T.A.R. Campania Napoli Sez. VII, Sent., 11-03-2011, n. 1449 Equo indennizzo Rapporto di pubblico impiego

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Col ricorso in esame, F.C., sottufficiale dell’Aeronautica Militare con mansioni di Assistente Tecnico del Genio, specialità Elettricisti, impugna gli atti coi quali l’Istituto Medico Legale dell’Aeronautica di Roma – distaccamento straordinario di Napoli, prima, e la Commissione Sanitaria d’Appello di Roma, poi, hanno negato che l’infermità da lui contratta nei termini di un "linfoma non Hodgkin" sia dipendente da causa di servizio, in tal modo pregiudicando il riconoscimento dell’equo indennizzo e degli ulteriori emolumenti previsti dalla legge.

In particolare, il ricorrente censura:

1) erroneità del presupposto, travisamento e illogicità, difetto di istruttoria, in quanto nel caso di specie sussisterebbero tutti i presupposti per il riconoscimento della causa di servizio e, quantomeno, sussisterebbe la concausalità in relazione alla specifica attività lavorativa prestata dal ricorrente all’interno di centrali elettriche ove erano presenti cabine di trasformazione e impianti di rifasamento (condensatori e reattori) contenenti sostanze chimiche, analiticamente indicate in ricorso, responsabili, ove assorbite, di numerose patologie (dermatiti, alterazioni del sistema nervoso, danni epatici ed oculari, immunodepressione) e sospettate di avere un alto potenziale oncogeno nei riguardi dell’uomo; invece, le commissioni mediche non avrebbero minimamente tenuto conto di tali circostanze, né avrebbero compiuto sul punto adeguata istruttoria;

2) contraddittorietà, manifesta illogicità, falsa applicazione della legge, essendo mancato un contraddittorio col ricorrente ed un accertamento della causalità concreta, nonché qualsiasi motivazione che faccia intendere le ragioni dell’esclusione del nesso eziologico.

Si è difeso il Ministero della Difesa, eccependo l’inammissibilità dell’impugnativa in quanto rivolta avverso atti endoprocedimentali, nonché la sua infondatezza nel merito.

Nell’odierna udienza la causa è stata posta in decisione.
Motivi della decisione

Il ricorso è senz’altro ammissibile posto che in materia di equo indennizzo e di riconoscimento della dipendenza da causa di servizio, riguardo al personale militare e a quello allo stesso assimilato, l’atto conclusivo del procedimento è costituito dalla determinazione della commissione medica di seconda istanza la quale, ai sensi dell’art. 16 r.d. 15 aprile 1928 n. 1024, deve ritenersi definitiva (cfr., sul punto, Tar Puglia, Bari, sez. I, 10 novembre 2005, n. 4846).

Nel merito, va in primo luogo rammentato come i giudizi resi dagli organi medicolegali sulla dipendenza da causa di servizio dell’infermità denunciata dal pubblico dipendente sono connotati da discrezionalità tecnica, sicché il sindacato esperibile su di essi dal giudice amministrativo deve intendersi limitato ai profili di irragionevolezza, illogicità o travisamento dei fatti; si tratta quindi di limite che permette al giudice amministrativo una valutazione esterna di congruità e sufficienza del giudizio di non dipendenza, vale a dire sulla mera esistenza di un collegamento logico tra gli elementi accertati e le conclusioni che da essi si ritiene di trarre, mentre l’accertamento del nesso di causalità tra la patologia insorta ed i fatti di servizio, che sostanzia il giudizio sulla dipendenza o meno dal servizio, costituisce tipicamente esercizio di attività di merito tecnico riservato all’organo medico (così C.d.S., Sez. IV, 6 maggio 2010, n. 2619).

Fatta tale premessa, occorre osservare come i provvedimenti in esame non appaiono affetti da alcuna delle illegittimità declinate dal ricorrente.

In particolare, si ricava con chiarezza dal processo verbale n. 569/2001, relativo alla seduta dell’11.9.2001 della Commissione Sanitaria di Appello dell’Aeronautica Militare (e richiamato nella comunicazione del 4.2.2002), che il giudizio di non dipendenza dell’infermità "linfoma non Hodgkin" da causa di servizio è stato ampiamente e congruamente motivato "esaminata la documentazione agli atti, visto l’esito degli accertamenti clinici e strumentali eseguiti dall’interessato in sede di visita medica presso l’IML di Roma Sede Dist. Di Napoli" e, dunque, a valle di un esame diretto degli atti e della persona.

