Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 21-10-2010) 04-01-2011, n. 146 Riparazione per ingiusta detenzione

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Svolgimento del processo e motivi della decisione

Il MINISTERO dell’ECONOMIA e delle FINANZE ricorre in Cassazione avverso l’ordinanza, in data 7.04.2008, della Corte d’Appello di Bari con cui è stata accolta l’istanza di riparazione per ingiusta detenzione in carcere, durata 8 giorni, presentata da M. D., con la conseguente liquidazione in suo favore della somma di Euro 50.000,00.

Prima di analizzare i motivi posti a base del ricorso, va premesso che la Corte Territoriale ha affermato che il caso di specie va inquadrato nell’ambito della previsione di cui all’art. 314 c.p.p., comma 2, nonostante la mancanza di una revoca o un annullamento formale di quello custodiale nel provvedimento del GIP, in data 15-17 luglio 1998, che si limitava a disporre l’immediata rimessione in libertà del M.. In ragione della motivazione, posta a base del richiamato provvedimento, secondo cui le intercettazioni telefoniche cui aveva fatto riferimento l’ordinanza cautelare non presentavano i caratteri della univocità indispensabile a farla assurgere a dignità di gravi indizi di colpevolezza, il giudice della riparazione ha ritenuto che si tratta di custodia cautelare patita dall’istante in forza di un provvedimento custodiale assolutamente illegittimo perchè adottato in palese violazione di legge in totale assenza dei necessari presupposti di cui all’art. 273 c.p.p.. Successivamente il processo si concluse definitivamente con sentenza n. 264/2003 del 13.03.2003 del GUP presso il Tribunale di Foggia, divenuta irrevocabile il 3.10.2003, con l’assoluzione del M. dal reato di cui al capo a) con la formula "perchè il fatto non sussiste". Ciò posto, la Corte barese, aderendo a quell’indirizzo giurisprudenziale, secondo cui, relativamente all’ipotesi prevista dall’art. 314 c.p.p., comma 2, per l’accoglimento della relativa istanza non è necessaria la presenza della condizione negativa che il prosciolto non abbia dato causa all’ingiusta detenzione o non abbia concorso a darvi causa per dolo o colpa grave, ha proceduto direttamente alla liquidazione della richiesta indennità.

Il ricorrente MINISTERO denuncia:

a) violazione dell’art. 314 c.p.p. in relazione all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), per erronea qualificazione della domanda.

Premesso che il ricorrente non aveva invocato l’applicazione dell’art. 314 c.p.p., comma 2, la Corte d’Appello ha disposto un vero e proprio mutamento della domanda in violazione del principio affermato da questa Suprema Corte (sezione 4, sentenza del 17 dicembre 1992, Malentacchi) secondo cui, una volta fissati, tramite il ricorso, gli elementi individuanti l’azione esperita, non è consentito nè alla parte nè al giudice di ufficio modificare la "causa pretendi".

Inoltre si argomenta che, comunque, nel caso di specie non era ravvisabile l’ipotesi individuata dalla Corte distrettuale, atteso che manca uno dei richiesti presupposti, vale a dire l’irrevocabilità della decisione da cui risulti accertato che il provvedimento che ha disposto la misura è stato emesso o mantenuto senza che sussistessero le condizioni di applicabilità previste dagli artt. 273 e 280 c.p.p.. Si precisa che è del tutto pacifico che tale decisione va individuata in un provvedimento del Tribunale o della Cassazione emesso nel procedimento incidentale de libertate, ovvero nella decisione di merito laddove la stessa accerti che difettavano ab inizio le condizioni di applicabilità della misura, e che tale decisione debba essere di annullamento, nel senso che debba essere fondata su di un diverso apprezzamento degli stessi indizi valutati all’atto dell’adozione della misura o del rigetto dell’istanza di revoca. Nel caso di specie vi è unicamente il provvedimento di revoca della misura custodiale emesso dallo stesso GIP che ebbe ad emanare l’ordinanza cautelare. Nè è corretto, per il ricorrente Ministero, il richiamo da parte del M., nell’istanza rivolta alla Corte d’Appello di riparazione per ingiusta detenzione, all’ordinanza in data 24.07.1998 del Tribunale del Riesame di Bari di annullamento del provvedimento cautelare in quanto giudicò sulla posizione di altri coindagati e, conseguentemente, non poteva essere ritenuto "decisione irrevocabile". b) Con un secondo motivo si denuncia violazione dell’art. 314 c.p.p..

