Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 20-01-2011, n. 1247 Categoria, qualifica, mansioni

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con la sentenza impugnata la Corte d’appello di Catanzaro, riformando la statuizione di integrale rigetto, accoglieva parzialmente la domanda proposta da L.R.G. nei confronti del Consorzio di Bonifica del Lao e dei Bacini Tirrenici del Cosentino, dichiarando il suo diritto air inquadramento nel quarto livello retributivo dal primo gennaio 1998 e condannando il Consorzio al pagamento delle conseguenti differenze retributive. La Corte territoriale, premesso che il L.R. era stato assunto nel 1983 ed inquadrato nel terzo livello operai, escludeva preliminarmente il diritto alla superiore qualifica di impiegato di quinto livello prima del 1991, perchè solo con il CCNL 1991/1993 le figure di responsabile ufficio tecnico e responsabile tecnico o organizzativo di cantiere erano stati inserite nella categoria degli impiegati. L’accertamento quindi, precisava la Corte adita, doveva essere effettuato per il periodo dal 1991 in poi, di cui aveva riferito il teste C., che non era stato però in grado di comunicare dati significativi. Le altre deposizioni e la documentazione allegata si riferivano invece al periodo antecedente al 1991, per cui la pretesa del diritto all’inquadramento come impiegato era infondata. Doveva invece essere accolta la domanda di inquadramento nel quarto livello operai in base al Contratto Integrativo Regionale (CIR) con validità dall’aprile 1988 al 31 dicembre 1989, il quale ha incluso nel quarto livello il collaboratore tecnico alla direzione lavori, analogamente alla previsione del successivo CIR relativo al periodo 1996/1999. Poichè dall’istruttoria espletata era emerso che, quanto meno negli anni 1989 e 1990, il ricorrente aveva svolto mansioni di responsabile tecnico amministrativo con assunzione di "responsabilità di squadra" interagendo con il direttore dei lavori con "potere di iniziativa sull’ incarico da eseguire (teste T.) e dirigendo "le attività della sua squadra" (teste A.) competeva l’inquadramento in detto quarto livello. Quanto alla decorrenza, il ricorrente aveva omesso di richiamare, pur avendone fatta allegazione, il CIR del 1988, per cui non si poteva ad esso fare riferimento per determinare la data di riconoscimento della superiore qualifica, per cui, in tale contesto, corretta si appalesava la decorrenza al primo gennaio 1998 al pari di quanto riconosciuto dal Consorzio ad altri dipendenti.

Avverso detta sentenza il Consorzio di Bonifica del Lao e dei Bacini Tirrenici del Cosentino ricorre con due motivi.

Il lavoratore è rimasto intimato.

Motivi della decisione

Con il primo motivo, denunziando violazione dell’art. 1362 cod. civ., e segg., in relazione alla sfera di applicazione del Contratto integrativo regionale (primo gennaio 1996-31 dicembre 1999) nonchè alla sua decorrenza e durata, si lamenta che la sentenza impugnata abbia riconosciuto la superiore qualifica sulla base del CIR stipulato il 6 marzo 1998, concernente il periodo 1996/1999, applicandolo però a circostanze verificatesi in precedenza, ossia alla superiori mansioni svolte negli anni 1989/1990, senza però accertare se il medesimo CIR avesse efficacia retroattiva.

Il motivo è infondato giacchè la Corte adita ha affermato che la medesima declaratoria era contenuta anche nel CIR anteriore, ossia quello del 1988 che copriva il periodo che interessa, astenendosi dal l’applicarlo perchè il lavoratore non lo aveva invocato, pur avendolo allegato. Non vi era quindi necessità di verificare la efficacia retroattiva del CIR del 1988, sorgendo il diritto rivendicato da un contratto collettivo anteriore.

Parimenti infondato è il secondo motivo con cui, lamentando violazione dell’art. 2103 cod. civ., in combinato disposto con l’art. 7 del CIR del 1988 e difetto di motivazione, si imputa alla sentenza di avere erroneamente preso in considerazione le deposizioni testimoniali relativa agli anni 1989/1990 in contraddizione con quanto rilevato in precedenza, ossia che erano rilevanti solo le deposizioni concernenti gli anni dal 1991 in poi. La tesi non è fondata perchè quest’ultima parte della motivazione era funzionale ad escludere il diritto alla qualifica di impiegato, in quanto prevista solo dal CCNL 3991/1993, ma non impediva il riconoscimento della qualifica di operaio di quarto livello, che è stata verificata alla luce dei CIR del periodo che interessa.

Il ricorso va quindi rigettato.

Nulla per le spese, non avendo la controparte svolto attività difensiva.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cons. Stato Sez. IV, Sent., 24-01-2011, n. 488 Edilizia e urbanistica

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con ricorso al TAR Puglia, sede di Bari, l’attuale appellante ha chiesto l’annullamento degli atti del procedimento espropriativo posto in essere dal Comune di Monte Sant’Angelo, finalizzato alla realizzazione del comparto edificatorio C1/1, adottato con deliberazione G.C. n. 73/1992 e successivamente approvato in via definitiva dal Commissario Straordinario con deliberazione n. 186/1993.

Tali atti sono: avviso di immissione in possesso, con allegato decreto di occupazione d’urgenza n. 37 dell’8/11/2001; nota prot. n. 10828 del 17/9/2001, contenente avviso di deposito atti di cui all’art. 10 L. n. 865/1971; deliberazione G. C. n. 131 del 14/6/2001; convenzione n. 102.656 registrata il 17/1/2000, stipulata tra il Comune ed il Consorzio il "G.I.".