Inoltre, la motivazione d’appello, di conferma del giudizio escludente dell’organo sanitario di prima istanza, è stata sicuramente formulata in modo accurato.

Essa, infatti, dopo aver dato conto delle conoscenze mediche generali relative alla patogenesi dell’infermità in parola ("preso atto della etiologia complessa e in parte misconosciuta dei linfomi, di quelli di non Hodgkin in particolare") ed essere passata partitamente ad esaminare il contesto ambientale di lavoro del dipendente ("valutata l’attività di servizio svolta dall’interessato, così come dallo stesso evidenziato nella domanda all’origine della presente pratica e come risulta dal rapporto circostanziato"), ha esposto quindi conclusioni ragionevoli ed esaustive ("tale attività non ha comportato esposizione a fattori fisici o chimici potenzialmente lesivi oltre la comune generica nocività ambientale"; e "in ogni caso la permanenza nell’ambiente di lavoro è stata caratterizzata dall’alternanza tipica dei turni H24 e, nella documentazione agli atti, non emergono condizioni di stress operazionale continuativo").

Alla luce di tali considerazioni, vanno dunque respinte le censure formulate in ricorso ed appuntate soprattutto sulla carenza istruttoria e motivazionale dell’atto, nonché sull’erroneità del presupposto, sul travisamento, sulla illogicità e sulla contraddittorietà della motivazione, formulata invece, come detto, anche alla luce delle risultanze istruttorie e della prospettazione provenienti dal ricorrente.

Conseguentemente non può trovare ingresso la richiesta di condanna dell’amministrazione al pagamento di quanto asseritamente dovuto a titolo di equo indennizzo, oltre interessi e rivalutazione monetaria, anche in considerazione del fatto che il giudizio instaurato innanzi al G.A. per il riconoscimento della dipendenza da causa di servizio di una malattia o di una menomazione fisica, così come anche quello volto alla liquidazione di un equo indennizzo per le stesse, si configura come meramente impugnatorio, essendo la posizione del dipendente di interesse legittimo; mentre una posizione di diritto soggettivo in tema – che potrebbe comportare una condanna dell’amministrazione al pagamento di quanto dovuto – sorge solo una volta che ne sia avvenuto il riconoscimento della spettanza del beneficio ad opera della P.A. (cfr. Cons. di Stato sez. VI, n° 4621 del 23.9.2009; Cons. di Stato sez. VI, n° 4368 dell’8.7.2009; Cons. di Stato sez. VI, n° 5293 del 24.10.2008; Cons. di Stato sez. IV, n° 3914 del 10.7.2007; Cons. di Stato sez. IV, n° 3769 del 27.6.2007; T.A.R. Liguria n° 802 del 3.6.2005; T.A.R. LazioRoma n° 3093 del 26.4.2005; T.A.R. LazioRoma n° 12056 del 29.10.2004; T.A.R. CampaniaSalerno n° 224 del 27.3.2003).

Il ricorso è pertanto infondato e va respinto.

Tuttavia, la complessità delle valutazioni tecniche implicate e la specificità della patologia esaminata consentono di compensare tra le parti le spese di lite.
P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania (Sezione Settima), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Compensa le spese di lite.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. II, Sent., 22-06-2011, n. 13710 Azioni a difesa della proprietà

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motivo del ricorso principale, senza rinvio, rigetto del ricorso incidentale.
Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato l’il ottobre 1995 G. P. e P.R., comproprietari in (OMISSIS) – di immobili confinanti con gli immobili di proprietà di S.G., convenivano quest’ultimo davanti al Tribunale di Alba, lamentandosi di una serie di abusi dallo stesso commessi.

S.G. si costituiva ed oltre a contestare il fondamento delle doglianze degli attori, in via riconvenzionale, a sua volta si doleva di una serie di abusi commessi dagli attori.

Con sentenza in data 14 gennaio 2002 il Tribunale di Alba accoglieva parzialmente sia le domande principali che quelle riconvenzionali.

Contro tale decisione S.G. proponeva appello limitatamente alla sua condanna alla eliminazione di una tettoia in latero cemento e legno, già destinata a capannone agricolo.

P.R., anche quale erede di P.G., proponeva appello incidentale.

Con sentenza in data 2 dicembre 2004 la Corte di Appello di Torino accoglieva l’appello principale, ritenendo che fondatamente S. G. si doleva dell’ordine di demolizione del capannone, in quanto dalla consulenza tecnica non risultava provato che l’area sulla quale parzialmente insisteva tale opera fosse comune, ma che la stessa era soltanto sottoposta a servitù di passaggio.