Deduce il ricorrente Ministero, che quand’anche si volesse ritenere l’ipotesi di cui all’art. 314 c.p.p., comma 2, la decisione è errata non essendo corretto l’assunto della Corte secondo cui, nell’ipotesi del secondo comma, non è consentito al giudice della riparazione la valutazione della condotta tenuta dall’indagato. c) Con un terzo motivo si denuncia carenza ed illogicità della motivazione nella parte in cui ha determinato l’indennità spettante al ricorrente. La Corte ha proceduto ad un giudizio sintetico all’esito del quale, tenendo conto delle conseguenze in concreto cagionate al ricorrente dalia detenzione. La Corte ha commisurato espressamente l’indennità all’utile annuo dell’attività lavorativa perduta, stimato in Euro 9.000,00 ad anno e così in totale in Euro 45.000,00, a tale somma ha aggiunto ulteriori Euro 5000, a titolo di indennizzo per sofferenze patite in conseguenza degli otto giorni di detenzione sofferti. La statuizione è illogica ed illegittima.

L’indennizzo è stato commisurato non già alle conseguenze immediate e dirette della detenzione quanto alla durata del processo, vale a dire sono state indennizzate conseguenze diverse da quelle dipendenti dalla ingiusta detenzione. E’ illegittima in quanto la Corte non ha considerato che per l’irragionevole durata del processo e per il ristoro delle conseguenze da essa derivanti è prevista altra forma di indennizzo. E’ illogica laddove si ricollega la perdita dell’attività lavorativa alla misura cautelare applicata, segnatamente in ragione del provvedimento prefettizio che aveva revocato al ricorrente l’autorizzazione di polizia all’esercizio di guardia giurata ed il porto d’armi, proprio in conseguenza della disposta custodia in carcere. E’ evidente che il provvedimento prefettizio poteva essere agevolmente rimosso mediante il ricorso al giudice amministrativo, sia mediante la sollecitazione dei poteri di autotutela. La Corte territoriale ha poi omesso di considerare, in ogni caso, che i pregiudizi lamentati dipendevano dal provvedimento prefettizio e non dalla detenzione sofferta.

Il ricorso va accolto con conseguente annullamento della ordinanza impugnata.

Il primo rilievo (punto a) non è fondato atteso che non è affatto inibito al giudice della riparazione l’esatto inquadramento giuridico della domanda azionata ex art. 314 c.p.p.. Ed invero, in considerazione dell’aspetto anche pubblicistico dell’istituto, appare conforme a legge la possibilità del giudice di dare una veste giuridica esatta alla domanda azionata. Per altro, la massima giurisprudenziale di questa Corte, riportata nel ricorso sul punto, si riferisce alla diversa fattispecie in cui una delle parti (il contro-interessato) in causa non è stata posta in grado di interloquire sulla modifica di ufficio della "causa petendi".

Quanto all’esatto inquadramento della fattispecie de qua nella previsione dell’art. 314 c.p.p., comma 2, il collegio condivide l’impostazione del giudice a quo in quanto conforme sia al dettato della norma che alla giurisprudenza di legittimità in materia, sul rilievo che si è in presenza di una custodia cautelare patita dall’istante in forza di un provvedimento custodiale assolutamente illegittimo perchè adottato in palese violazione di legge, in quanto in totale assenza dei necessari presupposti (gravità degli indizi di colpevolezza) previsti dall’art. 273 c.p.p., alla cui esistenza l’ordinamento subordina la privazione preventiva della libertà dell’individuo.

Nel disciplinare la materia della riparazione dell’ingiusta detenzione, il codice di rito del 1988 prevede, accanto alle ipotesi di c.d. ingiustizia sostanziale della detenzione di cui all’art. 314 c.p.p., comma 1, per la cui sussistenza è necessario fare riferimento all’intervenuta assoluzione con formula di merito, altre ipotesi, disciplinate all’art. 314 c.p.p., comma 2, in cui l’ingiustizia è, per così dire, formale e che prescindono dall’esito del giudizio, di assoluzione o di condanna. La disposizione del comma 3 estende inoltre la applicabilità delle previsioni di cui ai commi 1 e 2 al caso, per quanto qui interessa, della sentenza di non doversi procedere.

Come chiaramente precisato da autorevole dottrina, nell’ipotesi di cui al secondo comma si tratta di risarcire "illegalmente custodito";

è indifferente l’epilogo: prosciolto con formula meno favorevole (di quella prevista dal comma 1 n.d.r.) o condannato; va stabilito se la custodia sia stata legalmente disposta e mantenuta, … se fosse coercibile allora, rebus sic stantibus … giudizio retrospettivo e l’illegittimità del provvedimento assume rilievo in quanto consti da "decisione irrevocabile".

La norma delinea chiaramente i presupposti della riparazione della custodia illegale, consistenti: 1) nella mancanza, all’epoca in cui è stata disposta o mantenuta la custodia, delle condizioni di applicabilità previste dall’art. 273 c.p.p. e art. 280 c.p.p. e 2) nel relativo accertamento con decisione irrevocabile. Nel caso di specie la Corte di appello di Bari ha accordato la riparazione in relazione al secondo presupposto, ritenendo che fosse intervenuto l’accertamento con decisione irrevocabile della illegittimità della detenzione. Per il ricorrente Ministero tale decisione è erronea in quanto sarebbe stato necessario una decisione definitiva emessa in sede di riesame e non all’esito del procedimento ordinario.