La sig.ra V., proprietaria di un’area di oltre 14.000. mq. su cui insiste un fabbricato rurale di 200 mq. circa, censita in catasto al fg. 132 del Comune di Monte Sant’Angelo, in un primo momento aveva proposto ricorso straordinario al Presidente della Repubblica in data 15/1/2001 per l’impugnativa dei provvedimenti di cui in epigrafe, chiedendone l’annullamento.

Con ricorso in opposizione il controinteressato Consorzio "Il G.I." ha chiesto, ex art. 10 D.P.R. n. 1199/71, la trasposizione del gravame in sede giurisdizionale, la quale è stata ritualmente effettuata.

La ricorrente con l’atto di riassunzione innanzi al TAR ribadiva quanto già dedotto con il ricorso straordinario: lamentava che l’area oggetto del ricorso era sita in località Galluccio ed era interessata da procedura espropriativa da parte del Comune di Monte Sant’Angelo per la realizzazione del comparto edificatorio C1/1, adottato con le due citate deliberazioni del 1992 e del 1993. In sede di approvazione di detto comparto l’Amministrazione aveva deciso di destinare il 50% della volumetria residenziale ad edilizia residenziale pubblica, senza effettuare – a dire di essa ricorrente – tuttavia alcuna individuazione specifica.

Solo nel 1994 il Consiglio comunale aveva individuato i lotti da destinare ad edilizia residenziale pubblica, cui non è seguito alcun procedimento per l’adozione e l’approvazione dell’atto pianificatorio di tipizzazione (delibera C. C. n. 43/94).

A seguito dell’adozione di un nuovo piano particellare di esproprio, avvenuta con deliberazione di Giunta com. n. 131/2001 (in sostituzione di quello adottato nel 1994 ormai decaduto e di quello adottato con deliberazione di G. C. n. 201 del 25/2/1997 privo di autorizzazione regionale in merito al cambio di destinazione d’uso pervenuta poi all’Amministrazione intimata con deliberazione G. R. n. 666 del 26/6/2000), si è giunti all’emissione del decreto sindacale d’occupazione d’urgenza n. 37 del 8/11/2001, notificato alla ricorrente unitamente all’avviso di immissione in possesso in data 20/11/2001.

Successivamente, in data 14/12/2001, il Comune si è immesso nel possesso delle aree di proprietà della ricorrente.

Con l’atto di riassunzione la ricorrente deduceva i seguenti motivi:

1) Violazione e falsa applicazione dell’art. 23 L. U. n. 1150/1942 e della L. R. Puglia n.6/1979;

2) Eccesso di potere per erroneità dei presupposti e per travisamento dei fatti; Erroneità;

3) Violazione e falsa applicazione delle L. R. Puglia n. 13/2001; Incompetenza; Violazione e falsa applicazione dell’art. 13 della L. n. 2359/1865;

4) Violazione e falsa applicazione degli artt. 7 e ss. della L. n. 241/90; Violazione del giusto procedimento.

Con motivi aggiunti depositati in data 25/06/2004 e ritualmente notificati è stato formulato il seguente ulteriore motivo:

5) Violazione e falsa applicazione dell’art. 23 della L. U. n. 1150/1942 e dell’art. 54 della L. R. Puglia n. 6/1979; Eccesso di potere per erroneità dei presupposti; Falsa rappresentazione dei fatti; Travisamento; Sviamento.

Costituitesi le parti resistente e controinteressata, con ordinanza n. 1071/2004 il TAR disponeva incombenti istruttori. La documentazione è stata depositata in atti (tardivamente ed incompleta, secondo l’appellante) in data 28/1/2005.

Il TAR di Bari ha rigettato il ricorso, compensando integralmente le spese, con sentenza n. 1607/2005, avverso la quale la sig.ra V. ha proposto un corposo appello di quaranta pagine, seguito da altrettanto corposa "memoria finale", con la quale si ripropongono i motivi dedotti in primo grado, censurando i passi della sentenza relativi a ciascuno di essi.

Si sono costituiti in giudizio sia l’amministrazione comunale che il Consorzio, per contestare la fondatezza dell’appello.

L’appellante ha illustrato i motivi d’appello con ulteriore ampia memoria.

Alla pubblica udienza del 21 dicembre 2010 la causa è stata trattenuta in decisione.
Motivi della decisione

1 – L’appello è infondato.

Vale precisare in punto di fatto le seguenti circostanze che hanno caratterizzato l’annosa e complessa vicenda riguardante il comparto edificatorio in oggetto, come pure ben ricostruita nell’appellata sentenza.

L’area interessata dall’interevento edilizio di che trattasi ricade in zona di espansione C1, secondo il P.R.G. vigente nel Comune di Monte Sant’Angelo.

In virtù delle previsioni dell’art 31 delle N.T.A. del medesimo piano regolatore, l’attuazione dell’intervento edilizio risultava prevista per l’intero comparto edificatorio, con una ripartizione al 50% della volumetria tra edilizia economica e popolare ed edilizia residenziale privata, attraverso il ricorso ad un piano particolareggiato ovvero alternativamente ad un piano di lottizzazione.

I proprietari delle aree incluse nel comparto avevano costituito un consorzio – denominato " I.G." dal nome della contrada ove erano allocati i terreni – finalizzato alla proposizione ed attuazione di un piano di lottizzazione, concretamente presentato ed adottato dal Consiglio Comunale con delibera n. 73/92 e infine approvato con delibera n. 186/93.

Con successiva delibera C. C. n. 43/94 si è quindi proceduto all’individuazione dei lotti e delle aree da destinarsi all’edilizia pubblica.

L’attuale appellante in un primo momento aveva aderito al consorzio " I.G. ", avendo, successivamente, dovuto attendere, però, l’autorizzazione dell’Ente Regione Puglia in relazione al previsto mutamento di destinazione d’uso dell’area di sua proprietà, in quanto era emerso che la stessa era gravata da usi civici.