Il fatto che con la realizzazione di tale opera fosse stato deviato il tracciato della servitù non aveva causato disagi rilevanti a P.R..

Per quanto riguardava l’appello incidentale, la Corte di appello riteneva che infondatamente P.R. si lamentava del mancato accoglimento della domanda di rimozione di tubazioni nel cortile di proprietà di S.G., in quanto a distanza non legale, rilevando che la domanda in questione riguardava unicamente nuove tubazioni, connesse a lavori di ampliamento del proprio fabbricato da parte di S.G., la cui esistenza non risultava accertata.

Infondatamente, ancora, P.R. si doleva del mancato accoglimento della domanda di demolizione di una concimaia realizzata da S.G. senza rispettare la distanza dai confini prevista dalla licenza edilizia.

La violazione in questione, infatti, avrebbe potuto comportare solo il risarcimento dei danni ai sensi dell’art. 872 cod. civ. e tali danni non erano stati provati; ad ogni modo non era contestato che l’edificio in questione da molto tempo non era più destinato a concimaia ed in relazione all’epoca di costruzione era in regola con le distanze legali.

La veduta che si esercitava dalla terrazza di tale costruzione era a distanza legale, tenendo conto del confine quale esistente in loco e sempre pacificamente accettato dalle parti, il che escludeva il ricorso alle mappe catastali.

Ugualmente infondata era la doglianza relativa all’accoglimento della domanda di rimozione del pluviale posizionato da P.R. sul retro del proprio fabbricato, in quanto a distanza non legale, essendo stata l’eccezione di usucapione tardivamente proposta.

Era, infine, infondato il motivo di appello con il quale R. P. si doleva della condanna alla rimozione di un muro sul presupposto che lo stesso fosse stato realizzato invadendo per 60 cm. la confinante proprietà di S.G., in quanto, essendovi contestazione sul fatto che la delimitazione esistente in loco rappresentasse in realtà il confine pacificamente accettato da sempre dalle parti, correttamente il tribunale aveva fatto ricorso alle mappe catastali.

La Corte di appello accoglieva soltanto il motivo di impugnazione con il quale P.R. si doleva della mancata condanna di S.G. alla rimozione di un cancello pedonale e carraio posto a confine tra le due proprietà, testualmente motivando ad evitare che siano poste in essere opere tali da poter rappresentare in futuro una situazione di apparenza necessaria per fondare 1facquisto a titolo originario del diritto di servitù di passaggio.

Dette domande rientrano pertanto nello schema di cui all’art. 949 c.c., commi 1 e 2.

Contro tale decisione S.G. ha ricorso per cassazione, con due motivi, illustrati da memoria.

Resiste con controricorso P.R., che ha anche proposto un articolato ricorso incidentale.
Motivi della decisione

Va preliminarmente disposta la riunione dei ricorsi.

Con il primo motivo del ricorso principale S.G. deduce che la Corte di appello di Torino ha accolto la domanda di cui al punto i) dell’appello incidentale (eliminare ogni transito sulla proprietà dei conchiudenti) che era stata proposta per la prima volta in sede di precisazione delle conclusioni nel giudizio di secondo grado.

Il motivo è infondato.

Occorre, in proposito, ricordare che la sentenza impugnata ha così motivato:

Le domande articolate dall’appellante incidentale sub g), h) ed i) riproposte in questa sede con il motivo di appello incidentale in esame, mirano ad escludere il riconoscimento di diritti reali in capo alla controparte, che dal canto suo non ha offerto alcuna prova – orale o documentale – dell’effettiva esistenza a favore della sua proprietà di una servitù di transito pedonale e carraio … ed ad evitare che siano poste in essere opere tali da poter rappresentare, in futuro, una situazione di apparenza necessaria per fondare l’acquisto a titolo originario del diritto di servitù di passaggio.

Dette domande rientrano pertanto nello schema di cui all’art. 949 c.c., commi 1 e 2.

Non avendo provato il S. l’esistenza – per acquisto a titolo originario o derivato – del suo diritto di servitù pedonale e carraia sulla proprietà P., e la preesistenza di un cancello o di altro tipo di accesso ove ora vi sono la recinzione e il cancello pedonale e carraio, deve essere accolto il motivo di appello in esame, con ordine al S. di rimuovere il cancello pedonale e carraio di cui si discute, che potrà essere sostituito con una delimitazione fissa.