L’affermazione, ad avviso del Collegio, non può essere condivisa.

Occorre prendere le mosse da alcune decisioni, intervenute in tempi non molto recenti, delle Sezioni Unite della Corte, chiamate a risolvere il contrasto circa la persistenza o meno dell’interesse ad impugnare il provvedimento di custodia cautelare una volta riottenuta la libertà da parte dell’indagato. Nel ritenere sussistente il detto interesse, le Sezioni Unite (sentenza 12.10.93 dep. 8.11.93 n. 20, Durante) hanno appunto messo l’accento sulla rilevanza della decisione del Tribunale del riesame ai fini dell’accertamento dei presupposti che legittimano la richiesta di riparazione di ingiusta detenzione nei casi ex art. 314 c.p.p., comma 2, specialmente quanto all’accertamento della sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza (accertamento che, dovendo essere rapportato al momento dell’emissione del provvedimento restrittivo della libertà, non costituisce oggetto della sentenza del giudice di merito);

successivamente (sentenza 8.7.1994 n. 11, Buffa) hanno escluso che l’istanza di riesame sia preclusa da quella, precedentemente presentata, di revoca della misura, e che possa essere ritenuta inammissibile solo perchè proposta successivamente ad essa. In questa seconda sentenza si trova l’affermazione, poi massimata, secondo la quale "la "decisione irrevocabile", necessaria ex art. 314 c.p.p., per la riparazione dell’ingiusta detenzione, può essere individuata soltanto nell’ordinanza non impugnata emessa dal Tribunale ai sensi degli artt. 309 o 310 c.p.p., ovvero nella pronunzia adottata da questa Corte a seguito di ricorso contro tale ordinanza, o in sede di ricorso per saltum avverso il provvedimento cautelare".

E a tale principio ha fatto riferimento il ricorrente nel ritenere, come si è visto, insussistente una delle condizioni della domanda.

Non sembra tuttavia che il principio espresso dalle Sezioni Unite possa e debba essere inteso in senso tale da comportare l’esclusione del diritto alla riparazione in casi come quello in esame. Ed invero, le stesse Sezioni Unite (nella prima delle decisioni sopra ricordate) hanno riconosciuto essere vero che in alcune ipotesi, pur marginali, l’illegittimità della misura cautelare, ai sensi dell’art. 314 c.p.p., comma 2, può risultare in modo implicito e tuttavia evidente dalla stessa sentenza definitiva di merito, mentre per tutti gli altri casi, e specialmente per quello concernente i gravi indizi di colpevolezza, la decisione irrevocabile è quella, non impugnata, resa in sede di riesame o appello avverso il provvedimento restrittivo della libertà o quella emessa da questa Corte a seguito di ricorso. Tali ipotesi marginali sono state precisate dalle sezioni unite "nei casi in cui l’imputato sia stato condannato per un reato diverso da quello contestato ed inoltre punito con pena edittale non superiore nel massimo a tre anni di reclusione, per cui la misura cautelare risulti ex post inflitta in violazione del cit. art. 280 c.p.p., ovvero nel caso in cui l’imputato sia stato viceversa assolto perchè il reato era estinto sin dal momento di applicazione o conferma della stessa misura". Senza ulteriormente approfondire il discorso circa tali affermazioni dell’autorevole Collegio, qui non rilevanti, giova invece sottolineare che dalle stesse si evince chiaramente che la decisione emessa in sede di riesame non esaurisce la nozione di "decisione irrevocabile" di cui all’art. 314 c.p.p., comma 2, tale potendosi considerare anche quella emessa all’esito del giudizio di merito sempre che dalla stessa sia accertata la mancanza originaria delle condizioni di applicabilità della misura.

Ciò posto, però, l’ordinanza va annullata non condividendosi la successiva impostazione in diritto di applicazione dell’ipotesi di cui all’art. 314 c.p.p., comma 2, come dedotto dal ricorrente Ministero (punto b del ricorso). Sul punto sono intervenute le SS.UU. che, con sentenza n. 32383 del 27.05.2010 (Rv. 247663) hanno affermato il seguente principio di diritto: "La circostanza dell’avere dato o concorso a dare causa alla misura custodiale per dolo o colpa grave opera quale condizione ostativa al riconoscimento del diritto all’equa riparazione per ingiusta detenzione anche nella ipotesi, prevista dall’art. 314 c.p.p., comma 2, di riparazione per sottoposizione a custodia cautelare in assenza delle condizioni di applicabilità di cui agli artt. 273 e 280 c.p.p.; tale operatività non può peraltro concretamente esplicarsi, in forza del meccanismo "causale" che governa la condizione stessa, nei casi in cui l’accertamento dell’insussistenza ab origine delle condizioni di applicabilità della misura custodiale avvenga sulla base degli stessi precisi elementi che aveva a disposizione il giudice del provvedimento della cautela, e in ragione esclusivamente di una loro diversa valutazione".