Nel frattempo, il consorzio iniziale è stato disciolto e ricostituito in data 27/7/99 con la parzialmente nuova denominazione " Il G.I.", con l’adesione della maggioranza qualificata dei proprietari delle aree tra i quali, tuttavia, non compariva più l’appellante, non avendo ella inteso aderirvi.

A seguito della non adesione della totalità dei proprietari coinvolti dal piano, è stata avviata la procedura espropriativa per consentire la realizzazione dell’intervento.

2 – Tutto ciò sinteticamente premesso, vale osservare che il TAR ha ritenuto infondato il primo motivo di ricorso, con cui la ricorrente deduceva la violazione dell’art. 23 della legge urbanisitca n. 1150 del 1942 e della L. R. Puglia n. 6/1979, in relazione alla circostanza che sarebbe stata omessa la notifica dell’invito ad aderire al consorzio e a manifestare entro il termine prescritto la volontà o meno di procedere alla edificazione del comparto.

3 – Il TAR, per respingere il motivo, ha considerato che l’attuazione del comparto in questione si era concretamente articolata in due fasi: nella prima, caratterizzata dalla piena partecipazione e adesione di tutti proprietari delle aree contenute nel comparto, compresa la ricorrente, attuale appellante, questi avevano presentato un piano di lottizzazione, adottato dal Comune con delibera C. C. n. 43 del 30/11/92 relativo all’intero comparto, mentre con successive delibere C. C. nn. 43 e 44 del 6/5/94, nonché con delibera n. 186/93 erano state individuate le aree per l’edilizia pubblica e per l’edilizia residenziale privata, procedendosi alle previsioni finanziarie relative alle opere di urbanizzazione e con delibera n. 73/92 erano stati definiti e approvati i progetti planovolumetrici, le opere di urbanizzazione, lo schema di convenzione.

In un secondo momento, per effetto di taluni frazionamenti di proprietà all’interno del comparto C1/1 e, soprattutto, per la liquidazione degli usi civici, autorizzata della Regione Puglia con delibera G. R. n. 666 del 26/6/2000, gravanti su alcune particelle e con relativo cambio di destinazione d’uso, si è disciolto il consorzio già costituito e si è proceduto alla costituzione del consorzio "Il G.I.".

4 – Alla fine dell’esposizione della successione provvedimentale sinteticamente riportata, il TAR ha ritenuto che lo scioglimento del consorzio originariamente costituito, per ragioni meramente tecniche e organizzative, così come la costituzione del consorzio "Il G.I." costituissero circostanze che non potevano determinare un azzeramento del procedimento, secondo l’iter già definito, tanto è vero che l’impugnata delibera di G. M. n. 131 del 14/6/2001, relativa all’attuazione del comparto edificatorio in questione, si basava sul presupposto dell’intervenuta adozione e approvazione del piano attuativo del p.d.l. e di tutte le determinazioni successive e consequenziali.

A seguito di tale considerazione, lo stesso Giudice ha respinto la tesi della ricorrente (attuale appellante) circa la necessità di un nuovo invito rivolto dal Sindaco ai proprietari delle aree e, in particolare, all’interessata, invito che presuppone, sempre secondo il TAR, addirittura l’assenza di un consorzio, ponendosi all’inizio dell’intero iter procedimentale.

Viceversa nel caso in esame gli atti impugnati si ponevano in una fase ulteriore e successiva, che vedeva addirittura già approvato il piano attuativo del p.d.l. con piena definizione delle previsioni planovolumetriche, opere di urbanizzazione ecc..

5 – Sulla scorta delle succintamente riportate osservazioni, il Giudice di primo grado ha ritenuto che nella fattispecie dovesse considerarsi pienamente realizzata la ratio legis, attraverso il rituale invito alla ricorrente di aderire al consorzio "Il G.I.", invito formalizzato con ben due note raccomandate a. r. (n. 534 del 28/7/99 e n. 6135 del 4/9/99), (provenienti dal predetto Consorzio: n.d.r.), nonché con la formale presa d’atto da parte del Comune degli inviti di adesione al costituito consorzio e dell’elenco delle ditte che non avevano inteso aderirvi.

Il percorso motivazionale del TAR è, pur nella sua sinteticità, assolutamente ineccepibile e di conseguenza va respinto il motivo d’appello, con cui l’interessata accampa un diritto ad una nuova notifica, da parte del comune, dell’invito ad aderire anche al secondo consorzio.

L’assunto, oltre ad essere illogico – in quanto comportante il rinnovo del procedimento per la realizzazione dei comparti edificatori ad ogni pur minimo cambiamento dell’assetto soggettivo consortile -, non trova riscontro nel quadro normativo che regola la materia.

6 – La norma statale sui comparti edificatori, di cui all’articolo 870 cod. civ., è quella di cui all’articolo 23 della legge urbanistica 1781942, n. 1150, secondo il quale "il Comune può procedere, in sede di approvazione del piano regolatore particolareggiato………, alla formazione di comparti costituenti unità fabbricabili, comprendendo aree inedificate e costruzioni da trasformare secondo speciali prescrizioni"

"Formato il comparto, il sindaco deve invitare i proprietari a dichiarare entro un termine fissato nell’atto di notifica se intendano procedere da soli, se proprietari dell’intero comparto, o riuniti in consorzio alla edificazione dell’area e alle trasformazioni degli immobili in esso compresi secondo le dette prescrizioni."

"………………. I consorzi così costituiti conseguiranno la piena disponibilità del comparto mediante la espropriazione delle aree e costruzioni dei proprietari non aderenti."