E’ evidente, quindi, che i giudici di secondo grado, pur non avendo rilevato la novità della doglianza specifica di cui alla lettera i) dell’appello incidentale, non hanno emesso una statuizione che costituisca accoglimento della stessa (che, come detto, era del seguente tenore: eliminare ogni transito sulla proprietà dei conchiudenti).

Con il secondo motivo il ricorrente in via principale sostiene che erroneamente i giudici di merito hanno ritenuto che con le domande di cui ai punti g) (eliminare e/o ridurre a norma il muro di cinta con cancello pedonale e carraio costruito dal convenuto con affaccio sulla proprietà dei conchiudenti ripristinando il sito nello statu quo ante e/o quant’altro) ed h) (eliminare ogni illecito in danno della proprietà dei conchiudenti anche sotto il profilo dell’aggravamento di servitù emergente dagli atti e dagli accertamenti dell’eligendo C.T.U.) di cui all’appello incidentale era stata proposta una negatoria.

La prima domanda riguarderebbe l’aspetto statico del muro di cinta ed un eventuale sconfinamento (escluso dal C.T.U.).

La seconda, da un lato, non può essere considerata come negatoria, in mancanza della individuazione della servitù a cui tutela sarebbe stata esperita e dall’altro, per la sua formulazione, comportava il riconoscimento della esistenza di una servitù.

Le domande in questione, pertanto, non integrano nè singolarmente nè congiuntamente una domanda di negatoria di servitù ai sensi dell’art. 949, commi 1 e 2.

Le doglianze sono sostanzialmente fondate.

Premesso che nessuna statuizione ha, in concreto, emesso la sentenza impugnata con riferimento al muro, per cui il ricorrente in via principale non ha motivo di dolersi delle affermazioni in essa contenute che a tale opera si riferiscono, va rilevato che secondo la costante giurisprudenza di questa S.C. la negatoria ha come essenziale, indispensabile, presupposto la sussistenza di altrui pretese di diritto sul bene dell’attore e non può essere utilizzata allorchè, anche in presenza di turbative e molestie, esse non si sostanzino in una pretesa di diritto sulla cosa (sent. 15 dicembre 1975 n. 4124; 21 luglio 1973 n. 2140; 19 gennaio 1973 n. 191).

Nella specie non risulta che, realizzando il cancello di cui è stata disposta la rimozione, l’attuale ricorrente in via principale abbia mai inteso esercitare una servitù di passaggio sul fondo del P..

Nè si potrebbe invocare in senso contrario la sentenza di questa S.C. 11 ottobre 1986 n. 5949, la quale ha affermato che l’actio negatoria deve ritenersi esperibile anche per rimuovere un situazione che comporti il pericolo, con il decorso del tempo, di un asservimento del fondo dell’attore.

La semplice esistenza del cancello senza l’utilizzazione dello stesso, infatti, nella specie non comporta alcun pericolo per il fondo del P., dovendosi considerare erronea la affermazione della sentenza impugnata, secondo la quale occorre evitare che tale opera possa rappresentare, in futuro una situazione di apparenza necessaria per fondare l’acquisto a titolo originario del diritto di servitù di passaggio.

Un’opera astrattamente idonea a consentire il passaggio da un fondo ad un altro non può essere posta a fondamento di una servitù di passaggio per usucapione se tale passaggio non viene concretamente esercitato.

Con il ricorso incidentale P.R. ribadisce, innanzitutto, la sua tesi secondo la quale il S., costruendo il capannone, aveva occupato parte di una strada comune ex collazione privatorum agrorum e non semplicemente spostato il luogo di esercizio di una servitù di passaggio.

Il motivo è infondato.

E’ vero che secondo la giurisprudenza di questa S.C. l’esistenza di una strada costituita ex collatione privatorum agrorum può essere dimostrata con ogni mezzo (cfr., in tal senso, da ultimo, sent. 9 agosto 1998 n. 9896), ma non è meno vero che il ricorrente incidentale non indica quali sarebbero gli elementi, trascurati dai giudici di merito, che supporterebbero la sua tesi.

Deduce ancora P.R. che comunque la Corte di appello ha errato nel ritenere legittimo lo spostamento da parte del S. del luogo di esercizio della servitù di passaggio. La doglianza è fondata, non avendo il proprietario del fondo servente rispettato il disposto dell’art. 1068 c.c..

P.R. sostiene, poi, che hanno errato i giudici di merito nell’affermare si era doluto solo della realizzazione di "nuove" tubature a distanza legale.