Orbene, quanto a quest’ultima affermazione si evidenzia che, per il caso di specie, essa non esclude che non operi la causa ostativa della dolo o della colpa grave atteso che il GIP ebbe a revocare la misura cautelare all’esito dell’interrogatorio di garanzia dell’indagato, per cui si può fondatamente sostenere che il giudice, successivamente all’emissione dell’ordinanza cautelare, operò la valutazione delle condizioni di applicabilità della misura, non unicamente in maniera diversa, ma sulla base di un elemento, quale è l’interrogatorio di garanzia, sopraggiunto. Ed infatti nell’ordinanza di revoca è dato leggere che, come riportato dalla stessa Corte d’Appello di Bari, "…..gli indizi di colpevolezza rappresentati dalle intercettazioni telefoniche sono, alla luce delle dichiarazioni rese in sede di interrogatorio, leggibili anche in chiave non accusatoria, divenendo meno univoche le conversazioni captate". In ragione di tanto, l’impugnata ordinanza va annullata con rinvio alla Corte d’Appello di Bari per una nuova valutazione dell’istanza presentata dal M. sulla scorta di quanto affermato e considerando le deduzioni prospettate dal ricorrente Ministero in ordine all’eventuale quantificazione della indennità richiesta, apparendo esse, prima facie, fondate essendo esse aderenti all’indirizzo giurisprudenziale di questa Corte in materia di liquidazione dell’indennità per ingiusta detenzione (V. da ultimo Sez. 4, Sentenza n. 22688 del 18/03/2009 Cc. Rv. 243990). Demanda alla Corte territoriale anche la liquidazione delle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

Annulla l’ordinanza impugnata con rinvio alla Corte di Appello di Bari cui demanda anche la liquidazione delle spese del presente grado.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 24-02-2011, n. 4475 Danno

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Svolgimento del processo

La corte di appello di Torino, con sentenza depositata il 31.5.2005, in riforma della sentenza del tribunale di Asti rigettava la domanda proposta da Asti Doc dei fratelli Montrucchio di Monrucchio Paola e C. s.n.c. nei confronti dell’ex socio M.A., per sentirlo condannare al pagamento della somma di L. 11.800.000, dal medesimo arbitrariamente prelevata dal conto corrente della società, prima del recesso.

Riteneva la corte di merito che il convenuto appellante, contrariamente a quanto sostenuto dal primo giudice, aveva contestato il fatto del prelievo di somme, che quindi non risultava provato, e che il fatto che aveva, in via ipotetica, assunte per cui se anche avesse effettuato il prelievo, ciò era avvenuto perchè in quel momento era in credito nei confronti della società di somme maggiori, non integrava una confessione o un’ammissione del convenuto.

Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’attrice.

Non ha svolto attività difensiva la intimata.
Motivi della decisione

1. Il collegio ha raccomandato una motivazione semplificata. Con l’unico motivo di ricorso la ricorrente lamenta l’insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 2697 c.c. e art. 2730 c.c. ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5.

Assume la ricorrente che erroneamente la sentenza impugnata aveva ritenuto che mancava la prova che il convenuto avesse prelevato l’importo indicato, mentre tale prova risultava dalle stesse ammissioni del legale del convenuto, contenute in una lettera dell’8.6.1994, nonchè negli scritti difensivi, che giustificavano il prelievo con un suo maggior credito, nonchè dalle deposizioni del teste G. e dalle fatture da questi prodotte.

2. Il motivo è infondato.

Anzitutto va osservato che le ammissioni contenute negli scritti difensivi, sottoscritti unicamente dal procuratore ad litem, non hanno valore confessorio, ma costituiscono elementi indiziari liberamente valutabili dal giudice per la formazione del suo convincimento, mentre neppure valore indiziario hanno le ammissioni del procuratore contenute in atti stragiudiziali (Cass. 02/10/2007, n. 20701).

Inoltre le censure mirano ad una diversa ricostruzione dei fatti rispetto a quella effettuata dal giudice di appello, come tale inammissibile in questa sede di sindacato di legittimità. 3. Quanto alla censura attinente all’errata valutazione della deposizione del teste G., nonchè della documentazione prodotta, la stessa è inammissibile per mancanza di autosufficienza.