" Quando sia decorso inutilmente il termine stabilito nell’atto di notifica il Comune procederà all’espropriazione del comparto.

Come è agevole cogliere dalle riportate disposizioni, il procedimento di attuazione del comparto persegue il fine di soddisfare un interesse pubblico per realizzare un corretto e coordinato assetto del territorio. Per tale fine l’autorità comunale viene dotata di ampi poteri autoritativi, che si sviluppano attraverso un percorso graduale, teso a conciliare le ragioni della proprietà privata con quelle di interesse pubblico, che si sviluppa sostanzialmente nelle seguenti fasi:

– predisposizione del comparto, previo riscontro dei presupposti per la sua costituzione, la determinazione della loro dimensione, le modalità di formazione, la scelta delle opere da eseguire, la ripartizione di oneri ed utili;

– invito al proprietario delle aree (se unico) ovvero ai proprietari, costituiti in apposito consorzio, a procedere alle edificazioni e alle trasformazioni degli immobili ricompresi secondo le dette prescrizioni;

– acquisizione coattiva in favore del costituito Consorzio di tutte le aree appartenenti ai proprietari dissenzienti;

– espropriazione di tutte le aree del comparto in caso di mancata costituzione del consorzio entro i termini assegnati.

7 – Per effetto delle riportate scansioni procedimentali, vengono a costituirsi una serie di rapporti giuridici fra comune, consorzio e singoli proprietari.

Non appare dubbio, infatti, che secondo i principi generali contenuti nelle norme codicistiche (sulle varie tipologie di consorzi "fondiari") ed urbanistiche, i consorzi di cui all’art. 870 cod. civ. e all’art. 23 L. U., a prescindere dalla loro esatta qualificazione giuridica in termini di personalità, costituiscono certamente centri di imputazione di effetti giuridici distinti dai loro consorziati (cfr. Cassazione civile, sez. II, 03 febbraio 1994, n. 1125). La creazione di un unico centro di imputazione separato dalle persone dei singoli componenti si pone come elemento necessario per la rapida ed efficace attuazione dello strumento edificatorio rappresentato dal comparto, elemento senza il quale l’amministrazione si troverebbe ad interloquire continuamente ed anche su aspetti marginali o complementari con una pluralità di proprietari individuali.

A tal riguardo, anche di recente, la suprema Corte ha avuto modo di evidenziare la necessità di tener ben distinto il rapporto tra proprietari di aree incluse in un piano di lottizzazione e Comune – ad esempio nella fase preliminare della richiesta di intenti in ordine alle modalità di realizzazione del comparto – dai rapporti interni dei proprietari stessi, rispetto ai quali il Comune rimane estraneo, con la precisazione che il modo di atteggiarsi della soggettività del Consorzio anche nei confronti del Comune è di fonte negoziale e va, perciò, ricercata non nelle statuizioni della convenzione urbanistica, ma nel rapporto interno associativo tra consorziati (Cassazione civile, sez. I, 26 aprile 2010, n. 9941; cfr. anche Cass., n. 1125/1994 cit.).

Anche questa Sezione, sempre con riguardo alla natura dei predetti consorzi, ha affermato che i consorzi urbanistici sono soggetti distinti dai singoli consorziati, tanto da poter costituire essi stessi organo indiretto dell’amministrazione comunale nell’ambito del procedimento espropriativo teso alla realizzazione degli strumenti urbanistici di rango sotto ordinato (Cons. Stato, sez. IV, 10 dicembre 2009, n. 7744).

8 – La tesi delle necessità del rinnovo dell’invito alla dichiarazione d’intenti dopo lo scioglimento dell’originario consorzio è pertanto priva di fondamento, poiché, come esattamente evidenziato dal TAR, una volta costituito l’interlocutore consortile, le vicende di quest’ultimo con riferimento ai rapporti con i singoli consorziati – e quand’anche risolventisi nella costituzione di un ente formalmente nuovo – restavano del tutto indifferenti all’amministrazione pubblica, a nulla potendo valere le obiezioni mosse con i motivi aggiunti e riproposte in grado d’appello, per cui la convenzione urbanistica era stata stipulata con i singoli proprietari. Già si è osservato, al riguardo, che il problema della soggettività del Consorzio anche nei confronti del Comune è di fonte negoziale e va, quindi, risolto alla luce non delle clausole della convenzione urbanistica, ma nel rapporto interno associativo tra consorziati.

9 – Con il secondo motivo d’appello si ripropone la censura di illegittimità del comparto per avervi ricompreso anche aree destinate all’edilizia residenziale pubblica, senza tuttavia seguire lo speciale procedimento di cui all’articolo 6 della legge n. 167 del 1962.

Anche tale motivo non ha pregio.

Premesso che la tecnica del comparto può essere usata per addivenire ad un assetto residenziale sia pubblico che privato e che, pertanto, questo strumento ben può contenere la previsione della realizzazione anche di edifici di edilizia residenziale sociale, non si vede perché, una volta avviato il complesso procedimento unitario di attuazione del comparto, debba poi procedersi ad un nuovo, successivo e distinto procedimento di adozione ed approvazione di un piano di zona, che persegue gli stessi intenti ed usa le stesse tecniche di acquisizione coattiva delle aree necessarie nei confronti dei proprietari dissenzienti.

A tal riguardo, il motivo si manifesta anche inammissibile per difetto d’interesse, tenuto conto che comunque l’appellante, per effetto del proprio dissenso alla realizzazione volontaria del comparto, era pur sempre destinatario di provvedimenti ablatori, i cui effetti erano identici indipendentemente dalla finalità da essi perseguita, fosse essa di edilizia residenziale pubblica o privata.