La doglianza è fondata.

P.R., infatti, si era sempre lamentato della esistenza di tubazioni, senza precisazioni, nel cortile del confinante, per cui erroneamente i giudici di merito, sulla scia del C.T.U., hanno limitato il loro esame alle "nuove" tubature.

Deduce, poi, il ricorrente incidentale che, per quanto riguarda la concimaia non esistono nè denuncia delle opere in cemento armato, nè comunicazione della data di inizio e di fine dei lavori, nè la richiesta del certificato di agibilità, nè, ovviamente il certificato stesso. Non vi è quindi nulla che, tra l’altro, attesti la stabilità e sicurezza dell’immobile de quo e la sua non pericolosità, nè quando ne sia stata iniziata o terminata la costruzione.

E’ comunque acclarato che nel realizzare l’opera in questione controparte si è reso lecito di violare ogni prescrizione impostagli dalla licenza edilizia di cui sopra e dagli elaborati progettuali che ne fanno parte integrante ed essenziale e già ciò soltanto legittima le domande e conclusioni del conchiudente.

L’edificio in questione, infatti, essendo stato realizzato in totale difformità rispetto alla concessione edilizia, sia trova nella stessa situazione giuridica dell’immobile realizzato senza concessione edilizia.

Le doglianza sono infondate, in quanto a prescindere dalla novità di alcune di esse, le irregolarità denunciate avrebbero potuto comportare un risarcimento dei danni ma costituiscono violazione delle norme in tema di distanze.

Sotto questo profilo P.R. deduce che comunque dalla terrazza di tale concimaia si realizzava una veduta a distanza non legale, tenendo conto che i confini andavano determinati, non in base alle mappe catastali, come fatto dai giudici di merito, le quali hanno valore sussidiario.

Anche tale doglianza è infondata.

La semplice esistenza di una recinzione, infatti, non rende incontestabile il confine tra due fondi, ove non si dimostri che tale recinzione è stata apposta in conformità ai titoli o in base ad un accordo tra le parti.

La affermazione secondo la quale il confine in questione sarebbe stato chiaramente ed inequivocamente riconosciuto per fatti concludenti da tutte le parti è apodittica.

Sempre in tema di distanze P.R. deduce che poichè la terrazza costituisce veduta equiparabile a finestra doveva mantenersi a 10 mt. dal confine, come previsto per le pareti finestrate di edifici antistanti previsto del D.M. 2 aprile 1968, n. 144, art. 9.

A prescindere dalla sua novità, la doglianza è infondala, essendo sufficiente, a tale fine, osservare che una veduta esercitabile da una terrazza non è una finestra.

P.R. deduce, ancora, che l’eccezione di usucapione relativa al pluviale relativa al pluviale doveva ritenersi ricompresa nelle sue difese precedenti alla espressa proposizione della stessa.

La doglianza è inammissibile per la sua genericità.

P.R. si duole, ancora, della mancata ammissione delle prove, ma nulla dice per contrastare quanto affermato dai giudici di merito in ordine alla inammissibilità delle istanze istruttorie ex art. 345 c.p.c..

In definitiva, i ricorsi vanno accolti nei limiti sopra esposti, con cassazione in tali limiti della sentenza impugnata e rinvio, per un nuovo esame, ad altra sezione della Corte di appello di Torino, che provvedere anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi e li accoglie nei sensi di cui in motivazione; cassa la sentenza impugnata, con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Torino, anche per le spese del giudizio di cassazione.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 25-02-2011) 15-04-2011, n. 15476 Detenzione, spaccio, cessione, acquisto

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. La Corte d’appello di Lecce in data 12.12.2008-8.1.2009 confermava la condanna alla pena di giustizia inflitta il 20.10.2005 a S. F. dal Tribunale di Brindisi per la detenzione a fine di spaccio di gr. 4,279 di cocaina e 149,76 di hashish, rinvenuta in un motociclo ricoverato in garage di proprietà della madre dell’originaria coimputata B. il 7.11.2003, previa applicazione delle attenuanti generiche e di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5. 2. Ricorre nell’interesse di S. il difensore fiduciario, con unico articolato motivo denunciando violazione di legge e motivazione contraddittoria in relazione agli artt. 125, 192 e 603 c.p.p., D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 e art. 133 c.p., perchè:

il rinvenimento di documentazione afferente lo S. e le dichiarazioni della coimputata non comproverebbero comunque un possesso esclusivo di motociclo e garage;

– mancherebbe la prova della destinazione allo spaccio, in particolare per la cocaina;

– la Corte distrettuale non avrebbe acquisito ex art. 603 c.p.p. gli elementi di riscontro all’inattendibilità della B., sollecitati dalla difesa del ricorrente;

– omessa "attenzione" alla tematica del trattamento sanzionatorio proposta con l’atto di appello.