Qualora, con il ricorso per Cassazione, venga dedotta l’omessa od insufficiente motivazione della sentenza impugnata per l’asserita mancata o errata valutazione di risultanze processuali (un documento, deposizioni testimoniali, dichiarazioni di parti, accertamenti del ct., ecc), è necessario, al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività della risultanza non valutata (o insufficientemente valutata), che il ricorrente precisi – ove occorra, mediante integrale trascrizione della medesima nel ricorso – la risultanza che egli asserisce decisiva e non valutata o insufficientemente valutata, dato che, per il principio di autosufficienza del ricorso per Cassazione, il controllo deve essere consentito alla corte di cassazione sulla base delle deduzioni contenute nell’atto, alle cui lacune non è possibile sopperire con indagini integrative (Cass. 23.3.2005, n. 6225; Cass. 23.1.2004, n. 1170).

4. Il ricorso va, pertanto, rigettato.

Nulla per le spese non avendo l’intimato svolto attività difensiva.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Nulla per le spese.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 24-03-2011, n. 6738 Cose in custodia

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Svolgimento del processo

1.1. R.R. citò la S.S. Calcio Napoli, di cui era stato tecnico di fiducia, per conseguirne la condanna al risarcimento dei danni per le serie lesioni patite a seguito di una caduta, avvenuta il (OMISSIS) e causata da una poltroncina male fissata, nel corso di un sopralluogo allo Stadio S. Paolo con il tecnico comunale, precedente lo svolgimento dell’incontro di calcio Napoli Juventus; la società chiamò in garanzia la spa Assicurazioni Generali ed il Tribunale di Napoli rigettò la domanda, compensando interamente tra le parti le spese di lite, sull’assunto della carenza di prova della qualità di custode della società al momento del sopralluogo.

1.2. Il R. propose gravame, che però la Corte di Appello di Napoli – con sentenza n. 3746/08, pubbl. il 29.10.08 e notificata il 4.12.08 – rigettò, ritenendo al riguardo che la qualità di custode – e comunque la disponibilità dei luoghi – non sussisteva in capo alla società sportiva al momento del sopralluogo antecedente ogni partita.

2. Il R. ora propone ricorso per cassazione, che notifica al curatore del fallimento della S.S. Calcio Napoli, affidandosi ad otto motivi; resiste la sola Assicurazioni Generali con controricorso; e, per la pubblica udienza del 3.2.11, compare solo quest’ultima per la discussione orale.
Motivi della decisione

3. Il R. dispiega otto motivi di ricorso:

3.1. con il primo, rubricato "violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c. e segg. e delle norme di ermeneutica contrattuale della concessione d’uso, in relazione all’errata valutazione della fattispecie ex art. 2051 c.c. ( art. 360 c.p.c., n. 3)", egli si duole della mancanza di una ragionata valutazione delle censure prospettate in appello e soprattutto di una mancata interpretazione della portata letterale e del tenore complessivo delle clausole pattizie comprese nella convenzione che ha regolato il rapporto tra Comune e Società;

e conclude con un quesito di diritto;

3.2. con il secondo, rubricato "omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia ( art. 360 c.p.c., n. 5)", egli si duole dell’omissione dell’esame del verbale di consistenza, dal quale risulterebbe l’avvenuta consegna dello stadio e delle relative attrezzature alla società; e conclude con un quesito o momento di sintesi;

3.3. con il terzo, rubricato "violazione e falsa applicazione degli artt. 2051 e 2043 c.c. in relazione alla violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. sull’errata valutazione delle risultanze istruttorie ( art. 360 c.p.c., n. 3)", egli si duole dell’omessa valutazione in punto di diritto della valenza probatoria del verbale di "consistenza" – e non di "consegna" – del 23.3.97, dal quale sarebbe inconfutabilmente emersa l’avvenuta consegna della struttura; e conclude con un quesito di diritto;

3.4. con il quarto, rubricato "vizio di motivazione in relazione all’art. 360, n. 5", egli lamenta la carenza di motivazione sulla valenza probatoria del verbale di consistenza, sia autonomamente, sia quale diretta emanazione della convenzione druso; e conclude con un quesito o momento di sintesi;

3.5. con il quinto, rubricato "violazione e falsa applicazione delle norme in tema di legittimazione passiva ed omessa insufficiente motivazione in materia di concessione d’uso – ulteriore violazione sulle norme processuali ex artt. 115 e 116", egli si duole della mancata considerazione, da parte del giudice di appello, del valore del verbale di consistenza, dal quale si poteva ricavare che la Società rimaneva custode nei giorni liberi dalle manifestazioni sportive, come pure dell’erronea interpretazione dell’art. 5 della Convenzione, da cui si ricavava la persistenza della qualità di custode negli intervalli tra le manifestazioni; e conclude con un quesito complesso ed articolato su più proposizioni;