Conclusivamente, deve ritenersi del tutto corretta la statuizione del TAR, secondo la quale gli atti deliberativi del Comune concernenti l’adozione e l’approvazione definitiva del comparto erano perfettamente idonei a contenere anche la specifica destinazione urbanistica a residenze pubbliche, nonché la conseguente attività espropriativa, ai sensi dell’art. 15 della L. R. Puglia n. 6/79.

10 – Con il terzo motivo viene riproposta la doglianza della mancata indicazione dei termini del procedimento espropriativo nella delibera n. 186 del 1993, di approvazione definitiva del comparto, la quale, comportando la dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza, avrebbe dovuto rispettate le prescrizioni dell’art. 13 della legge n. 2359 del 1865.

Anche tale motivo è infondato, perché, come già si è detto a proposito del complesso procedimento attuativo del comparto, l’esproprio delle aree in esso costituisce una fase non solo successiva alla deliberazione di approvazione dello strumento attuativo, ma addirittura eventuale e non necessaria, alla quale il Comune deve procedere solo ove i proprietari non diano volontariamente corso alle complessive opere di edificazione rifiutandosi di costituire l’apposito comparto.

Ciò che è appunto avvenuto nella specie, per effetto della mancata adesione di tutti i proprietari al neo costituito consorzio, la quale ha determinato l’attivazione del procedimento espropriativo, avvenuta soltanto dopo molti anni, con la deliberazione di Giunta comunale n. 131 del 14/6/2001, con conseguente e legittima previsione dei termini solo in tale sede, che, come esattamente rilevato dall’appellata sentenza, costituisce – nel concreto articolarsi della fattispecie procedimentale – il primo atto del procedimento espropriativo, prima solo eventuale in relazione alla ipotizzabile adesione al neo costituito consorzio da parte di tutti i proprietari già aderenti al precedente consorzio e che avevano tutti insieme proposto il piano di che trattasi, successivamente approvato.

In tale contesto deliberativo, che rappresenta la sintesi del procedimento iniziato nel 1992 e con il quale, stante il lungo tempo trascorso e le complesse vicende intercorse, si è intesa ribadire l’efficacia delle precedenti assunte delibere dagli organi di governo del Comune, si giustifica pienamente, non solo sul piano logico, ma anche su quello sistematicoprocedimentale, che alla previsione dei termini – in deroga solo apparente al principio di separazione fra politica ed amministrazione – abbia provveduto la Giunta Municipale e non il dirigente preposto.

11 – Analogamente infondato è anche il quarto motivo d’appello, con il quale viene riproposta la censura per cui l’interessata avrebbe ricevuto l’avviso di cui all’articolo 10 della legge n. 865 del 1971 e dell’articolo 7 della legge n. 241 del 1990 assai tardivamente, solo a seguito della citata delibera G. M. n. 131/2001.

In disparte la genericità del motivo, non essendo dato comprendere quale sarebbe stato il provvedimento che le avrebbe dovuto essere comunicato preventivamente, nel merito vale ribadire che solo con la predetta delibera del 2001 l’amministrazione ha concretamente ed efficacemente dato avvio al vero procedimento espropriativo.

12 – Anche il motivo con cui vengono riproposti i motivi aggiunti formulati in primo grado, esattamente e correttamente il TAR ha osservato che essi erano inammissibili, in quanto con gli stessi non era stato impugnato alcun atto ulteriore e diverso rispetto a quelli già impugnati con il ricorso introduttivo, né erano stati dedotti profili, dapprima sconosciuti, di novità tale da legittimare l’estensione della materia del contendere.

Inoltre, con la stessa sentenza si è giustamente osservato che le censure mosse alla convenzione urbanistica attuativa del comparto in questione non avevano ragione di essere.

In particolare, è stato rettamente giudicato privo di consistenza il primo motivo aggiunto con cui si assumeva che, contraddittoriamente a quanto affermato nella citata delibera del 2001, non vi sarebbe stata una convenzione tra il Comune e il consorzio, "unico ente giuridico proponente la realizzazione dell’intervento", bensì tra il Comune e singoli proprietari.

Sul punto il TAR ha osservato, tra l’altro, che nella convenzione risultavano individuate come parti stipulanti il Comune di Monte Sant’Angelo ed il consorzio nelle persone dei singoli consorziati, i quali dunque partecipavano all’atto, sì, come proprietari, ma anche nella loro qualità di aderenti al consorzio "Il G.I.". Si trattava, in altri termini, di una tecnica negoziale prudenziale, giustificata anche in relazione alle sopra svolte osservazioni sul problema della soggettività piena o meno del consorzio.

13 – Ugualmente infondato è il motivo d’appello, recante ripetizione del secondo motivo aggiunto, con cui si ribadisce l’asserita violazione dell’art. 15 della L.R. n. 6/79 e dell’art. 23 L. U., in relazione ad una presunta espropriazione dei terreni di proprietà dell’appellante in favore dei singoli proprietari e non del comune: al riguardo si richiama l’articolo 9 della convenzione.

In primo luogo la richiamata clausola contrattuale, come pure riportata nell’appello, attribuisce ai privati esproprianti la sola "volumetria" da realizzare.

In secondo luogo è lo stesso articolo 23 della L. U. a disporre, come già visto, che "………………. I consorzi così costituiti conseguiranno la piena disponibilità del comparto mediante la espropriazione delle aree e costruzioni dei proprietari non aderenti". I soggetti beneficiari dell’espropriazione sono dunque non il comune, ma il Consorzio e, per esso, i singoli consorziati.