3. Il ricorso è inammissibile. Consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali del grado e della somma, equa in relazione al caso, di Euro 1000 in favore della Cassa delle ammende.

Il primo motivo è diverso da quelli consentiti, prospettando censura di stretto merito che in realtà mira alla rivalutazione del materiale probatorio, preclusa in questa fase di legittimità.

Quanto al secondo motivo, la Corte d’appello ha preso in specifico esame il punto afferente la destinazione allo spaccio piuttosto che all’uso personale, risolvendolo in senso confermativo dell’apprezzamento conforme del primo Giudice del merito, attraverso il richiamo alla quantità e qualità delle sostanze ed alle modalità di conservazione (pag. 6). Anche sul punto, pertanto, il motivo si risolve nella sollecitazione a preclusa diversa valutazione del fatto.

Terzo e quarto motivo sono del tutto generici.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000 alla Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

T.A.R. Lombardia Milano Sez. IV, Sent., 03-05-2011, n. 1134

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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Il ricorrente impugnava il diniego di rinnovo del permesso di soggiorno basato sulla sua assenza dal territorio dello Stato per un periodo superiore ai sei mesi e per la mancanza di redditi sufficienti per garantire il suo mantenimento in Italia.

Il ricorso si fonda su due motivi.

Il primo eccepisce la violazione dell’art. 13,comma 4, D.lgs. 286\98 e l’eccesso di potere per carenza di istruttoria, illogicità e genericità della motivazione.

Il periodo di assenza dal territorio nazionale per quanto può riscontrarsi dai timbri di uscita e di ingresso in Italia è stato inferiore ai sei mesi e peraltro essendo il permesso di soggiorno di durata pari a due anni l’assenza si sarebbe potuta prolungare fino ad un anno; oltretutto, pur non avendo alcun obbligo in tal senso, il ricorrente aveva anche motivato le ragioni del suo allontanamento.

Il secondo motivo denuncia la violazione dell’art. 10 bis L. 241\90 e degli artt. 4,comma 3, e 5,comma 5 D.lgs. 286\98.

Nell’avviso di rigetto del provvedimento vi era menzione solo del superamento del tempo massimo di allontanamento dal territorio nazionale e non si faceva alcun riferimento alla mancanza di redditi sufficienti; inoltre la documentata insufficienza dei redditi deriva dal fatto che egli è titolare di due posizioni INPS a causa di problemi legati alle difficoltà di trascrizione del nome e cognome egiziani.

Se si esaminano congiuntamente i due estratti si potrà verificare che il ricorrente ha sempre goduto di un reddito sufficiente a garantire il suo mantenimento, anche perché attualmente dispone di un contratto di lavoro a tempo indeterminato.

Il Ministero dell’Interno si costituiva in giudizio chiedendo il rigetto del ricorso.

Il ricorso è meritevole di accoglimento.

E" evidente l’errore di calcolo in cui è incorsa l’amministrazione perché il periodo di allontanamento dall’Italia che risulta dallo stesso permesso di soggiorno è inferiore ai sei mesi e questo elimina qualunque possibilità di contestare quanto previsto dall’art. 13,comma 4, D.lgs. 286\98.

Relativamente al secondo motivo è parimenti fondato il rilievo che l’avviso ex art. 10 bis L. 241\90 deve contenere tutti i motivi posti a base del diniego per consentire all’interessato di controdedurre con completezza garantendo in modo efficace la sua partecipazione procedimentale che è lo socpo della norma anche per prevenire inutili contenziosi.

Inoltre la circostanza che il ricorrente gode di redditi sufficienti risulta dagli estratti contributivi allegati e dal contratto di soggiorno prodotto cosicchè non può affermarsi che lo stesso non disponga di sufficienti mezzi di sostentamento in Italia.

Il ricorso va, pertanto, accolto con conseguente annullamento del provvedimento impugnato.

Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia Sezione IV, definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l’effetto annulla il provvedimento impugnato.

Condanna il Comune di Appiano Gentile alla rifusione delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 1.000 oltre C.P.A. ed I.V.A. ed al rimborso del contributo unificato ex art. 13,comma 6 bis,D.P.R. 115\02, nella somma di Euro 250.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

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