3.6. con il sesto motivo, rubricato "violazione e falsa applicazione delle norme di diritto e dei contratti in relazione all’art. 360, n. 3", egli si duole di potenziali "vizi di motivazione in dipendenza della violazione delle norme di ermeneutica contrattuale"; ma non conclude con alcun quesito;

3.7. con il settimo motivo, rubricato "omessa motivazione di cui all’art. 360, n. 5", egli contesta la carenza di motivazione sull’operatività della polizza direttamente a proprio favore, quale prestatore di lavoro dell’assicurato ed anzi suo rappresentante; e conclude con un quesito o momento di sintesi;

3.8. con l’ottavo motivo, rubricato "violazione di norme di contratto – vizio di motivazione ex art. 360, n. 5", egli denuncia, senza formulare alcun quesito o momento di sintesi, la totale omissione di motivazione sull’obbligo contrattuale diretto della Assicurazioni Generali spa verso di lui.

4. Degli intimati, la sola Generali resiste al ricorso, del quale sostiene l’inammissibilità per riferirsi i quesiti al merito della controversia, il cui esame è comunque precluso in sede di legittimità, deducendo poi: essere violato il principio di autosufficienza, per mancata riproduzione integrale sia della Convenzione in Uso dello Stadio San Paolo, sia del verbale di consegna e/o consistenza del 23.3.97; non essere presente alcun vizio della motivazione; essere generici od inconferenti alcuni dei quesiti; essere coerente e congrua la valutazione dei giudici di merito sull’insussistenza di una consegna della struttura alla S.S. Calcio Napoli al momento del sinistro, con conseguente inapplicabilità tanto dell’art. 2051 che dell’art. 2043 c.c.; essere nuova e comunque infondata la doglianza sulla mancata motivazione in ordine alla diretta operatività della copertura assicurativa; essere inammissibile una pronuncia nel merito ai sensi dell’art. 384 c.p.c., soprattutto in caso di questioni non trattate nei precedenti gradi di giudizio.

5. Tutto ciò posto, il ricorso è inammissibile a causa del tenore dei motivi come in concreto formulati e per violazione del principio di autosufficienza, vale a dire per la mancata riproduzione dei testi integrali degli atti sui quali il ricorrente vorrebbe fondare la tesi della persistenza od immanenza della qualità di custode in capo alla S.S. Calcio Napoli, concessionaria degli impianti, anche negli intervalli tra due manifestazioni sportive e tra due successivi verbali di consegna e riconsegna o comunque di consistenza (quello successivo all’ultima manifestazione e quello immediatamente precedente la successiva). I pochi stralci riportati sono del tutto inadeguati infatti a consentire una completa disamina, nei limiti in cui essa sia poi ammissibile in questa sede di legittimità, del contenuto di tali decisivi atti, in rapporto alle denunciate lacune della gravata sentenza. 6. Del resto:

6.1. il quesito conclusivo del motivo di cui sopra al punto 3.1. è inammissibile, visto che confonde l’interpretazione del contratto con la qualificazione della fattispecie in relazione ad atti al primo estranei, siccome successivi;

6.2. il quesito conclusivo del motivo di cui sopra al punto 3.2., riferito ad un vizio di motivazione, è del pari inammissibile, perchè non da conto di quali specifiche circostanze – genericamente ivi indicate come tutte quelle "dedotte nelle difese di primo e secondo grado in produzione" – sarebbe stata omessa la valutazione;

ed è infondato, perchè la motivazione sull’insussistenza della qualità di custode negli intervalli tra le manifestazioni è stata resa, benchè essa sia contestata;

6.3. il quesito conclusivo del motivo di cui sopra al punto 3.3. è anch’esso inammissibile, perchè sollecita una valutazione delle prove diversa da quella auspicata dal ricorrente, pretermettendo il fatto che una valutazione prevalente della convenzione è stata comunque operata, con esclusione della qualità di custode nei richiamati intervalli;

6.4. il quesito conclusivo del motivo di cui sopra al punto 3.4 è perfino privo dello speciale quesito di cui al capoverso dell’art. 366 bis c.p.c., secondo la sua ricostruzione ormai consolidata nella giurisprudenza di questa Corte;

6.5. il quesito conclusivo del motivo di cui sopra al punto 3.5. è inammissibile sia per la mancata indicazione delle norme di diritto (essendo richiamate genericamente quelle "in tema di legittimazione passiva"), sia per l’incongrua commistione con la doglianza di "omessa ed insufficiente motivazione in materia di concessione d’uso" (che non corrisponde ad alcuna delle astratte fattispecie di vizi per ovviare ai quali può ricorrersi per cassazione), sia per la già evidenziata mancanza, nel quesito, dell’integrale trascrizione dei passaggi degli atti sui quali sarebbe stata consumata la violazione di specifiche norme ermeneutiche, sia per essere stata prospettata una valutazione delle risultanze istruttorie diversa da quella operata, sia per la carenza di autonomia e riferibilità al caso di specie delle proposizioni in cui si articola il multiplo quesito, sia per la carenza di sintesi sul prospettato vizio di motivazione;