14 – L’appello va conclusivamente respinto. Le spese, anche in relazione alla parziale novità delle questioni, possono eccezionalmente essere compensate integralmente tra le parti.
P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta),

definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo

respinge e, per l’effetto, conferma la sentenza qui appellata.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 11-01-2011) 11-02-2011, n. 5320

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Il giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Trieste con la sentenza specificata in epigrafe dichiarava non luogo a procedere nei confronti di C.V., imputato del delitto di calunnia, per avere con denuncia indirizzata alla Procura della Repubblica falsamente affermato che le querele per lesioni, percosse e minacce contro di lui presentate dai coniugi S. erano "false e calunniose". Il proscioglimento, adottato con la formula "perchè il fatto non costituisce reato", era motivato con l’argomento che l’imputato aveva esercitato il diritto di difesa riconosciutogli dall’ordinamento.

Contro la decisione ricorre il pubblico ministero, il quale denuncia l’erronea applicazione della legge penale, osservando che l’imputato, presentando denuncia per calunnia contro i querelanti, non aveva esercitato il diritto di difesa, perchè aveva agito al di fuori del processo a suo carico, presentando un atto autonomo con il quale non aveva chiesto la propria assoluzione, bensì la promozione dell’azione penale contro i querelanti.

2. Il ricorso è fondato e pertanto va accolto.

Il giudice a quo, per giustificare la decisione di proscioglimento, ha richiamato la giurisprudenza di legittimità secondo cui "l’imputato può negare, anche mentendo, la verità delle testimonianze o delle dichiarazioni a lui sfavorevoli…in tal caso, l’accusa di falsa testimonianza o di calunnia, implicita in tale condotta, integra l’esercizio del diritto di difesa e pertanto non è punibile ai sensi dell’art. 51 c.p.".

Si tratta di un orientamento consolidato che, per scriminare una condotta oggettivamente calunniosa, applica la causa di giustificazione dell’esercizio del diritto di difesa riconosciuto dall’art. 24 Cost. come "diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento".

Tuttavia la sentenza impugnata – come correttamente argomenta il pubblico ministero ricorrente – ha erroneamente applicato alla fattispecie concreta la norma di cui all’art. 51 c.p., perchè l’imputato, quando presentò alla procura della Repubblica la denuncia incriminata, nella quale definiva "false e calunniose" le querele sporte dai coniugi S., non agiva nell’ambito del giudizio pendente a suo carico avanti al giudice di pace, nel quale era chiamato a rispondere dei reati di lesioni, percosse e minacce commessi in danno dei querelanti, ma, al contrario, assunse un’iniziativa esterna a quel giudizio, diretta a provocare l’apertura di altro procedimento penale contro persone che accusava di un reato che sapeva non essere stato commesso.

Invero, affinchè operi la scriminante prevista dall’art. 51 c.p., è necessario che l’attività realizzata costituisca un corretto esercizio delle facoltà inerenti al diritto in questione, senza trasmodare, superandone i confini, nel fenomeno patologico dell’abuso del diritto medesimo. La dottrina ha individuato i limiti dell’esercizio del diritto, distinguendoli in due categorie: quelli interni, desumibili dalla natura e dal fondamento del diritto esercitato, e quelli esterni, ricavabili dal complesso delle altre norme che compongono l’ordinamento.

Nel caso concreto, la denuncia incriminata travalica il corretto esercizio del diritto di difesa perchè viola entrambi i limiti:

quello interno, perchè – come si è sopra evidenziato – il denunciante non ha agito nell’ambito del procedimento che lo vedeva imputato avvalendosi delle facoltà riconosciutegli dalla legge processuale per difendersi dall’accusa contestatagli, ma è andato oltre la propria difesa, presentando una denuncia contro i suoi accusatori; quello esterno, perchè, con la falsa denuncia, ha posto in pericolo i beni, parimenti tutelati, della retta amministrazione della giustizia nonchè della libertà e dell’onore degli incolpati.

L’abnorme e illegittima estensione che il giudice a quo, forzando l’interpretazione della norma penale, ha voluto attribuire all’esercizio del diritto di difesa, vizia la decisione adottata, che dev’essere pertanto annullata con rinvio allo stesso Tribunale che, in persona di un giudice diverso (v. art. 623 c.p.p., lett. d)), procederà a nuovo giudizio, attenendosi al principio di diritto sopra delineato.
P.Q.M.

La Corte di cassazione annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo esame al Tribunale di Trieste.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Cass. civ. Sez. V, Sent., 21-04-2011, n. 9182 Imposta valore aggiunto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con ricorso alla commissione tributaria provinciale di Agrigento la società Ittico Conserviera Turturici V. di Turturici G & C. Sas impugnava l’avviso di rettifica, relativo ad imposta Iva per l’anno 1993, fatto notificare alla medesima dal competente ufficio di quella città, e con il quale l’amministrazione comunicava di avere accertato un maggior reddito da attività in nero nella vendita di pesce sottoposto a salagione. Questa deduceva che tale avviso era da annullare, in quanto basato su presupposti inesistenti.

Instauratosi il contraddittorio, l’ufficio eccepiva l’infondatezza dell’opposizione, dal momento che l’accertamento era scaturito dalle accurate indagini svolte dalla Guardia di finanza nei confronti della contribuente, come risultava da un quaderno brogliaccio, rinvenuto nell’azienda e curato dal padre dell’accomandatario, oltre che dai numerosi movimenti sul conto corrente apparentemente intestato a questi, che peraltro in precedenza aveva ceduto l’azienda ai figli;

perciò chiedeva il rigetto dell’impugnativa.

Il giudice adito annullava l’atto impositivo con la sentenza n. 641 del 1999.

