976, art. 4, comma 3, conv. con modificazioni in L. n. 39 del 1977; errata ed illegittima motivazione relativamente ad un punto decisivo della controversia) e con il secondo (omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine al denegato riconoscimento del lucro cessante – art. 360 c.p.c., n. 5) la ricorrente, in estrema sintesi, si duole che erroneamente il giudice dell’appello avrebbe disapplicato la normativa da lei invocata, dal momento che ella è una lavoratrice autonoma e che a causa del sinistro aveva sofferto un periodo di invalidità temporanea di complessivi 40 giorni di cui avrebbe dato prova.

La complessa censura non merita accoglimento.

Infatti, il giudice a quo ha respinto la domanda così come introdotta semplicemente per difetto di prova sia perchè ritenuta insufficiente la documentazione allegata e prodotta in copia delle diverse dichiarazioni di redito ai fini del D.L. n. 857 del 1976, sia perchè la C., praticante commercialista, non ha dedotto nè provato che nel corso del periodo considerato avrebbe dimostrato lavori specifici da portare a termine (v. p. 3 sentenza impugnata).

Si tratta di una statuizione che risulta argomentata congruamente e logicamente, in quanto per la determinazione del danno potenziale è ovvio che debba essere fornita prova adeguata della sua esistenza nonchè del nesso causale con l’evento dedotto.

Peraltro, la stessa ricorrente riconosce che sia del tutto corretta la motivazione adottata dal Tribunale circa la non consequenzialità del reddito ad una retribuzione fissa e progredente giorno per giorno, bensì in relazione al prodotto finale da consegnarsi al cliente.

2.-Con il terzo e il quarto motivo ci si duole, in estrema sintesi del denegato rimborso delle spese mediche e del mancato rimborso delle spese di CTU e di CTP (le censure sono formulate entrambe sotto il profilo di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione).

Queste censure sono infondate solo che si legga la sentenza impugnata, la quale ha statuito che dette somme devono ritenersi comprese nell’importo, dichiarato congruo, delle somme erogate, dopo l’introduzione del giudizio di primo grado, dalla società assicuratrice e riconosciute dalla stessa C. di Euro 3.800,00 di cui Euro 700,00 per spese legali. Ne consegue che non si può parlare di diniego del diritto al rimborso, quanto di una valutazione diversa della pretesa attrice circa la quantificazione del danno, già operata dal primo giudice che comprendeva per l’appunto le spese della CTU. Ed, inoltre, correttamente il giudice a quo ha posto a carico della C. le spese sempre della CTU, in quanto dalla stessa è emerso che il danno biologico risarcibile rientrava nella somma riscossa nel luglio 2002 e il danno biologico è stato riconosciuto in misura inferiore, attese la limitata estensione temporale dell’invalidità (dieci giorni), verificatasi a fine luglio, e la mancata prova di perdita di chances.

3.-Con il quinto motivo (omessa motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5) in ordine alla compensazione delle spese di lite la ricorrente trascura di considerare che non solo per giurisprudenza costante di questa corte, riportata dalla società resistente, ma anche perchè il vizio denunciato non è affatto rinvenibile nell’argomentare del giudice dell’appello, che esso non può trovare accoglimento.

In effetti, si tratta di censura che si fonda sul presupposto della insufficiente determinazione del danno riscontratole: presupposto che attiene ad un giudizio di merito, che, come detto, risulta congruamente motivato in relazione alle circostanze fattuali e documentali in atti.

3.-Passando al ricorso incidentale, la società lamenta che il giudice dell’appello avrebbe dovuto condannare la C. anche al rimborso forfetario delle spese processuali (il diniego è stato motivato con richiami a giurisprudenza di questa Corte).

Il Collegio osserva che il motivo alla luce di più recenti e maggioritarie decisioni, cui ritiene di aderire, stante la natura giuridica di componente delle spese giudiziali (Cass. n. 4209/10;

Cass. n. 10993/07; Cass. n. 18059/07 ed altre), risulta fondato.

Non essendo necessario alcun accertamento la Corte decide nel merito ed applicandosi ratione temporis il D.M. 8 aprile 2004, liquida dette spese nella misura del 12,50% degli importi di diritti di procuratori ed onorari di avvocati, che vanno riconosciuti e versati dalla C. alla Compagnia assicuratrice.

Conclusivamente, il ricorso principale va respinto e quello incidentale accolto.

Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte, riuniti i ricorsi, rigetta il ricorso principale e, in accoglimento del ricorso incidentale, decidendo nel merito, cassa senza rinvio la sentenza impugnata nei limiti del motivo accolto e condanna la ricorrente principale al rimborso forfetario delle spese generali nel 12,50% degli importi liquidati a titolo di onorari e diritti di procuratore; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione, che liquida in Euro 1.000,00, di cui Euro 200,00 oltre spese generali ed accessori come per legge.

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