6.6. il quesito conclusivo del motivo di cui sopra al punto 3.6. è perfino privo dello speciale quesito di cui al capoverso dell’art. 366 bis c.p.c., secondo la sua ricostruzione ormai consolidata nella giurisprudenza di questa Corte;

6.7. il motivo di cui sopra al punto 3.7. è inammissibile per novità della questione e per inconferenza della tesi addotta: in primo luogo, non risulta in quale momento del giudizio di merito sia stata, espressamente e negli specifici termini riprodotti in questa sede, formulata la domanda di riconoscimento di operatività diretta della garanzia assicurativa: così prospettandosi la novità della questione in tali espressi termini; in secondo luogo, non si deduce neppure in tesi che il contenuto della polizza, stavolta almeno sommariamente riprodotto, possa fondare direttamente un diritto in capo all’infortunato, anzichè quello, emergente con chiarezza dal tenore testuale, nascente direttamente ed esclusivamente in favore dell’assicurato per tenerlo indenne degli esborsi dovuti ai terzi o ai dipendenti; in terzo luogo, non si fa carico di dedurre la sussistenza di tutte le condizioni per l’operatività di tutte le coperture assicurative, con evidenza ancorate alla sussistenza di ben determinati presupposti di fatto secondo quanto risulta dallo stesso tenore testuale della polizza, nè – soprattutto e dinanzi alle contestazioni di controparte – in quale momento dei precedenti gradi egli avrebbe dedotto e provato le stesse;

6.8. il quesito conclusivo del motivo di cui sopra al punto 3.8. è perfino privo dello speciale quesito di cui al capoverso dell’art. 366 bis c.p.c., secondo la sua ricostruzione ormai consolidata nella giurisprudenza di questa Corte.

7. Il ricorso va pertanto rigettato ed il ricorrente condannato al pagamento delle spese di lite del giudizio di cassazione in favore della controricorrente.
P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso principale e condanna R.R. al pagamento, in favore della spa Assicurazioni Generali, in pers. del leg. rappr.nte p.t., delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 5.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. V, Sent., 21-04-2011, n. 9198 Dichiarazione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Gli atti del giudizio di legittimità.

Il giorno 18.5.2006 è stato notificato a I.R. ed I.L. (siccome eredi di I.R.) un ricorso dell’Agenzia delle Entrate per la cassazione della sentenza descritta in epigrafe (depositata 15.4.2005), che ha reietto l’appello della medesima Agenzia contro la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Roma n. 586/56/2001, che aveva accolto il ricorso della parte contribuente avverso cartella di pagamento notificata il 26.3.1998 concernente imposte per i periodi tra il 1984 ed il 1990.

In data 15.6.2006 è stato notificato alla parte ricorrente il controricorso degli intimati.

La controversia è stata discussa alla pubblica udienza del 10.2.2011, in cui il PG ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

2. I fatti di causa.

A seguito di dichiarazione integrativa ai sensi della L. n. 413 del 1991 con cui I.R. aveva versato il 20% dell’imposta lorda dichiarata per gli anni tra il 1984 ed il 1990 (così come rilevata dal modello 201 recapitatogli dall’INPS) il Centro Servizi competente aveva iscritto a ruolo a carico del medesimo la somma di L. 24.423.790, sul presupposto che il medesimo I. – non avendo presentato dichiarazione dei redditi per tutti gli anni in questione – fosse tenuto a pagare la somma di L. 2.000.000 per ciascun anno condonato, in applicazione della disciplina della L. n. 413 del 1991, art. 38, comma 5. Impugnata detta cartella e subentrati gli eredi a seguito della morte dell’ I., l’adita CTP di Roma aveva accolto il ricorso. L’appello dell’Agenzia era rimasto poi disatteso da parte della CTR di Roma.

3. La motivazione della sentenza impugnata.

La sentenza della CTR, oggetto del ricorso per cassazione, è motivata nel senso che doveva considerarsi legittima la istanza dell’ I. – volta a definire le imposte per le annualità in esame con il versamento del 20% dell’imposta lorda corrisposta in ciascun anno – atteso che i pensionati INPS sono esonerati (della L. 30 marzo 1981, n. 119, ex art. 1) dall’obbligo di spedire al Centro Servizi il modello 201 che è ad essi inviato, sicchè la condizione posta dal menzionato art. 38, comma 7 (secondo cui la presentazione del modello 101 o de modello 201 è considerata presentazione della dichiarazione dei redditi agli effetti della "definizione") "è automaticamente soddisfatta". 4. Il ricorso per cassazione.