Avverso tale decisione l’amministrazione proponeva appello, cui la contribuente resisteva, dinanzi alla commissione tributaria regionale della Sicilia, la quale, con sentenza n. 96 depositata il 21.5.2003, ha rigettato il gravame, osservando che le verifiche svolte nei confronti di T.V. non potevano avere riflessi negativi rispetto alla società appellata, e che comunque l’appellante non aveva fornito la prova dei propri assunti, per i quali le dedotte presunzioni, previste a suo favore, non potevano riscontrarsi nella specie.

Contro questa decisione il Ministero dell’economia e delle finanze e l’agenzia delle entrate hanno proposto ricorso per cassazione sulla base di un unico motivo.

La società Ittico Conserviera Turturici V. di Turturici G & C. ha resistito con controricorso.
Motivi della decisione

Innanzitutto va esaminata l’eccezione proposta dalla controricorrente circa la inammissibilità del ricorso per tardività, trattandosi di questione avente carattere pregiudiziale.

Essa è infondata.

Dall’esame degli atti risulta che la sentenza della CTR è stata pubblicata il 21.5.2003, e che il ricorso è stato consegnato all’ufficiale giudiziario per la notifica alla controricorrente il 15.7.2005, e quindi in tempo utile per la regolare proposizione dell’impugnazione, per la quale il termine scadeva solo il 18.7.2005, a fronte di quello a disposizione dei ricorrenti, tenuto conto ovviamente della sospensione del termine stesso.

Infatti ai sensi dell’art. 16, comma 6, secondo periodo (che, per quanto riguarda la sospensione del termine per proporre ricorso per cassazione, riproduce, meglio esplicitandoli, i contenuti dell’abrogato comma 7), della L. 27 dicembre 2002, n. 289, i termini per la proposizione del ricorso per cassazione, concernenti liti che possono essere definite ai sensi del combinato disposto dei commi 1 e 3 della medesima disposizione, sono sospesi a decorrere dal 1 gennaio 2003 (data di entrata in vigore della L. n. 289 del 2002) fino al 1 giugno 2004. Il computo del termine è eseguito secondo la regola ordinaria stabilita, per le diverse ipotesi, dagli artt. 325 e 327 cod. proc. civ. (e, analogamente, dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 51 e art. 38, comma 3), integrati dalla L. 7 ottobre 1969, n. 742, art. 1 recuperando, a decorrere dal 2 giugno 2004, lo spazio temporale decorso tra il 1 gennaio 2 003 e l’ultimo giorno utile per la proposizione del ricorso per cassazione, determinato secondo la regola processuale emergente dal combinato disposto degli artt. 325 o 327 cod. proc. civ. (e, analogamente, dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 51 e art. 38, comma 3) e della L. n. 742 del 1969, art. 1. Se, per effetto di tale recupero, il termine effettivo d’impugnazione (tenuto conto della sospensione prevista dall’art. 16 della legge n. 289 del 2002) dovesse scadere nel periodo di sospensione feriale dal 1 agosto al 15 settembre 2004 o in data successiva a tale periodo, la scadenza del termine stesso deve essere spostata di tanti giorni quanti sono necessari per completarne il computo (Cfr. anche Cass. Sentenze n. 22891 del 11/11/2005, n. 21779 del 09/11/2005).

Del resto persino in tema di condono fiscale, qualora il contribuente, dopo aver proposto istanza di definizione agevolata ai sensi del D.L. 10 luglio 1982, n. 429, convertito in L. 7 agosto 1982, n. 516, non abbia provveduto al versamento delle somme dovute, e, nel proporre ricorso avverso la cartella esattoriale emessa per la riscossione delle stesse, abbia impugnato anche l’avviso di accertamento relativo all’imposta condonata, notificatogli in data posteriore al 14 luglio 1982 la controversia investe non solo la legittimità della cartella di pagamento, ma anche l’imposta accertata. Poichè, per quest’ultimo profilo, essa è suscettibile di definizione agevolata ai sensi della L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 16 trova applicazione, ai fini dell’impugnazione della relativa sentenza, la proroga dei termini prevista dal comma 6 di tale disposizione, la quale si estende anche alla pronuncia in tema di condono, dovendo ogni sentenza essere sottoposta ad un unico termine d’impugnazione, preventivamente individuabile e non dipendente dalla parte della sentenza che forma oggetto di contestazione (V. pure Cass. Sentenza n. 2280 del 02/02/2007). D’altronde la questione è stata affrontata da recente anche dalle Sezioni unite di questa Corte, secondo cui appunto "in tema di condono fiscale, la L. n. 289 del 2002, art. 16 nella parte in cui prevede la definizione delle liti pendenti e le relative condizioni, nonchè la sospensione dei termini di impugnazione, non comporta una rinuncia dell’Amministrazione all’accertamento dell’imposta (già effettuato e contestato nella sua legittimità), bensì la definizione di una lite in corso con il contribuente, in funzione della riduzione del contenzioso in atto, secondo parametri rapportati allo stato della lite al momento della domanda di definizione, garantendo la riscossione di un credito tributario incerto, sulla base di un trattamento paritario tra i contribuenti. Esso, pertanto, nella parte in cui si riferisce alle controversie in materia di IVA, non può essere disapplicato per contrasto con la 6^ direttiva n. 77/388/CEE del Consiglio, del 17 maggio 1977, neppure a seguito della sentenza della Corte di Giustizia CE del 17 luglio 2008, in causa C-132/06, con la quale, in esito ad una procedura di infrazione promossa dalla Commissione Europea, è stata dichiarata l’incompatibilità con il diritto comunitario (in particolare con gli artt. 2 e 22 della 6^ direttiva cit.) degli artt. 8 e 9 della medesima Legge, nella parte in cui prevedono la condonabilità dell’IVA alle condizioni ivi indicate, dovendo tale pronuncia essere interpretata restrittivamente" (V. Cass. Sez. U, Sentenza n. 3676 del 17/02/2010).

Pertanto l’eccezione in questione va disattesa.

Quanto poi al ricorso, col motivo addotto a sostegno di esso i ricorrenti deducono violazione e/o falsa applicazione degli D.P.R. n. 644 del 1972, artt. 51, 52, 54 e 56 oltre che omessa e/o insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia, con riferimento all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, in quanto la commissione tributaria regionale non avrebbe considerato che la rettifica dell’ufficio si basava sui dati emersi dal brogliaccio rinvenuto nei locali della società stessa dalla polizia tributaria, oltre che dalle dichiarazioni fornite dal socio legale rappresentante, sicchè la prova presuntiva era legittima, mentre l’onere del contrario si spostava sulla appellata, che invece non l’aveva assolto.

Il motivo è fondato.

Appare opportuno premettere che l’atto amministrativo finale di imposizione tributaria, il quale sia il risultato dell’esercizio di un potere frazionato anche in poteri istruttori attribuiti, in proprio o per delega, ad altri uffici amministrativi, è legittimamente adottato quando, munendosi di un’adeguata motivazione, faccia propri i risultati conseguiti nelle precedenti fasi procedimentali. Tale principio è desumibile sia dalle norme generali sull’attività amministrativa poste dalla L. 7 agosto 1990, n. 241 (applicabili, salva la specialità, anche per il procedimento amministrativo tributario), alla stregua delle quali il titolare dei poteri di decisione non è tenuto a reiterare l’esercizio dei poteri, d’iniziativa e, soprattutto, istruttori, che hanno preparato la sua attività; sia dalle norme tributarie generali di cui alla L. 27 luglio 2000, n. 212, artt. 7 e 12; sia, infine – per quanto concerne in particolare l’IVA – dalle disposizioni del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, artt. 51 e 52 che, nel regolare minuziosamente la fase istruttoria del procedimento di accertamento, prevedono che gli uffici IVA si avvalgano delle prestazioni cognitive di altri organi, di altre amministrazioni dello Stato e della Guardia di finanza (Cfr. anche Cass. Sentenza n. 10205 del 2003).

Ciò posto, va rilevato che in tema di accertamento delle imposte sui redditi, la cd. "contabilità in nero", costituita da appunti personali ed informazioni dell’imprenditore, rappresenta un valido elemento indiziario, dotato dei requisiti di gravità, precisione e concorrenza prescritti dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39 dovendo ricomprendersi tra le scritture contabili disciplinate dall’art. 2709 e ss. cod. civ. tutti i documenti che registrino, in termini quantitativi o monetari, i singoli atti d’impresa ovvero rappresentino la situazione patrimoniale dell’imprenditore ed il risultato economico dell’attività svolta, ed incombendo al contribuente l’onere di fornire la prova contraria (V. pure Cass. Sentenze n. 19329 del 2006, n. 19598 del 2003).

Inoltre va osservato che il ritrovamento, da parte della Guardia di finanza, nei locali dell’impresa, di una "contabilità parallela" a quella ufficialmente tenuta dalla stessa, sottoposta a verifica fiscale, legittimava, di per sè, il ricorso al cd. accertamento induttivo di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, commi 2 e 3 a prescindere dalla sussistenza di qualsivoglia altro elemento (Cfr. anche Cass. Sentenze n. 1575 del 24/01/2007, n. 7045 del 07/07/1999).

Invero in tema di I.V.A., o di imposte dirette, l’uso di elementi acquisiti nell’ambito di procedure riguardanti altri soggetti non viola disposizioni che regolano l’accertamento o il principio del contraddittorio, atteso che il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 63, comma 1, dispone espressamente che, nell’ambito dei doveri di cooperazione con gli uffici, la Guardia di finanza trasmette agli uffici stessi tutte le notizie acquisite, anche indirettamente, nell’esercizio dei poteri di polizia giudiziaria, e che l’art. 54, comma 2, del citato D.P.R. dispone che gli Uffici, a loro volta, possono procedere alla rettifica sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, tratte da atti e documenti in loro possesso, anche quando si tratti di "verbali relativi ad ispezioni eseguite nei confronti di altri contribuenti" ( D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 4) (Cfr. anche Cass. Sentenze, n. 10205 del 2003, n. 9100 del 05/07/2001).

Peraltro il verbale di constatazione e gli atti menzionati risultavano acquisiti al fascicolo, come è stato riscontrato, ed inoltre i movimenti bancari non potevano non ricondursi alla gestione aziendale anche se solo apparentemente riconducibili al padre dell’accomandatario, in mancanza di prova contraria gravante sulla contribuente.

Dunque alla luce di quanto più sopra enunciato, la sentenza impugnata non risulta motivata in modo adeguato, oltre che giuridicamente corretto.

Ne deriva che il ricorso va accolto, con la conseguente cassazione della sentenza impugnata senza rinvio, posto che la causa può essere decisa nel merito, non occorrendo ulteriori accertamenti di fatto, ex art. 384 c.p.c., comma 2, ed il rigetto del ricorso in opposizione della contribuente avverso l’avviso di accertamento in rettifica.

Quanto alle spese dell’intero giudizio, sussistono giusti motivi per compensare quelle del doppio grado, mentre le altre successive seguono la soccombenza, e vengono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.

LA CORTE Accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata senza rinvio e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso della contribuente avverso l’avviso di accertamento in rettifica; compensa le spese del doppio grado, e condanna la controricorrente al rimborso delle altre del presente giudizio, liquidate in Euro 2.700,00 (duemilasettecento/00) per onorario, oltre a quelle prenotate a debito; alle generali ed accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.