Il ricorso per cassazione è sostenuto con unico ma complesso motivo d’impugnazione e – dichiarato il valore della causa nella misura di Euro 7.000,00 – si conclude con la richiesta che sia cassata la sentenza impugnata, con ogni conseguente statuizione anche in ordine alle spese processuali.
Motivi della decisione

5. Il primo motivo d’impugnazione.

Il primo ed unico motivo d’impugnazione è collocato sotto la seguente rubrica: "Violazione e falsa applicazione della L. n. 413 del 1991, art. 38 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. Omessa, e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5".

Con l’anzidetto motivo la parte ricorrente si duole della violazione della norma dettata dal richiamato art. 38 nella parte in cui – riferendosi detta norma ai "periodi d’imposta per i quali non è stata presentata la dichiarazione dei redditi"- essa è stata erroneamente correlata con coloro che "non erano tenuti alla presentazione della dichiarazione dei redditi", e ciò in violazione della ratio normativa, che intende impedire al contribuente di selezionare periodi d’imposta per cui avvalersi del condono fiscale, imponendogli invece l’onere dell’integrazione forfetaria per tutti gli anni potenzialmente accertabili, con il beneficio della chiusura definitiva di ogni ipotetico contenzioso. A questi fini non è rilevante che per uno o più periodi d’imposta il contribuente non abbia conseguito alcun reddito (e perciò non fosse obbligato a presentare la dichiarazione) perchè ciò implicherebbe che l’Amministrazione sarebbe obbligata ad un controllo sulla legittimità dell’omissione della dichiarazione, ciò che la legge vuole appunto evitare in un ottica di esonero dell’Amministrazione da aggravi di incombenze.

E d’altronde l’art. 38, comma 7 qui in esame considera equivalente alla presentazione della dichiarazione dei redditi solo la spedizione da parte del contribuente del modello 201, di che in causa non era stata data prova, sicchè illogicamente il giudice di appello aveva ritenuto "automaticamente soddisfatta" la condizione di cui alla predetta norma, per il solo fatto che l’ I. fosse "pensionato INPS".

Il motivo di impugnazione si conclude con il seguente quesito:"Ai sensi della L. n. 413 del 1991, art. 38, comma 5 il contribuente per i periodi d’imposta oggetto di condono non presenta la dichiarazione dei redditi è tenuto al versamento della somma prefissata dal legislatore di L. 2.000.000 per ogni anno in questione?".

L’art. 38 dianzi menzionato, al comma 7, prevede effettivamente che:

"Agli effetti delle disposizioni recate dai commi da 1 a 6 la presentazione avvenuta, anche se non ne sussistevano le condizioni, del certificato di cui alla del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 1, comma 4, lett. d) e successive modificazioni, è considerata presentazione della dichiarazione dei redditi".

E’ perciò chiaramente illogico e contrario alla lettera della legge l’assunto del giudice di seconde cure che ha ritenuto soddisfatta la condizione per l’applicazione della definizione automatica per il solo fatto che l’ I. risultasse "pensionato INPS", senza appurare se quest’ultimo effettivamente avesse provveduto ad presentare il certificato a cui fa riferimento il precitato comma 7 con il rinvio al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, 1, comma 4, lett. d).

Quest’ultima disposizione a sua volta recita:" Sono esonerati dall’obbligo della dichiarazione:

d) i lavoratori dipendenti e i pensionati che, non possedendo altri redditi diversi da quelli esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta, presentino o spediscano con le modalità previste dall’art. 12, entro il termine stabilito per la presentazione della dichiarazione, il certificato di cui all’art. 3, comma 1 redatto in conformità’ ad apposito modello approvato e pubblicato ai sensi dell’art. 8. Il certificato deve contenere l’attestazione del lavoratore o pensionato di non possedere altri redditi e le attestazioni delle persone cui si riferiscono le detrazioni effettuate in sede di applicazione della ritenuta d’acconto di non possedere redditi per ammontare superiore ai limiti fissati nel D.P.R. 29 settembre 1973, n. 597, art. 15 …".

E perciò occorre concludere che soltanto la prova della spedizione del menzionato "certificato" entro i prescritti termini avrebbe potuto costituire condizione di applicazione della disciplina del menzionato art. 38, comma 2 anzicchè di quella del comma 5.

Consegue da ciò che la sentenza di secondo grado debba essere cassata e la controversia debba essere rimessa ad altra sezione della medesima CTR di Roma, ai fini del riesame delle circostanze di fatto utili ai fini dell’applicazione del menzionato art. 38, oltre che per la regolazione delle spese di causa.
P.Q.M.

la Corte accoglie il ricorso dell’Agenzia. Cassa la sentenza impugnata e rimette la controversia ad altra sezione della Commissione Tributaria Regionale di Roma, la quale provvederà anche sulle spese relative al presente grado di giudizio.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.